Il latte di cammelle e dromedarie potrebbe tornare utile
I dromedari e i cammelli, a differenza di altri ruminanti come le mucche, vivono ancora oggi quasi esclusivamente in pascoli liberi. Sono cioè allevati con i metodi tradizionali della pastorizia nomade, che ha permesso di sfruttare la loro grande resistenza fisica e adattabilità. Ma negli stessi luoghi dove i cammelli – denominazione in cui si includono spesso anche i dromedari, quelli con una gobba sola – furono addomesticati la prima volta migliaia di anni fa dai pastori nomadi, cioè in Africa settentrionale e in Medio Oriente, oggi sono allevati anche in modo diverso: cioè con allevamenti stanziali piuttosto simili a quelli in cui siamo abituati a vedere bovini e suini.L’allevamento di dromedari finora aveva resistito all’industrializzazione, ma le cose potrebbero cambiare per due motivi principali. Il primo è che ha le caratteristiche giuste per vivere in un mondo sempre più caldo, arido e con temperature meno prevedibili a causa del riscaldamento globale. D’altronde dromedari e cammelli si sono evoluti in modo da resistere alle giornate caldissime e alle notti fredde tipiche dei deserti e possono resistere fino a sette giorni senza acqua e diverse settimane senza cibo.
L’adattabilità ai climi caldi e aridi accomuna tutte e tre le specie che definiamo comunemente cammelli. Caratterizza i dromedari, cioè gli esemplari di Camelus dromedarius, che hanno solo una gobba e costituiscono oltre il 90 per cento dei cammelli del mondo (sono in Africa, India e Medio Oriente e persino in Australia). Ma anche le specie di cammello con due gobbe, cioè gli esemplari di Camelus bactrianus, che vivono nelle steppe eurasiatiche, e quelli di Camelus ferus, che sono a rischio di estinzione e vivono esclusivamente in alcune zone della provincia cinese dello Xinjiang e della Mongolia, come l’area rigorosamente protetta del Grande Gobi A.
Oltre a poter vivere in ambienti particolarmente aridi e inospitali cammelli e dromedari producono anche meno metano rispetto a mucche e pecore attraverso l’espirazione, i rutti, le flatulenze e gli escrementi. Queste caratteristiche li rendono animali utile a rendere più efficiente e sostenibile la produzione alimentare soprattutto in zone desertiche e semidesertiche.
Il secondo motivo per cui c’è interesse intorno agli allevamenti intensivi di dromedari è invece culturale: sono infatti diventati, soprattutto negli ultimi anni, degli animali simbolo in alcuni stati come l’Oman e l’Arabia Saudita. Anche negli Emirati Arabi Uniti il cammello a una gobba è un emblema nazionale e ne sono la prova, per esempio, le gare che prevedono premi che possono sfiorare i 2 milioni di euro, o le fiere dove un singolo esemplare può essere venduto a 9 milioni di euro. Sta aumentando anche l’importanza dei “concorsi di bellezza” per cammelli, con attenzioni e investimenti ingenti da parte di paesi come il Qatar. In tutti questi casi i governi puntano su fiere ed eventi pubblici per promuovere quello che considerano un prodotto tipico e riconoscibile del proprio territorio.
Infine ci sono dei motivi economici. La richiesta di latte di dromedario è in forte crescita, soprattutto in Medio Oriente, in Africa settentrionale e in misura minore negli Stati Uniti e in Australia. Succede perché è un alimento particolarmente ricco di vitamina C, è povero di grassi e chi lo ha provato sostiene abbia un sapore gradevole, leggermente più salato di quello bovino. Sarebbe anche una valida alternativa al latte vaccino per chi soffre di intolleranza al lattosio. Secondo le stime della società di consulenza indiana Data Bridge Market Research il mercato globale di latte di dromedaria passerà da 2 miliardi di dollari nel 2022 a 13 miliardi nel 2030. Una crescita notevole, anche se ancora marginale rispetto alle dimensioni del mercato del latte bovino, dato che il solo mercato di latte di mucca in polvere supererà i 21 miliardi di dollari entro il 2028.
Nonostante stati come Qatar, Emirati Arabi Uniti e Arabia Saudita abbiano economie piuttosto floride, allo stesso tempo hanno la necessità di diversificare i propri investimenti rispetto al mercato degli idrocarburi. In questo senso investire su un settore come quello agricolo e caseario è un vantaggio, perché oltre a diversificare consente di mantenere questi investimenti sul proprio territorio — al contrario, per esempio, dei più noti investimenti sportivi delle monarchie del Golfo in Europa.
Un esempio notevole di questa tendenza è l’allevamento emiratino Camelicious, a Dubai, di fatto la più grande azienda lattiero-casearia di questo tipo di tutto il Medio Oriente, dove oggi ci sono oltre 10mila dromedari, tutti nutriti e munti in modo industriale. Camelicious produce soprattutto latte fresco per il consumo interno al paese, ma la produzione prevede anche prodotti destinati agli Stati Uniti e ad altri paesi sia europei che mediorientali: latte in polvere, gelato, formaggi e barrette proteiche pensate per chi fa sport.
Camelicious non è un esempio isolato. Come hanno scritto sul sito The Conversation le due scienziate Ariell Ahearn e Dawn Chatty, negli Emirati Arabi Uniti, ma più in generale in tutto il Medio Oriente, gli allevamenti di dromedari sono in aumento. E succede lo stesso in diversi paesi africani in cui il consumo è maggiore, come Kenya e Somalia. Anche in Arabia Saudita la tendenza è simile: il fondo sovrano saudita Public Investment Fund (PIF) all’inizio del 2024 ha annunciato ufficialmente la creazione di Sawani Company, una controllata che si occuperà proprio di promuovere i prodotti caseari di cammello.
Oltre ai vantaggi, però, ci sono degli svantaggi. La gestazione di una dromedaria dura 13 mesi, quindi circa quattro mesi in più rispetto a quella delle mucche. Inoltre i maschi tendono a diventare piuttosto aggressivi, soprattutto in corrispondenza del periodo dell’accoppiamento. Entrambe le cose rendono più complicati da gestire gli allevamenti.
Secondo i produttori nomadi di latte di cammelle e dromedarie i nuovi allevamenti sono una minaccia alla conservazione della tradizione nomade, che resiste non solo in Africa settentrionale, ma anche in Medio Oriente e in diverse zone dell’Asia come la Mongolia e l’India, e prevede tecniche di mungitura pressoché prive di tecnologia. Il timore dei pastori nomadi è innanzitutto di vendere meno latte a causa degli allevamenti intensivi, oltre al fatto che la propria tradizione culturale potrebbe diventare ancora più rara e marginale.
Come si legge nel comunicato pubblicato dai partecipanti al “Workshop on Camelid Pastoralism”, tenuto in India lo scorso gennaio, le preoccupazioni dei pastori riguardano anche l’impatto ambientale degli allevamenti intensivi: «i cammelli sono fondamentali per la sicurezza alimentare e la tutela della biodiversità nelle regioni aride e semiaride del mondo, ma solo se vengono mantenuti in allevamenti nomadi», e ancora «la loro mobilità è una risorsa e un metodo esplicito di resilienza, soprattutto in tempi di cambiamenti climatici globali e di imprevedibilità ambientale». Tra le preoccupazioni di chi alleva cammelli con metodi tradizionali c’è anche la selezione genetica. Le grandi fattorie infatti potrebbero tendere a preservare solo alcune razze di cammello, quelle la cui produzione di latte è maggiore, come è successo con le mucche nei secoli scorsi. LEGGI TUTTO