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    Weekly Beasts

    I procioni sono originari del Nord America, ma negli ultimi decenni si sono diffusi anche in aree urbane di altri paesi del mondo dove erano stati portati come animali da compagnia o come attrazioni all’interno di zoo privati. Sono animali con grandi capacità di adattamento agli ambienti nuovi e sono rapidi a riprodursi, per cui si trovano bene nelle città, dove mangiano dalle ciotole degli animali domestici e dai bidoni della spazzatura e fanno vari danni. A Francoforte sull’Oder, dove vivono i due procioni presenti in questa raccolta, ne vennero introdotti due sul territorio novanta anni fa e oggi ci sono quel tipo di problemi. Tra gli altri animali un longhorn del Texas tra le strade di una cittadina in Pennsylvania, un pangolino nato da poco, una capra nubiana e un orso polare e un chea – sapete cosa è un chea (o kea)? – alle prese con rimedi contro il caldo. LEGGI TUTTO

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    In Antartide gli scienziati sviluppano una lingua loro

    Caricamento playerUno degli effetti di solito meno notati e discussi della globalizzazione e della diffusione delle nuove tecnologie di comunicazione di massa è la progressiva scomparsa degli accenti, cioè i particolari modi di pronunciare le parole parlando una stessa lingua. Generalmente la particolarità di un accento tipico di un certo luogo riflette infatti l’isolamento di quel luogo. Ma dal momento che quasi tutti i luoghi del mondo sono oggi meno isolati che mai, gli accenti sono diventati meno distintivi e le differenze tra l’uno e l’altro meno evidenti. C’è però un luogo della Terra che è rimasto piuttosto isolato da tutti gli altri nel tempo, scelto per condurre alcune ricerche recenti su come evolvono le lingue parlate e gli accenti in ambienti non esposti alle normali influenze esterne: l’Antartide.
    Per via della sua posizione – l’estremo sud del pianeta – e delle sue caratteristiche geografiche e climatiche, l’Antartide è un continente abitato soltanto per periodi di tempo limitati e per fini scientifici, da gruppi di persone di diversi paesi del mondo, inclusa l’Italia. È una specie di enorme laboratorio di ricerca, in cui persone con lingue madri diverse parlano tra loro l’inglese come lingua comune. Alcuni studi di linguistica recenti, tra cui uno condotto in Antartide dalla ricercatrice inglese Stephanie Kaefer, della University of Canterbury, hanno analizzato l’evoluzione della lingua parlata nelle stazioni di ricerca. L’inglese colloquiale di ricercatori e ricercatrici, secondo i risultati degli studi, ha caratteristiche condivise che non erano presenti nell’inglese che parlavano prima della loro esperienza comune in Antartide.
    Nel 2019 Kaefer trascorse tre settimane in tre diverse stazioni antartiche, per raccogliere dati e informazioni. Scoprì un aspetto già emerso da studi precedenti, e cioè che parte del vocabolario comune utilizzato dai ricercatori e dalle ricercatrici era molto figurato. Ciascuna stazione aveva però espressioni colloquiali distinte. I nuovi arrivati in Antartide, per esempio, sono chiamati nella stazione statunitense fingies, da F.N.G.s: un’abbreviazione presa in prestito dal gergo militare, che significa Fucking New Guy (“nuova recluta del cazzo”, o qualcosa del genere). Nella stazione inglese invece sono chiamati fidlets, che deriva da Falkland Islands Dependencies, il nome del programma nazionale di ricerca britannico in Antartide prima che diventasse British Antarctic Survey (BAS) nel 1962.

    – Leggi anche: Nove mesi isolata in Antartide

    Per definire un’escursione non lavorativa all’esterno della stazione gli statunitensi dicono boondoggle (“perdita di tempo e denaro”), gli inglesi jolly (“gita”). La motoslitta – snowmobile, fuori dall’Antartide – si chiama snow machine (“macchina da neve”) nella stazione statunitense, doo in quella inglese (da ski-doo, “motoslitta”). Nella stazione neozelandese si usano parole originali assenti in altre stazioni, ha scritto Kaefer, come nose wipers (“tergi-naso”), per definire i grandi guanti protettivi utilizzati in condizioni meteorologiche estreme, e tray’d (tray è il “vassoio da portata”), un verbo utilizzato per indicare – you’ve been tray’d! – l’ultima persona che infila un piatto sporco nella lavastoviglie e a cui tocca quindi azionarla e poi svuotarla, da protocollo informale utilizzato nella stazione.
    È molto difficile capire esattamente come certe parole inglesi siano diventate di uso comune all’interno delle stazioni in Antartide, secondo Kaefer. Ma l’isolamento è probabilmente un fattore influente nei complessi fenomeni linguistici per cui parole ormai largamente in disuso possono rimanere attuali. «È possibile che quando cominciammo a costruire stazioni di ricerca negli anni Cinquanta e Sessanta parole come boondoggle fossero comuni, e siano all’epoca diventate una parte normale del discorso per poi acquisire una vita propria nella cultura antartica», ha detto Kaefer al Guardian.
    In generale le lingue vengono trasferite di generazione in generazione in periodi lunghi, all’interno delle comunità. I contatti tra una comunità di parlanti e l’altra determinano la diffusione di caratteristiche linguistiche che possono portare a successive innovazioni. Diversi studi citati da Kaefer mostrano come questi processi siano tendenzialmente più rapidi all’interno di comunità che esistono in ambienti isolati e con popolazioni adulte miste. Questo perché in quel tipo di ambienti i contatti tra membri che parlano diverse varietà di una stessa lingua sono più stretti e frequenti rispetto al normale. Di conseguenza nuovi dialetti possono emergere nel giro di due o tre generazioni.

    – Leggi anche: La prospettiva di un mondo in cui non si studiano più le lingue straniere

    Nel gergo di chi fa ricerca scientifica l’Antartide – come anche lo Spazio – non è però un ambiente isolato come altri: è definito un ambiente ICE, un acronimo per «isolato, confinato ed estremo». «Dicono che sia più veloce raggiungere qualcuno sulla Stazione Spaziale Internazionale che portare fuori qualcuno dall’Antartide per ragioni mediche in inverno», ha detto a BBC Marlon Clark, uno scienziato del British Antarctic Survey. Durante le 26 settimane invernali di buio quasi ininterrotto e clima rigido, gli scienziati in Antartide lavorano, mangiano e socializzano rimanendo a stretto contatto quasi per tutto il tempo, incluso quello libero dal lavoro. Dato che il telefono funziona solo via satellite, le chiamate ai familiari sono costose e quindi relativamente limitate.
    La stazione permanente di ricerca inglese Halley nella piattaforma di ghiaccio Brunt, lungo la costa della Terra di Coats, in Antartide, il 23 gennaio 2023 (ANSA-ZUMAPRESS)
    In questo tipo di ambienti, ha scritto Kaefer, il vocabolario può cambiare più lentamente che in altre comunità isolate, come nel caso da lei citato della sopravvivenza della parola boondoggle. «È un fenomeno linguistico molto interessante, per cui le parole si preservano o si fossilizzano, in Antartide, perché la lingua non fa tanto avanti e indietro», ha detto.
    L’Antartide non ha una popolazione nativa né residenti permanenti, ma soltanto una comunità transitoria di scienziati e personale di supporto che vive lì per una parte dell’anno, a rotazione. Nei mesi estivi vivono in Antartide circa 5mila persone, mentre nei mesi invernali soltanto mille. Come raccontato da Clark a BBC, i residenti delle basi di ricerca hanno sviluppato nel tempo una sorta di gergo condiviso, un linguaggio pieno di sfumature e fatto di parole che significano poco per chi viene da fuori. «Se è una bella giornata limpida, diciamo dingle day, e se stai uscendo a portare fuori la spazzatura stai facendo un fod plod [plod significa “scarpinata”]», ha detto Clark.
    Anche l’accento degli scienziati in Antartide subisce una serie di cambiamenti. Dal 2017 in poi un gruppo di ricerca dell’università tedesca Ludwig Maximilian, a Monaco di Baviera, condusse per diversi anni una ricerca sull’evoluzione fonetica dell’inglese parlato da undici scienziati “invernali” della British Antarctic Survey nel corso del tempo: otto erano inglesi, uno statunitense, uno tedesco e uno islandese. I risultati, pubblicati in un primo articolo scientifico nel 2019, mostrarono che gli scienziati avevano progressivamente sviluppato un accento comune, che lo volessero o no, attraverso interazioni che avevano causato «un aggiornamento incrementale della produzione vocale».

    – Leggi anche: Ci sono lingue più “veloci” di altre

    Durante l’inverno antartico, a intervalli di sei settimane, il gruppo di ricerca effettuò di anno in anno una serie di registrazioni di parole pronunciate dagli scienziati, scelte tra quelle che utilizzavano più di frequente e che contenevano suoni vocalici noti perché differiscono nei vari accenti inglesi. Le registrazioni furono poi confrontate tra loro per misurare tramite strumenti informatici l’evoluzione della pronuncia nel tempo.
    Lo studio riscontrò nell’inglese parlato nella stazione una sostanziale «convergenza» fonetica, il fenomeno linguistico per cui persone a stretto contatto cominciano inconsciamente ad acquisire caratteristiche linguistiche omogenee e uniformi all’interno del gruppo. Trascorso un certo periodo, gli scienziati cominciavano in particolare a pronunciare allo stesso modo i suoni /u/ (quello delle vocali “oo” in parole come goose, “oca”), /ju/ (“you” in few, “pochi”), /ɪ:/ (“ee” in happy, “felice”) e /ou/ (“oh” in goat, “capra”, ma anche acronimo di “greatest of all time”).
    L’evoluzione fonetica dell’inglese parlato dagli scienziati in Antartide era acusticamente misurabile, sebbene non percepibile all’orecchio umano, e confermava diversi fenomeni linguistici noti e in parte prevedibili. In linea generale mostrò che gli adulti possono sviluppare un accento condiviso in un tempo relativamente breve, contrariamente all’idea secondo cui gli accenti degli adulti sono piuttosto stabili. Gli autori e le autrici suggerirono tuttavia di non trarre troppe conclusioni, considerate la limitatezza e l’eccezionalità del campione, che fu peraltro condizionato in particolare da due valori «anomali» e più influenti degli altri, riconducibili alla persona di lingua tedesca e a quella di lingua statunitense.
    Il fatto che le differenze tra le registrazioni in Antartide mostrassero un’evoluzione misurabile della pronuncia, rispetto alle registrazioni di controllo della pronuncia delle stesse parole da parte di parlanti nel Regno Unito, suggerì che l’isolamento incoraggi la formazione di un nuovo accento. Questa conclusione è compatibile con l’ipotesi che, in un arco di tempo sufficientemente lungo, un accento può diventare un dialetto e infine una lingua del tutto separata.
    Il ricercatore Jonathan Harrington, coautore dello studio e professore di fonetica all’università Ludwig Maximilian, spiegò al sito IFL Science che l’accento comune degli scienziati era principalmente una «fusione» degli accenti regionali che avevano prima dell’esperienza in Antartide, ma anche un’innovazione. Era misurabile ma non percepibile all’orecchio di un ascoltatore umano perché era molto «più embrionale» rispetto agli accenti convenzionali, «dato che ha avuto solo poco tempo per svilupparsi e anche, ovviamente, perché è distribuito solo tra un piccolo gruppo di parlanti».

    – Leggi anche: Si può pensare senza linguaggio? LEGGI TUTTO

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    È stato effettuato il primo lancio nello Spazio del razzo europeo Ariane 6

    Mercoledì sera è stato effettuato dalla Guyana francese il lancio inaugurale del razzo Ariane 6, realizzato nell’ambito del programma spaziale “Ariane” dal consorzio europeo Arianespace per conto dell’Agenzia Spaziale Europea. Il programma “Ariane” consiste in una serie di razzi a uso civile, e l’Ariane 6 è il più potente costruito finora dal consorzio: il suo lancio è importante soprattutto perché dovrebbe consentire di gestire lanci spaziali a prezzi più economici e competitivi con quelli dei razzi Falcon 9 di SpaceX. LEGGI TUTTO

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    Cos’ha fatto Parigi per ripulire la Senna in vista delle Olimpiadi

    Caricamento playerMancano meno di tre settimane all’inizio delle Olimpiadi di Parigi, ma ci sono ancora dubbi sulla qualità dell’acqua della Senna, il fiume della città, nel quale si terranno le prove di nuoto nel triathlon, individuale e staffetta mista, e quelle di nuoto di fondo (o nuoto in acque libere), una gara lunga dieci chilometri. Il mese scorso le analisi fatte dall’amministrazione cittadina e regionale avevano evidenziato livelli ancora troppo alti di Escherichia coli, un batterio che può causare infezioni di diversi tipi, soprattutto intestinali; a inizio luglio invece nuove analisi hanno stabilito che l’inquinamento è sceso per la prima volta sotto il limite ritenuto pericoloso per la salute e l’acqua sarebbe quindi, al momento, batteriologicamente “pulita”.
    La Senna è un fiume non balneabile da circa un secolo ma negli ultimi anni, sfruttando proprio l’occasione delle Olimpiadi, è stato investito quasi un miliardo e mezzo di euro per rendere possibile nuotare di nuovo in sicurezza. L’idea è di fare le gare di nuoto olimpiche quest’anno e dall’estate prossima aprire al pubblico alcuni punti del fiume, delimitati da barriere. Per diminuire l’inquinamento del fiume, in particolare la diffusione dei batteri, sono stati fatti principalmente due tipi di interventi: «Abbiamo migliorato gli impianti che distruggono i batteri attraverso l’acido performico e le radiazioni ultraviolette. E abbiamo rinnovato il sistema fognario, per separare la rete dell’acqua piovana da quella delle acque reflue e per renderlo efficace anche nei giorni di pioggia forte», spiega Pierre-Antoine Molina, responsabile delle politiche pubbliche nella regione di Parigi.
    Nei giorni di pioggia infatti la Senna è più inquinata, principalmente perché tutti i sistemi di scolo si riempiono, anche quelli con le acque reflue, che quindi vengono scaricate nel fiume per non far debordare le fogne, e poi perché è più facile che una maggior corrente trasporti rifiuti e batteri lungo il corso. «Con le azioni intraprese stimiamo che, quando il tempo è secco, il 75 per cento dell’inquinamento sarà eliminato, mentre per la pioggia abbiamo costruito bacini di stoccaggio dell’acqua per rendere più resiliente il sistema».
    In particolare, in vista delle Olimpiadi è stato inaugurato il bacino di Austerlitz, un enorme cilindro scavato fino a ottanta metri sotto terra che permette di immagazzinare circa 50mila metri cubi di acqua, per impedire che venga scaricata nella Senna. Negli ultimi giorni le condizioni del fiume sono migliorate soprattutto grazie al meteo, perché è piovuto meno rispetto al periodo precedente: «Abbiamo avuto una primavera eccezionalmente piovosa, ma siamo fiduciosi che nei prossimi giorni vedremo dei miglioramenti», aveva detto Molina il giorno precedente all’uscita delle prime analisi positive.
    Pierre-Antoine Molina sulla Senna, a Parigi (Il Post)
    Le tante autorità coinvolte nel piano (l’amministrazione cittadina e quella regionale, l’autorità fluviale, l’ente che gestisce l’acqua) stanno provando anche a correggere tutti i collegamenti sbagliati tra edifici e impianti di scolo delle acque: sostanzialmente in circa 25mila edifici i tubi e le grondaie dell’acqua di scarico e dell’acqua piovana non erano montati correttamente, e quindi le acque spesso si mischiavano, inquinando la Senna. «Finora abbiamo sistemato più del 40 per cento delle connessioni», dice ancora Molina.
    Tutte le barche permanentemente ormeggiate sulle rive della Senna sono state inoltre collegate al sistema fognario, mentre fino all’anno scorso le house boat, i bar e i ristoranti galleggianti scaricavano le loro acque reflue direttamente nel fiume. I proprietari hanno dovuto spendere circa tra i 10 e i 30mila euro a testa per attaccare le loro barche alle fogne, ricevendo in parte un contributo dalle istituzioni, mentre l’amministrazione ha creato nuovi canali e li ha uniti a un collettore centrale sotterraneo dove verranno raccolte le acque di scarico delle barche.
    «C’è sempre resistenza in Francia quando bisogna cambiare le cose, ma questa non era più rimandabile: ne parlavamo da tantissimo tempo», racconta Jean-Philippe Jacob, che da vent’anni vive su una grande barca ormeggiata sotto il Pont Neuf, nel centro di Parigi. Oltre ad aver collegato la sua barca, Jacob ha contribuito in generale a tutta l’operazione, e sembra piuttosto ottimista sulla pulizia del fiume. «La Senna è sporca quando piove tanto, ma altrimenti era già abbastanza pulita anni fa, è un po’ un mito che sia molto inquinata», dice, anche se in realtà negli anni Sessanta la Senna fu dichiarata “biologicamente morta”.
    La house boat di Jean-Philippe Jacob sulla Senna (Il Post)
    Le prime gare che dovrebbero tenersi nella Senna sono le prove di nuoto del triathlon, una disciplina che comprende anche la corsa e il ciclismo, e sono in programma il 30 e il 31 luglio; il 5 agosto poi ci sarà il triathlon misto, mentre l’8 e il 9 agosto ci saranno le gare femminile e maschile di nuoto di fondo. «Abbiamo contatti regolari con le federazioni, capiamo le loro preoccupazioni perché si parla della salute dei loro atleti, ma abbiamo un livello di trasparenza senza precedenti», spiega ancora Molina, riferendosi soprattutto ai test diffusi periodicamente dall’amministrazione.
    Il nuoto in acque libere presenta del resto sempre una percentuale di rischio, ed è probabile che oggi se ne stia parlando più del solito perché si nuoterà in un fiume in cui legalmente non ci si può tuffare da un secolo; in passato però «ci sono state situazioni forse peggiori, ci è già capitato di nuotare in acque sporche e di avere dei nuotatori che vanno in ospedale per un’intossicazione alla fine di una gara», dice Fabrizio Antonelli, allenatore di diversi nuotatori e nuotatrici italiani e stranieri, tra i quali Gregorio Paltrinieri, che farà la 10 chilometri sulla Senna. Anche prima delle Olimpiadi di Rio de Janeiro del 2016, per esempio, si discusse molto sulla qualità dell’acqua nella Baia di Guanabara, dove si tennero le gare di vela, e di quelle di fronte al Forte de Copacabana, il luogo delle prove di nuoto di fondo. «Le acque libere sono uno sport che per antonomasia prevede un forte spirito di adattamento: ci appelliamo a quello e ci prepariamo al meglio».
    «Dopo aver parlato a lungo con i ragazzi, abbiamo deciso che l’importante è che la gara si faccia, e il comitato organizzatore ci ha garantito che andremo via da Parigi avendo gareggiato», dice Antonelli. Proprio negli ultimi giorni comunque è stato ufficializzato un piano B nel caso in cui le condizioni della Senna non consentano di gareggiare in sicurezza: prevede lo spostamento allo stadio nautico di Vaires-sur-Marne, quello in cui ci saranno le gare di canoa e canottaggio.
    «A noi basta gareggiare, poi è chiaro che farlo nella Senna avrebbe un fascino particolare, perché lo scenario è unico e sarebbe una vetrina pazzesca per questo tipo di nuoto», dice ancora Antonelli. Paltrinieri e gli altri nuotatori che si allenano con Antonelli e faranno la gara di fondo si stanno comunque preparando specificamente per nuotare nel fiume, che vuol dire allenarsi a nuotare anche contro forti correnti, quindi con una maggior preparazione muscolare, e abituare il corpo al contatto con le acque libere: «Da anni seguiamo un protocollo medico per mantenere la flora intestinale ricca», spiega Antonelli, «e poi tra alcuni nuotatori c’è un’usanza di bere un bicchierino di Jägermeister o di qualcos’altro di forte alla fine della gara, per ripulirsi».
    Gregorio Paltrinieri, 29 anni, il mese scorso ha vinto la medaglia d’oro agli Europei nella 10 chilometri in acque libere (Emanuele Perrone/Getty Images)
    «Come lo sci, o il canottaggio, o il tennis, il nuoto in acque libere e il triathlon sono soggetti alle condizioni atmosferiche, quindi se ci sarà brutto tempo e non ci saranno le condizioni per le prove nei giorni stabiliti, il Comitato ha un piano per posticiparle», dice Molina. Il problema è che le gare di nuoto di fondo sono previste come detto per l’8 e il 9 agosto, e le Olimpiadi finiranno l’11, quindi se dovesse piovere molto e la situazione della Senna dovesse peggiorare è molto probabile che gli organizzatori opteranno per il piano B, visto che verosimilmente non si potranno aspettare giornate non piovose.
    Le gare olimpiche sono comunque solo la prima, piccola parte del piano dell’amministrazione parigina, che dall’estate 2025 vuole rendere una cosa abituale il fatto di nuotare nella Senna, completando l’iniziativa Paris-Plage, con la quale da oltre vent’anni le rive del fiume in estate vengono attrezzate come fossero delle spiagge (“Paris-Plage” significa appunto “Parigi-Spiaggia”). Secondo Molina «con Paris-Plage la gente si sente già in spiaggia: fare il bagno è solo il prossimo passo. In caso di brutto tempo, per i due giorni successivi sarà vietato nuotare, come succede anche in alcune spiagge sul mare».
    Oltre a continuare a ripulire il fiume e a controllare la qualità dell’acqua, la cosa difficile sarà far cambiare la percezione comune e convincere le persone che la Senna sia davvero pulita e sicura. Alle azioni sui batteri si aggiungono in questo caso quelle sull’inquinamento visibile come i rifiuti, principalmente in plastica, attraverso barriere galleggianti e barche cattura-rifiuti. Poco tempo fa si era parlato anche di un’altra forma di inquinamento, quella dell’acido trifluoroacetico (TFA), una tra le sostanze note collettivamente come PFAS, che deriva dalla degradazione di vari pesticidi: su questo il prefetto Molina ha detto che i livelli dei pesticidi nella Senna sono nella norma, senza però citare una fonte certa.
    Jean-Philippe Jacob, il proprietario della barca, non è invece particolarmente preoccupato dalla diffidenza delle persone, anzi dice che «se ci sarà meno gente nel fiume, avremo più spazio per nuotare». LEGGI TUTTO

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    Bere il mare

    In Sicilia da alcune settimane si discute sulla riapertura del dissalatore di Porto Empedocle, in provincia di Agrigento, per trattare l’acqua di mare e renderla potabile in modo da ridurre i forti problemi legati alla siccità degli ultimi mesi. La Regione ha previsto un milione di euro di spesa e alcuni mesi di lavoro per riattivare l’impianto fermo da 12 anni, ma sono stati espressi alcuni dubbi considerati i costi. I dissalatori consumano infatti molta energia e producono acque di scarto difficili da gestire: per questo sono ancora relativamente poco utilizzati in tutto il mondo, anche se negli ultimi decenni ci sono stati progressi nel miglioramento dei sistemi per renderli più efficienti dal punto di vista energetico.Il 97 per cento dell’acqua presente sulla Terra è salato: è presente nei mari e negli oceani e non può essere bevuto né tanto meno utilizzato per l’agricoltura. Il resto dell’acqua è dolce, con il 2 per cento conservato nei ghiacciai, nelle calotte polari e negli accumuli di neve sulle montagne e l’1 per cento disponibile per le nostre esigenze e quelle dei numerosi altri organismi che per vivere hanno bisogno di acqua quasi totalmente priva di sali, a cominciare dal cloruro di sodio (NaCl, quello che comunemente chiamiamo “sale da cucina”). In media l’acqua marina contiene il 3,5 per cento circa di sale, una concentrazione sufficiente per causare danni ai reni ed essere letale.
    Quell’1 per cento di acqua dolce sarebbe più che sufficiente, se non fosse che non è distribuito uniformemente nel pianeta: ci sono aree in cui abbonda e altre in cui scarseggia, in assoluto oppure a seconda delle stagioni e delle condizioni atmosferiche. Il cambiamento climatico in corso negli ultimi decenni ha peggiorato le cose con aree che sono diventate più aride, riducendo le possibilità di accesso per milioni di persone all’acqua dolce. Stando alle stime dell’Organizzazione mondiale della sanità (OMS), circa 2 miliardi di persone vivono in zone del mondo in cui il reperimento dell’acqua è difficoltoso e solo nel 2022 almeno 1,7 miliardi di persone hanno avuto accesso per lo più ad acqua contaminata, con seri rischi per la salute.
    Considerate le difficoltà nel disporre di acqua dolce, ci si chiede spesso perché non si possa sfruttare su larga scala quella degli oceani, privandola dei sali che non la rendono bevibile. Le tecnologie per farlo ci sono da tempo e alcune furono sperimentate millenni fa, eppure non siamo ancora in grado di trasformare l’acqua di mare in acqua potabile in modo conveniente e sostenibile. In un certo senso è un grande paradosso: il pianeta è ricolmo d’acqua, ma quella che possiamo usare per sopravvivere è una minuscola frazione.
    L’oceano Pacifico è di gran lunga la più vasta distesa d’acqua salata della Terra (NOAA)
    Per molto tempo il sistema più pratico per dissalare l’acqua è consistito nell’imitare ciò che avviene in natura facendola evaporare. Grazie al calore del Sole e a quello del nostro pianeta, ogni giorno una enorme quantità di acqua evapora dagli oceani, dai fiumi e dagli altri corsi d’acqua, raggiungendo gli strati dell’atmosfera dove si formano le nuvole e di conseguenza le piogge, che porteranno l’acqua dolce a cadere al suolo. Con la “dissalazione evaporativa” si fa artificialmente qualcosa di analogo: l’acqua del mare viene scaldata e fatta evaporare, in modo che si separi da buona parte dei sali. Il vapore acqueo viene poi fatto raffreddare in modo che condensi e che si possa recuperare l’acqua quasi priva di sali.
    Negli anni sono state sviluppate varie tipologie di dissalatori evaporativi, per lo più per provare a rendere il più efficiente possibile il processo dal punto di vista energetico, ma il concetto di base rimane più o meno lo stesso. I dissalatori di questo tipo sono impiegati in molti impianti in giro per il mondo, specialmente nelle aree costiere lungo il Golfo in Medio Oriente, dove spesso si sfrutta la grande disponibilità di combustibili fossili per alimentare gli stabilimenti. Il processo richiede infatti grandi quantità di energia e per questo molti gruppi di ricerca hanno sperimentato alternative nei decenni passati.
    Il progresso più importante nelle tecnologie di dissalazione fu raggiunto negli anni Sessanta, quando fu messo a punto il processo di “osmosi inversa”. L’acqua di mare viene fatta passare ad alta pressione attraverso una membrana semipermeabile, che permette solo alle molecole d’acqua di passare dall’altra parte, obbligandola a lasciarsi alle spalle gli ioni dei sali che la rendono salata.
    In un dissalatore a osmosi inversa, l’acqua salata viene aspirata dal mare attraverso potenti pompe e fatta fluire tra grandi grate per separarla dalle impurità più grandi. L’acqua attraversa poi membrane con pori via via più piccoli per bloccare il passaggio della sabbia, dei batteri e di altre sostanze. L’acqua è infine pronta per essere spinta ad alta pressione attraverso una membrana che ha solitamente pori di dimensioni intorno a 0,1 nanometri (un nanometro è un miliardesimo di metro), tali da bloccare il passaggio dei sali, ma non delle molecole d’acqua.

    Da un punto di vista energetico, la dissalazione per osmosi inversa è più conveniente rispetto a quella per evaporazione, perché non richiede di scaldare l’acqua. Alcuni impianti sono arrivati a produrre acqua dolce con un consumo di 2 kWh (“kilowattora”) per metro cubo d’acqua, un risultato importante se si considera che negli anni Settanta il consumo era di 16 kWh per metro cubo. In media si stima che la dissalazione dell’acqua con i metodi più diffusi comporti un consumo di 3 kWh/m3 e che negli ultimi cinquant’anni si sia ridotto di circa dieci volte. L’attuale consumo è paragonabile a quello del trasporto dell’acqua su lunghe distanze verso i luoghi in cui manca, mentre è ancora lontano da quello degli impianti che forniscono localmente l’acqua dolce disponibile sul territorio.
    L’osmosi inversa, nelle sue varie declinazioni, ha contribuito più di altre tecnologie a ridurre l’impatto energetico della dissalazione, ma ha comunque i suoi limiti. A causa della forte pressione, le membrane per realizzarla devono essere sostituite di frequente e la loro costruzione è laboriosa e delicata. Inoltre, man mano che si estrae l’acqua dolce, l’acqua marina di partenza diventa sempre più salata e sempre più difficile da separare dai sali che contiene. Oltre un certo limite non si può andare e si ottiene una salamoia che deve essere gestita e smaltita.
    I livelli di efficienza variano molto a seconda degli impianti, ma in media un dissalatore a osmosi inversa produce un litro di salamoia per ogni litro di acqua dolce (ci sono analisi più o meno pessimistiche sul rapporto). Si stima che ogni giorno siano prodotti circa 140 miliardi di litri di salamoia, la maggior parte dei quali vengono dispersi nuovamente in mare. Lo sversamento avviene di solito utilizzando condotte sottomarine che si spingono lontano da quelle che effettuano i prelievi, in modo da evitare che sia aspirata acqua di mare troppo salata.
    L’impianto di desalinizzazione a Barcellona, Spagna (AP Photo/Emilio Morenatti)
    Data l’alta quantità di sali al suo interno, la salamoia è più densa della normale acqua di mare e tende quindi a rimanere sul fondale marino prima di disperdersi nel resto dell’acqua marina. La maggiore concentrazione di sali potrebbe avere conseguenze sugli ecosistemi marini e per questo il rilascio della salamoia in mare è studiato da tempo, anche se per ora le ricerche non hanno portato a trovare molti indizi sugli eventuali effetti deleteri. In alcuni paesi ci sono comunque leggi che regolamentano le modalità di sversamento, per esempio richiedendo l’utilizzo di tubature che si spingano più al largo e che abbiano molte diramazioni, in modo da rilasciare la salamoia in più punti favorendo la sua diluizione col resto dell’acqua marina.
    Lo sversamento in mare non è comunque l’unica tecnica per liberarsi della salamoia. Un’alternativa è lasciare che evapori al sole, raccogliendo poi i sali in un secondo momento per utilizzarli in altre attività industriali. È però un processo che richiede del tempo, la disponibilità di porzioni di territorio sufficientemente grandi e un clima che renda possibile l’evaporazione in buona parte dell’anno. In alternativa l’evaporazione può essere ottenuta scaldando la salamoia, ma anche in questo caso sono necessarie grandi quantità di energia e il processo non è efficiente.
    Non tutte le salamoie sono uguali perché la concentrazione di sali non è uniforme e omogenea negli oceani, per questo alcuni gruppi di ricerca stanno esplorando la possibilità di sfruttarle per ottenere minerali particolarmente richiesti. L’interesse principale è per il litio, una materia prima molto richiesta per la produzione di batterie e dispositivi elettrici. La sua estrazione viene effettuata di solito in alcune zone aride del mondo, a cominciare da quelle del Sudamerica, dove acque sature di sali vengono lasciate evaporare sotto al Sole per mesi. Sono in fase di sperimentazione sistemi alternativi di estrazione, ma separare il litio dalle altre sostanze non è semplice e richiede comunque energia.
    In Arabia Saudita, uno dei paesi che hanno più investito nello sviluppo di tecnologie di dissalazione a causa della ricorrente mancanza di acqua dolce, è in progettazione un impianto per estrarre dalla salamoia ulteriore acqua da rendere potabile e al tempo stesso ottenere cloruro di sodio. Questa sostanza è fondamentale per molti processi dell’industria chimica, ma deve avere un alto livello di purezza difficile da raggiungere tramite i classici processi di desalinizzazione. L’impianto utilizzerà particolari membrane per separare le impurità e produrre di conseguenza del cloruro di sodio puro a sufficienza, almeno nelle intenzioni dei responsabili dell’iniziativa.
    Altri gruppi di ricerca si sono invece orientati verso il perfezionamento di tecniche che prevedono l’applicazione di una corrente elettrica per diluire la salamoia, in modo da poter estrarre più quantità di acqua dolce attraverso l’osmosi inversa. Ulteriori approcci prevedono invece l’impiego di solventi chimici che a basse temperature favoriscono la separazione delle molecole d’acqua dal resto, permettendo di nuovo un maggiore recupero di acqua dolce dalla salamoia.
    Come ha spiegato al sito di Nature un ingegnere ambientale della Princeton University (Stati Uniti): «Per molti anni abbiamo mancato il bersaglio. Ci siamo concentrati sull’acqua come un prodotto: secondo me, l’acqua dovrebbe essere un prodotto secondario di altre risorse». L’idea, sempre più condivisa, è che per rendere economicamente vantaggiosa la desalinizzazione ci si debba concentrare sulle opportunità derivanti dallo sfruttamento delle sostanze di risulta, lasciando l’acqua dolce a tutti e senza costi. Non tutti sono però convinti della sostenibilità di questa impostazione, soprattutto per la sostenibilità in generale del settore.
    I dissalatori attivi nel mondo sono circa 15-20mila con dimensioni, capacità e tecnologie impiegate che variano a seconda dei paesi e delle necessità. Si stima che dall’acqua dolce prodotta con la desalinizzazione dipendano almeno 300 milioni di persone, anche se le stime variano molto ed è difficile fare calcoli precisi. L’impatto energetico dei dissalatori è però ancora molto alto e di conseguenza il costo di ogni litro di acqua dolce prodotto in questo modo rispetto ai luoghi dove l’acqua dolce è naturalmente disponibile.
    Un operaio al lavoro sui filtri di un impianto di dissalazione a San Diego, California, Stati Uniti (AP Photo/Gregory Bull)
    Gli impianti per dissalare l’acqua sono generalmente più convenienti quando possono essere costruiti direttamente in prossimità delle aree dove scarseggia l’acqua dolce, ma solo in alcune parti del mondo le zone aride si trovano lungo aree costiere. Per le comunità che vivono in luoghi siccitosi lontano dai mari il trasporto dell’acqua deve essere comunque gestito in qualche modo. Ci sono quindi casi in cui è più economico trasportare acqua dolce da una fonte distante rispetto a desalinizzare quella di mare.
    In futuro la desalinizzazione potrebbe riguardare una quantità crescente di persone a causa dell’aumento della salinità di alcune riserve d’acqua soprattutto lungo le aree costiere. L’aumento della temperatura media globale ha reso più intensi i processi di evaporazione in certe aree del mondo, influendo sulla concentrazione dei sali anche nei corsi d’acqua dolce. L’innalzamento dei mari, sempre dovuto al riscaldamento globale, è visto come un altro rischio per la contaminazione delle falde acquifere vicino alle coste che potrebbero aumentare le quantità di sali.
    I più ottimisti sostengono che i problemi energetici legati ai dissalatori potranno essere superati grazie allo sviluppo delle centrali nucleari a fusione, che metteranno a disposizione enormi quantità di energia a una frazione dei prezzi attuali. La fusione porterebbe certamente a una riduzione del costo dell’energia senza paragoni nella storia umana, ma il suo sviluppo procede a rilento e richiederà ancora decenni, ammesso che possa mai portare a qualche applicazione tecnica su larga scala.
    Invece di fare affidamento su tecnologie di cui ancora non disponiamo, gli esperti consigliano di ripensare il modo in cui utilizziamo l’acqua dolce, riducendo il più possibile gli sprechi e ottimizzando i consumi in modo da avere necessità dei dissalatori solo dove non ci sono alternative. Nelle aree esposte stagionalmente alla siccità si dovrebbero invece costruire bacini per l’accumulo e la conservazione dell’acqua piovana, per esempio, insieme a impianti per la purificazione e il riciclo delle acque reflue. LEGGI TUTTO

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    Lo scorso giugno è stato il più caldo mai registrato

    Secondo il Climate Change Service di Copernicus, il programma di collaborazione scientifica dell’Unione Europea che si occupa di osservazione della Terra, il mese di giugno è stato il più caldo mai registrato sulla Terra. La temperatura media globale è stata di 16,66 °C, cioè 0,14 °C più alta del precedente record, del giugno del 2023. Inoltre lo scorso giugno è stato il tredicesimo mese consecutivo considerato il più caldo mai registrato a livello globale rispetto ai mesi corrispondenti degli anni passati. Le stime di Copernicus sono realizzate usando diversi tipi di dati, tra cui le misurazioni dirette della temperatura fatte da reti di termometri presenti sulla terra e in mare e le stime dei satelliti. LEGGI TUTTO

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    Le navi cargo dovrebbero andare più lentamente

    Caricamento playerBuona parte degli oggetti che usiamo ogni giorno, dai cellulari agli abiti passando per le banane, ha attraversato almeno un oceano dal momento in cui è stata prodotta a quello in cui è stata venduta. Ogni giorno migliaia di navi trasportano merci di ogni tipo producendo annualmente tra il 2 e il 3 per cento di tutta l’anidride carbonica che viene immessa nell’atmosfera attraverso le attività umane. È un settore con una forte dipendenza dai combustibili fossili, ma che potrebbe diminuire sensibilmente le proprie emissioni ricorrendo a una soluzione all’apparenza semplice, quasi banale: ridurre la velocità.
    L’idea non è di per sé rivoluzionaria – si conoscono da tempo gli intervalli entro cui mantenersi per ottimizzare i consumi – ma applicarla su larga scala non è semplice soprattutto in un settore dove la velocità viene spesso vista come una priorità e un valore aggiunto. Se si cambia il modo in cui sono organizzati i trasporti marittimi ci sono conseguenze per molti altri settori, che dipendono dalle consegne delle materie prime o dei prodotti finiti. Un ritardo può avere effetti sulla capacità di un’azienda di produrre automobili o di consegnarle in tempo nei luoghi del mondo dove la domanda per le sue auto è più alta, per esempio.
    La necessità di ridurre il rischio di ritardi ha portato a una pratica piuttosto comune nel settore nota come “Sail fast, then wait”, letteralmente: “Naviga veloce, poi aspetta”. Spesso le navi cargo effettuano il più velocemente possibile il proprio viaggio in modo da arrivare quasi sempre in anticipo a destinazione rispetto al momento in cui avranno il loro posto in porto per scaricare le merci. L’attesa in alcuni casi può durare giorni, nei quali le navi restano ferme al largo prima di ricevere l’assegnazione di un posto.
    Il “naviga veloce, poi aspetta” è diventato la norma per molti trasportatori marittimi in seguito all’adozione da parte di molte aziende della strategia “just in time”, che prevede di ridurre il più possibile i tempi di risposta delle aziende alle variazioni della domanda. È un approccio che ha tra gli obiettivi la riduzione al minimo dei tempi di magazzino, rendendo idealmente possibile il passaggio diretto dall’impianto di produzione al cliente finale. Ciò consente di ridurre i costi di conservazione delle merci e i rischi di avere periodi con molti prodotti invenduti, ma comporta una gestione molto più precisa delle catene di rifornimento perché un ritardo di un singolo fornitore o di una consegna può fare inceppare l’intero meccanismo.
    Chi si occupa del trasporto delle merci deve quindi garantire il più possibile la puntualità delle consegne: di conseguenza adotta varie strategie per ridurre i rischi di ritardi dovuti per esempio alle condizioni del mare poco favorevoli o imprevisti burocratici. In molti casi sono i clienti stessi a chiedere garanzie ai trasportatori sul ricorso al “naviga veloce, poi aspetta” per la gestione delle loro merci. Il risultato è in media un maggior consumo di carburante per raggiungere le destinazioni in fretta e una maggiore quantità di emissioni di gas serra, la principale causa del riscaldamento globale.
    Per provare a cambiare le cose e a ridurre consumi ed emissioni del settore, un gruppo di aziende e di istituzioni partecipa a Blue Visby Solution, una iniziativa nata pochi anni fa e che di recente ha avviato le prime sperimentazioni di un nuovo sistema per far rallentare le navi e ridurre i tempi di attesa nei porti. Il sistema tiene traccia delle navi in partenza e in arrivo e utilizza algoritmi e modelli di previsione per stimare l’affollamento nei porti, in modo da fornire alle singole navi indicazioni sulla velocità da mantenere per arrivare al momento giusto in porto. I modelli tengono in considerazione non solo il traffico marittimo, ma anche le condizioni meteo e del mare.
    (Cover Images via ZUMA Press)
    Il sistema è stato sperimentato con simulazioni al computer utilizzando i dati reali sulle rotte e il tempo impiegato per percorrerle di migliaia di navi cargo, in modo da verificare come le modifiche alla loro velocità potessero ridurre i tempi di attesa, i consumi e di conseguenza le emissioni di gas serra. Terminata questa fase di test, tra marzo e aprile di quest’anno Blue Visby ha sperimentato il sistema in uno scenario reale, grazie alla collaborazione con un produttore di cereali australiano che ha accettato di rallentare il trasporto da parte di due navi cargo delle proprie merci in mare.
    Il viaggio delle due navi cargo è stato poi messo a confronto con simulazioni al computer degli stessi viaggi effettuati alla normale velocità. Secondo Blue Visby, i viaggi rallentati hanno prodotto tra l’8 e il 28 per cento in meno di emissioni: l’ampio intervallo è dovuto alle simulazioni effettuate in scenari più o meno ottimistici, soprattutto per le condizioni meteo e del mare. Il rallentamento delle navi ha permesso di ridurre emissioni e consumi, con una minore spesa per il carburante. Parte del risparmio è servita per compensare i maggiori costi operativi legati al periodo più lungo di navigazione, ha spiegato Blue Visby.
    I responsabili dell’iniziativa hanno detto a BBC Future che l’obiettivo non è fare istituire limiti alla velocità di navigazione per le navi cargo, ma offrire un servizio che ottimizzi i loro spostamenti e il tempo che dividono tra la navigazione e la permanenza nei porti o nelle loro vicinanze. Il progetto non vuole modificare la durata di un viaggio, ma intervenire su come sono distribuite le tempistiche al suo interno. Se per esempio in un porto si forma una coda per l’attracco con lunghi tempi di attesa, Blue Visby può comunicare a una nave in viaggio verso quella destinazione di ridurre la velocità ed evitare lunghi tempi di attesa in prossimità del porto.
    La proposta ha suscitato qualche perplessità sia perché per funzionare bene richiederebbe la collaborazione per lo meno delle aziende e dei porti più grandi, sia perché potrebbero sempre esserci navi che decidono di mettere in pratica il “naviga veloce, poi aspetta”, magari per provare ad avvantaggiarsi rispetto a qualche concorrente. I sostenitori di Blue Visby riconoscono questo rischio, ma ricordano anche che i nuovi regolamenti e le leggi per ridurre le emissioni da parte del settore dei trasporti marittimi potrebbero favorire l’adozione del nuovo sistema, che porta comunque a una minore produzione di gas serra.
    (AP Photo/POLFOTO, Rasmus Flindt Pedersen)
    Il nuovo approccio non funzionerebbe comunque per tutti allo stesso modo. È considerato applicabile soprattutto per le navi portarinfuse, cioè utilizzate per trasportare carichi non divisi in singole unità (per esempio cereali o carbone), visto che hanno quasi sempre un solo cliente di riferimento e sono maggiormente coinvolte nella consegna di materie prime. Il sistema è invece ritenuto meno adatto per le navi portacontainer, che di solito coprono quasi sempre le stesse rotte e con i medesimi tempi per ridurre il rischio di girare a vuoto o di rimanere a lungo nei porti.
    Rallentare alcune tipologie di navi cargo potrebbe ridurre le emissioni, ma non può comunque essere considerata una soluzione definitiva al problema delle emissioni prodotte dal trasporto marittimo delle merci. Da tempo si discute della necessità di convertire le navi a carburanti meno inquinanti e di sperimentare sistemi ibridi, che rendano possibili almeno in parte l’impiego di motori elettrici e la produzione di energia elettrica direttamente a bordo utilizzando pannelli solari e pale eoliche.
    Il settore, insieme a quello aereo, è considerato uno dei più difficili da convertire a soluzioni meno inquinanti, anche a causa dell’attuale mancanza di alternative. Oltre alle condizioni meteo e del mare, i trasporti attraverso gli oceani sono inoltre esposti ai rischi legati alla pirateria e agli attacchi terroristici, che portano gli armatori a rivedere le rotte in alcuni casi allungandole e rendendo di conseguenza necessaria una maggiore velocità di navigazione per rispettare i tempi delle consegne. LEGGI TUTTO

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    Weekly Beasts

    Negli anni Ottanta sulla piccola isola di Anma, nella contea del Yeonggwang (Corea del Sud), vennero introdotti una decina di cervi sika, le cui corna erano utilizzate nella medicina tradizionale. Ad anni di distanza il loro numero è cresciuto fino a raggiungere un migliaio, al punto che gli abitanti dell’isola sono esasperati dai danni che causano ai raccolti e al territorio e chiedono che vengano classificati come fauna selvatica dannosa (e non come bestiame) in modo da mettere in atto un programma di abbattimento. Nelle foto di animali della settimana c’è uno di questi cervi che prova a sfuggire a un abitante che vorrebbe anestetizzarlo con una cerbottana, che fa parte di un bel reportage dell’agenzia Reuters. Completano la raccolta un po’ di animali nati da poco: un rinoceronte bianco, una renna, un pinguino di Humboldt, tre pulcini di tucano e due di suricato nati al parco delle Cornelle in provincia di Bergamo. Per finire con il salto di due delfini e un’elegantissima berta maggiore. LEGGI TUTTO