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    Davvero ci servono tutte queste proteine?

    Caricamento playerYogurt ad alto contenuto proteico, succo di frutta con proteine, passato di verdura proteico, cracker con aggiunta di proteine, gelato e dessert proteici, merendine e cereali per la colazione con proteine e perfino acqua proteica. Negli ultimi anni è aumentata enormemente la quantità di prodotti alimentari promossi per il loro contenuto di proteine, spesso con scritte molto evidenti sulle confezioni. Il messaggio che provano a trasmettere è che gli alimenti con maggiori quantità di proteine facciano bene alla salute, anche se in realtà con una normale dieta equilibrata si assumono già le giuste dosi di questi nutrienti. È una comunicazione prettamente di marketing che nel tempo è riuscita a cogliere e ad accrescere un certo interesse verso le proteine, magari contrapposte ad altri nutrienti meno apprezzati come i carboidrati e i grassi.
    Successo commercialeIl mercato dei prodotti proteici è del resto molto fiorente negli Stati Uniti e in altri paesi occidentali, compresa l’Italia. Un’indagine di mercato ha rilevato che tra giugno 2022 e giugno 2023 le indicazioni a scopo promozionale sulla presenza delle proteine erano stampate sulle confezioni di oltre 3.200 prodotti alimentari. Nello stesso periodo le vendite erano aumentate del 4,5 per cento rispetto all’anno precedente, con un valore di mercato intorno agli 1,7 miliardi di euro. La domanda era quindi in aumento, nonostante i problemi legati all’inflazione e il fatto che in media i prodotti proteici – o che si vendono come tali – siano più costosi e talvolta senza che ce ne sia veramente motivo.
    A causa di alcune diete di moda, della pubblicità e delle indicazioni promozionali praticamente su qualsiasi prodotto, le proteine sono sempre più viste come qualcosa di sano o per lo meno innocuo rispetto ad altre sostanze nutrienti. C’è in molte persone la percezione che possano essere consumate senza problemi e soprattutto che possano sostituire altri nutrienti, oppure che siano fondamentali per avere più energie o aumentare la massa muscolare, soprattutto tra chi fa sport. Mediche ed esperti osservano con preoccupazione questa nuova mania per il proteico, che potrebbe avere conseguenze sulla salute delle persone.
    Le proteine, da capoLe proteine furono descritte scientificamente in modo esteso per la prima volta alla fine degli anni Trenta dell’Ottocento dal chimico olandese Gerardus Johannes Mulder e da un suo collega, il chimico svedese Jöns Jacob Berzelius, che decise di chiamarle così dalla parola greca πρώτειος (proteios), che significa “primario”. E in effetti le proteine hanno un ruolo fondamentale nella nostra esistenza e in generale in quella degli esseri viventi.
    Fanno praticamente qualsiasi cosa: costituiscono l’impalcatura degli organismi, rendono possibile l’attività cellulare e l’esistenza degli organi e sono anche in buona parte responsabili delle loro funzioni. Dopo l’acqua, le proteine sono i costituenti biologici più abbondanti negli organismi e sono presenti in tutte le cellule, tanto da formarne il 50 per cento del peso (una volta tolta l’acqua). Ne esiste una sterminata varietà e ciascun tipo ha una funzione particolare in base alla sua forma: è sufficiente una minima differenza nel modo in cui è disposta nello spazio perché la sua funzione cambi enormemente.
    Le proteine sono formate da catene di amminoacidi, una grande famiglia di molecole organiche quindi comprendenti carbonio, azoto, ossigeno e idrogeno. Le catene si avvolgono su loro stesse in modi diversi e insieme danno una forma e di conseguenza una funzione alle proteine. Esistono centinaia di amminoacidi che combinati tra loro formano varie proteine, ma quelli necessari per far funzionare il corpo umano sono una ventina e si dividono tra:
    • non essenziali, che il nostro organismo può produrre da sé;• condizionatamente essenziali, che un organismo poco in salute ha più difficoltà a produrre;• essenziali, che non possono essere prodotti dall’organismo e devono essere quindi assunti con l’alimentazione.
    Gli amminoacidi essenziali sono nove e sono presenti in moltissimi alimenti, ma naturalmente nella forma più complessa di proteine. Con il passaggio nello stomaco e nella sezione subito successiva, il duodeno, i succhi gastrici e gli enzimi provvedono a scomporre le proteine che abbiamo assunto mangiando qualcosa e a ridurle nei loro componenti elementari, gli amminoacidi appunto. Alcuni di questi rimangono in zona per rendere possibile la produzione di nuovi enzimi che procederanno alla scomposizione delle proteine in arrivo col prossimo pasto, altri invece finiranno attraverso l’intestino nella circolazione sanguigna e saranno trasportati in altre parti dell’organismo.
    Gli amminoacidi servono infatti alle cellule per produrre nuove proteine. Le istruzioni per farlo sono contenute nel DNA: a seconda dell’ordine e degli amminoacidi, saranno prodotte proteine specifiche necessarie per assolvere ad alcune funzioni per esempio per il trasporto dell’ossigeno attraverso il sangue, oppure per svolgere compiti strutturali e di sostegno come nel caso della produzione del collagene.
    Fai-da-teIl collagene è la proteina più abbondante nei mammiferi e, oltre a costituire circa il 6 per cento del peso corporeo di una persona, è il classico esempio di come si faccia spesso fatica a capire come funzionano le proteine. Molti integratori a base di collagene fanno intendere, in modo più o meno esplicito, che assumendoli si possa aumentare le quantità di questa proteina che fa per esempio da impalcatura della pelle, migliorandone l’aspetto e riducendo gli effetti del suo invecchiamento come rughe e segni di espressione.
    Mangiare un “integratore al collagene” (ammesso che contenga veramente collagene) implica che la sostanza venga scomposta negli amminoacidi, che saranno poi utilizzati dall’organismo per produrre le proteine di cui ha bisogno e non necessariamente più collagene del solito. Gli amminoacidi che costituiscono il collagene sono inoltre presenti in molti alimenti e di conseguenza con una normale dieta si assumono già le proteine necessarie per produrlo. Senza contare che le fiale e le bottigliette di questi integratori contengono millilitri e talvolta centilitri di prodotto, un apporto limitato se consideriamo che una persona di 75 chilogrammi ha circa 4,5 chilogrammi di collagene.
    Integratori e quantitàLa stessa cosa vale per gli integratori che promettono di favorire la crescita muscolare perché contengono specifiche proteine, riconducibili in qualche modo a quelle che costituiscono i nostri muscoli e che li fanno funzionare. Negli anni sono state prodotte molte ricerche sull’effetto degli integratori proteici come barrette e polveri, senza però trovare prove convincenti per definire con esattezza gli eventuali benefici portati dalla loro assunzione.
    Più in generale, una persona in salute che segua una dieta equilibrata (nella maggior parte dei casi si riduce a mangiare un po’ di tutto con moderazione ) non ha necessità di assumere più proteine di quante già ne introduca attraverso l’alimentazione. L’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) consiglia di assumere quotidianamente 0,8 grammi di proteine per ogni chilogrammo di peso corporeo. Una persona che pesa 75 chilogrammi dovrebbe quindi assumerne circa 60 grammi al giorno. La quantità può variare in base all’età e ad altri fattori legati per esempio a quanta attività fisica si conduce (l’assunzione in questo caso tende ad aumentare per buona parte dei nutrienti, quindi anche per carboidrati e grassi).
    Gli effetti di un’assunzione eccessiva di proteine non sono ancora completamente chiari, anche se ci sono indizi per ritenere che non costituisca un particolare pericolo per le persone in salute e che sia più che altro uno spreco. A differenza dei carboidrati e dei grassi, che sotto varie forme vengono accumulati dal nostro organismo per essere utilizzati gradualmente nel tempo, gli amminoacidi in eccesso e che non vengono quindi utilizzati sono smaltiti dall’organismo. Lo smaltimento avviene per lo più attraverso l’attività del fegato e dei reni e per questo alcune ricerche si sono concentrate sul lavoro, molto intenso, che devono effettuare per indagare eventuali effetti per la salute.
    Per queste ragioni un’assunzione oltre il necessario di proteine è uno spreco, sia dal punto di vista metabolico (cioè di come funziona l’organismo e gestisce le proprie energie) sia economico nel caso in cui si utilizzino prodotti più cari che promuovono il loro alto contenuto in proteine.
    “Più proteine”Fino a qualche tempo fa l’indicazione sulle confezioni riguardava spesso prodotti specifici per gli sportivi, come barrette e polveri ad alto contenuto proteico, mentre ora le indicazioni sono presenti su moltissimi prodotti di largo consumo come latticini, minestre e legumi.
    Le aziende che realizzano molti di questi prodotti in realtà non hanno nemmeno cambiato gli ingredienti rispetto a un tempo (cioè quando non mettevano la scritta “più proteine” in bella vista sulle confezioni), ma hanno semplicemente scelto di dare maggiore evidenza alla presenza di proteine nei loro prodotti. Per accorgersene è spesso sufficiente consultare la tabella nutrizionale, che indica i valori per 100 grammi di prodotto, e confrontarla con quella di prodotti analoghi che non riportano indicazioni promozionali sulle proteine: quasi sempre la percentuale di proteine è la medesima.
    Come si nota osservando gli scaffali nei supermercati, negli ultimi anni c’è stato inoltre un certo passaggio dalle indicazioni sulla presenza di proteine in prodotti facilmente associabili a questi nutrienti, come quelli a base di carne, ad altri come appunto i legumi e i derivati del latte. Intorno al consumo di carne inizia a esserci una maggiore sensibilità, sia per questioni di salute sia legate all’impatto ambientale della sua produzione, di conseguenza i produttori hanno preferito spostare l’attenzione verso prodotti percepiti come meno controversi. Nel farlo hanno però quasi sempre scelto di mettere in evidenza il concetto di “proteine in più” rispetto a quello della possibilità di alimentarsi in modo diverso, riducendo o eliminando del tutto il consumo di carne.
    I nove amminoacidi essenziali sono disponibili in quantità sufficienti nelle proteine derivate dagli animali, come carne di vario tipo, latticini e uova. La soia, molto utilizzata nelle preparazioni vegetariane e vegane, contiene tutti questi amminoacidi, mentre molti altri alimenti vegetali ne contengono alcuni in alte quantità e altri in basse dosi a seconda dei casi. Il loro consumo in combinata permette di solito di ottenere tutti gli amminoacidi necessari, anche se per alcuni vegetali è necessario un consumo lievemente più alto rispetto a quello dei prodotti derivanti in qualche modo dagli animali. Un pacco di edamame (i fagioli acerbi della soia) che mette in bella evidenza la scritta “proteine” sta comunque promuovendo qualcosa di ovvio e naturale, difficilmente un tipo di edamame più proteico di quello dei concorrenti.
    Un più alto consumo di proteine, in alcuni casi molto al di sopra delle linee guida, può rendersi necessario nel caso di particolari problemi di salute. Ci sono per esempio persone che hanno problemi di assorbimento dei nutrienti e devono quindi aumentare alcune dosi per compensare.
    Il maggior successo dei prodotti che promuovono le proteine viene osservato con attenzione dagli esperti e dalle istituzioni sanitarie, visto che come tutte le mode legate al cibo potrebbe avere conseguenze sul modo in cui si nutre una parte importante della popolazione soprattutto nei paesi più ricchi. In questi anni ci si è anche interrogati sul successo delle proteine dal punto di vista commerciale. L’ipotesi più condivisa è che fossero le candidate ideali per avere successo nella ristretta famiglia dei macronutrienti, che oltre alle proteine comprendono i grassi e i carboidrati,
    Il nostro organismo non può fare a meno di queste sostanze, ma dopo avere demonizzato prima i grassi e poi i carboidrati, indicati come i principali responsabili del sovrappeso e dell’obesità, le proteine sono diventate il macronutriente ideale da promuovere come qualcosa di sano e desiderabile per sentirsi meglio. E tutto questo nonostante negli alimenti non ci siano solamente le proteine, ma anche i carboidrati e i grassi in proporzioni diverse a seconda dei casi, come è evidente dalle schede nutrizionali sul retro delle confezioni che promettono un mondo bellissimo fatto di proteine. LEGGI TUTTO

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    Perché gli asparagi fanno puzzare la pipì

    Intorno al 1780 lo scienziato e politico statunitense Benjamin Franklin scrisse una lettera indirizzata all’Accademia imperiale di Bruxelles chiedendosi se non ci fosse il modo di trovare un rimedio per gli asparagi che «mangiati danno alla nostra urina un odore sgradevole». La lettera era sarcastica ed era stata scritta in seguito all’annuncio di una competizione in matematica che Franklin riteneva inutile e ridicola. Per questo poneva una questione scientifica piccola e all’apparenza insignificante, ma che potrebbe offrire nuovi spunti per comprendere come digeriamo alcuni alimenti e persino il modo in cui percepiamo certi odori.A quasi due secoli e mezzo dalla sua lettera, Franklin oggi sarebbe probabilmente sorpreso nello scoprire che la causa precisa di quell’odore che trovava così sgradevole – a differenza per esempio di Franco Battiato, che disse in una sua canzone di apprezzarlo – è ancora oggi un mistero. Che siano gli asparagi la causa non sfugge praticamente a nessuno vada in bagno qualche tempo dopo averli mangiati, ma non è ancora completamente chiaro quali siano le sostanze e i processi digestivi coinvolti nel nostro organismo.
    Esistono numerose varietà dell’asparago comune (Asparagus officinalis), utilizzate per lo più a scopo alimentare. La produzione raggiunge il picco tra la seconda metà di marzo e il mese di giugno, quando la pianta cresce e fuori dalla terra iniziano a svilupparsi i “turioni”, cioè i getti che vengono raccolti per essere poi consumati. Le varietà di asparago hanno pressoché la medesima composizione chimica e per questo si fanno sentire allo stesso modo nelle urine, con un odore caratteristico e pungente che alcuni trovano insopportabile e verso il quale altri sono del tutto indifferenti.
    (Daniel Kopatsch/Getty Images)
    Tra le prime sostanze sospettate di concorrere alla pipì da asparago ci fu il metantiolo, un composto che i chimici conoscono bene perché ha un odore tremendo simile a quello del cavolo marcio. Nel 1956 un gruppo di ricerca aveva riscontrato la sua presenza nelle urine della maggior parte dei volontari cui aveva chiesto di mangiare asparagi, anche se misteriosamente la sostanza non era presente nei campioni di alcuni partecipanti. La sola presenza del metantiolo non era però sufficiente per spiegare il fenomeno, anche perché un conto sono i composti presenti in un liquido, un altro il modo in cui da questo si producono composti volatili che determinano poi un odore.
    Grazie allo sviluppo di sistemi per analizzare le sostanze volatili, verso la fine degli anni Ottanta fu possibile confermare la presenza di almeno sei composti probabilmente responsabili del caratteristico odore della pipì dopo una mangiata di asparagi. Al metantiolo si erano infatti aggiunti il dimetil solfuro e il disolfuro di metile, il 2,4-ditiapentano, il dimetilsolfossido e il dimetilsolfone. La maggior parte di questi comprendono lo zolfo, elemento che quando si lega con l’idrogeno porta al caratteristico odore di uova marce (lo zolfo in sé è inodore).
    Per quanto odorosi, questi composti sono piuttosto delicati e difficilmente resisterebbero alla cottura degli asparagi, quindi secondo vari gruppi di ricerca emergono come il prodotto di un processo che avviene durante la digestione a partire da qualcosa di lievemente diverso. Si ritiene che quel qualcosa sia l’acido asparagusico, una sostanza non volatile che si trova unicamente negli asparagi. Quando viene digerito dal nostro organismo, entra in contatto con i succhi gastrici e gli altri prodotti della digestione portando a quei composti volatili e odorosi dai nomi complicati.
    La produzione dell’odore avviene piuttosto rapidamente, tanto che spesso inizia a sentirsi nelle urine entro 15-30 minuti dall’ingestione dei primi asparagi. Ne basta inoltre una quantità molto ridotta perché si senta l’odore, proprio per le caratteristiche dei composti volatili che lo causano. Oltre a iniziare quasi subito, il fenomeno si protrae a lungo perché i composti che lo causano restano in circolazione nell’organismo per diverso tempo. È stato calcolato che abbiano un’emivita di circa quattro ore: significa che la loro concentrazione si dimezza in quel periodo (dopo quattro ore è meta, dopo altre quattro ore è metà della metà e così via, fino a quando la concentrazione diventa trascurabile).
    (AP Photo/Matthew Mead)
    C’è però una questione aggiuntiva che complica le cose: alcune persone dicono di non sentire nessun odore particolare quando fanno pipì dopo avere mangiato asparagi. Le stime variano a seconda degli studi, ma sembra che questa circostanza riguardi tra il 20 e il 40 per cento della popolazione (altre ricerche indicano percentuali ancora più alte). Non è però chiaro se con la digestione queste persone non producano le sostanze volatili odorose oppure se non abbiano la capacità di percepirle con l’olfatto.
    Negli anni Ottanta la questione fu affrontata da un paio di ricerche scientifiche che portarono più o meno alla medesima conclusione. Secondo i test, tutti i partecipanti producevano urina dal caratteristico odore del dopo asparagi, ma non tutte le persone riuscivano poi a percepirlo. Le persone che sentivano l’odore erano in grado di notarlo anche nell’urina delle persone che dicevano di non sentirlo, apparentemente a conferma del fatto che si trattasse di un problema di percezione e non di produzione delle sostanze odorose.
    Le conclusioni di quelle ricerche furono messe in dubbio alcuni anni dopo da nuovi studi che valutarono la possibilità che la questione non fosse solamente di percezione, ma anche di produzione. I test svolti in precedenza si erano infatti basati per lo più su test dove i volontari dovevano odorare la pipì prodotta dopo un pasto a base di asparagi e confrontarla con l’acqua o altre sostanze non odorose. In queste condizioni era probabile che alcune persone notassero un particolare odore dell’urina che però non c’entrava nulla con quello prodotto in seguito all’ingestione di asparagi.
    Nel 2011 un gruppo di ricerca del Monell Chemical Senses Center di Philadelphia (Stati Uniti) elaborò un test più articolato per provare a superare i difetti degli esperimenti condotti in precedenza. A un gruppo di volontari fu chiesto di bere una bottiglia d’acqua e di mangiare asparagi, preparati saltandoli in padella con un poco di olio e sale. Dopo un paio d’ore a ogni volontario fu chiesto di fare pipì in un recipiente, e tutti i contenitori furono poi messi in un congelatore. Il giorno seguente allo stesso gruppo di volontari fu chiesto di bere una bottiglia d’acqua e di mangiare una pagnotta condita con la stessa quantità di olio e sale utilizzata in precedenza per la preparazione degli asparagi. Anche in questo caso furono attese due ore e fu poi chiesto ai volontari di raccogliere la loro urina.
    Ottenuti i due campioni si passò alla parte meno gradevole dell’esperimento. A ogni volontario fu infatti chiesto di odorare la propria pipì e quella di altri partecipanti, per vedere chi e come riscontrasse un odore particolare riconducibile al consumo di asparagi. Alcuni partecipanti si sottrassero alla prova, dicendo di non sentirsela o di non riuscire a sopportare l’odore della loro stessa urina dopo avere consumato asparagi. Al netto delle rinunce, il gruppo di ricerca riuscì comunque a calcolare che il 6 per cento dei volontari non fosse in grado di percepire l’odore particolare della pipì del dopo asparagi e che l’8 per cento non producesse urina con il classico odore dovuto al consumo di quella verdura.
    Dallo studio emerse inoltre che almeno una persona non era in grado né di produrre né di percepire il pungente odore di pipì post asparagi. Il gruppo di ricerca ipotizzò quindi che alcune persone non abbiano un particolare enzima coinvolto nel processo di digestione e trasformazione dell’acido asparagusico, ma a oggi non sono stati trovati molti elementi per confermarlo con certezza e l’ipotesi è ancora dibattuta.
    La capacità di percepire o meno quel caratteristico odore dell’urina potrebbe essere legato a un gene, che però non sembra essere coinvolto nei processi digestivi che portano in primo luogo alla produzione del medesimo odore. Indizi sul gene furono forniti una quindicina di anni fa dalla società privata di analisi del DNA 23andMe, che condusse uno studio chiedendo a 10mila dei propri clienti se fossero o meno in grado di percepire il caratteristico effetto degli asparagi sulla pipì. In questo modo fu possibile identificare il probabile gene coinvolto nell’incapacità per alcune persone di percepire quell’odore.
    (Getty Images)
    Nel 2016 un gruppo di ricerca dell’Università di Harvard (Stati Uniti) condusse un sondaggio tra 7mila volontari chiedendo se fossero in grado di percepire il particolare odore della pipì dopo avere mangiato asparagi. Il 40 per cento circa disse di riuscirci senza problemi, mentre il restante 60 per cento diede risposte meno coerenti. Dalle analisi emerse che possono esserci quasi 900 mutazioni nel DNA che portano a versioni lievemente differenti di alcuni geni, coinvolti nel modo in cui vengono percepiti particolari odori. È però difficile stabilire con certezza quali mutazioni siano coinvolte più di altre nell’incapacità di percepire l’odore che assume l’urina dopo avere consumato asparagi.
    Non tutti i ricercatori sono comunque convinti che sia una componente genetica a determinare la capacità di produrre o meno quell’odore. Le cause potrebbero derivare da molte altre variabili, a cominciare dal modo in cui ciascuno digerisce gli alimenti e dai microbi presenti nella flora intestinale, che a seconda dei casi possono portare alla digestione e alla scomposizione di alcune sostanze e non di altre. Qualcosa di simile avviene del resto con altri alimenti, come l’aglio, che si rivelano essere poi molto odorosi una volta ingeriti per alcune persone e per altre no.
    Nel complesso gli studi condotti negli ultimi settant’anni hanno portato a conclusioni contrastanti segnalando l’esistenza di: persone che producono e percepiscono quel particolare odore nelle loro urine, persone che non producono quell’odore ma lo sentono nella pipì degli altri e persone che non riescono a percepirlo in assoluto. Considerato l’argomento e la sua minore importanza rispetto a molte questioni di salute, la letteratura scientifica intorno all’argomento non è molto ricca, ma l’argomento è stato comunque preso molto più sul serio di quanto avesse ipotizzato Benjamin Franklin a fine Settecento. LEGGI TUTTO

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    Iniziamo a capire qualcosa di più sul mercurio nei tonni

    Un’ampia ricerca da poco pubblicata sull’inquinamento da mercurio nei mari ha segnalato che in alcuni pesci – in particolare il tonno – la concentrazione di questo metallo è rimasta pressoché invariata dagli anni Settanta nonostante varie iniziative e un trattato per ridurre la sua dispersione nell’ambiente. La presenza del mercurio nel pesce può costituire un rischio nella fase di sviluppo del feto durante la gravidanza, ma può avere anche effetti sulla salute delle persone adulte. Secondo la ricerca, anche applicando più rigidamente i regolamenti internazionali potrebbero essere necessari decenni prima di rilevare una riduzione della concentrazione di mercurio nel tonno, tra i pesci più consumati al mondo.Mercurio e metilmercurioQuello che viene definito comunemente “mercurio nei mari” è in realtà il metilmercurio (o per meglio dire catione monometilmercurio), un composto che contiene un legame metallo-carbonio ed è quindi “metallorganico” (il carbonio è centrale nella produzione di composti organici e per la vita). Come suggerisce il nome, questa sostanza si forma a partire dal metallo attraverso l’attività di alcuni batteri anaerobi, cioè che vivono in assenza di ossigeno, e di altri microrganismi presenti soprattutto in laghi, fiumi, mari e sedimenti nelle zone umide. Più il mercurio è presente nell’ambiente, maggiore è la probabilità che una sua parte significativa venga trasformata in metilmercurio.
    Il mercurio si accumula nell’ambiente sia per fenomeni naturali, come l’attività dei vulcani e gli incendi stagionali nelle foreste, sia a causa dell’attività umana in particolare tramite la combustione dei combustibili fossili e in alcuni processi industriali, per esempio per la preparazione dell’acetaldeide, impiegata in alcuni fertilizzanti, nei solventi e in numerosi altri prodotti chimici.
    Fu proprio la produzione di acetaldeide a portare a una maggiore consapevolezza e sensibilizzazione sui rischi legati alle contaminazioni di mercurio, dopo il disastro ambientale scoperto a Minamata, una città nell’estremo occidente del Giappone. Tra gli anni Trenta e la fine degli anni Sessanta del secolo scorso un’industria chimica sversò nelle acque di scarico grandi quantità di metilmercurio che si accumulò in numerose specie marine, entrando poi nella catena alimentare e causando l’avvelenamento da mercurio di molte persone che abitavano nella zona. L’intossicazione fu tale da portare alla scoperta della cosiddetta “sindrome di Minamata”, una malattia che causa gravi problemi al sistema nervoso e che in alcuni casi può essere mortale.
    Il disastro di Minamata e alcuni altri casi simili portarono alla Convenzione di Minamata sul mercurio, un trattato internazionale adottato nel 2013 da circa 140 paesi per limitare le emissioni di mercurio e dei suoi composti nell’ambiente. La Convenzione è dedicata in particolare alla preservazione degli ambienti marini, dove soprattutto il metilmercurio tende a causare contaminazioni su larga scala all’interno della catena alimentare.
    Salute e alimentazioneIl metilmercurio ha un tempo di permanenza negli organismi relativamente lungo, di conseguenza attraversa buona parte della catena alimentare degli ambienti marini (“bioamplificazione”). Batteri e plancton contaminati diventano il cibo dei pesci più piccoli, che diventano quindi un pasto contaminato per i pesci più grandi e così via fino alle specie ittiche di maggiori dimensioni. Ciò determina un aumento della concentrazione di metilmercurio man mano che aumenta la stazza dei pesci, in particolare di quelli predatori. Molte specie ittiche vengono consumate da altri animali, come gli uccelli o gli esseri umani, che finiscono a loro volta con l’ingerire quella sostanza.
    Rappresentazione schematica della bioamplificazione del metilmercurio (Wikimedia)
    La concentrazione del metilmercurio nei pesci varia a seconda delle specie, della loro stazza, della loro età e naturalmente del luogo in cui sono cresciuti, che potrebbe essere più o meno contaminato. In una stessa specie, i pesci più anziani hanno in proporzione più metilmercurio di quelli più giovani, semplicemente perché sono stati esposti più a lungo a questa sostanza che impiega molto tempo per essere smaltita. Il metilmercurio ha infatti un’emivita intorno ai due mesi e mezzo nelle specie acquatiche: significa che la sua concentrazione si dimezza in quel periodo (dopo 2,5 mesi è metà, dopo altri 2,5 mesi è metà della metà e così via). I pesci in cui sono solitamente riscontrate le maggiori concentrazioni sono i pesci spada, gli squali e i tonni di grandi dimensioni e più anziani.
    Quando si mangia pesce contenente metilmercurio, questo viene assorbito dal sistema digerente e passa nella circolazione sanguigna, attraverso la quale si distribuisce in buona parte dell’organismo, compreso il sistema nervoso. La sua emivita nel sangue è di 50 giorni, ma è raro che con una normale alimentazione si raggiungano livelli da grave intossicazione, come avvenne per esempio a Minamata dove le concentrazioni erano molto alte.
    Le caratteristiche organiche del metilmercurio fanno sì che riesca a legarsi fortemente alle proteine, rendendo quindi più difficile la sua eliminazione da parte dell’organismo. Durante la gravidanza può avvenire il trasferimento al feto del metilmercurio assunto con l’alimentazione e sopra una certa soglia possono esserci rischi, legati per esempio a un minore sviluppo del sistema nervoso centrale; nelle persone adulte possono esserci maggiori rischi di sviluppare disturbi cardiovascolari.
    Stabilire limiti per il metilmercurio non è semplice e ancora oggi le soglie da stabilire sono piuttosto discusse tra gli esperti. L’Autorità europea per la sicurezza alimentare (EFSA) ha indicato una «dose tollerabile di assunzione» di 1,3 microgrammi per chilogrammo di massa corporea. È un indicazione che può apparire un poco criptica, considerato che nel momento in cui si consuma un piatto di pesce non si può sapere quale sia l’effettiva concentrazione (per il comparto alimentare ci sono comunque livelli massimi indicati nel regolamento dell’Unione Europea 2023/915). Per questo l’EFSA ha fornito indicazioni un poco più approssimative, ma utili nella vita di tutti i giorni.
    Il consiglio dell’EFSA, in linea con quelli di altre autorità ambientali e sanitarie in giro per il mondo, è di consumare pesce tra le due e le tre volte alla settimana, cercando di variare il più possibile i tipi di pesce e limitando il consumo di quelli di taglia medio-grande, che potrebbero avere un maggior contenuto di metilmercurio come pesci spada, naselli e tonni. Maggiori attenzioni dovrebbero essere mantenute per i bambini e dalle donne nel periodo della gravidanza, ma in generale l’EFSA invita comunque a mangiare pesce perché i suoi nutrienti sono comunque importanti nella fase della crescita e in età adulta. Come per molte altre cose che riguardano l’alimentazione, la questione di fondo è trovare un equilibrio tollerabile tra i rischi e i benefici portati dal consumo di un certo alimento.
    Emissioni e concentrazioneLe maggiori attenzioni portate dalla Convenzione di Minamata hanno contribuito negli ultimi decenni a ridurre la presenza di nuovo mercurio e nuovo metilmercurio negli ambienti marini, ma le analisi indicano che c’è comunque un certo accumulo che richiederà del tempo per essere smaltito. Lo studio, da poco pubblicato sulla rivista scientifica Environmental Science & Technology Letters, ha riguardato ricerche pubblicate nei decenni scorsi e nuovi dati che insieme hanno permesso di avere a disposizione analisi su quasi 3mila campioni di tonni, raccolti tra gli oceani Pacifico, Atlantico e Indiano negli ultimi 50 anni, con particolare attenzione ai tipi di tonno più pescati e consumati (tonno pinne gialle, tonno obeso e tonno skipjack).
    Dalle analisi è emerso che nonostante una riduzione nelle emissioni di mercurio a partire dagli anni Settanta, i livelli di metilmercurio nel tonno sono rimasti sostanzialmente invariati. Secondo la ricerca, la causa è probabilmente il modo in cui gli accumuli di metilmercurio si sono distribuiti nelle acque oceaniche. Il moto ondoso e la differenza di temperatura nell’acqua fa sì che in alcune circostanze questa sostanza raggiunga profondità meno basse, dove vivono i pesci che diventano poi prede dei tonni. Il processo non è però completamente chiaro, ma evidenzia una certa inerzia del sistema legata alle grandi quantità di mercurio accumulate nei secoli passati sia naturalmente sia in seguito alle emissioni derivanti dalle attività umane.
    Anche se i livelli di metilmercurio non sono diminuiti (nel caso del tonno skipjack c’è stato un lieve aumento, probabilmente dovuto alle maggiori emissioni di mercurio in Asia), c’è comunque una notizia incoraggiante: nessuno dei campioni analizzati ha fatto registrare concentrazioni superiori ai limiti per il consumo del tonno. Lo studio segnala comunque che le emissioni di mercurio dovranno essere ridotte molto di più per vedere una riduzione nella concentrazione di mercurio negli oceani nei prossimi 10-25 anni. A quel punto, per rilevare una riduzione nella concentrazione di metilmercurio nella carne del tonno e di altri pesci predatori potrebbero essere necessari diversi altri decenni. LEGGI TUTTO

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    Cos’è questa storia del riso alla carne coltivata

    Caricamento playerLa notizia di un nuovo riso arricchito con carne coltivata ha portato ulteriori elementi al già ampio e talvolta agguerrito dibattito sulle nuove tecnologie per produrre carne in modo più sostenibile. La novità è stata ripresa da molti giornali italiani, talvolta con qualche titolo creativo o allarmato, con il rischio di portare ulteriore confusione in un argomento complesso e dalle numerose implicazioni che ci riguarderanno sempre di più.
    Sulla rivista scientifica Matter, che fa parte del gruppo editoriale che pubblica anche la più famosa Cell, un gruppo di ricerca della Corea del Sud ha annunciato di essere riuscito a utilizzare il riso come “impalcatura” per far crescere piccole quantità di tessuto muscolare e di grasso sui chicchi, ottenendo un alimento con valori nutrizionali lievemente diversi rispetto a quelli del riso normale.
    L’esperimento non ha quindi riguardato in alcun modo la modifica genetica della pianta del riso e di conseguenza non ha portato alla formazione di nessun “ibrido” propriamente detto, anche se da alcuni articoli su agenzie di stampa e giornali poteva sembrare il contrario. Il lavoro di ricerca è consistito nello sperimentare un sistema alternativo per far crescere la carne, rispetto a quelli esplorati finora in numerosi laboratori in giro per il mondo.

    – Ascolta anche: La puntata di Ci vuole una scienza sulla “carne sintetica”

    A causa della mancanza di prodotti alternativi che si avvicinino all’esperienza di mangiare della carne (in particolare di bovino, la cui produzione ha un alto impatto ambientale), da tempo si cerca di creare della carne in vitro, cioè partendo da cellule animali che vengono fatte crescere e differenziare per produrre tessuti, imitando ciò che avviene normalmente con la crescita di un essere vivente. Le tecniche più diffuse prevedono di partire da cellule staminali, che non sono quindi ancora specializzate e che hanno la potenzialità di differenziarsi nei vari tipi di cellule mature che costituiscono poi un tessuto.
    Le cellule non sono “sintetiche”, ma derivano da un prelievo effettuato da animali già vivi o da embrioni, a seconda delle tecniche utilizzate. Dopo essere state selezionate e isolate, le cellule staminali vengono inserite in contenitori nei quali è presente un terreno di coltura, di solito una soluzione che contiene sostanze nutrienti di vario tipo. In questo modo le cellule iniziano a crescere e a replicarsi, ma il procedimento non è sufficiente per arrivare a un tessuto paragonabile al muscolo di un animale, cioè alla carne che si consuma normalmente. Le cellule hanno bisogno di una sorta di impalcatura che le sostenga, che le aiuti a svilupparsi e a continuare a differenziarsi e proliferare.
    La costruzione di questa impalcatura si è rivelata il passaggio più difficile da realizzare nella produzione della carne coltivata e per questo, da diverso tempo, vari gruppi di ricerca sono al lavoro per trovare il giusto sistema per realizzarlo. Il gruppo di ricerca sudcoreano si è quindi chiesto se non fosse possibile cambiare approccio, rinunciando a una impalcatura troppo complessa e sfruttando un alimento molto diffuso come il riso, sul quale far crescere minuscoli pezzi di carne.
    Come spiega lo studio su Matter, un primo tentativo era consistito nel far crescere cellule di bovino direttamente nelle minuscole fessure e irregolarità di ogni singolo chicco di riso, ma non aveva portato ai risultati sperati perché le cellule non si fissavano sulla sua superficie. Il gruppo di ricerca aveva allora esplorato varie alternative per favorire il legame tra riso e cellule, scoprendo di poter ottenere buoni risultati con la colla di pesce e la transglutaminasi, un enzima molto utilizzato nelle preparazioni di alimenti come alcuni tipi di salsicce, würstel o nel surimi (l’imitazione della polpa di granchio).
    (Yonsei University)
    I chicchi di riso crudi erano stati quindi glassati con quei due ingredienti e poi sottoposti al processo di coltivazione, usandoli come impalcatura sulla quale far aggregare e crescere le cellule di muscolo e grasso animale. Il preparato era stato tenuto poi in un terreno di coltura per circa una settimana, dando il tempo alle cellule di espandersi.
    Terminato il periodo di coltura, il riso era stato lavato e fatto bollire, come per la preparazione di un normale piatto di riso. Il gruppo di ricerca ha poi assaggiato il risultato finale, segnalando di avere assaggiato chicchi con un sapore lievemente diverso dal solito, con note di frutta secca, probabilmente dovute alla presenza dei minuscoli pezzi di carne.
    Il riso è stato poi analizzato per calcolarne i valori nutrizionali rispetto a una porzione identica, ma non sottoposta all’aggiunta della carne coltivata. Le differenze riscontrate non sono state enormi, ma comunque non trascurabili: tra riso normale e trattato c’è una differenza del 9 per cento di proteine e del 7 per cento di grasso a favore del secondo. Mangiarne circa 100 grammi equivale a mangiare poco meno di un etto di riso e un grammo di bistecca di manzo. Il contenuto di carne è quindi minimo, probabilmente perché le cellule creano una sottilissima pellicola intorno a ogni chicco, ma secondo il gruppo di ricerca ci sono margini per aumentarne in modo significativo la quantità.
    La produzione potrebbe essere relativamente semplice, perché esclude buona parte delle complicazioni legate alla costruzione dell’impalcatura per produrre pezzi di carne più grandi e dalla giusta consistenza, paragonabili quindi a una normale bistecca. Il riso con carne coltivata sarebbe meno costoso e avrebbe inoltre il pregio di avere un basso impatto ambientale, soprattutto dal punto di vista delle emissioni, se confrontato con la carne ottenuta dagli allevamenti. Il riso è inoltre uno degli alimenti più consumati in Asia e potrebbe aiutare a risolvere i problemi della malnutrizione, legata a un’assunzione non adeguata di proteine. Ci sono però molti aspetti da chiarire sulla praticità del sistema, soprattutto se confrontato con alternative per rendere direttamente più proteico il riso, intervenendo con tecniche di editing genetico.
    Come avviene spesso in questo ambito, al momento il lavoro svolto in Corea del Sud è sperimentale e dimostrativo: sarà necessario ancora del tempo prima di una eventuale messa in vendita, anche perché al momento solamente Stati Uniti e Singapore rendono possibile la commercializzazione di prodotti contenenti carne coltivata. Secondo il gruppo di ricerca, una produzione su scala industriale potrebbe comunque consentire di contenere i costi e di avere un riso con carne coltivata che costa l’equivalente di pochi centesimi di euro in più al chilogrammo rispetto al riso non trattato. LEGGI TUTTO

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    In Europa le alghe a tavola andavano forte

    Le alghe sono un ingrediente importante nella cucina di molti paesi asiatici, mentre sono pressoché assenti dalla tradizione culinaria europea. La nostra esperienza a tavola raramente si spinge oltre le alghe utilizzate come guarnizione di un piatto o come sperimentazione di qualche estroso chef, eppure secondo uno studio condotto sui resti di alcuni nostri antenati sembra che tra l’età della pietra e il Medioevo il consumo di alghe fosse diffuso in buona parte dell’Europa. Il gruppo di ricerca ritiene che si utilizzassero sia le alghe di mare sia quelle di acqua dolce, seppure con qualche differenza a seconda della vicinanza o meno alle aree costiere.Lo studio, pubblicato sulla rivista scientifica Nature Communications, ha preso in considerazione i resti di 74 individui provenienti da una trentina di siti archeologici in Europa, risalenti a migliaia di anni fa quando le società erano di cacciatori-raccogliotori, al successivo sviluppo dell’agricoltura e infine alle società più evolute e organizzate del Medioevo. Per capire quale fosse la loro dieta, il gruppo di ricerca ha analizzato i depositi di tartaro sulla loro dentatura, utilizzando un sistema per analizzarne la composizione molecolare.– Leggi anche: Perché non mangiamo tanto i fioriIl tartaro si forma a causa della placca batterica e dei sali presenti nella saliva, con depositi che si calcificano e al cui interno rimangono intrappolate altre sostanze la cui presenza può essere rilevata anche dopo molto tempo. Prelevando campioni di tartaro e analizzandoli, il gruppo di ricerca ha identificato molecole tipiche di alcune specie di alghe, che evidentemente erano state masticate ed era una costante nella dieta di quegli individui. Come prevedibile, la presenza di tracce molecolari delle alghe è risultata più marcata nei resti trovati in siti archeologici sulle zone costiere, ma sono stati comunque trovati indizi sul consumo di piante acquatiche anche nell’entroterra, dove si consumavano specie vegetali provenienti da laghi e stagni.(Nature Communications)In passato altri studi avevano indagato le abitudini alimentari delle persone vissute migliaia di anni fa, basandosi soprattutto sui resti di animali e molluschi – come ossa e conchiglie – che possono essere ritrovati con relativa facilità nei siti archeologici. Ricostruire la dieta legata ai vegetali è invece più difficile, perché raramente si trovano indizi sufficienti, per esempio sugli utensili e le suppellettili. L’analisi di carbonio e azoto sui reperti può rivelare la presenza di resti animali, mentre più raramente dà qualche indicazione sui vegetali. Il gruppo di ricerca ha quindi seguito un approccio diverso, cercando le “firme biologiche” dei vegetali con un sistema di analisi molecolare.Il consumo di alghe era stato ipotizzato in precedenti studi per le popolazioni europee vissute nel Mesolitico, il periodo intermedio dell’età della pietra tra i 12mila e i 10mila anni fa. Si riteneva che gli individui dell’epoca fossero grandi consumatori di alghe, ma che l’abitudine alimentare si sarebbe persa quando iniziò a diffondersi l’agricoltura e a ridursi la necessità di cacciare e raccogliere dagli ambienti naturali. Il nuovo studio mette fortemente in dubbio questa ipotesi, segnalando come il consumo di alghe fosse ancora continuato a lungo per svariati millenni.Non è chiaro che cosa determinò la fine del consumo di alghe in epoca medievale in Europa e la ricerca non fa ipotesi al riguardo. Non ci sono inoltre molte fonti sul loro utilizzo nei documenti del Medioevo, circostanza che spinge a qualche cautela e alla necessità di effettuare ulteriori approfondimenti per esempio analizzando ulteriori campioni da altri siti archeologici.Laverbread (Wikimedia)Alcune tracce dell’impiego delle alghe nella cucina europea sono comunque arrivate fino ai giorni nostri. Nel Galles si prepara ancora il “laverbread”, una pietanza a base di Porphyra umbilicalis e di Ulva lactuca, due specie di alghe che vengono fatte bollire fino a quando iniziano a disfarsi. Il risultato finale è una sorta di pasta gelatinosa che può essere mangiata da sola, oppure per accompagnare piatti a base di carne. In Asia diverse alghe appartenenti al genere Porphyra sono impiegate per numerose preparazioni, l’utilizzo più noto è quello per il sushi (nori).In generale, le alghe sono nutrienti e possono far parte della dieta, a patto di non eccedere a causa del loro alto contenuto di iodio. Sono disponibili durante tutto l’anno e spesso in grandi quantità, circostanze che probabilmente influirono sul loro consumo un tempo in Europa e che ancora oggi determina un loro ampio utilizzo nei paesi orientali. LEGGI TUTTO