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    La FAO ha distorto degli studi sull’importanza di ridurre il consumo di carne?

    Caricamento playerDue scienziati hanno accusato l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura (FAO) di aver distorto i risultati di due studi a cui hanno lavorato, e di averne usato un terzo in modo inappropriato, per sminuire quanto i cambiamenti nell’alimentazione delle persone possano ridurre le emissioni di gas serra globali. Più specificamente, sostengono che la FAO abbia sottostimato quanto diminuire il consumo di carne potrebbe contribuire a contrastare gli effetti del cambiamento climatico.
    Paul Behrens, un professore associato dell’Università di Leida, nei Paesi Bassi, e Matthew Hayek, un ricercatore della New York University, sono due fisici che studiano l’impatto di varie attività umane sull’ambiente. E sono entrambi tra gli autori degli studi scientifici citati dalla FAO in un rapporto sulle emissioni causate dall’allevamento per la produzione di carne e latte che è stato presentato all’ultima conferenza dell’ONU sul clima, la COP28 di Dubai. In una lettera del 9 aprile hanno chiesto all’organizzazione di ritirare il rapporto e correggerlo «selezionando le fonti in modo più appropriato e rettificando gli errori metodologici».
    L’allevamento su larga scala è una delle attività che più contribuiscono alle emissioni di gas serra. Secondo le stime dell’Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC) dell’ONU, il principale organismo scientifico internazionale per la valutazione dei cambiamenti climatici, tra il 2010 e il 2019 il settore agricolo, insieme a quello della gestione forestale, è stato responsabile del 21 per cento delle emissioni globali di gas serra. Di questo contributo, più di un quinto è dovuto ai rutti e alle flatulenze dei bovini, che contengono metano, un potente gas serra. Circa la metà invece è riconducibile ai cambiamenti nell’uso del suolo, come la deforestazione, che viene praticata in molte parti del mondo – prevalentemente Sud America, Africa e Asia – per ospitare nuovi pascoli per il bestiame e coltivare vegetali per nutrirlo.

    – Leggi anche: Quanta carne può mangiare il mondo?

    Il rapporto della FAO dice che introducendo dei miglioramenti nelle tecniche di allevamento e riducendo gli sprechi alimentari si potranno ridurre «significativamente» le emissioni dovute all’allevamento. E questo anche aumentando la produzione di alimenti di derivazione animale nei prossimi 25 anni, come si prevede che sarà necessario per rispondere alla crescita della domanda di carne e latticini – del 20 per cento rispetto al 2020, a livello globale (un aumento in linea con quello della popolazione mondiale).
    Il rapporto dice anche che la riduzione delle emissioni di gas serra legate all’agricoltura che si otterrebbe se le persone adottassero le diete consigliate dalle autorità statali, che generalmente nei paesi più ricchi raccomandano di ridurre il consumo di carne, sarebbe solo del 2-5 per cento.
    Secondo Behrens e Hayek però quest’ultima valutazione è scorretta e rischia di «dare una falsa impressione che la potenziale mitigazione delle emissioni attraverso il consumo ridotto di carne sia limitata, e che quindi l’aumento del bestiame dovrebbe essere la priorità».
    Lo studio su cui la FAO basa la stima del 2-5 per cento risale al 2017 e Behrens ne è il primo autore. Insieme a un gruppo di colleghi fece una stima di quale sarebbe stato l’impatto sulle emissioni di gas serra globali se in 37 diversi paesi del mondo (Italia compresa) la popolazione avesse cambiato la propria dieta in modo da seguire le raccomandazioni delle autorità nazionali.
    Lo studio arrivava alla conclusione che un cambiamento in tal senso nei paesi più ricchi avrebbe portato a una riduzione delle loro emissioni compresa tra il 13 e il 24,8 per cento. Per i paesi con un reddito medio intermedio lo studio aveva trovato invece una diminuzione minore, tra lo 0,8 e il 12,2 per cento, mentre per quelli più poveri aveva stimato un aumento delle emissioni di gas serra (del 12,4-17 per cento): questi ultimi sono paesi in cui buona parte della popolazione ha alimentazioni carenti sotto vari aspetti, e un miglioramento delle diete dal punto di vista della salute richiederebbe maggiori consumi alimentari.
    La prima ragione per cui Behrens e Hayek dicono che la FAO ha usato male questi dati è che dal 2017 molti paesi (tra cui la popolosa Cina) hanno modificato le proprie raccomandazioni sulla dieta, riducendo notevolmente la quantità di carne consigliata. Quindi lo stesso studio, se rifatto oggi, darebbe dei risultati diversi: è ormai datato.
    Ma non sarebbe l’unico errore, per i due scienziati. Secondo loro il rapporto della FAO «sottostima sistematicamente» il potenziale della riduzione dei consumi di carne in termini di riduzione delle emissioni attraverso una «serie di errori metodologici» elencati nel dettaglio nella loro lettera. Un altro riguarderebbe uno studio del 2021 a cui Hayek aveva partecipato, da cui il rapporto della FAO ha estratto una stima delle emissioni globali legate al settore alimentare. Secondo i due scienziati, il confronto tra questo dato e quelli dello studio del 2017 è stato fatto in modo scorretto nel rapporto e ha avuto come risultato una significativa sottostima della potenziale mitigazione del cambiamento climatico ottenibile con una riduzione del consumo di carne.
    Parlando con il Guardian, il primo giornale che si è occupato della questione, Hayek non ha detto che secondo lui gli errori non sono stati intenzionali, ma ha sottolineato che nessuno di quelli che lui e Behrens hanno individuato porti argomenti a favore di una riduzione del consumo di carne per il clima. Il Guardian, che si occupa spesso ed estesamente di clima e problemi ambientali, ha ricordato che la FAO, oltre a essere un’importante fonte di dati sul settore agricolo e uno degli enti i cui rapporti sono usati dall’IPCC e da altre organizzazioni delle Nazioni Unite, è anche un ente che ha l’obiettivo di aumentare la sicurezza alimentare nel mondo e dunque la produzione di cibo: per questo si potrebbe dire che abbia un conflitto di interessi.
    Behrens e Hayek hanno contestato lo studio della FAO anche perché avrebbe basato le proprie conclusioni sui possibili effetti di una riduzione del consumo di carne quasi unicamente sullo studio del 2017, mentre generalmente in ambito scientifico si considerano tutti quelli a disposizione, ben fatti e pertinenti. Tra le altre possibili ricerche sul tema non ha preso in considerazione il grande rapporto realizzato nel 2019 dalla ong EAT assieme all’autorevole rivista scientifica Lancet per suggerire come migliorare la salute delle persone e aumentare la sostenibilità della produzione di cibo. Il rapporto EAT-Lancet dice che la versione ottimale della «dieta della salute planetaria» prevede di non consumare affatto carne rossa, a patto di ricavare la giusta quantità di proteine da altre fonti.
    Un portavoce della FAO ha replicato alle contestazioni di Behrens e Hayek al Guardian:
    Come organizzazione che basa il proprio lavoro sulla scienza la FAO si impegna pienamente ad assicurare l’accuratezza e l’integrità delle proprie pubblicazioni scientifiche, specialmente viste le loro significative implicazioni per la politica e per la comprensione del pubblico. Il rapporto in questione è stato sottoposto a un rigoroso processo di revisione, condotto sia internamente che esternamente seguendo il metodo della revisione tra pari (peer review) in doppio cieco per garantire che la ricerca soddisfacesse i più alti standard di qualità e accuratezza, e che i potenziali pregiudizi fossero ridotti al minimo. La FAO indagherà sui punti sollevati dagli studiosi e si confronterà con loro sul piano tecnico. LEGGI TUTTO

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    I progressi contro il cambiamento climatico, nel doodle di Google

    Caricamento playerCome ogni 22 aprile Google ha dedicato alla Giornata della Terra il suo doodle, cioè l’immagine che sostituisce il classico logo del motore di ricerca. La Giornata della Terra è la più nota e importante manifestazione al mondo sull’ecologia e sulla protezione dell’ambiente. Soprattutto negli ultimi anni però è diventato anche un momento per informare e sensibilizzare sul cambiamento climatico, e non solo sull’ambiente in generale.
    Il doodle di Google di quest’anno mostra i progressi fatti da diversi paesi nel tentativo di preservare alcuni luoghi dagli effetti negativi del cambiamento climatico. Le lettere del logo di Google sono state sostituite dalle foto di alcuni dei luoghi in tutto il mondo «in cui persone, comunità e governi lavorano ogni giorno per aiutare a proteggere la bellezza naturale, la biodiversità e le risorse del pianeta», ha spiegato la società. La lettera G mostra le isole Turks e Caicos; la prima O l’Arrecife Alacranes (la più grande barriera corallina del Golfo del Messico meridionale); la seconda O è il Vatnajökull, in Islanda, il più grande ghiacciaio d’Europa; l’altra G il parco nazionale di Jaú, nella foresta amazzonica brasiliana; la L mostra la Grande Muraglia Verde in Nigeria, un ambizioso progetto avviato nel 2007 per realizzare una grande striscia di vegetazione lunga più di 7mila chilometri dalla costa occidentale dell’Africa, in Senegal, a quella orientale, in Gibuti; la E infine mostra la riserva naturale delle isole della regione di Pilbara, nell’Australia occidentale.

    La storia della Giornata della TerraLa Giornata della Terra fu indetta per la prima volta dalle Nazioni Unite nel 1970, quando ancora non si parlava di cambiamento climatico, seguendo gli intenti del movimento ecologista degli Stati Uniti. Tra gli ideatori della Giornata della Terra ci fu il senatore Democratico statunitense Gaylord Nelson, che aveva già organizzato una serie di incontri e conferenze dedicati ai temi dell’ambiente.
    Tra gennaio e febbraio del 1969 a Santa Barbara, in California, avvenne uno dei più gravi disastri ambientali degli Stati Uniti, causato dalla fuoriuscita di petrolio da un pozzo della Union Oil: l’incidente portò Nelson a occuparsi in modo più attento e continuativo delle questioni ambientali, per portarle all’attenzione dell’opinione pubblica, ricalcando quanto avevano fatto i movimenti di protesta contro la guerra del Vietnam.
    Il 22 aprile 1970 si tenne la prima Giornata della Terra, cui parteciparono milioni di cittadini statunitensi, con il coinvolgimento di migliaia di college, università, altre istituzioni accademiche e associazioni ambientaliste. Fu anche istituito l’Earth Day Network (EDN), un’organizzazione diventata poi internazionale per coordinare le iniziative dedicate all’ambiente durante tutto l’anno.
    Considerato il successo e l’interesse intorno alla Giornata della Terra, l’anno seguente le Nazioni Unite ufficializzarono la partecipazione all’organizzazione, dando nuova visibilità e rilievo all’iniziativa. In oltre 45 anni, la Giornata della Terra ha contribuito in modo determinante allo svolgimento di iniziative ambientali in tutto il mondo che, nel 1992, portarono all’organizzazione a Rio de Janeiro del cosiddetto Summit della Terra, la prima conferenza mondiale dei capi di stato sull’ambiente. Da allora la Giornata della Terra è anche diventata l’occasione per divulgare informazioni scientifiche, e rendere più consapevoli le persone sui rischi che comporta il riscaldamento globale e sulle soluzioni che possono essere adottate per contrastarlo.

    – Leggi anche: Il cambiamento climatico, le basi LEGGI TUTTO

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    Con le alluvioni a Dubai c’entra il “cloud seeding”?

    Caricamento playerLe grandi inondazioni che hanno interessato gli Emirati Arabi Uniti, con alcune zone in cui sono stati registrati oltre 250 millimetri di pioggia (più di quanto piova solitamente in un intero anno nel paese), sono insolite per un paese famoso per le sue città costruite nel deserto. Talmente insolite che da un paio di giorni circolano teorie e ipotesi sul fatto che le piogge abbondanti e improvvise siano state causate da errori legati al “cloud seeding”, la pratica di indurre le nuvole a produrre più pioggia cospargendole di alcune sostanze.
    L’idea del cloud seeding (letteralmente “inseminazione delle nuvole”) nacque intorno alla fine della Seconda guerra mondiale e da allora le conoscenze intorno a questa pratica sono molto aumentate, anche se periodicamente emergono dubbi sulla sua efficacia e utilità. In estrema sintesi, ogni nuvola è formata da una miriade di minuscole goccioline di acqua, proveniente dai processi di evaporazione degli oceani, dei mari e dei corsi d’acqua, ma anche dell’acqua nel suolo e nella vegetazione in generale. Il vapore acqueo viene trasportato in alto nell’atmosfera dai venti (correnti ascensionali) e la pioggia si forma quando questo incontra i nuclei di condensazione, cioè minuscole particelle in grado di assorbire le molecole d’acqua fino alla formazione di gocce che per gravità tornano verso il suolo.
    I primi sperimentatori del cloud seeding si chiesero se non fosse possibile accelerare il processo o amplificarne gli esiti introducendo artificialmente nuclei di condensazione. Le prime esperienze furono effettuate con il ghiaccio secco (anidride carbonica nella sua forma solida) e in seguito con lo ioduro di argento, un composto con una struttura simile a quella dei cristalli di ghiaccio che si formano nelle nuvole, e che concorrono a fare aggregare le molecole d’acqua. Oggi si utilizzano tecniche simili e negli ultimi decenni sono stati sperimentati altri sali, più pratici da impiegare e non inquinanti.
    Le tecniche di cloud seeding sono state sviluppate soprattutto nei paesi interessati periodicamente dalla siccità, come avviene in alcune aree della Cina, oppure costruiti in zone desertiche come nel caso degli Emirati Arabi Uniti. Le prime esperienze negli Emirati risalgono a una trentina di anni fa e da allora il Centro nazionale di meteorologia (NCM) del paese ha svolto attività di ricerca e sperimentazioni, al punto da rendere il cloud seeding una pratica comune per provare a ottenere più pioggia facendo volare aerei che rilasciano i sali mentre sorvolano e attraversano le nuvole.
    Dubai, Emirati Arabi Uniti (REUTERS/Amr Alfiky)
    Dopo le alluvioni degli ultimi giorni, e in seguito alle numerose teorie circolate sui social network senza particolari prove, gli esperti di NCM hanno smentito la possibilità che le grandi piogge siano state causate dal cloud seeding. Prima o durante le grandi piogge non erano state svolte attività di questo tipo e Omar Al Yazeedi, il direttore generale di NCM, ha chiarito che: «Il punto centrale del cloud seeding consiste nel prendere di mira le nuvole nei loro primi stadi, quindi prima che si verifichino le precipitazioni. Effettuare attività di inseminazione durante una tempesta molto forte si rivelerebbe del tutto inutile».
    Numerosi esperti indipendenti e non coinvolti nelle attività di NCM hanno smontato le teorie circolate online sul cloud seeding, arrivando a conclusioni più o meno simili a quelle di Al Yazeedi. L’attività di inseminazione viene infatti effettuata su nuvole che altrimenti non produrrebbero pioggia o ne produrrebbero molto poca, non su sistemi nuvolosi più complessi e instabili che chiaramente produrranno forti piogge. Intervenire su questi ultimi non avrebbe alcuna utilità, oltre a rivelarsi una spesa inutile, visto che produrranno comunque grandi quantità di pioggia.
    Dubai, Emirati Arabi Uniti (AP Photo/Jon Gambrell)
    Durante le prime sperimentazioni del cloud seeding nel secondo dopoguerra si era valutata la possibilità di impiegare la pratica per produrre grandi eventi atmosferici, ma da tempo è diventato evidente che l’impatto dell’inseminazione delle nuvole è limitato e non può portare alla modifica di forti e complesse perturbazioni. Sugli Emirati Arabi Uniti e in particolare Dubai si è assistito a un anomalo transito di un fronte nuvoloso che ha scaricato in poco tempo grandi quantità di pioggia sul quale il cloud seeding sarebbe stato irrilevante, hanno segnalato diversi esperti.
    Lo scienziato del clima Daniel Swain ha detto al Guardian: «È importante capire le possibili cause della pioggia da record di questa settimana su Dubai e parte della penisola araba. Il cloud seeding ha avuto un ruolo? Probabilmente no! Ma che dire del cambiamento climatico? Probabilmente sì!». Diversi altri esperti come Swain hanno infatti segnalato che la perturbazione sugli Emirati è stata probabilmente esacerbata dagli effetti del cambiamento climatico, che negli ultimi anni ha reso più frequenti e potenti molti eventi atmosferici. Nelle prossime settimane saranno effettuati studi e analisi “di attribuzione” per verificare se il cambiamento climatico abbia avuto un ruolo, come sembra, nella produzione di precipitazioni così intense in poco tempo. LEGGI TUTTO

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    Lo scorso marzo è stato il più caldo mai registrato

    Secondo il Climate Change Service di Copernicus, il programma di collaborazione scientifica dell’Unione Europea che si occupa di osservazione della Terra, lo scorso mese è stato il marzo più caldo mai registrato sulla Terra. La temperatura media globale è stata di 14,14 °C, 0,10 °C più alta del precedente mese di marzo più caldo mai registrato, quello del 2016. Il Climate Change Service sottolinea inoltre come marzo del 2024 sia il decimo mese consecutivo considerato il più caldo mai registrato a livello globale. Le stime di Copernicus sono realizzate usando diversi tipi di dati, tra cui le misurazioni dirette della temperatura fatte da reti di termometri presenti sulla terra e in mare e le stime dei satelliti.– Leggi anche: Cosa è stato fatto finora per contrastare la siccità LEGGI TUTTO

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    Lo scorso febbraio è stato il più caldo mai registrato, secondo il programma dell’Unione Europea sull’osservazione della Terra

    Secondo il Climate Change Service di Copernicus, il programma di collaborazione scientifica dell’Unione Europea che si occupa di osservazione della Terra, lo scorso febbraio è stato il più caldo mai registrato sulla Terra. La temperatura media globale è stata di 13,54 °C, 0,12 °C più alta del precedente febbraio più caldo mai registrato, quello del 2016. Febbraio del 2024 è il nono mese consecutivo considerato il più caldo mai registrato a livello globale.Le stime di Copernicus sono realizzate usando diversi tipi di dati, tra cui le misurazioni dirette della temperatura fatte da reti di termometri presenti sulla terra e in mare e le stime dei satelliti. Carlo Buontempo, direttore del Climate Change Service di Copernicus, ha detto che la temperatura media del febbraio appena trascorso «non è davvero sorprendente, perché il continuo riscaldamento del sistema climatico porta inevitabilmente a nuovi estremi di temperatura». LEGGI TUTTO

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    Il clima di un pezzo di Africa cambierà grazie alla “Grande muraglia verde”?

    Caricamento playerDal 2007 undici paesi stanno portando avanti un progetto molto ambizioso per influenzare il clima (e quindi l’abitabilità) e lo sviluppo economico di un grosso pezzo di Africa: la realizzazione di una grande striscia di vegetazione lunga più di 7mila chilometri tra Dakar, in Senegal, sulla costa occidentale del continente, e Gibuti, la capitale del paese omonimo, sulla costa orientale. Il progetto si chiama “Grande muraglia verde”, e i risultati di una simulazione da poco pubblicati sulla rivista scientifica One Earth dicono che porterà un aumento delle precipitazioni medie e una diminuzione della durata dei periodi di siccità.

    Nell’idea iniziale, che risale agli anni Ottanta e a Thomas Sankara, leader carismatico e primo presidente del Burkina Faso, la Grande muraglia verde doveva essere davvero una specie di lunga barriera di alberi. Si riteneva che avrebbe potuto arginare un processo che avrebbe reso il Sahel, l’arida regione a sud del Sahara, più simile al deserto vero e proprio. Poi il progetto venne corretto tenendo conto di analisi scientifiche aggiornate e dei vantaggi socio-economici di foreste, praterie e terre coltivate per la popolazione locale. Nella forma attuale il progetto prevede di realizzare un “mosaico” di terreni coperti da vari tipi di vegetazione che dovrebbe occupare 1 milione di chilometri quadrati, più o meno la stessa superficie di Francia e Germania messe insieme, entro il 2030. In parte saranno riforestati piantando nuovi alberi, in parte coltivati.
    I principali paesi coinvolti sono, da est a ovest, Gibuti, Eritrea, Etiopia, Sudan, Ciad, Niger, Nigeria, Mali, Burkina Faso, Mauritania e Senegal, e il progetto è stato approvato dall’Unione Africana, l’organizzazione internazionale di paesi africani che ha per modello l’Unione Europea.
    Una zona forestata nel Sahel senegalese, l’11 luglio 2021 (REUTERS/Zohra Bensemra)
    Lo studio uscito su One Earth è stato fatto da Roberto Ingrosso e Francesco Pausata, due climatologi italiani che lavorano all’Università del Québec, in Canada, ed è il primo ad aver valutato i possibili impatti sul clima del Sahel della versione più aggiornata della Grande muraglia verde. È basato su modelli di simulazione climatica con una risoluzione spaziale di circa 13 chilometri: mostrano rappresentazioni dei fenomeni atmosferici su superfici minime di 169 chilometri quadrati, cioè con un buon approfondimento tenendo conto dell’ampiezza complessiva del territorio interessato.
    Le simulazioni sono state fatte tenendo conto di diverse densità di vegetazione che si potrebbero ottenere con la Grande muraglia verde. E sono stati considerati due diversi scenari di cambiamento climatico globale: quello in cui grazie alle politiche di contrasto alle emissioni di gas serra si raggiungono gli obiettivi più ambiziosi dell’Accordo sul clima di Parigi del 2015, e quello in cui invece le emissioni continuano ad aumentare e l’atmosfera del pianeta a riscaldarsi. Per entrambi gli scenari, nel caso di un aumento significativo della densità di vegetazione, Ingrosso e Pausata hanno previsto un aumento delle precipitazioni in alcune zone del Sahel, una diminuzione dei periodi di siccità e delle temperature estive.
    Al tempo stesso però i modelli indicano che in relazione alla Grande muraglia verde ci sarà un maggior numero di giorni dell’anno con temperature estremamente alte, in particolare prima della stagione delle piogge. «Questi risultati sottolineano gli effetti contrastanti della Grande muraglia verde», spiega lo studio, «e dunque la necessità di fare valutazioni complessive nel decidere politiche future». Gli effetti saranno diversi a livello locale e se complessivamente la regione sarà meno arida – posto che effettivamente si riesca a ottenere una buona densità di vegetazione con il progetto – in alcune zone aumenteranno i giorni con temperature molto alte, cosa che può avere effetti rilevanti per la popolazione.
    Illustrazione dallo studio di Roberto Ingrosso e Francesco Pausata: in verde l’area interessata dalla Grande muraglia verde, in azzurro quella in cui è stato previsto un potenziale aumento delle precipitazioni. Le nuvole indicano le zone in cui potrebbero diminuire i periodi di siccità, i termometri quelle in cui potrebbero registrarsi temperature massime più alte
    Nel Sahel così come nel Sahara le precipitazioni sono legate all’intensità del monsone dell’Africa occidentale, quel sistema periodico di perturbazioni che interessa la regione tra giugno e ottobre e a cui si deve la sopravvivenza di milioni di persone. Dagli anni Settanta in poi però questa parte dell’Africa è diventata meno ospitale a causa di intense siccità, molto probabilmente legate all’aumento della temperatura superficiale dell’oceano Atlantico, oltre che al modo in cui il territorio è stato sfruttato. L’idea di usare la vegetazione per contrastare questi effetti nasce dal fatto che le piante contribuiscono a conservare l’acqua nel suolo e con i loro processi biologici influenzano anche la quantità di umidità nell’aria.
    È inoltre possibile che l’aumento del suolo coperto da foreste riduca la forza dei venti sulla regione, dice lo studio di Ingrosso e Pausata, e per questo contribuisca a un aumento di precipitazioni.
    Un rapporto del 2020 della Convenzione contro la desertificazione delle Nazioni Unite (UNCCD) ha cercato di stimare in quale misura l’obiettivo fissato per il 2030 sia già stato raggiunto: non è chiarissimo perché i confini dei territori coinvolti non sono stati fissati in modo inequivocabile, quindi si è parlato di una percentuale compresa tra il 4 e il 18 per cento, sulla base delle informazioni fornite dai paesi coinvolti. Nel 2021 le Nazioni Unite hanno promesso un consistente finanziamento del progetto per accelerarlo: sono stati annunciati 14,3 miliardi di dollari di finanziamento entro il 2025, di cui 2,5 sono stati consegnati tra il 2021 e il 2023.
    I lavori per la creazione di un giardino che fa parte della Grande muraglia verde a Boki Diawe, in Senegal, il 10 luglio 2021: questo genere di giardini prevede di piantare piante adatte a condizioni climatiche aride all’interno di buche circolari che permettono di sfruttare al meglio le risorse idriche (REUTERS/Zohra Bensemra)
    Al di là delle risorse economiche necessarie per portarla avanti, la Grande muraglia verde ha altri ostacoli, di natura politica e di sicurezza. Infatti nel Sahel sono attivi molti gruppi terroristici, come il nigeriano Boko Haram, e in alcune zone ritenute particolarmente pericolose sia le organizzazioni che si stanno occupando di riforestazione che gli abitanti locali sono restii a portare avanti i progetti legati alla Grande muraglia verde.

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