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    Perché non ci sono mammiferi verdi?

    Il colore verde di solito si associa al concetto di natura: sono verdi le foglie delle piante e lo sono molti animali, tra cui diversi tipi di insetti, molluschi e di vertebrati, in particolare tra i pesci, gli anfibi, i rettili e gli uccelli. Non sono verdi invece i mammiferi, la classe di animali vertebrati in cui rientrano anche gli umani: una peculiarità che nel tempo ha suscitato la curiosità dei lettori di riviste di divulgazione scientifica e dei frequentatori di forum online.Alla domanda “perché non ci sono mammiferi verdi?” non si può rispondere in modo univoco. La questione si può prendere da diversi punti di vista: quello dei ragionamenti sui vantaggi evolutivi dell’avere il pelo o la pelle di un colore piuttosto che di un altro, e quello sulle caratteristiche fisiche proprie dei peli, uno degli attributi che distinguono i mammiferi dagli altri animali.
    I colori della parte più esterna dei corpi degli animali, che si tratti di pelle nuda, squame, penne o peli, possono essere dovuti a due diversi meccanismi fisici. «Uno è la presenza di pigmenti all’interno delle cellule», spiega Adriano Martinoli, zoologo esperto di mammiferi e professore dell’Università dell’Insubria, nonché coautore del podcast del Post sulle specie aliene Vicini e lontani. I pigmenti sono sostanze colorate che determinano il colore di un tessuto. «E il colore dei pigmenti presenti in alcune cellule si può mischiare, non fisicamente ma alla vista, a quello di pigmenti contenuti in altre cellule, producendo nuovi colori».
    È un pigmento verde la clorofilla, la sostanza presente nelle cellule delle foglie che assorbe parte dell’energia del Sole che alimenta le piante. In autunno, quando le ore di luce diminuiscono, le cellule contenenti la clorofilla di molte piante diventano meno vitali e riducono via via la fotosintesi clorofilliana: come conseguenza le foglie cambiano colore, perché diventano visibili altre sostanze, in precedenza oscurate dal verde della clorofilla. Sono ad esempio i carotenoidi che hanno colori caldi che variano dal rosso al giallo. I pigmenti contenuti all’interno della pelle umana (oltre che nei capelli) sono invece le melanine: il colore varia in base alla quantità e al tipo di queste sostanze, fattori che sono influenzati dai geni e dall’esposizione alla luce solare.
    Il colore di un animale però può essere dovuto anche a qualcosa di più complesso, cioè a una «microstruttura fisica superficiale che riflette la luce in un certo modo», spiega Martinoli: «Ad esempio la colorazione scrotale di molti primati durante il periodo riproduttivo non è dovuta a un pigmento, ma alla riflessione della luce. Nelle cellule dell’epidermide infatti ci sono delle microstrutture che, riflettendo la luce, fanno apparire la superficie della pelle stessa di un certo colore, cosa che in realtà non è».
    È il caso della pelle dei mandrilli, i primati dell’Africa centro-occidentale noti per i colori sgargianti dei loro musi, rossi e blu. Il rosso è dovuto all’emoglobina, una proteina di colore rosso presente nel sangue (e quindi un pigmento), mentre il blu ha un’origine diversa. I pigmenti azzurri sono molto rari in natura e nel caso dei mandrilli il blu è prodotto dal modo in cui sono disposte le fibre di collagene nella loro pelle (il collagene è a sua volta una proteina). È un meccanismo che riguarda anche i colori delle penne di molti uccelli variopinti: non contengono pigmenti colorati, tant’è che se le si guarda ingrandite al microscopio le si vede bianche e marroncine.
    Una femmina di mandrillo e il suo piccolo nello zoo di New Orleans, negli Stati Uniti, nel 2020 (AP Photo/Gerald Herbert)
    Il fenomeno fisico responsabile di questi colori è simile a quello per cui il cielo diurno appare azzurro.
    La luce solare è una radiazione elettromagnetica ed è composta da onde di diversa frequenza. A ciascuna corrisponde un colore diverso, in uno spettro che va dal rosso al violetto, passando per l’arancione, il giallo, il verde e il blu. Quando la luce passa attraverso l’atmosfera non viene diffusa tutta allo stesso modo: quella a cui corrispondono frequenze più alte è diffusa molto di più per come sono fatte le particelle dell’atmosfera, e quindi vediamo il cielo azzurro perché la luce che è riflessa e che ci arriva è principalmente di questo colore. Anche il violetto corrisponde a un’alta frequenza ma il sole emette più luce blu che violetto.
    Qualcosa di analogo avviene con le penne degli uccelli o con la pelle di certi animali: in quest’ultimo caso c’entra la struttura microscopica del collagene.
    La struttura fisica dei peli, che sostanzialmente sono tubi di cheratina poco complicati, non consente di produrre questo tipo di effetto, a differenza delle più complesse penne degli uccelli. E per quanto riguarda i pigmenti può contenere solo i diversi tipi di melanina, che danno colori che variano tra il giallo e il marrone scuro. La feomelanina ad esempio dà sfumature tra il giallo e il rossiccio, mentre l’eumelanina è responsabile dei marroni scuri, che in alcuni casi arrivano vicino al nero. Quando i peli sono bianchi significa che non contengono pigmenti e il grigio è dato da una mescolanza di nero e bianco. Il rosso del pelo di certi mammiferi è comunque diverso da quello più acceso del piumaggio di alcuni uccelli, che invece è dovuto a un tipo di pigmenti che i mammiferi non hanno: i carotenoidi.

    – Leggi anche: Perché i capelli diventano bianchi

    A questa riflessione più strettamente legata alla fisica si può aggiungere un ragionamento sui vantaggi evolutivi legati al colore, basato su ciò che sappiamo della storia dei mammiferi. I mammiferi derivano da un gruppo di rettili ancestrale, come pure gli uccelli. Come spiega Martinoli, in questo gruppo probabilmente mancava già la capacità di produrre alcuni pigmenti, quindi non è stata ereditata. Oppure può darsi che la capacità ci fosse ma sia andata persa nel corso dell’evoluzione perché non era utile, cioè non forniva vantaggi adattativi.
    Infatti in origine i mammiferi occupavano «nicchie biologiche»: in un mondo in cui gli animali dominanti più diffusi sulla Terra erano rettili, i mammiferi vivevano nei pochi contesti rimasti liberi. Erano perlopiù animali di piccola o piccolissima taglia attivi di notte. Per questo è probabile che non avessero bisogno di avere un aspetto vistoso e colori sgargianti, così come una vista raffinata: l’olfatto e l’udito erano sensi più rilevanti.
    C’è anche un altro aspetto, cioè che la gran parte dei mammiferi ha una visione in bianco e nero, dicromica. La presenza dei colori non sarebbe stata utile per l’accoppiamento, come succede invece per molte specie di uccelli in cui i maschi attraggono le femmine anche per la qualità del loro piumaggio.
    I colori dei mandrilli, che sono primati (e quindi mammiferi) si spiegano per via di una peculiarità dei primati stessi. «Per dei casi fortuiti di mutazioni degli occhi i primati fanno eccezione e hanno una visione tricromica, cioè vedono i colori», prosegue ancora Martinoli. «E pare che nei primati ancestrali questa visione dei colori sia stata una chiave di successo, perché permetteva di distinguere molto bene i frutti maturi». Sarebbe stato un vantaggio evolutivo importante.

    – Leggi anche: La vita notturna salvò i mammiferi dai dinosauri

    Per quanto riguarda il mimetismo, cioè l’abilità di confondersi con l’ambiente, i colori vicini al marrone di molti piccoli mammiferi sono adatti a non risaltare al suolo e nel sottobosco. E anche pellicce che a noi possono apparire vistose, come quelle delle tigri, sono in realtà adatte al mimetismo se ci si vuole nascondere da animali (prede in questo caso) che hanno una visione dicromatica.
    In un certo senso comunque dei mammiferi col pelo verde ci sono, anche se non si tratta di pelo propriamente verde. Sono i bradipi, gli animali noti per la lentezza nei movimenti che vivono sugli alberi in alcune regioni dell’America centrale e meridionale: sui loro peli crescono delle alghe che fanno la fotosintesi, dunque sono verdi e danno questa sfumatura alla pelliccia dei bradipi. Gli scienziati ritengono che la presenza delle alghe sia vantaggiosa: sia perché consente di mimetizzarsi meglio tra le foglie degli alberi e nascondersi dai predatori, sia perché è una fonte aggiuntiva di cibo.
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    – Leggi anche: Perché i bradipi sono così lenti LEGGI TUTTO

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    Best of bestie

    Una delle raccolte più longeve del Post, tanto da guadagnarsi la sua quota di lettori affezionati, è quella delle foto di animali (o “bestie”, come le chiamiamo affettuosamente) e qui trovate la selezione delle migliori dell’anno, secondo noi. Ci teniamo sempre a dire che che gli animali mostrati sono solo una piccolissima parte di quelli con cui condividiamo il pianeta: le immagini vengono dalle agenzie fotografiche, i cui fotografi le scattano per lo più negli zoo, in riserve naturali o situazioni di vita quotidiana urbana. A volte le foto vengono scelte perché sono buffe, in altri casi perché dicono qualcosa di una specie o del contesto in cui vive (sempre più spesso minacciato dal cambiamento climatico). Sono però un invito a osservare bene, a scoprire un dettaglio in più e magari a guardare con occhi diversi gli stessi animali, anche quelli incontrati ogni giorno fuori dallo schermo. LEGGI TUTTO

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    È iniziato l’inverno

    Caricamento playerAlle 4:27 di venerdì mattina c’è stato il solstizio d’inverno, cioè il momento astronomico nel corso del moto annuale di rivoluzione della Terra in cui nell’emisfero boreale si fa cominciare la stagione invernale. Nel nostro emisfero il giorno del solstizio d’inverno è quello con meno ore di luce dell’anno, mentre quello d’estate è il giorno con più luce. I solstizi, come gli equinozi, sono fenomeni astronomici semplici da osservare, ed è per questo che storicamente molte culture li hanno utilizzati per determinare, con qualche approssimazione, il susseguirsi delle stagioni.
    Le stagioni però non cambiano sempre lo stesso giorno, perché sia i solstizi che gli equinozi sono eventi collegati a fenomeni che prescindono dai nostri calendari e di anno in anno possono variare nell’arco di un paio di giorni a causa della diversa durata dell’anno solare e di quello del calendario: la stessa ragione per cui ci sono gli anni bisestili.
    In Italia in genere la primavera comincia tra il 20 e il 21 marzo, l’estate tra il 20 e il 21 giugno, l’autunno tra il 22 e il 23 settembre e tra il 21 e il 22 dicembre l’inverno, che questa volta durerà fino al prossimo 20 marzo, quando ci sarà l’equinozio di primavera. Ci sono anche casi rarissimi, in cui il solstizio d’inverno può essere anche il 20 o il 23 dicembre: l’ultima volta che c’è stato un solstizio di inverno il 23 dicembre era il 1903, mentre la prossima non dovrebbe capitare prima del 2300.

    Oltre alle stagioni astronomiche ci sono anche quelle meteorologiche, che iniziano in anticipo di una ventina di giorni rispetto a solstizi ed equinozi e durano sempre tre mesi. Indicano con maggiore precisione i periodi in cui si verificano le variazioni climatiche annuali, specialmente alle medie latitudini con climi temperati.
    I solstizi e gli equinozi dividono il tragitto che la Terra compie attorno al Sole – detto “moto di rivoluzione” – in quattro parti di tre mesi circa ciascuna, ognuna delle quali è una stagione. Misuriamo i giorni in 24 ore e l’anno in 365 giorni, ma in realtà la Terra impiega tempi leggermente diversi a ruotare su se stessa e a compiere la propria orbita attorno al Sole: è proprio per questo che l’ora e il giorno degli equinozi non sono fissi, ma variano di anno in anno.
    Il solstizio è il momento in cui il Sole raggiunge il punto di declinazione massima o minima nel suo moto lungo l’eclittica, cioè il percorso apparente che il Sole compie in un anno rispetto alla sfera celeste (ovvero il cielo, per come lo vediamo dalla Terra). È un moto “apparente” perché in realtà per il sistema solare è la Terra a girare intorno al Sole, ma muovendoci noi con il pianeta abbiamo l’impressione che a spostarsi nel cielo sia il Sole e non viceversa.
    Il Sole raggiunge il valore massimo di declinazione positiva a giugno (quando iniziano l’estate nel nostro emisfero e l’inverno in quello australe), mentre a dicembre raggiunge il valore massimo di declinazione negativa (segnando l’inizio dell’inverno boreale e dell’estate australe).

    – Leggi anche: L’invenzione dell’inverno LEGGI TUTTO

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    La Commissione Europea ha proposto di ridurre la protezione per i lupi

    La Commissione Europea ha presentato una proposta per cambiare la classificazione del lupo grigio da specie «rigorosamente protetta» a «protetta», una modifica alle norme europee che di fatto renderebbe più semplice la caccia ai lupi. Secondo la Commissione, ci sono buoni motivi per farlo perché la popolazione di questi animali è continuata a crescere in diversi paesi europei, ma la proposta è stata criticata da numerose associazioni ambientaliste che ritengono non ci siano basi scientifiche per ritenere di nuovo praticabile la caccia.La protezione molto rigida che determina il divieto di caccia per i lupi è contenuta nella Convenzione di Berna e nella Direttiva 92/43/CEE sulla conservazione degli habitat naturali. Le norme stabiliscono che, salvo alcune eccezioni per particolari territori, nell’Unione Europea non si possono cacciare né catturare i lupi, salvo che questi non costituiscano un immediato e diretto pericolo per la popolazione o per il bestiame. I provvedimenti erano stati assunti per favorire il ripopolamento del lupo grigio, che rischiava di scomparire in molte aree dell’Europa occidentale determinando una riduzione della biodiversità, cioè della varietà di specie viventi che popolano un determinato ambiente.
    Da tempo alcune associazioni del settore agricolo e dell’allevamento chiedevano alla Commissione di intervenire sulle regole, segnalando un aumento dei casi di danni causati dai lupi. La presidente della Commissione, Ursula von der Leyen, aveva mostrato negli ultimi mesi un particolare interesse alla questione, anche in vista delle elezioni europee del prossimo anno: allevamento e agricoltura costituiscono una parte importante dell’economia europea e hanno grandi capacità di influenza. Da qualche mese si dice che von der Leyen sia interessata al problema anche per un altro motivo: la presidente della Commissione è un’appassionata cavallerizza e l’anno scorso un lupo aveva ucciso la sua pony Dolly.
    Associazioni ambientaliste e per la protezione degli animali non sono però d’accordo con la proposta della Commissione, accusata di non essersi basata sulle prove scientifiche che mostrano come i lupi siano ancora in pericolo in parte dell’Europa occidentale. La modifica ai regolamenti, dicono, renderebbe molto più difficile se non impossibile il ripopolamento di alcune aree, vanificando i progressi raggiunti negli ultimi decenni.
    Nonostante i problemi che ci sono stati in alcuni contesti, i casi di lupi “confidenti”, cioè che mostrano di non aver paura degli umani e in più occasioni si sono avvicinati a meno di 30 metri dalle persone, sono rari. Nel 2022 l’ISPRA aveva conteggiato solo 23 casi di lupi confidenti in Italia nei dieci anni precedenti, sulla popolazione complessiva di 3.300.
    Per cambiare il livello di protezione dei lupi, la decisione dovrà essere approvata da tutti gli stati membri e dagli altri soggetti che fanno parte della Convenzione di Berna. LEGGI TUTTO

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    Lo scienziato che non è voluto tornare in aereo dalla sua missione in Papua Nuova Guinea

    Gianluca Grimalda è un ricercatore in scienze sociali applicate all’ambiente che per sette mesi ha studiato il rapporto tra globalizzazione, cambiamenti climatici e coesione sociale sull’isola di Bougainville, al largo della costa orientale della Papua Nuova Guinea. A settembre, al momento di rientrare in Europa, si è rifiutato di farlo in aereo. Per questo l’Istituto di Kiel per l’Economia Mondiale, per cui lavorava come ricercatore senior, lo ha licenziato.Da tredici anni Grimalda ha scelto di viaggiare con mezzi a ridotte emissioni di anidride carbonica per via dei contributi dei trasporti aerei al cambiamento climatico causato dalle attività umane. Al termine del periodo di ricerca pensava di tornare in Europa senza volare, così come aveva fatto per arrivare nel Pacifico a inizio anno. L’istituto tedesco, però, prima ha chiesto il suo rientro immediato e poi l’11 ottobre, dopo il suo rifiuto, ha inviato una lettera di licenziamento ufficiale.Grimalda sta comunque tornando via mare e via terra. Ha già attraversato Papua Nuova Guinea, Indonesia (passando in nave attorno all’isola di Giava e spostandosi in bus nel nord dell’isola di Sumatra), Singapore, Thailandia e Laos. Ora è diretto in Cina, e da lì passerà per Pakistan (attraverso la catena montuosa del Karakorum, nella speranza che la neve sulle strade non lo obblighi a una sosta), Iran, Turchia, Grecia, fino ad arrivare in Italia per Natale. Avrebbe voluto attraversare il Myanmar, ma a causa della difficoltà di accesso ai confini, per via del conflitto tra giunta militare e forze alleate ad Aung San Suu Kyi, ha dovuto cambiare piani e passare dalla Cina.Gianluca Grimalda a Luang Prabang, Laos.In merito alla decisione di non viaggiare in aereo, Grimalda dice di aver sentito, come scienziato, «che era la cosa giusta da fare, per me e per la collettività». «Secondo i miei calcoli, in costante aggiornamento, viaggiando in superficie arriverò a risparmiare rispetto all’aereo circa 4,5 tonnellate di CO2, emettendone in totale 500 kg» dice al telefono mentre viaggia su un autobus per raggiungere Vientiane, la capitale del Laos. Per Grimalda questo modo di viaggiare valorizza anche il suo progetto di ricerca, permettendogli di comprendere come la cultura del luogo influenzi la percezione e l’atteggiamento delle popolazioni nei confronti del contrasto alla crisi climatica.Geograficamente territorio delle Isole Salomone, politicamente parte della Papua Nuova Guinea dal 1975, l’isola di Bougainville dove Grimalda ha vissuto in questi mesi è tra le regioni del Pacifico più vulnerabili alle conseguenze del riscaldamento globale. I suoi abitanti negli ultimi anni sono stati costretti a spostare interi villaggi nell’entroterra per far fronte all’innalzamento del livello del mare, e a piantare foreste di mangrovie nel tentativo di arginare l’erosione costiera.– Leggi anche: Il problema più grande del trasporto aereoA partire dal 1988 Bougainville è stata al centro di una ribellione della popolazione locale contro la società che gestiva una delle più grandi miniere di rame e oro del mondo, la miniera di Pangua. Una ribellione nata a causa dei danni ecologici e sociali provocati dalla miniera e che si trasformò in pochi mesi in una guerra indipendentista, protrattasi fino al 1997, considerata da molti il più grande conflitto in Oceania dalla fine della Seconda guerra mondiale. Nel 2019 la regione votò a favore dell’indipendenza, ma ancora oggi si attende la proclamazione ufficiale da parte del governo della Papua Nuova Guinea, che rimanda il processo per evitare di perdere parte del suo territorio e creare un precedente.Sull’isola le persone bianche sono spesso definite giaman (“colui che mente” in tok pidgin, la lingua locale): Grimalda, non volendo confermare questo stereotipo, ha promesso alla comunità di Bougainville di mantenere il suo impegno per minimizzare il più possibile l’impatto ambientale dei suoi viaggi. Dopo il licenziamento, un portavoce dell’Istituto di Kiel ha detto che in generale la loro politica è di incoraggiare il proprio personale a viaggiare in maniera sostenibile. Quando possibile, si impegnano a fare a meno degli spostamenti in aereo. Se invece ritengono che i voli degli accademici siano inevitabili, promettono il pagamento di una tassa di compensazione all’organizzazione Atmosfair. È stato proposto anche a Grimalda, la cui posizione è stata però inamovibile.Dal 2021 Grimalda è anche attivista della rete italiana e tedesca di Scientist Rebellion, un movimento nato nel 2020 in Inghilterra e oggi attivo in più di 30 paesi: dalla Colombia alla Repubblica Democratica del Congo, dalla Danimarca all’India. È composto da scienziati e accademici, studenti e professori provenienti sia dai dipartimenti di fisica, matematica e chimica, sia dai dipartimenti di scienze sociali, psicologia, filosofia e antropologia. «Alla base del movimento c’è l’idea che se non fanno attivismo le persone che studiano il cambiamento climatico, come possiamo aspettarci che lo facciano gli altri?» spiega Lorenzo Masini, biotecnologo e attivista di Scientist Rebellion dal 2022.– Leggi anche: Abbiamo fatto progressi con la COP28?Gli attivisti del movimento sono impegnati soprattutto in attività di divulgazione e sensibilizzazione, nel tentativo di contribuire a ridurre le emissioni di gas serra nell’atmosfera. Chiedono un’azione immediata e più efficace da parte dei governi, delle industrie e della finanza sul tema della crisi climatica, individuando e proponendo soluzioni a breve e medio termine. Solo in alcuni casi sono attivi in pratiche di resistenza civile nonviolenta.Storicamente, diversi scienziati hanno visto nell’impegno politico da parte di alcuni colleghi un atteggiamento che potrebbe comprometterne la credibilità e il lavoro, ritenendo che l’imparzialità sia un criterio fondamentale della ricerca scientifica. Non tutta la comunità è però d’accordo con questa posizione. Come ipotizza un articolo pubblicato ad agosto dall’Istituto di Scienze Ambientali di Londra, non partecipare al dibattito pubblico e impegnarsi in azioni concrete potrebbe ridurre il ruolo delle evidenze scientifiche nelle decisioni politiche e collettive. Rose Abramoff, scienziata del cambiamento climatico, Peter Kalmus, scienziato del clima del NASA Jet Propulsion Laboratory, e altri colleghi attivisti di Scientist Rebellion credono sia loro responsabilità morale contribuire a sensibilizzare la società sui pericoli del cambiamento climatico. Non solo riguardo alle violente tempeste, alla siccità, agli incendi e alle ondate di caldo già in atto, ma anche a probabili carestie, migrazioni di massa e guerre che si prevedono per il futuro.Grimalda a Bougainville.Diana R. Fisher, collaboratrice dell’IPCC dell’ONU, il principale organismo scientifico internazionale per la valutazione dei cambiamenti climatici, ed esperta di attivismo ambientale e movimenti sociali dell’università del Maryland, ha detto al Washington Post che le controparti con cui i manifestanti si trovano a confrontarsi – come l’industria petrolifera e la disinformazione sul clima – sono così imponenti che per portare a un cambiamento radicale serve «un grande shock al sistema». Ma mentre molti ritengono che l’impegno pubblico degli accademici migliori anche la comprensione del tema da parte della popolazione, altri come Peter Edwards, professore di chimica all’Università di Oxford, considerano più importante concentrarsi su soluzioni tecnologiche e meno su quelle politiche.Altri ancora, come l’ingegnere ambientale americano David Sedlak, ritengono che il coinvolgimento degli scienziati nell’attivismo possa danneggiare le relazioni commerciali e governative già delicate, su cui gli accademici fanno affidamento per finanziare il loro lavoro. L’attivismo accademico in effetti spesso comporta un alto livello di rischio personale o professionale, fino ad arrivare – come nel caso di Grimalda – anche a perdere il lavoro; ma secondo un’indagine della rivista The Conversation, che ha coinvolto oltre 2.200 scienziati della Union of Concerned Scientists Science Network, il 75% degli intervistati ha affermato che il proprio attivismo scientifico ha avuto il sostegno dei propri datori di lavoro.– Leggi anche: Gli attivisti per il clima mettono in conto di essere odiatiPer il movimento Scientist Rebellion qualsiasi azione volta alla decarbonizzazione è giusta ed è necessario metterla in atto. «La temperatura terrestre si alza in modo inerziale», sottolinea Masini. «Vuol dire che sentiamo l’aumento della temperatura con qualche anno, anche con qualche decennio di ritardo rispetto a quando l’anidride carbonica viene emessa». Nel 2018 l’IPCC, che raccoglie scienziati, delegati, osservatori e revisori provenienti da 195 paesi, aveva redatto il quinto rapporto di valutazione sui cambiamenti climatici. In quell’occasione l’IPCC definiva come “senza precedenti” la sfida necessaria per contenere il riscaldamento globale. Nell’ultimo rapporto pubblicato a marzo 2023, l’obiettivo è stato presentato come ancora più urgente.Alla conferenza sul clima di Parigi del 2015 (COP21), che rappresenta il punto di riferimento fondamentale per le politiche globali di riduzione delle emissioni di gas serra, i paesi membri si accordarono per mantenere il riscaldamento globale entro 1,5 °C rispetto alla temperatura media globale preindustriale. Secondo l’IPCC questo sarebbe ancora possibile attraverso un taglio netto delle emissioni entro il 2030. Ma un nuovo rapporto del Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente (UNEP), uscito a novembre di quest’anno, rivela che le emissioni globali di gas serra nel 2023 stanno raggiungendo i massimi storici. Molti scienziati hanno dimostrato che, se dovessimo passare da un aumento di 1,5 °C a uno di 2 °C, dovremo affrontare probabili eventi cataclismatici di portata mai vista, il raddoppio del numero di estinzioni di specie animali e una riduzione drastica dei territori oggi coltivati a grano e mais (elementi fondamentali del settore alimentare).– Leggi anche: È molto probabile che supereremo il limite di 1,5 °C entro il 2027«Circa 12mila anni fa, durante l’epoca geologica definita Olocene, il luogo dove adesso c’è Manhattan era sotto dieci chilometri di ghiaccio» spiega Grimalda. «Dove vivo io in Germania c’erano ghiacci per dieci chilometri di altezza. Un ambiente incredibilmente diverso da quello che abbiamo ora. La temperatura globale, allora, era di solo 4 °C inferiore a quella odierna».Le brande nella terza classe di un traghetto indonesiano. (Gianluca Grimalda)Grimalda al posto di prendere l’aereo ha scelto di percorrere 27mila chilometri, attraversare dodici paesi, salire su navi cargo, traghetti, treni, bus e impiegare all’incirca due mesi di tempo per tornare a casa. «Il mio è stato un atto simbolico», dice. «Per un ricercatore si può stimare che il 90% delle proprie emissioni sia causato dal prendere aerei». Grimalda non pensa che tutti dovrebbero fare scelte radicali come le sue, ma è convinto che la somma di azioni individuali potrebbe portare a un vero cambiamento collettivo. LEGGI TUTTO

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    Weekly Beasts

    Non è insolito che nei dintorni di Downing Street, la residenza del primo ministro britannico a Londra, si vedano e si fotografino alcune volpi, complice la vicinanza al St James’ Park, uno dei parchi più famosi della città. Capita decisamente meno spesso che tali volpi si riescano a fotografare proprio nel momento in cui decidono di fare pipì sull’albero di Natale che si trova fuori dal suo ingresso, come in una delle foto di animali più belle della settimana. Tra le altre ci sono poi un panda su un albero innevato a Pechino, due giraffe in uno zoo in Repubblica Ceca, un pitone verde in Indonesia e il cane del primo ministro greco Kyriakos Mitsotakis, più interessato a recuperare quello che sembra un biscottino che ad accogliere il presidente turco Recep Tayyip Erdogan..single-post-new article figure.split-gal-el .photo-container .arrow::after{content:’LE ALTRE FOTO’} LEGGI TUTTO

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    Come mai a un certo punto cominciano a piacerci anche i broccoli

    Nelle conversazioni ricorrenti sul cibo capita a volte di parlare della qualità delle materie prime descrivendo un certo alimento di base, dalla frutta al pane agli ortaggi, come diverso rispetto al passato: spesso meno gustoso. Le ragioni dell’evoluzione sono di volta in volta attribuite a fattori eterogenei come il clima, i processi industriali o le tecniche di conservazione. È invece più raro che in queste conversazioni emerga una considerazione su quanto il nostro stesso gusto sia complesso, influenzato da altre percezioni e, soprattutto, in continua evoluzione mentre cresciamo e invecchiamo.È piuttosto comune e raccontata, per esempio, una certa tendenza ad apprezzare in età adulta cibi e bevande che prima dell’adolescenza erano considerati disgustosi, come verdure e frutti dal sapore amarognolo, aspro o acidulo. In parte è una questione di gusti personali che cambiano, ma in parte no: diverse ricerche mostrano come preferire certi cibi e non altri, a seconda della particolare fase della vita, rifletta anche una certa biologia di base in evoluzione.In un citato articolo pubblicato nel 2015 sulla rivista scientifica Physiology & Behavior e ripreso in diversi studi successivi, le autrici Julie Mennella e Nuala Bobowski, analizzando i risultati della ricerca sperimentale sul gusto nei bambini, scrissero che questi preferiscono livelli più elevati di dolce e sono più sensibili al gusto amaro fino all’adolescenza. Dopodiché il gusto comincia a diventare più complesso: a subire cioè l’influenza crescente di altri sensi e degli stimoli che i sensi forniscono per formare reti neuronali variamente interconnesse nel sistema nervoso.Secondo diverse ricerche sull’evoluzione del gusto, l’infanzia è uno dei momenti in cui i sensi subiscono più cambiamenti, mediando tra predisposizioni biologiche comuni e condizionamenti ambientali variabili a seconda del contesto. In un certo senso, secondo Mennella e Bobowski, è come se i bambini vivessero in mondi sensoriali completamente diversi da quelli che vivranno in seguito da adolescenti e da adulti. Studi sull’evoluzione del gusto nei primati suggeriscono che la sensibilità dei primati umani rispetto al dolce (da cui sono attratti) e all’amaro (che genera repulsione) nelle prime fasi della vita sia in gran parte un riflesso della loro biologia.I nostri sistemi sensoriali si sono evoluti per rilevare e preferire i cibi ipercalorici e un tempo difficili da reperire, e la dolcezza è una specie di “segnale” naturale di questi cibi. Il gusto salato, per cui i bambini hanno un’altra propensione insieme a quella per il dolce, segnala invece la presenza di minerali. In termini evolutivi, la predisposizione verso cibi dolci e salati deriva da tempi relativamente recenti della storia della specie, in cui i bambini avevano bisogno di tutta l’energia e i minerali disponibili per sopravvivere fino all’età adulta.Per ragioni biologiche siamo quindi molto attratti nei primi anni di vita da fonti di energia e cioè dal dolce, dal momento che dolce e ipercalorico coincidevano nell’ambiente in cui ci siamo evoluti: un ambiente privo di dolcificanti ipocalorici e zuccheri raffinati. Un discorso simile, ma in senso di repulsione anziché di attrazione, vale per l’amaro: come la dolcezza segnala fonti di energia, l’amarezza segnala un possibile pericolo. L’ipersensibilità dei bambini per i sapori amari, secondo le ricerche sui fattori evolutivi del gusto, agisce come un meccanismo di protezione dalla possibile ingestione di tossine durante l’infanzia.– Leggi anche: Perché alcuni cibi ci disgustano?Le predisposizioni filogenetiche della specie interagiscono però con l’insieme dei processi di sviluppo dell’individuo (ontogenesi), condizionati dall’ambiente in cui i bambini crescono. A seconda del contesto e di quanto familiarizzano con determinati sapori a loro disposizione durante l’infanzia, come dimostrato da studi sperimentali, i bambini modellano la loro sensibilità e sviluppano il senso di cosa dovrebbe o non dovrebbe avere un sapore dolce, e quanto dolce rispetto ad altri sapori. Familiarizzano progressivamente anche con i sapori amari, una volta appreso che determinati cibi che hanno quel sapore sono sicuri da mangiare.Secondo i risultati di uno studio pubblicato nel 2022 sulla rivista Psychological Science che coinvolse un gruppo di donne incinte tra la 32a e la 36a settimana di gestazione, le capacità sensoriali legate al gusto potrebbero cominciare a subire un’evoluzione persino prima della nascita, in base all’alimentazione della madre. Già durante lo sviluppo intrauterino, deglutendo e inalando il liquido amniotico, i feti possono percepire i sapori del cibo mangiato dalle madri.Per avere una prova diretta di questa capacità, gli autori e le autrici dello studio osservarono e analizzarono tramite ecografie tridimensionali le reazioni facciali dei feti quando le madri mangiavano determinati cibi. I feti erano più inclini a mostrare espressioni sorridenti quando le madri assaporavano una carota, mentre mostravano smorfie e reazioni di disgusto quando le madri mangiavano cavolo. In questo caso, e non in quello della carota, i risultati mostrarono inoltre che le reazioni facciali diventavano via via più complesse man man che i feti maturavano.(Beyza Ustun, Nadja Reissland, Judith Covey, Benoist Schaal, Jacqueline Blissett, “Flavor Sensing in Utero and Emerging Discriminative Behaviors in the Human Fetus”, 2022, Psychological Science/SAGE Open)Man mano che i bambini crescono e superano l’infanzia e poi l’adolescenza, l’ipersensibilità iniziale all’amaro e la predilezione per il dolce e il salato vengono meno, e a seconda dell’esperienza e dell’esposizione a determinati sapori i gusti cambiano e diventano più complessi. Capita spesso che durante questa fase cibi un tempo disprezzati come cavolo, broccolo e barbabietola, diventino cibi apprezzati e graditi.La maggiore complessità dei gusti è determinata dalle esperienze e dall’apprendimento, che contribuiscono ad accrescere e articolare le interazioni del gusto con altri stimoli sensoriali fondamentali. In un esperimento di psicologia molto conosciuto e citato, i cui risultati furono pubblicati nel 2004 sulla rivista Journal of Sensory Studies, gli autori dimostrarono che il sapore riferito delle patatine in busta cambiava a seconda della croccantezza percepita.I partecipanti potevano ascoltare attraverso le cuffie il suono prodotto dal loro morso, ma non sapevano che i suoni provenienti dal microfono, prima di essere rimandati nelle cuffie, subivano un’equalizzazione per eliminare o accentuare di volta in volta determinate frequenze. Alla fine dell’esperimento, dopo aver descritto alcune patatine come più fresche di altre, quasi nessuno dei partecipanti riuscì a riconoscere che le patatine utilizzate dagli sperimentatori erano tutte uguali.– Leggi anche: Quanto contano gli altri sensi per il gustoUn’altra evoluzione significativa del gusto legata a fattori principalmente biologici avviene intorno ai 50-60 anni, quando cambia il ritmo di rigenerazione cellulare delle circa 9-10mila papille gustative con cui nasciamo. Come spiegò a NPR l’otorinolaringoiatra dell’Albany Medical Center di New York Steven Parnes, ogni papilla gustativa è un fascio di cellule sensoriali (specializzate cioè nel ricevere e tradurre gli stimoli ambientali in segnali elettrici per il sistema nervoso), raggruppate insieme come petali intorno al bocciolo di fiore.Le papille gustative, che coprono la lingua e inviano i segnali al cervello attraverso i nervi, variano nella loro sensibilità ai diversi tipi di gusti. Alcune saranno particolarmente in grado di percepire la dolcezza, altre l’amarezza e così via. Questi recettori del gusto hanno un eccezionale ritmo di ricambio cellulare: muoiono e si riformano più o meno una volta ogni dieci giorni. È il motivo per cui, per esempio, quando capita di bruciarsi la lingua con una bevanda o un cibo troppo caldo, recuperiamo in tempi relativamente brevi la capacità di gustare ciò che mangiamo.Intorno ai 50 anni la frequenza di rigenerazione cellulare delle papille gustative cambia, e questo porta a una progressiva diminuzione dei canali attraverso cui i recettori del gusto inviano segnali sensoriali al cervello. La stessa cosa vale per i recettori olfattivi, che smettono di rigenerarsi rapidamente come prima, man mano che l’età avanza. Questa diminuzione della frequenza di ricambio cellulare può determinare una serie di cambiamenti più o meno rilevanti anche nel gusto, a cui l’olfatto è strettamente legato.I cambiamenti del gusto in età avanzata possono tuttavia essere anche molto limitati e sottili, ha detto Mennella alla rivista di divulgazione scientifica Discover. E in molti casi riguardano soltanto un particolare odore o sapore, non limitano interamente l’esperienza del gusto: «Qualcuno per esempio potrebbe diminuire la propria sensibilità all’odore delle rose, ma non rispetto a quello dell’aglio. Non è una perdita omogenea». LEGGI TUTTO

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    La ricerca della balena che abbiamo solo sentito

    La varietà e la complessità dei canti dei cetacei sono conosciute e studiate da decenni. Nel 1970 il biologo statunitense Roger Payne raccolse quelli delle megattere durante il periodo degli accoppiamenti e ne fece un disco, che vendette oltre 100mila copie ed espanse notevolmente la consapevolezza comune dell’intelligenza di questi mammiferi. Un fatto meno noto è che esiste con molta probabilità almeno una specie di cetacei odontoceti (o dentati, il sottordine di cui fanno parte delfini, capodogli e orche) che non abbiamo mai visto e che distinguiamo da altre specie conosciute soltanto per i suoni che emette.La specie sconosciuta e identificata soltanto per i suoi versi caratteristici, in attesa di ulteriori ricerche che ne confermino l’esistenza, è definita balena dal becco di Cross Seamount da un gruppo di ricercatori e ricercatrici della National Oceanic and Atmospheric Administration (NOAA), l’agenzia statunitense che si occupa di studi meteorologici e oceanici, e di altri istituti di ricerca sugli ambienti marini. Cross Seamount, una montagna sottomarina che si trova circa 300 chilometri a ovest delle isole Hawaii, è l’area del Pacifico in cui fu rilevato per la prima volta nel 2005 il particolare richiamo della balena, poi registrato sporadicamente altre volte negli anni successivi.Tra i biologi marini non c’è uniformità di opinioni riguardo alla balena dal becco di Cross Seamount. Secondo alcuni potrebbe essere una specie conosciuta: il mesoplodonte di Nishiwaki e Kamiya, detto ginkgodens per l’insolita forma (a foglia di pianta di ginkgo) dei due denti presenti sulla sua mandibola. Una delle ragioni che complicano l’identificazione della specie misteriosa è che la famiglia di cetacei odontoceti a cui probabilmente appartiene – gli Zifidi, o balene dal becco – è una delle meno conosciute al mondo tra i grandi mammiferi. Alcune delle 24 specie note sono state scoperte soltanto nell’ultimo ventennio, e lo stesso ginkgodens è una di quelle di cui sappiamo meno in assoluto, e principalmente dagli spiaggiamenti.– Leggi anche: Il fascino gigantesco del calamaro giganteIl gruppo di ricerca che si occupa da quasi vent’anni di analisi dei suoni emessi dagli odontoceti al largo delle Hawaii ritiene che ci siano elementi sufficienti per considerare la balena dal becco di Cross Seamount una specie a sé stante. I suoni che emette differiscono infatti in termini di frequenza, durata e pause intermedie rispetto a quelli di altre balene dal becco conosciute. Sulla base dei rilevamenti è possibile ipotizzare che sia una specie imparentata con lo zifio di Cuvier, diffuso anche nel Mediterraneo, e il mesoplodonte di True, ma con comportamenti diversi rispetto a queste due specie.Tutte le balene dal becco, animali piuttosto timidi e diffidenti, si immergono abitualmente in profondità fino a 3mila metri e per un tempo di oltre un’ora. Riemergono in superficie soltanto per pochi minuti, cosa che rende difficile avvistarle. È difficile anche distinguere le specie: i biologi di solito ci riescono osservando i denti nei maschi, dato che le femmine – anche quelle di specie diverse – sono molti simili, ha spiegato a Hakai Magazine la biologa della NOAA Jennifer McCullough, coautrice di una ricerca sulla balena dal becco di Cross Seamount pubblicata ad agosto sulla rivista Marine Mammal Science.Una femmina di mesoplodonte di De Blainville al largo delle Bahamas (MatthewGrammatico/Wikimedia)Molto di ciò che sappiamo delle balene dal becco, ha detto McCullough, lo sappiamo dall’analisi dei suoni che emettono, raccolti tramite strumenti di monitoraggio acustico che permettono di stimare solo molto approssimativamente la popolazione di passaggio in una determinata area. Come gli altri odontoceti – e i pipistrelli – le balene dal becco utilizzano l’ecolocalizzazione, la capacità di percepire l’eco delle onde sonore emesse e che rimbalzano sull’ambiente circostante. Nel loro caso non sono canti né fischi, come quelli di megattere e orche, ma brevi impulsi sonori, singoli o a raffica, come quelli dei capidogli. Sono emessi nel contesto dell’accoppiamento o per individuare le prede (principalmente calamari), per esempio, ma possono anche avere funzioni sociali più complesse.– Leggi anche: Come gli animali percepiscono il mondoI suoni emessi dalle diverse specie conosciute di balene dal becco sono sequenze di “clic” abbastanza simili tra loro: hanno una frequenza molto alta, impercettibile per l’udito umano. Gli odontoceti in generale emettono suoni tra 5 e 150 kHz, mentre l’intervallo di frequenze rispetto alle quali gli esseri umani sono più sensibili è tra 2 e 5 kHz. Per analizzare le piccole differenze tra i diversi richiami gli scienziati si servono soprattutto degli spettrogrammi, grafici che permettono di valutare l’intensità di un suono in funzione del tempo e della frequenza. E la frequenza, la durata e le pause intermedie tra i suoni emessi dalle balene dal becco cambiano da specie a specie.Una sequenza di suoni emessi da uno zifio di Cuvier, a velocità ridotta a 0,30x (NOAA.gov) LEGGI TUTTO