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    8 persone su 10 vorrebbero che i loro governi facessero di più contro la crisi climatica

    Caricamento playerIl Programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo (UNDP) ha pubblicato i risultati del Peoples’ Climate Vote 2024, il più grande sondaggio mai condotto dall’ONU sul tema del cambiamento climatico: sono state intervistate più di 75mila persone provenienti da 77 paesi che parlano 87 lingue diverse.
    Secondo i risultati aggregati globali la stragrande maggioranza di loro è insoddisfatta del modo in cui i governi stanno gestendo la crisi climatica: l’80 per cento delle persone intervistate, che dovrebbero essere un campione rappresentativo della popolazione globale, vorrebbe che i loro governi facessero di più per affrontare la crisi climatica, e l’86 per cento ritiene che sarebbe necessario mettere da parte le rivalità nazionali per lavorare a una soluzione comune. In Italia questi valori sono ancora più alti: il 93 per cento delle 900 persone italiane intervistate è d’accordo con entrambe le dichiarazioni.
    Altri risultati interessanti riguardano la cosiddetta “ansia climatica” e la transizione da combustibili fossili a energia rinnovabile. Il 56 per cento degli intervistati ha detto di pensare al cambiamento climatico quotidianamente o settimanalmente, un risultato a cui l’Italia si allinea, e il 53 per cento di essere più preoccupato rispetto all’anno scorso per questo tema: in Italia a rispondere positivamente a questa domanda è stato il 65 per cento degli intervistati. Questi risultati arrivano però fino al 71 per cento nei nove Piccoli Stati insulari in via di sviluppo (SIDS) in cui sono state condotte le interviste: sono quegli stati che rischiano di finire presto sotto il livello del mare e le cui popolazioni si stanno già parzialmente trasferendo in altri paesi. In generale, più persone che vivono in paesi meno sviluppati hanno detto che il cambiamento climatico sta già influenzando alcune importanti scelte di vita, come il luogo dove abitare o lavorare.

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    Il 72 per cento degli intervistati si è poi detto a favore di una rapida transizione dai combustibili fossili a fonti di energia meno inquinanti. Risultati molto alti si sono registrati in alcuni paesi che sono fra i principali produttori o consumatori di combustibili fossili: in Nigeria era d’accordo l’89 per cento delle persone intervistate (lo stesso risultato dell’Italia e della Turchia); in Brasile era l’81 per cento; in Cina l’80; in Iran il 79 per cento e in Germania, Regno Unito e Arabia Saudita, il 76. Risultati molto bassi in questa categoria sono stati invece registrati in Russia, dove solo il 16 per cento degli intervistati si è detto d’accordo con questa dichiarazione.
    È stato inoltre notato come le donne si siano dimostrate più favorevoli all’impegno pubblico per il contrasto del cambiamento climatico. In cinque grandi paesi (Australia, Canada, Francia, Germania e Stati Uniti) la differenza di genere era tra i 10 e i 17 punti percentuali.

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    Infine una domanda del sondaggio riguarda la responsabilità dei paesi più ricchi e con economie più sviluppate (che sono principalmente i paesi europei e gli Stati Uniti) nei confronti di quelli più poveri, che non hanno avuto la possibilità di industrializzarsi quando c’erano molte meno regole sull’inquinamento, e che in molti casi sono i più esposti agli effetti negativi del cambiamento climatico. A livello globale il 79 per cento degli intervistati ha detto che i paesi ricchi dovrebbero aiutare di più i paesi in via di sviluppo.
    Da anni questo tema è tra quelli al centro delle conferenze sul clima delle Nazioni Unite (COP).
    Alla COP28 di Dubai del 2023 i paesi con economie sviluppate si sono impegnati per la prima volta a versare circa 380 milioni di euro in un fondo di compensazione per i danni e le perdite causate dal cambiamento climatico nei paesi più in difficoltà: si tratta di una cifra molto piccola, vista l’entità dei possibili danni. I paesi che hanno preso un impegno maggiore sono quelli dell’Unione Europea, mentre un contributo più piccolo è stato promesso dagli Stati Uniti, che non apprezzano che alcuni paesi, specialmente la Cina che è fra i principali produttori di combustibili fossili al mondo, vogliano ancora definirsi paesi in via di sviluppo.
    Proprio negli Stati Uniti il 64 degli intervistati si è detto favorevole all’aumento degli aiuti ai paesi poveri, mentre il 28 per cento ha sostenuto che i paesi ricchi debbano aiutare meno di quanto non lo stiano facendo adesso; nella media globale, solo il 6 per cento pensa che gli aiuti debbano diminuire. In altri paesi occidentali come la Francia, la Germania e il Regno Unito le persone che sostengono che i paesi ricchi dovrebbero fornire più aiuti sono le stesse degli Stati Uniti, ma quasi nessuno pensa che gli aiuti dovrebbero diminuire: un terzo degli intervistati sostiene piuttosto che dovrebbero rimanere uguali a quelli attuali. In questo quadro l’Italia si trova invece più d’accordo con i paesi in via di sviluppo, dato che oltre il 90 per cento degli intervistati è d’accordo con l’idea che i paesi ricchi forniscano più aiuti; solo il 5 per cento sostiene che questi debbano rimanere invariati e nessuno degli intervistati è d’accordo con una loro diminuzione.

    – Leggi anche: I paesi più ricchi aiuteranno gli altri ad affrontare i danni del cambiamento climatico?

    Secondo la direttrice della sezione dell’UNDP che si occupa dei cambiamenti climatici, Cassie Flynn, i dati sulla volontà di abbandonare l’uso di combustibili fossili sono notevoli, ma in generale questo largo consenso non dovrebbe stupirci: «Gli eventi estremi fanno già parte della nostra vita quotidiana», ha detto Flynn. «Dagli incendi boschivi in Canada alla siccità in Africa orientale, fino alle inondazioni negli Emirati Arabi Uniti e in Brasile, le persone vivono la crisi climatica», ha aggiunto. Proprio in queste settimane per esempio migliaia di persone stanno morendo a causa del caldo in diversi paesi del mondo, specialmente in India, che sta attraversando una delle peggiori ondate di calore della sua storia da oltre un mese, e in Arabia Saudita, dove si è appena concluso lo Hajj, il consueto pellegrinaggio annuale dei fedeli dell’Islam verso la Mecca.

    – Leggi anche: A New Delhi manca l’acqua e fa caldissimo

    Il sondaggio è stato svolto dall’UNDP in collaborazione con l’Università di Oxford, nel Regno Unito, e la società internazionale di sondaggi GeoPoll. I ricercatori dell’Università di Oxford hanno stilato una lista di 15 domande da porre durante le interviste e hanno poi elaborato le risposte, ponderando il campione per renderlo rappresentativo dei profili di età, genere e istruzione della popolazione dei paesi coinvolti. GeoPoll ha condotto le interviste tramite chiamate telefoniche randomizzate al cellulare, ampliando quindi più possibile le persone raggiungibili. La maggior parte dei paesi è rappresentata da un gruppo di intervistati che va dalle 800 alle 1.000 persone (in Italia sono state 900). Il numero di intervistati non è relativo alla grandezza dello stato, dato che per esempio la Cina, con una popolazione di 1,4 miliardi di persone, è rappresentata da 921 persone, circa cento in meno del Buthan, dove la popolazione si aggira intorno alle 790mila persone.
    Secondo gli autori le stime a livello nazionale hanno margini di errore non superiori ai 3 punti percentuali in più o in meno, che diventano molto più bassi quando si tratta di stime globali.
    Un problema piuttosto comune dei sondaggi di questo tipo è il fatto che a rispondere al telefono e ad accettare di partecipare alla ricerca siano spesso persone con un alto livello di istruzione e che sono già più informate della media sul tema. L’UNDP ha però tenuto a specificare in questo caso che oltre il 10 per cento del campione totale comprendeva persone che non sono mai andate a scuola. Di questi 9.321 intervistati, 1.241 erano donne over 60 che non avevano mai neanche frequentato le scuole elementari, uno dei gruppi più difficili da raggiungere.
    Una prima edizione del sondaggio, che aveva coinvolto 50 paesi, era stata realizzata nel 2021 ma le persone erano state raggiunte attraverso annunci pubblicitari in famose app di gioco per cellulari, che escludevano intere fasce della popolazione anche solo per il fatto che per usare queste app bisognava essere connessi a internet. I dati delle due ricerche non sono quindi comparabili. LEGGI TUTTO

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    Perché alcuni avanzi sono più buoni dopo qualche giorno

    Caricamento playerC’è chi non fa complimenti e non concepisce che possano avanzare porzioni di lasagne e chi è felice di lasciarne un po’ per il giorno dopo “perché diventano più buone”. Migliora la loro consistenza e i sapori hanno tempo di amalgamarsi e fondersi insieme, dicono i conservatori di lasagne. È una teoria condivisa anche da appassionati di altre pietanze, dalle zuppe alla parmigiana, e ha effettivamente una qualche base scientifica legata al modo in cui le sostanze presenti negli ingredienti interagiscono tra loro. Ci sono insomma casi in cui il cibo mangiato il giorno dopo è più buono, e non solo perché non si deve fare la fatica di prepararlo.
    In Italia più del 99 per cento delle famiglie possiede un frigorifero: è l’elettrodomestico più diffuso nelle case, seguito a poca distanza dalla lavatrice (98 per cento) e dalla televisione (97 per cento). Il frigorifero divenne via via più diffuso nelle abitazioni a partire dalla fine della Seconda guerra mondiale e, come in altri paesi, cambiò profondamente il nostro rapporto con il cibo e il suo consumo. La sua introduzione rese più semplice la conservazione degli alimenti, contribuì a ridurre i rischi di intossicazioni dovute al consumo di cibo avariato e rese più comune il consumo degli avanzi dei pasti precedenti.
    Proprio grazie alla refrigerazione, tendiamo a pensare che la trasformazione degli alimenti si concluda nel momento in cui abbiamo finito di cucinarli, e che quindi le loro caratteristiche non cambino più di tanto nei giorni in cui li lasciamo in frigorifero. In realtà, anche dopo la cottura e il raffreddamento, i processi fisici e chimici continuano ad avvenire con l’interazione di una enorme quantità di sostanze.
    I costituenti di carboidrati, grassi e proteine si modificano, perdono o assorbono acqua e si verificano reazioni con la produzione di gas, che a lungo andare contribuiranno al deperimento degli alimenti. Il processo è rallentato dalla bassa temperatura del frigorifero, che lascia qualche margine in più alla possibilità che alcune preparazioni migliorino, per lo meno per le sensazioni che lasciano a chi le consuma.
    Accade spesso che zuppe, ragù e preparazioni simili risultino più buone e gradevoli dopo qualche giorno dalla loro preparazione, se conservate nel modo giusto in frigorifero. Non è solo un modo di dire: c’entrano soprattutto i grassi (lipidi) e le spezie utilizzate più comunemente in cucina come il pepe, la noce moscata o le miscele impiegate per preparare il curry. Le molecole che danno profumo e sapore a queste spezie sono “liposolubili”, cioè si sciolgono facilmente nei grassi. Più tempo trascorrono lipidi e spezie insieme, più aumenta la diffusione dei loro aromi all’interno delle molecole di grasso, che a loro volta si distribuiranno nel resto della preparazione.
    Questo processo di fusione è favorito dal calore utilizzato per cucinare una zuppa o un ragù, ma avviene comunque anche nelle fasi successive quando la pietanza si raffredda e viene poi riposta in frigorifero. L’olio aggiunto a una minestra, la pancetta a una zuppa di legumi o ancora la panna a una crema di verdure costituiscono la base grassa nella quale si distribuiscono più facilmente i composti aromatici e contribuiscono a migliorare la consistenza della preparazione.
    Qualche tempo fa la rivista Cook’s Illustrated fece un esperimento offrendo a un gruppo di persone del chili di carne, una crema di pomodoro e cipolle e una zuppa di fagioli nelle loro versioni fresche e conservate in frigorifero per un paio di giorni. I partecipanti scelsero nella maggior parte dei casi la versione del frigorifero, segnalando di aver trovato le pietanze più saporite e ben amalgamate.
    Gli esperti consultati dalla rivista spiegarono che nel tempo trascorso in frigorifero il lattosio nei prodotti a base di latte impiegati per la zuppa e per la crema si era trasformato in glucosio, così come avevano fatto alcuni carboidrati delle cipolle, dando un sapore più dolce e uniforme alle due preparazioni. Nel caso del chili, oltre ai grassi presenti nella carne che avevano favorito il diffondersi delle spezie, le proteine si erano probabilmente separate negli aminoacidi – i loro componenti di base – come il glutammato, un sapore cui siamo particolarmente sensibili.
    Altre ricerche hanno inoltre segnalato come il collagene, la principale proteina che negli animali fa da impalcatura per gli altri tessuti molli, viene rilasciato in parte dalla carne durante la cottura e fa da collante per gli altri ingredienti. Questo è uno dei motivi per cui le lasagne diventano più compatte e morbide dopo un certo periodo in frigorifero: c’entrano il collagene che torna a solidificarsi producendo una sostanza gelatinosa e i grassi presenti nella carne e negli altri ingredienti, che a loro volta si solidificano.
    (Michael Loccisano/Getty Images for NYCWFF)
    La variazione della consistenza di alcuni avanzi nei giorni dopo la preparazione dipende inoltre da un’altra sostanza, un carboidrato che ha un ruolo centrale nella cucina: l’amido. È presente in alimenti come pasta, riso, pane e patate e forma molecole molto lunghe che contribuiscono a tenere insieme i composti, per questo motivo viene utilizzato come addensante per esempio per regolare la consistenza di una zuppa venuta troppo liquida. A differenza dei grassi e delle proteine, l’amido non sempre favorisce il miglioramento degli avanzi.
    Lo strato d’acqua torbida, non proprio attraente, che talvolta si osserva sopra a del purè conservato per qualche giorno in frigorifero è dovuto alla retrogradazione dell’amido, un processo che porta l’amido a tornare alla propria struttura originaria dopo che questa era stata modificata con la cottura portando alla gelatinizzazione.
    Nelle patate, così come nel riso o nei cereali (usati per produrre pane e pasta) l’amido è presente in una forma simile a granuli che derivano dal modo in cui crescono le piante e producono il glucosio attraverso la fotosintesi. Quando vengono riscaldati in acqua, i granuli si gonfiano e rilasciano l’amido contenuto al loro interno. Al termine della cottura, quando il cibo inizia a raffreddarsi, si attiva la retrogradazione e l’amido cerca di tornare alla struttura originaria cambiando la distribuzione delle molecole d’acqua, che quindi riaffiorano causando la formazione dello strato di liquido torbido sopra al purè. La presenza dello strato in superficie non indica che l’avanzo sia andato a male e l’acqua può essere mischiata nuovamente al resto, anche se non tornerà più a disperdersi allo stesso modo a livello molecolare come aveva fatto durante la cottura. È soprattutto per questo motivo che difficilmente il purè vecchio di qualche giorno è soffice e cremoso come quello appena fatto.
    Anche in questo caso i grassi possono venire in aiuto, perché come abbiamo visto contribuiscono a dare omogeneità alle preparazioni e ad arricchirne il sapore. Le molecole di grasso possono rendere più morbida la struttura che forma l’amido quando si riorganizza, come sa chi prepara purè particolarmente burrosi o con l’aggiunta di formaggi.
    La retrogradazione dell’amido è del resto il processo alla base della formazione del pane raffermo, che tende a seccare più velocemente rispetto ad altri prodotti da forno che contengono più grassi. Se conservati da cotti e senza condimento, riso e pasta tendono a tornare duri e non sempre si riesce a farli rinvenire con l’aggiunta di un po’ di acqua calda. Nel caso delle lasagne la presenza del condimento, dei grassi e delle altre sostanze (nel ragù e nella besciamella) prevengono questo effetto. Le sostanze grasse hanno inoltre un maggiore tempo di permanenza nel palato e ciò fa sì che si percepiscano meglio gli aromi delle sostanze finite al loro interno.
    Una scena dal film All of Us Strangers di Andrew Haigh (Searchlight Pictures)
    Che siano gli ingredienti di partenza o il piatto finale, molti alimenti subiscono l’effetto dell’ossigeno presente nell’aria e si ossidano velocemente. È l’effetto per cui dopo qualche minuto una fetta di mela inizia ad annerire, così come può avvenire con una banana, una carota o diversi altri alimenti comprese le carni. Soprattutto con queste ultime l’effetto dell’ossidazione è poco gradevole, perché si producono molecole volatili – quindi percepibili dal nostro olfatto e in parte dal gusto – che modificano la resa di una fetta di carne o di un trancio di pesce.
    I processi di ossidazione sono tra i principali responsabili del “sapore di riscaldato” che assume spesso la carne già cotta, quando viene scaldata nuovamente per consumarla come avanzo. Accade soprattutto nel caso di tagli particolarmente grassi, perché lo sviluppo di quelle sostanze volatili avviene con l’ossidazione dei grassi. Quel particolare sapore non implica che la carne sia avariata, ma rende il suo consumo poco gradevole. L’aggiunta di sostanze antiossidanti alla ricetta può ridurre il problema: si possono per esempio utilizzare alcune erbe come rosmarino e timo, non a caso impiegati spesso nella preparazione delle carni compresi alcuni tipi di insaccati (a livello industriale si usa spesso l’acido ascorbico, cioè la vitamina C).
    In generale è comunque importante ricordare che gli avanzi dovrebbero essere consumati entro 3-4 giorni dal momento in cui sono stati messi in frigorifero, o entro 3-4 mesi nel caso in cui siano messi nel freezer. Il congelamento domestico non è però molto efficace nel mantenere le caratteristiche dei piatti, perché avviene lentamente e porta alla formazione di cristalli di ghiaccio di dimensioni tali da danneggiare la struttura di molti alimenti. Il surgelamento a livello industriale avviene a temperature più basse e permette di ridurre la formazione di cristalli di grandi dimensioni, preservando meglio i prodotti.
    Gli avanzi tendono a mantenere una qualità migliore se vengono conservati il prima possibile in frigorifero, evitando di lasciarli per troppo tempo a temperatura ambiente. Il periodo massimo di conservazione su un ripiano della cucina varia molto, ma in media è consigliabile non superare le due ore per la maggior parte delle preparazioni. Se la zuppa appena preparata e avanzata è troppo calda per trasferirla nel frigorifero, la si può distribuire in più contenitori larghi e bassi, in modo che si raffreddi più velocemente e possa essere inserita in frigorifero in tempi rapidi. Questa soluzione permette inoltre di raffreddare più uniformemente una preparazione, rispetto a quanto avverrebbe con un unico contenitore profondo.
    Ogni avanzo dovrebbe essere inoltre conservato separato da tutto il resto, quindi in contenitori ermetici, ed è importante che i prodotti cotti non siano a contatto con quelli ancora crudi, sia che si tratti di verdure sia di carne e pesce. C’è infatti il rischio di contaminare i cibi già preparati con batteri e altri microrganismi provenienti dagli alimenti crudi, e molto interessati a colonizzare le lasagne avanzate appena messe nel frigorifero.
    L’impiego di contenitori ermetici e un consumo entro pochi giorni riducono inoltre il rischio di trovare spiacevoli sorprese, come uno strato di muffa bianca, grigia o verdastra. Anche se comporta un certo sacrificio, in questo caso è inutile e pericoloso resistere: le muffe in superficie producono lunghi e sottilissimi filamenti in profondità negli alimenti, quindi non è sufficiente rimuovere lo strato superficiale ammuffito per non correre rischi. Non c’è modo di capire a occhio se una muffa sia “buona” o “cattiva”, per precauzione quindi: se c’è la muffa, si butta. LEGGI TUTTO

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    Il Sole sta invertendo il suo campo magnetico

    Caricamento playerL’aurora boreale e i fenomeni collegati dello scorso maggio osservati a basse latitudini, anche in Italia, sono stati gli indizi più visibili dell’attività solare ormai prossima al proprio massimo, ma chi studia la nostra stella sta attendendo con interesse un altro fenomeno che porterà il Sole a invertire il proprio campo magnetico. Non è un evento insolito o preoccupante e non avrà effetti catastrofici per la Terra, ma è forse il miglior promemoria su quante cose ancora ci sfuggono sul funzionamento della più grande fonte di energia di tutto il sistema solare, da cui dipendono le nostre esistenze.
    I ritmi del Sole sono ciclici, per quanto non molto regolari: in media ogni 11 anni la nostra stella raggiunge un massimo di attività per poi tranquillizzarsi fino a raggiungere un minimo, dopo il quale il ciclo ricomincia. In linea di massima, quando il Sole è più attivo c’è una maggiore frequenza e intensità di alcuni fenomeni, come le tempeste magnetiche, l’emissione di grandi quantità di particelle e le eruzioni solari, esplosioni altamente energetiche. Le cause di questa ciclicità non sono completamente chiare, ma in secoli di osservazioni è stato possibile identificare particolari andamenti e indizi che permettono di calcolare l’andamento di ogni ciclo, le sue caratteristiche e le conseguenze per la Terra, che si trova in media a 150 milioni di chilometri dal Sole.
    Gli indizi più evidenti, tanto da essere stati osservati per la prima volta due millenni fa, sono le “macchie solari”, cioè punti della superficie solare più freddi rispetto a ciò che li circonda: se mediamente il Sole ha una temperatura superficiale di circa 5.500 °C, le macchie solari raggiungono al massimo una temperatura intorno ai 3.600 °C. La quantità di macchie solari tende a cambiare nel corso del tempo e proprio osservando il loro andamento si è concluso che compaiono in gran numero quando il Sole raggiunge il massimo della propria attività.
    Macchie solari osservate nell’ottobre del 2014 (NASA)
    L’ipotesi più condivisa è che le macchie solari siano una conseguenza di ciò che avviene nella “zona convettiva” del Sole, uno strato interno e non osservabile direttamente nel quale l’energia termica prodotta dalla stella raggiunge la superficie. In questa zona il plasma (un gas estremamente caldo e carico elettricamente) che si trova verso l’esterno è più freddo e denso, di conseguenza tende a ricadere verso l’interno dove si scalda e torna verso la superficie cedendo energia.
    Le quantità di energia coinvolte nel processo sono tali da portare anche alla formazione di forti campi magnetici, che nelle fasi di alta attività solare possono diventare instabili portando alla formazione delle macchie sulla superficie della stella. Ogni macchia ha un proprio campo magnetico che viene perturbato dai flussi di plasma indebolendolo o rafforzandolo a seconda dei casi. Dalle zone in cui emergono, di solito sopra o sotto l’equatore del Sole, i flussi si spostano verso i poli e tendono ad avere un campo magnetico orientato in senso opposto rispetto a quello solare in quel momento.
    Il Sole in sezione: sotto la superficie è visibile la zona convettiva (NASA)
    Nelle fasi di massima attività solare, i campi magnetici provenienti dalle macchie solari sono talmente tanti e intensi da annullare la polarità normalmente presente ai poli del Sole e sostituirla con una nuova opposta a quella di partenza. Questo processo fa sì che in media ogni 11 anni il Sole inverta il proprio campo magnetico.
    Nel 2004, per esempio, il polo sud solare aveva una polarità negativa, quasi completamente scomparsa nel 2013 e sostituita completamente da una polarità positiva negli anni seguenti. Il processo di inversione del campo magnetico non è infatti repentino, ma richiede diverso tempo e dal momento in cui il cambiamento è più evidente trascorrono circa due anni prima che sia completo. Il Sole non è comunque molto puntuale e in alcuni cicli sono stati necessari fino a cinque anni prima che si completasse l’inversione.
    Le condizioni iniziali del polo sud solare nel 2004 (a) e la progressiva inversione della polarità iniziata nel 2013 (b) e conclusa nel 2017 (c), in una elaborazione basata sui dati dell’attività del Sole (J. Space Weather Space Clim.)
    Il modo in cui è orientato nel suo complesso il campo magnetico del Sole può avere qualche conseguenza per la Terra, costantemente esposta alle particelle cariche che arrivano dalla stella e dalle quali si protegge grazie al proprio campo magnetico. Nei periodi in cui la polarità è negativa al polo nord solare ed è positiva al polo sud, il campo che si genera è opposto a quello della Terra e ci possono essere conseguenze sull’intensità delle tempeste solari, che possono causare forti interferenze nei sistemi di telecomunicazioni sia satellitari sia al suolo, oltre a effetti più scenografici come le aurore.

    Per questo l’attività solare viene osservata con grande attenzione e negli ultimi anni ci sono stati importanti progressi nella raccolta di dati, grazie allo sviluppo di nuove sonde. Solar Orbiter dell’Agenzia spaziale europea è stato lanciato nel 2020 per studiare le zone polari del Sole, in modo da prevedere i prossimi cicli solari e la loro intensità. Un paio di anni prima la NASA aveva messo in servizio Parker Solar Probe, una sonda che si sta avvicinando il più possibile al Sole, con l’obiettivo di compiere un passaggio ravvicinato ad appena (in termini astronomici) 6 milioni di chilometri dalla superficie solare. Altri telescopi sulla Terra sono invece utilizzati per mappare le macchie solari e produrre immagini ad alta risoluzione della superficie della nostra stella.
    Studiare il Sole non serve solamente a capire come funzioni la più importante fonte di energia per la nostra esistenza. Il Sole è una stella relativamente comune, come miliardi di altre stelle simili solo nella Via Lattea, la nostra galassia. Comprenderne il funzionamento rende possibile lo studio più accurato di sistemi solari diversi dal nostro e consente di fare confronti con altri tipi di stelle e capire se possano creare condizioni compatibili per la vita, su mondi lontani e che per ora nemmeno immaginiamo. Per quanto sia a 150 milioni di chilometri da noi, il Sole è la cavia perfetta per farlo. LEGGI TUTTO

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    Stanno aumentando anche le zecche

    Caricamento playerÈ il periodo dell’anno in cui tante persone fanno escursioni sui sentieri di montagna indossando pantaloni corti: ma passeggiando nei boschi e dove c’è l’erba alta si può rischiare di essere morsi da una zecca dei boschi, cosa che può comportare dei rischi. Questi animali infatti possono trasmettere due malattie pericolose per le persone, la borreliosi di Lyme e l’encefalite da zecche, presenti in Italia dalla metà degli anni Ottanta e dal 1994 rispettivamente.
    In Europa i casi di contagio registrati sono in aumento da anni e si ritiene che c’entri il cambiamento climatico. Le temperature più alte allungano il periodo di attività annuale delle zecche e favoriscono la loro proliferazione e la loro diffusione territoriale: in alta montagna fa troppo freddo, ma si trovano anche tra i 1.200-1.400 metri di altitudine. Sono quindi cresciute le popolazioni di questi animali e con esse le probabilità di essere morsi da individui vettori dei batteri che causano la malattia di Lyme o del virus dell’encefalite. Ci sono comunque varie precauzioni per evitare di essere morsi, e nel caso dell’encefalite esiste anche un vaccino, che è consigliato a chi è più esposto al rischio di incontrare zecche ed è gratuito per i residenti in aree particolarmente interessate dalla loro presenza.
    Cosa sono le zeccheLe zecche sono piccoli animali ematofagi, che cioè si nutrono del sangue di altri animali: per succhiarlo penetrano la pelle con il loro apparato boccale, detto rostro. Non sono insetti ma aracnidi, come i ragni e gli acari, e ne esistono numerose specie. Le zecche che possono mordere le persone non sono le stesse interessate al sangue dei cani e nella classificazione scientifica sono chiamate Ixodes ricinus. Vivono generalmente nei prati e nei boschi, tra l’erba alta e il fogliame, perché si trovano bene in condizioni fresche e umide – non bisogna temere di incontrarne nei parchi cittadini. D’inverno si rifugiano sotto il fogliame o sotto le rocce, e rimangono in uno stato di inattività, mentre con l’aumentare delle temperature cercano animali da parassitare.
    Percepiscono l’anidride carbonica e il calore emessi dal corpo degli animali più grandi e così si accorgono della presenza di un possibile ospite: a quel punto si spostano sull’estremità di una pianta, che si tratti di un filo d’erba o di un arbusto, e si aggrappano – non saltano e non hanno ali – poi all’ospite. Il morso di solito è indolore perché nella saliva delle zecche è presente una sostanza che ha un effetto anestetico. Se non vengono rimosse prima, le zecche succhiano il sangue dell’ospite per alcuni giorni e poi si lasciano cadere.
    Le malattie che le zecche possono trasmettereAl di là del fastidio legato al morso, i problemi più gravi legati agli incontri con le zecche derivano dai patogeni che possono essere presenti – ma non sempre, è importante saperlo – nella saliva di questi animali.
    Tra questi patogeni, in Europa, ci sono il Borrelia afzelii e il Borrelia garinii. Sono batteri che le zecche possono “raccogliere” succhiando il sangue di animali selvatici come roditori, caprioli, cervi, volpi e lepri, e che causano la borreliosi di Lyme. È una malattia che causa sintomi che riguardano la pelle, le articolazioni, il sistema nervoso e gli organi interni, più o meno gravi. Il primo sintomo è spesso una macchia rossa sulla pelle che ha origine nel punto del morso e da lì si espande: nelle settimane o nei mesi successivi si possono sviluppare diversi sintomi neurologici o cardiaci, che se la malattia non viene correttamente riconosciuta (non è sempre facile) e curata possono diventare cronici. Se viene diagnosticata si cura con una terapia antibiotica.
    Non esistono invece terapie per l’encefalite da zecche, o più propriamente “meningoencefalite”, spesso chiamata anche con l’acronimo inglese TBE. È causata da un virus del genere Flavivirus, simile a quelli responsabili della febbre gialla e della dengue. Nel 70 per cento dei casi una persona morsa da una zecca portatrice del virus non sviluppa sintomi, o ne manifesta di lievi. Nel restante 30 per cento dei casi invece si hanno sintomi simili a quelli di un’influenza, dunque febbre alta, mal di testa o mal di gola, stanchezza e dolori muscolari. Dopo 8-20 giorni di apparente benessere alcune delle persone che hanno questo decorso (tra il 10 e il 20 per cento) possono sviluppare altri sintomi, più gravi: confusione, perdita di coordinazione, difficoltà a parlare, debolezza degli arti e convulsioni. In una minoranza dei casi, specialmente tra le persone più vulnerabili, la malattia può essere mortale.
    Secondo i dati del Centro europeo per la prevenzione e il controllo delle malattie (ECDC), tra il 2012 e il 2022 sono stati registrati ogni anno tra i 1.900 e i 3.700 casi di TBE all’incirca, di cui la maggior parte in alcuni paesi dell’Europa settentrionale, centrale e orientale. Nel 2022, ultimo anno per cui sono disponibili i dati, i paesi più interessati sono stati Cechia, Germania, Svezia, Lituania e Polonia. In Italia nel 2022 i casi confermati sono stati 104: nei dieci anni precedenti non erano mai stati più di 55.
    Per quanto riguarda invece la malattia di Lyme, negli ultimi anni ci sono stati circa un migliaio di casi certificati in Europa, ma i dati sono carenti. In Italia la malattia è più presente rispetto alla TBE e finora è stata riscontrata soprattutto nelle regioni settentrionali e in particolare in Friuli Venezia Giulia, dove venne registrato il primo caso, Veneto (in particolare la provincia di Belluno) e Lombardia.
    Come evitare i morsi di zeccheSe tra la primavera e l’autunno si fanno passeggiate nei boschi o attraversando prati con l’erba alta in collina e in montagna sotto i 1.400 metri, conviene prendere alcune precauzioni per evitare i morsi di zecche. Il sito dell’Istituto superiore di sanità consiglia di indossare un cappello e coprire le gambe con calze, pantaloni lunghi e stivali (preferibilmente di colore chiaro, per vedere più facilmente eventuali zecche), e di non addentrarsi nelle zone con l’erba alta. Suggerisce inoltre di esaminare il proprio corpo e i propri abiti alla fine dell’escursione, per verificare di non avere zecche addosso; tendono a mordere soprattutto sulla testa, sul collo, dietro le ginocchia e sui fianchi.
    Se si scopre di avere una zecca attaccata, è utile avere a portata di mano una pinzetta (preferibilmente a punte sottili), dei guanti e una boccetta in cui conservarla successivamente. Bisogna rimuovere la zecca il prima possibile perché la probabilità di contrarre un’infezione dipende anche dalla durata del morso. Per farlo si deve indossare i guanti, avvicinare la pinzetta il più possibile alla superficie della pelle e poi usarla per staccare la zecca «tirando dolcemente» e «cercando di imprimere un leggero movimento di rotazione». Esistono anche strumenti specifici per quest’operazione.
    È importante non schiacciare il corpo della zecca mentre la si toglie perché così si potrebbe causare un rigurgito dell’animale e aumentare le probabilità di trasmissione di un virus o di un batterio. Bisogna inoltre ignorare alcune credenze piuttosto diffuse secondo cui per rimuovere una zecca bisognerebbe usare alcol, benzina, acetone, trielina, ammoniaca, olio o oggetti arroventati: causare una sofferenza alla zecca aumenterebbe sempre il rischio di provocarle un rigurgito. È bene invece disinfettare la zona del morso dopo la rimozione. Se il rostro, cioè la bocca della zecca, rimane all’interno della cute bisogna estrarlo con le pinzette o con un ago sterile.
    Per quanto riguarda la zecca rimossa, conviene conservarla in una boccetta con alcol al 70%: nel caso in cui si manifestino dei sintomi di un’eventuale malattia successivamente al morso, avere a disposizione i resti biologici dell’animale può essere utile per identificare correttamente la malattia e curarla al meglio. Nel caso in cui dopo il morso si sviluppasse uno o più sintomi della borreliosi di Lyme (compreso l’arrossamento della pelle che si allarga) o della TBE bisogna contattare il proprio medico.
    E i vaccini?Negli Stati Uniti esisteva un vaccino per la malattia di Lyme che però non si poteva usare in Italia perché in Europa sono presenti diverse e più numerose specie di batteri, hanno smesso di produrlo e sono in corso i test per l’approvazione di un nuovo vaccino. Esiste invece un vaccino per la TBE, disponibile in Italia e raccomandato alle persone più a rischio di morsi di zecche.

    – Leggi anche: Le zanzare invasive sono sempre più diffuse in Europa LEGGI TUTTO

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    Weekly Beasts

    Tra gli animali fotografati in settimana ci sono: un pollo sopravvissuto a un grosso incendio in un mercato di Bangkok, in Thailandia; un boa constrictor, o boa costrittore (che come dice il nome uccide le sue prede stritolandole), rimesso in libertà in Colombia; un cane in un seggio elettorale per le elezioni europee in Ungheria. Poi tre formichieri in un parco faunistico in Messico e due leoni marini: uno che si fa i fatti suoi in California e un altro a cui viene chiesto un pronostico per la prima partita degli Europei di calcio, che sono iniziati venerdì sera con Germania-Scozia. LEGGI TUTTO

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    La NASA ha allarmato per sbaglio un po’ di gente

    Caricamento playerA causa di un inconveniente tecnico la NASA ha trasmesso in diretta per circa otto minuti sul proprio canale ufficiale della Stazione Spaziale Internazionale (ISS) una simulazione su un’emergenza sanitaria a bordo, senza specificare che si trattasse di un test. Molte persone hanno quindi pensato che ci fosse un’effettiva emergenza e hanno segnalato il problema sui social network, generando una certa apprensione e obbligando la NASA a pubblicare un insolito messaggio per spiegare l’errore e rassicurare sulle condizioni di salute dell’equipaggio sulla ISS.
    La simulazione di emergenza era stata trasmessa intorno alle 00:30 (ora italiana) di giovedì, con la segnalazione di una malattia da decompressione che aveva coinvolto un astronauta a bordo della Stazione. Una persona dal centro di controllo di Hawthorne, in California, si era identificata come medica di bordo e aveva poi iniziato a fornire alcuni consigli sulle pratiche da seguire in orbita. Aveva suggerito di fare indossare all’astronauta una delle tute per le attività extraveicolari (quelle che vengono comunemente definite “passeggiate spaziali”), in modo da pressurizzarla e iniziare un trattamento con l’ossigeno per ridurre i sintomi dovuti alla decompressione.
    La medica aveva aggiunto che la prognosi per l’astronauta non era incoraggiante e che sarebbe stato necessario un suo rientro anticipato sulla Terra, in modo da poterlo sottoporre ad altri trattamenti in ospedale. La malattia da decompressione si verifica quando ci si sottopone a una rapida riduzione della pressione nell’ambiente, per esempio in seguito a un’emersione rapida da una certa profondità nell’acqua, tale da far sì che i gas normalmente disciolti nel sangue o nei tessuti formino piccole bolle all’interno dei vasi sanguigni che possono provocare danni importanti.
    La ISS è costantemente pressurizzata rispetto all’ambiente spaziale circostante e così lo sono le tute da indossare per le attività extraveicolari. Gli astronauti si sottopongono a lunghe ore di preparazione prima di una attività all’esterno della Stazione anche per acclimatarsi alle diverse condizioni di pressione. Perdite nella tuta o in alcuni ambienti della ISS potrebbero causare una malattia da decompressione e per questo si effettuano test e simulazioni per garantire la sicurezza degli equipaggi.
    Dopo otto minuti circa di trasmissione accidentale della simulazione senza avvertenze, la NASA ha diffuso un comunicato per smentire le notizie su un’emergenza a bordo e spiegare l’errore:
    Non è in corso alcuna situazione di emergenza a bordo della Stazione Spaziale Internazionale. Intorno alle 00:28 l’audio è stato trasmesso sul live streaming della NASA da un canale audio di simulazione a terra indicando che un membro dell’equipaggio stava sperimentando effetti legati alla malattia da decompressione (MDD). Questo audio è stato inavvertitamente deviato da una simulazione in corso in cui i membri dell’equipaggio e le squadre di terra si addestrano per vari scenari nello spazio e non è correlato a un’emergenza reale. In quel momento i membri dell’equipaggio della Stazione Spaziale Internazionale erano nel periodo di sonno.
    La simulazione era quindi avvenuta esclusivamente a terra e non aveva coinvolto in alcun modo l’equipaggio sulla ISS, che in quelle ore stava dormendo in vista di una attività extraveicolare programmata per giovedì. Attualmente a bordo della Stazione ci sono sei astronauti statunitensi e tre cosmonauti russi. LEGGI TUTTO

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    Le zanzare invasive sono sempre più diffuse in Europa

    Caricamento playerIl Centro europeo per la prevenzione e il controllo delle malattie (ECDC), l’agenzia indipendente dell’Unione Europea che si occupa principalmente di malattie infettive, ha pubblicato i dati riguardanti la diffusione nel 2023 di diversi tipi di zanzare e delle malattie che trasmettono. Come nell’anno precedente è cresciuta la diffusione di dengue e febbre West Nile, due malattie infettive di origine tropicale trasmesse dalle zanzare che provocano quasi sempre sintomi minimi o lievi, ma possono essere rischiose per le persone fragili. Sono aumentate anche le aree in cui è diffusa la zanzara tigre, una specie originaria dell’Asia ma ormai stabilmente diffusa in Europa meridionale, responsabile delle trasmissioni della dengue e di altre malattie.
    Le zanzare invasive come la zanzara tigre (il cui nome scientifico è Aedes albopictus) sono arrivate in Europa inizialmente attraverso i commerci internazionali: la loro diffusione è però stata favorita da certe pratiche di gestione del territorio ma anche dal cambiamento climatico. In diverse regioni europee oggi la stagione calda dura più a lungo e le giornate sono più calde e umide rispetto a qualche anno fa: sono tutte condizioni che favoriscono la diffusione delle zanzare invasive.
    Per quanto riguarda la dengue, una malattia di origine tropicale per cui non ci sono cure specifiche, ma che comunque risulta grave o letale solo raramente, nel 2023 i casi nell’Unione Europea sono stati 130: sono quasi raddoppiati dal 2022, quando furono 71. Per tutto il periodo dal 2010 al 2021 in tutti i paesi dell’Unione insieme a Islanda, Liechtenstein e Norvegia i casi furono 73.
    Anche i casi “importati”, cioè contratti in paesi extraeuropei da persone che sono poi ritornate in Europa, sono aumentati: nel 2023 sono stati più di 4.900, mentre nel 2022 furono 1.572. Quello del 2023 è il numero di casi importati più alto dall’inizio delle registrazioni a livello europeo, nel 2008. Nei primi mesi del 2024 in molti paesi europei i casi importati sono aumentati ulteriormente, cosa che potrebbe portare i numeri del 2024 a superare quelli dell’anno precedente. Quest’anno in Italia i casi di dengue sono stati 197, tutti importati, e non ci sono state morti associate alla malattia.
    Nel 2023 sono stati registrati 713 casi di febbre West Nile in nove paesi dell’Unione Europea, di cui 332 in Italia. Sono meno rispetto ai 1.133 casi europei del 2022 (che fu il secondo anno con il numero maggiore di casi, dopo il 2018), ma sono stati registrati in un numero più alto di regioni: 123, in 22 delle quali la West Nile è stata registrata per la prima volta.
    A differenza della dengue, quasi tutti i casi di febbre West Nile vengono contratti direttamente in Europa. Nella maggior parte delle persone infette la malattia non provoca sintomi; solo un quinto dei contagiati ne mostra qualcuno, solitamente lieve. In rari casi il virus può causare convulsioni, paralisi e coma, e in quelli più gravi, che riguardano generalmente persone anziane o debilitate per altre ragioni, può essere letale ed è bene prevenirne la diffusione anche perché come per la dengue non esiste una cura specifica.

    – Leggi anche: A cosa servono le zanzare?

    Questi dati non indicano che ci si debba allarmare per questi virus, ma le autorità sanitarie devono comunque tenere conto dei fattori che favoriscono l’aumento dei rischi e prevenirli, ad esempio con iniziative per il controllo delle popolazioni di zanzare e con l’informazione. Fra i metodi che anche i cittadini possono usare per limitare la diffusione delle zanzare c’è la rimozione dell’acqua stagnante da posti come giardini e sottovasi: le zanzare infatti depongono le proprie uova in luoghi umidi, come può essere il sottovaso di una pianta.
    Non tutte le specie di zanzare possono essere vettori di malattie, cioè contribuire alla loro trasmissione da persona a persona. Tra le specie autoctone europee, la zanzara comune (Culex pipiens) può fare da vettore al virus della febbre West Nile, mentre notoriamente le specie europee del genere Anopheles possono trasmettere la malaria se diffusa – l’Italia ne fu dichiarata libera dall’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) nel 1970 dopo diversi anni con assenza di casi. Invece la principale specie invasiva, la zanzara tigre, può fare da vettore per il virus della dengue, oltre che per quello della chikungunya, che ha caratteristiche simili alla dengue, e il virus Zika, che invece può avere conseguenze più gravi.

    – Leggi anche: Non bisogna allarmarsi per le zanzare che possono trasmettere la malaria trovate in Puglia

    La zanzara tigre, riconoscibile dalle visibili macchie bianche da cui prende il nome comune, è ben presente in Italia da più di trent’anni: originaria dell’Asia orientale, si è diffusa per via del trasporto accidentale delle sue uova dentro pneumatici usati e piante ornamentali commerciate tra continenti diversi. L’interno di uno pneumatico con un po’ d’acqua è un luogo ideale per le uova delle zanzare tigre, che possono resistere a temperature molto diverse e in assenza di acqua anche per mesi, e quindi nella stiva di una nave ad esempio.
    La diffusione della zanzara tigre in Europa: è ben presente nelle regioni indicate in rosso, assente da quelle indicate in verde, appena introdotta in quelle indicate in giallo (ECDC)
    In alcuni paesi europei la zanzara tigre non c’è ancora, ma sta pian piano espandendo il proprio areale, cioè la zona in cui prospera: negli ultimi dieci anni è arrivata in cinque nuovi paesi europei. Questo è dovuto in parte all’aumento delle temperature medie ma in parte anche alla capacità della zanzara di adattarsi a temperature più fredde.
    Ci sono poi altre tre specie di zanzare invasive che si sono stabilite in alcune regioni europee. Due sono arrivate anche in Italia, dove infatti sono state citate più volte sui giornali negli ultimi anni: la zanzara giapponese (Aedes japonicus) e la zanzara coreana (Aedes koreicus). Entrambe possono essere confuse con la zanzara tigre perché hanno a loro volta delle macchie bianche; per il momento sono presenti in diverse zone del Nord Italia (quella coreana un po’ più di quella giapponese).
    La zanzara giapponese è originaria di vari paesi dell’Asia orientale e non solo del Giappone. Sopporta bene anche le temperature che si registrano d’inverno nelle regioni temperate e può sopravvivere in assenza di acqua stagnante, a differenza della zanzara tigre. Grazie a queste caratteristiche si è stabilita negli Stati Uniti e nell’Europa centrale, dove è arrivata a partire dagli anni Novanta grazie ai commerci internazionali. Si sa che potrebbe a sua volta fare da vettore per i virus della febbre West Nile, della dengue e della chikungunya.
    La zanzara coreana, un po’ più presente in Italia ma meno in Europa rispetto a quella giapponese, ha cominciato a diffondersi più di recente ma sembra a sua volta più capace di sopportare temperature basse rispetto alla zanzara tigre. In alcune zone della Russia ha trasmesso un virus che causa l’encefalite che però non è presente in Europa. Come le altre specie del genere Aedes è attiva anche nelle ore diurne.
    La diffusione della zanzara coreana in Europa (ECDC)
    Una specie di zanzara più preoccupante per l’ECDC è la cosiddetta zanzara della febbre gialla (Aedes aegypti), che è originaria dell’Africa, ha a sua volta macchie bianche ed è ritenuta la più pericolosa per il trasporto dei virus; la malattia da cui prende il nome peraltro ha sintomi più gravi rispetto alla febbre West Nile e alla dengue. Da tempo la zanzara della febbre gialla si è espansa lungo le coste orientali del mar Nero, in alcune regioni della Russia, della Georgia e della Turchia, e recentemente anche a Cipro – l’isola del Mediterraneo orientale che è anche un paese membro dell’Unione Europea.
    Per questa come per le altre specie il fatto che sia presente non comporta necessariamente la trasmissione di malattie e in particolare la trasmissione della febbre gialla, il cui virus non è presente in Europa.

    – Leggi anche: Perché certe zanzare preferiscono pungere noi invece che altri animali LEGGI TUTTO

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    C’è un po’ troppa preoccupazione per il vermocane

    Caricamento playerDa alcuni mesi è stata segnalata nel Mediterraneo una maggiore presenza del vermocane, un piccolo animale marino descritto come vorace e in grado di causare punture particolarmente dolorose. Le notizie sui suoi frequenti avvistamenti, per lo più da parte dei pescatori, hanno suscitato una certa attenzione e qualche apprensione, complici titoli e articoli di giornale con toni alquanto allarmati in vista della stagione balneare, anche se in realtà le probabilità di incontro con i vermocani durante una nuotata sono basse, così come il rischio di essere urticati dalle loro setole.

    – Ascolta anche: La puntata di “Ci vuole una scienza” dedicata al vermocane

    I vermocani appartengono alla specie Hermodice carunculata, che a sua volta fa parte della grande classe dei policheti, comprendente circa 13mila specie diverse, ottomila delle quali sono presenti nel Mediterraneo. La loro presenza, in particolare lungo le coste del sud Italia, è attestata da almeno un paio di secoli e il loro nome può variare a seconda delle regioni e delle zone. Talvolta vengono chiamati “vermi di fuoco” o “vermi di mare”, per via della loro particolare forma e della loro colorazione rossastra.
    A prima vista un vermocane ricorda un millepiedi. Il suo corpo è infatti schiacciato e suddiviso in segmenti, il cui numero varia a seconda della lunghezza degli individui. Considerato che un vermocane adulto può raggiungere i 15-30 centimetri, i segmenti che lo costituiscono possono arrivare a 150. Ciascuno dei segmenti è dotato di “parapodi”, cioè delle piccole appendici muscolari che i vermocani utilizzano per muoversi sul fondale e per accennare qualche movimento quando una corrente li mantiene sospesi nell’acqua.
    (Wikimedia)
    Ogni segmento è inoltre ricoperto di setole minuscole che si ritiene contengano tossine urticanti, che questi animali utilizzano per difendersi dai predatori. I vermocani si muovono infatti molto lentamente sul fondale e in questo modo riescono a ridurre il rischio di essere cacciati da altri animali. Al tempo stesso, il sistema di difesa consente a questi animali di avvicinarsi alle prede, solitamente ricci di mare, molluschi, stelle di mare (echinodermi) e all’occorrenza pesci. I vermocani si muovono tra le alghe, i coralli e le rocce del fondale fino a 40 metri di profondità, anche se spesso possono essere osservati nelle acque più superficiali dove può avvenire qualche incontro con chi ha deciso di fare una nuotata.
    Le setole dei vermocani sono molto delicate e si spezzano facilmente quando entrano in contatto con qualcosa, compresa la pelle umana. Si conficcano negli strati più esterni della pelle e causano in poco tempo una forte irritazione, che viene di solito descritta come paragonabile a quella causata da alcune specie di meduse, anche se meno dolorosa. Nella zona interessata dal contatto si hanno una forte sensazione di bruciore e di prurito, talvolta accompagnata da un intorpidimento dove si sono conficcate le setole. Solo in casi rari possono esserci nausea e una sensazione di affanno, magari indotta dallo stress conseguente all’incontro imprevisto con un animale poco conosciuto e dall’aspetto poco incoraggiante.

    Non è ancora completamente chiaro se siano solamente le setole a causare l’irritazione o alcune sostanze al loro interno, probabilmente urticanti. Nel caso di un contatto viene comunque consigliato di provare a rimuovere le setole utilizzando del nastro adesivo, da applicare sulla parte e rimuovere nella direzione verso cui puntano le setole. L’uso di un panno caldo può aiutare a denaturare le eventuali sostanze urticanti, cioè a modificarne le caratteristiche fisiche in modo da ridurne l’effetto; viene anche suggerito l’uso di alcol sulla parte interessata per provare ad alleviare il dolore.
    I rischi derivanti da un contatto con vermocani sono stati esagerati su alcuni giornali, così come i racconti sull’effettiva probabilità di entrare in contatto con questi animali. I vermocani sono per lo più animali notturni e di giorno si nascondono sotto gli scogli, particolare che rende ulteriormente difficile un contatto diretto. L’aumento segnalato, e da verificare, della loro popolazione nel Mediterraneo da parte dei pescatori è invece valutato con attenzione perché potrebbe indicare qualche rischio per alcune specie ittiche, vista la voracità dei vermocani. La loro maggiore presenza è stata indicata già da un paio di anni da chi effettua la pesca lungo le coste di Sicilia, Calabria, Puglia e Campania.
    Per verificare la distribuzione e la popolazione di vermocani nel Mediterraneo, da qualche tempo l’Istituto nazionale di oceanografia e di geofisica sperimentale gestisce il progetto “Worms Out” in collaborazione con altre istituzioni ed enti di ricerca. L’iniziativa serve a raccogliere dati ecologici e biologici, sia attraverso le segnalazioni degli avvistamenti sia tramite l’utilizzo di trappole collocate in mare. Per le segnalazioni è possibile utilizzare l’applicazione per smartphone avvistAPP, già sviluppata per il tracciamento di specie ittiche nel Mediterraneo. È stato inoltre preparato un questionario per valutare il livello di conoscenza e la quantità di avvistamenti da parte della popolazione.
    La raccolta di dati sarà importante per stimare l’andamento della popolazione di vermocani nel tempo, approfondendo le possibili cause del loro aumento. Il principale indiziato è l’aumento della temperatura media del Mediterraneo dovuto al riscaldamento globale. Il Mediterraneo è tra i bacini che si stanno scaldando più velocemente sul pianeta e le maggiori temperature favoriscono la proliferazione di alcune specie, talvolta a scapito di altre. LEGGI TUTTO