More stories

  • in

    Le foto della “superluna” di ieri sera

    Nella notte tra lunedì e martedì la Luna è apparsa ad alcuni osservatori un po’ più grande del solito. È successo perché oltre a essere piena si trovava anche nel punto più vicino alla Terra nella sua orbita: un fenomeno che viene informalmente chiamato “superluna”. L’orbita della Luna intorno al nostro pianeta infatti è ellittica, quindi la distanza tra i due corpi celesti varia nel corso dell’anno (se fosse perfettamente circolare, la distanza sarebbe sempre uguale).Avvicinandosi e allontanandosi da noi, la Luna appare quindi più grande o più piccola, ma anche più o meno luminosa: quando è alla distanza minima dalla Terra, al perigeo, è lontana circa 360mila chilometri, mentre alla distanza massima, l’apogeo, è più o meno a 405mila chilometri.

    Il fenomeno si ripete tre o quattro volte in un anno ma quella di ieri era una delle opportunità migliori per osservarlo, nuvole permettendo. La differenza di grandezza percepita è comunque contenuta e non è sempre facile coglierla a occhio nudo, visto che la superluna ha un diametro di circa il 10-15 per cento in più. Fotografie e osservazioni con punti di riferimento fissi all’orizzonte (come palazzi, ponti o montagne) e giochi di prospettiva vengono spesso fatte per far notare l’eccezionalità del fenomeno, a volte accentuandolo: per chi non l’ha vista ieri sera qui ce ne sono un po’, da tutto il mondo. LEGGI TUTTO

  • in

    Weekly Beasts

    A Lido Beach, nello stato di New York, le guardie forestali e i volontari stanno monitorando la popolazione di un uccello marino della stessa famiglia dei gabbiani, il becco a cesoia americano, che catturano, controllano ed etichettano: in questa gallery ce ne sono alcuni sulla spiaggia, e altri in volo sopra l’oceano. Poi c’è la prima apparizione pubblica allo zoo di Berlino di un cucciolo di ippopotamo pigmeo, una particolare specie di ippopotamo di piccole dimensioni, ma anche animali che cercano di rinfrescarsi, una cicogna con le ali spiegate e cavalli al galoppo. Per finire, un piccolo orango di Sumatra, cullato dalla madre. LEGGI TUTTO

  • in

    Cosa sappiamo della nuova variante di mpox

    Caricamento playerIl virus dell’mpox, la malattia a cui un tempo ci si riferiva come “vaiolo delle scimmie” e che il 14 agosto è stata dichiarata un’emergenza sanitaria internazionale dall’Organizzazione mondiale della sanità (OMS), è noto alla comunità scientifica dal 1970. Tra il 2022 e il 2023 si era già diffuso in varie parti del mondo, Europa compresa, a partire dall’Africa centrale e occidentale, dove è endemico. Attualmente è presente soprattutto nella Repubblica Democratica del Congo, dove quest’anno circola una nuova variante più contagiosa e più pericolosa: da gennaio al 7 agosto ci sono stati più di 14mila casi presunti (di più che in tutto il 2023) e 511 morti probabilmente dovute alla malattia.
    In Italia e negli altri paesi europei le infezioni registrate nell’ultimo anno sono state poche e d’importazione, cioè relative a persone che erano state all’estero, per cui per il momento qui non c’è da allarmarsi. Finora fuori dall’Africa è stato riscontrato un unico caso di infezione legata alla nuova variante, il sottotipo chiamato “1b”. È stato trovato in Svezia e le autorità sanitarie del paese hanno fatto sapere che la persona infettata si era contagiata durante un viaggio in Africa.
    Il virus dell’mpox, indicato dalla sigla MPXV, si trasmette stando a lungo molto vicino a una persona infettata (anche solo parlandole faccia a faccia), o attraverso oggetti con cui era stata in contatto, come lenzuola, abiti o aghi per iniezioni. Inoltre può passare da una donna incinta al feto. Contrariamente a quanto credono in molti, non si trasmette unicamente per via sessuale, anche se è una modalità di contagio comune.
    La malattia può essere asintomatica o causare sintomi di diversa gravità, che il più delle volte compaiono entro una settimana dal contagio e durano dalle due alle quattro settimane. I più comuni sono eruzioni cutanee, febbre, mal di gola, mal di testa, dolori muscolari, mal di schiena, spossatezza e linfonodi ingrossati. Le eruzioni cutanee, che possono evolvere in vescicole o pustole piene di un liquido giallastro causa di prurito o dolore, sono una delle caratteristiche che permettono di riconoscere la malattia. Di solito compaiono prima sul viso e successivamente possono diffondersi sul resto del corpo. Le persone malate rimangono contagiose fino a che non sono completamente guarite.
    Come molte altre malattie l’mpox è rischioso soprattutto per chi ha le difese immunitarie già indebolite per altre ragioni e i sintomi variano a seconda del ceppo del virus responsabile del contagio. Esistono due ceppi principali, che l’OMS identifica con le espressioni in inglese “clade I” e “clade II”. Il ceppo indicato con il numero romano I è stato trovato per la prima volta in Africa centrale ed è il più diffuso nella Repubblica Democratica del Congo. Il ceppo indicato con II, inizialmente riscontrato in Africa occidentale, è invece quello a cui si deve l’epidemia del 2022-2023, causata principalmente dal sottotipo IIb. I sintomi causati dal ceppo I sono più gravi rispetto a quelli dovuti al ceppo II.
    La variante individuata più di recente appartiene al ceppo I: tecnicamente avrebbe dovuto essere indicata come Ib, ma si è diffusa la dicitura 1b, col numero arabo. Era stata trovata inizialmente in un focolaio di mpox a Kamituga, una cittadina mineraria nel centro-ovest della Repubblica Democratica del Congo, a circa 270 chilometri dal confine col Ruanda. Poi sono stati trovati dei casi in Burundi, Kenya, Ruanda e Uganda e complessivamente quelli dovuti al sottotipo 1b che sono stati confermati dalle analisi di laboratorio sono più di 100. È tuttavia possibile che il numero reale sia più alto perché i test necessari per appurarlo non sono stati fatti su tutte le persone che mostravano sintomi compatibili con la variante (in Africa centrale i servizi sanitari non hanno le risorse per controllare tutti i presunti casi di mpox).
    Secondo le indagini dell’OMS, il nuovo ceppo virale si sta diffondendo prevalentemente attraverso i rapporti sessuali. L’organizzazione ha deciso di dichiarare l’emergenza sanitaria internazionale perché il virus si sta diffondendo dalla Repubblica Democratica del Congo ai paesi vicini. La nuova variante è ancora poco conosciuta, ma si ritiene che sia particolarmente contagiosa e che causi sintomi più gravi.
    In generale, nell’Africa centrale l’mpox rappresenta una minaccia maggiore rispetto ai paesi europei per via dei limiti delle strutture sanitarie locali: è più facile che i casi più gravi della malattia causino complicanze, come infezioni alle eruzioni cutanee, polmoniti, infezioni alle cornee (con rischi per la vista), diarrea e conseguente disidratazione, encefaliti o miocarditi, anche fino alla morte. È particolarmente rischiosa per i bambini, che nei paesi dell’Africa centrale sono tra le persone più esposte all’infezione.
    Olivia Wigzell, capo dell’Agenzia svedese per la salute pubblica, ha fatto sapere che la persona contagiata dalla variante 1b che si trova in Svezia è ricoverata vicino a Stoccolma e ha sottolineato che il fatto che sia in cura lì non significa che esistano dei rischi di contagio per la popolazione locale. La divisione europea dell’OMS ha invitato gli altri paesi del continente a intervenire velocemente e a segnalare eventuali casi di variante 1b come ha fatto la Svezia, ipotizzando che nei prossimi giorni e settimane potrebbero emergere altri «casi d’importazione».
    Al momento ci sono due vaccini che vengono usati per scongiurare i contagi da MPXV, ma nei paesi più colpiti dall’epidemia non è ancora stato possibile fare delle campagne vaccinali di larga scala. L’OMS sta raccogliendo donazioni e lavorando con le aziende produttrici di vaccini perché arrivino più dosi nelle zone in cui ce n’è maggiormente bisogno. La dichiarazione dello stato di emergenza internazionale dovrebbe anche favorire una maggiore coordinazione nel contrasto alla diffusione del virus.
    In Europa era stata fatta una campagna vaccinale contro l’mpox a partire dall’agosto del 2022, durante la precedente epidemia internazionale. In quell’occasione erano state interessate in modo prioritario le persone che rientravano nelle categorie ritenute più a rischio di contagio: chi lavora in laboratori a contatto con il virus, le persone con comportamenti sessuali considerati a rischio dalle autorità sanitarie, e quelle venute in contatto con persone malate.
    In passato l’mpox era chiamato “vaiolo delle scimmie”. Il virus che lo causa appartiene infatti all’ordine Orthopoxvirus, lo stesso del vaiolo, una malattia molto più rischiosa che però venne debellata nel 1980 grazie a una lunga campagna vaccinale internazionale (quella per cui le persone italiane con più di 47 anni hanno una cicatrice su un braccio). Il riferimento alle scimmie invece derivava dal fatto che inizialmente, nel 1958, era stato scoperto nei campioni biologici di scimmie in cattività, prima che facesse un “salto di specie” e diventasse un virus infettivo anche per gli esseri umani.
    Nel novembre del 2022 l’OMS decise di cambiare il nome ufficiale della malattia, raccomandando prima di tutto alla comunità medica e ai media di non usare più quello vecchio, perché sia su internet che in altri contesti veniva sfruttato per esprimere concetti razzisti e stigmatizzanti. LEGGI TUTTO

  • in

    La megattera più anziana del mondo ha un’età notevole

    Caricamento playerChe le megattere potessero vivere fino a oltre cinquant’anni finora era stato solo ipotizzato, ma adesso ce n’è la prova. A luglio il ricercatore di cetacei all’Università delle Hawaii Adam A. Pack ha individuato durante una spedizione nel sud dell’Alaska quella che si ritiene essere la più anziana megattera vivente di cui si abbia traccia: è un maschio, viene chiamato Old Timer, che si può tradurre come “veterano”, ed era stato avvistato per la prima volta nel 1972.
    Come ha spiegato il New York Times, è sorprendente che sia vissuto così a lungo, visto che qualche decennio fa la popolazione mondiale della specie era stata decimata soprattutto dalla caccia, e che in anni recenti molti altri esemplari non sono sopravvissuti alle diverse minacce a cui sono stati esposti: come il transito delle navi, le reti per la pesca a strascico in cui spesso rimangono impigliati, e poi il cambiamento climatico e le grandi ondate di calore che negli ultimi anni hanno ucciso molti uccelli e mammiferi marini, comprese le megattere.
    Le megattere (Megaptera novaeangliae) sono grandi cetacei diffusi in tutti gli oceani. Si cibano di pesci e piccoli crostacei (krill) in acque fredde, mentre per la riproduzione si spostano in quelle tropicali o subtropicali. Hanno una lunghezza che va dagli 11 ai 17 metri e possono pesare fino a 40 tonnellate; non sono dotate di denti, bensì di una specie di frange, dette fanoni, che servono per filtrare acqua e cibo.
    Un po’ come tutti i cetacei sono difficili da individuare, osservare e studiare, ma si riescono a distinguere grazie ad alcune loro caratteristiche fisiche: in particolare la colorazione del corpo e le cicatrici o i bordi frastagliati della pinna caudale, quella che alcuni pesci hanno sulla coda e che li aiuta a spostarsi nell’acqua. È proprio grazie al confronto tra le foto d’archivio e quelle scattate a luglio nelle acque del Frederick Sound, un fiordo nel sud dell’Alaska, che Pack può dire di aver visto Old Timer. La sua coda è quasi del tutto nera, con una serie di pigmenti bianchi verso le estremità, ed è la stessa che sempre Pack aveva visto nel 2015 nelle acque di Petersburg, non lontano da Frederick Sound.
    Considerando che quando era stato visto per la prima volta era già sviluppato, deve avere almeno 53 anni: questo rende Old Timer «la più vecchia megattera di cui si abbia notizia al mondo» ha detto Pack, che è co-fondatore e presidente del Dolphin Institute, un’organizzazione non profit che si occupa di cetacei.

    Old Timer era stato fotografato per la prima volta nel 1972 nel canale di Lynn, a nord di Juneau, la capitale dell’Alaska, e fa parte di un gruppo che trascorre l’inverno nella zona delle Hawaii e l’estate nel nord-est dell’oceano Pacifico. I cetacei di quest’area sono studiati fin dagli anni Settanta grazie al lavoro di Louis Herman, autore delle migliaia di fotografie che nel tempo hanno permesso ad altri scienziati di individuare gli animali e osservare i loro comportamenti e le loro rotte migratorie.
    Pack, un ex studente di Herman, ha definito il nuovo avvistamento «rincuorante», perché potrebbe significare che anche le megattere più anziane riescono a essere resilienti.

    – Ascolta anche: Sonar. Come il linguaggio costruisce la realtà, anche sott’acqua

    Al momento secondo l’Unione Internazionale per la Conservazione della Natura – l’ente riconosciuto dall’ONU che valuta quali specie animali e vegetali rischiano l’estinzione – esistono circa 84mila individui di megattera, e la popolazione della specie è in crescita. Tuttavia la maggior parte di quelle che ci sono in giro oggi è nata alla fine degli anni Ottanta, quando a causa della caccia erano arrivate a essere meno del 10 per cento di quante fossero nell’Ottocento, correndo il rischio di estinguersi.
    Negli ultimi decenni la popolazione è tornata ad aumentare principalmente per due ragioni. La prima è l’introduzione di una moratoria alla caccia alle balene per fini commerciali che è tuttora in vigore (con l’eccezione di Islanda, Norvegia e Giappone, per fattori storici e culturali). La seconda, almeno in parte, è il riscaldamento globale, che ha aumentato di circa 80 giorni il periodo dell’anno in cui il mare è senza ghiaccio e quindi gli animali possono trovare cibo più facilmente (in parte, appunto: gli effetti più estremi del cambiamento climatico continuano a essere molto dannosi anche per loro).
    In questi anni Pack e altri ricercatori hanno sfruttato uno strumento di riconoscimento messo a disposizione da una piattaforma che raccoglie più di un milione di foto per analizzare l’andamento della popolazione di megattere nel Pacifico settentrionale. Nel 2012 nell’area erano stati individuati circa 33.500 individui, in aumento rispetto a quando il progetto era cominciato, nel 2002. Tra il 2012 e il 2016 tuttavia è stato notato un declino che finora gli scienziati si sono spiegati con una serie di estati in cui l’acqua dell’oceano aveva temperature più alte della norma.
    Ted Cheeseman, uno dei fondatori della piattaforma e coinvolto nelle ricerche, ha detto che il fenomeno deve ancora essere approfondito, ma che in generale «se l’acqua è più calda vuol dire che c’è meno cibo disponibile, e che quello che c’è è più sparso e più in profondità». La situazione sembra essere preoccupante soprattutto alle Hawaii, dove nel 2021 la popolazione di megattere era calata del 34 per cento rispetto al 2013. Tornando a Old Timer, una delle ipotesi di Pack è che «sia stato in giro abbastanza a lungo da riuscire ad adattarsi quando le risorse di cibo sono limitate»: non è comunque chiaro se si possa dire lo stesso anche per altre megattere. LEGGI TUTTO

  • in

    È stato risolto un pezzetto dell’enigma di Kaspar Hauser

    Caricamento playerIl 26 maggio 1828 un ragazzo che indossava abiti trasandati fu visto aggirarsi da solo e confusamente nelle strade di Norimberga, in Germania. Si esprimeva male a parole, sembrava avere un qualche tipo di ritardo cognitivo, ma raccontò di aver passato tutta la propria vita in una stanza buia, dormendo a terra su un giaciglio di paglia e ricevendo solo pane e acqua da uno sconosciuto. Questo racconto affascinò molte persone, alcune delle quali ipotizzarono che Kaspar Hauser (così si chiamava il ragazzo secondo una di due lettere anonime che portava con sé quando fu “trovato”) fosse il legittimo erede del defunto granduca di Baden Karl, rapito e nascosto poco dopo la nascita per un intrigo dinastico.
    La storia di Hauser ebbe grande risonanza sia in Germania che all’estero, perché all’epoca c’era una grande curiosità riguardo ai comportamenti innati, quelli che un essere umano mostrerebbe anche se fosse cresciuto del tutto isolato. Le reali circostanze della vita di Hauser però non furono mai chiarite. L’uomo morì nel 1833 per una ferita al petto che, secondo quanto disse, gli procurò un assalitore ignoto. Secondo altre ricostruzioni, secondo cui fu un impostore mitomane, se la inflisse invece da solo. Nei decenni la sua vicenda ispirò vari libri, una poesia di Paul Verlaine, una canzone di Suzanne Vega e vari film, tra cui il famoso L’enigma di Kaspar Hauser di Werner Herzog (1974). Ora uno studio genetico ha aggiunto un nuovo elemento, escludendo che Hauser fosse l’erede del granduca di Baden.
    Questa conclusione è stata raggiunta attraverso delle analisi del DNA contenuto in tre ciocche di capelli appartenute a Hauser e conservate in alcune collezioni private. Lo studio, pubblicato in versione pre-print sulla rivista iScience, è stato fatto da un gruppo di ricerca internazionale all’Istituto di medicina forense di Innsbruck, in Austria, e all’Università di Potsdam, in Germania, con la collaborazione della genetista britannica Turi King, che nel 2013 identificò i resti del re d’Inghilterra Riccardo III (1452-1485).
    Per la teoria che attribuiva a Hauser un’origine aristocratica, l’uomo sarebbe stato il figlio del granduca Karl e della moglie Stéphanie di Beauharnais, una parente di Giuseppina, la prima moglie di Napoleone. Nel 1812 i due ebbero un figlio maschio, l’unico nato dal loro matrimonio, che però morì dopo 18 giorni di vita. Per questo, alla morte del granduca nel 1818, fu suo zio Ludwig a succedergli e dato che nemmeno lui aveva avuto figli maschi, nel 1830 il trono passò a un altro zio del granduca Karl, Leopold. Secondo la teoria riguardo a Kaspar Hauser, la madre di Leopold, la contessa di Hochberg Luise Karoline, avrebbe scambiato il figlio del granduca Karl con un neonato malato, per favorire l’ascesa al trono del figlio.

    Già due volte in passato erano state fatte delle analisi genetiche a partire da oggetti legati a Kaspar Hauser. Nel 1996 fu esaminata una porzione di tessuto intrisa di sangue ottenuta da un paio di calzoni conservati in un museo di Ansbach, in Baviera, che sarebbero stati indossati da Hauser prima della morte. Dal campione venne estratto del DNA mitocondriale, che contiene informazioni sull’ascendenza da parte di madre, e lo si confrontò con quello di due discendenti viventi di Stéphanie di Beauharnais. Quel primo studio non trovò corrispondenze, dunque escluse la discendenza nobile, ma lasciò un’incertezza perché non era sicuro che i calzoni appartenessero davvero a Hauser.
    Altre analisi vennero fatte tra il 2001 e il 2002, utilizzando un altro indumento del museo di Ansbach e delle ciocche di capelli riconducibili con certezza a Hauser. La sequenza di DNA mitocondriale così ottenuta risultò diversa da quella del 1996 e molto affine al DNA di uno dei discendenti di Stéphanie di Beauharnais, apparentemente confermando la teoria sulle origini nobili di Hauser. La porzione di DNA in questione tuttavia era molto piccola e statisticamente non si poteva escludere che la somiglianza trovata fosse una coincidenza. I metodi di analisi genetica usati fino ai primi anni Duemila del resto funzionavano molto male con i campioni molto piccoli o molto vecchi.
    Dal 2014 il patologo forense Bernd Brinkmann, che aveva già lavorato alle analisi dei primi anni Duemila, cercò di ottenere altri campioni dal museo di Ansbach, per poterli analizzare con tecniche genetiche più aggiornate, ma l’istituto non ha più concesso agli scienziati di esaminare gli oggetti della sua collezione. Così nel 2019 si è deciso di ripetere uno studio genetico sulle ciocche di capelli, aggiungendone una terza a quelle già esaminate. Grazie a una tecnica di sequenziamento del DNA sviluppata solo nel 2017 è stato verificato che tutti i campioni esaminati (sia le varie ciocche di capelli che il sangue sui calzoni del museo) appartenevano alla stessa persona e che questa non era imparentata con Stéphanie di Beauharnais. Le discrepanze tra le analisi precedenti erano dovute esclusivamente ai limiti delle vecchie tecniche di analisi.
    King ha commentato la scoperta chiarendo che comunque quello di Kaspar Hauser resta un mistero, perché il DNA mitocondriale, l’unico che si può ottenere da tracce di sangue antiche e da capelli senza bulbo, non permette di ricostruire interamente il genoma di una persona. Per questo non si può nemmeno fare delle ipotesi sulla regione di provenienza di Hauser, si sa solo genericamente che era probabilmente nato nell’Europa occidentale. Walther Parson dell’Università di Innsbruck, uno degli autori del nuovo studio, ha spiegato che servirebbero dei campioni ossei per ottenere maggiori informazioni.
    Nemmeno quelli tuttavia potrebbero chiarire se la storia raccontata da Hauser a proposito della sua lunga prigionia fosse vera, o se, come nel tempo hanno concluso molti studiosi appassionati alla sua vicenda, l’uomo fosse in realtà un mentitore patologico, desideroso di attirare l’attenzione. LEGGI TUTTO

  • in

    Quando finisce questo caldo?

    Caricamento playerPiù o meno dall’8 agosto l’Italia e vari altri paesi europei sono interessati da un’ondata di calore, cioè da temperature inusualmente più alte rispetto alla media, che ha fatto registrare massime superiori ai 36 o ai 38 °C in molte località. Il caldo è dovuto all’anticiclone sub-tropicale africano, un’area atmosferica di alta pressione proveniente dall’Africa che ha mantenuto il meteo mediamente stabile (lo si può immaginare come una grande montagna di aria calda che impedisce il passaggio di correnti più fresche).
    Nell’ultimo bollettino sulle ondate di calore, il ministero della Salute ha previsto per il 15 agosto il più alto livello di rischio per il caldo in 21 delle 27 città dove vengono fatti i monitoraggi, tra cui Roma, Milano, Napoli, Torino, Firenze e Bologna. Il livello di rischio più alto, che corrisponde al 3 ed è informalmente chiamato “bollino rosso”, segnala le condizioni meteorologiche che possono avere effetti negativi per la salute non solo per le persone più vulnerabili, come anziani, bambini molto piccoli e malati cronici, ma anche per le persone sane. La situazione sarà più o meno invariata anche il 16 agosto; migliorerà però fino al livello 1 a Milano e Torino.
    Nei giorni successivi le cose dovrebbero cambiare perché è previsto l’arrivo di una perturbazione proveniente dall’oceano Atlantico che porterà precipitazioni e un abbassamento delle temperature. Il servizio meteorologico dell’Aeronautica militare ha previsto temperature più o meno stazionarie per le giornate di giovedì (Ferragosto) e venerdì, e un lieve raffrescamento nel corso del fine settimana, in particolare domenica e soprattutto nelle regioni del Centro-Nord.

    Rispetto ad altre zone d’Europa, comunque, in Italia quest’estate non sono stati registrati dei particolari record di temperatura. È andata peggio alla Spagna e alla Grecia, dove le alte temperature degli ultimi giorni hanno favorito l’espansione di un vasto incendio vicino ad Atene.

    – Leggi anche: Perché si muore per il caldo LEGGI TUTTO

  • in

    Usare l’MDMA come farmaco si sta rivelando più complicato del previsto

    Caricamento playerIl 9 agosto la Food and Drug Administration (FDA), l’agenzia statunitense che si occupa della regolamentazione dei prodotti farmaceutici, ha deciso di non approvare una terapia per lo stress post-traumatico che prevede l’uso combinato dell’MDMA, una sostanza psicoattiva illegale nella maggior parte dei paesi del mondo, e della psicoterapia. Il trattamento, sviluppato dall’azienda Lykos Therapeutics, era il primo in cui fosse coinvolta l’MDMA a essere stato sottoposto alla FDA, le cui valutazioni hanno una vasta influenza anche al di fuori degli Stati Uniti.
    L’esito dell’analisi dell’agenzia era molto atteso nel campo di ricerca che negli ultimi vent’anni si è dedicato ai possibili impieghi di sostanze come l’MDMA e gli psichedelici per curare disturbi resistenti al trattamento con altri psicofarmaci, comprese certe forme di depressione. Il fatto che per ora questo trattamento non sia stato approvato non significa che i vari altri in attesa di essere valutati dall’FDA saranno giudicati allo stesso modo, ma la notizia ha deluso gli scienziati che studiano gli psichedelici, molte persone in attesa di nuove terapie per lo stress post-traumatico e tante altre che per varie ragioni in questi anni hanno formato un movimento di interesse per gli studi sugli effetti di psichedelici e affini.
    Ha anche reso evidenti alcuni dei problemi della ricerca farmacologica sulle sostanze psicoattive che sono piuttosto difficili da risolvere e gestire. Uno è il fatto che generalmente una persona che partecipa a uno studio che prevede l’assunzione di una di queste sostanze capisce in fretta se gli è stato somministrato un placebo, cosa che si fa con una parte dei soggetti partecipanti per distinguere eventuali effetti dovuti all’autosuggestione: per questo non è possibile ottenere risultati in linea con gli standard scientifici usati in tutti gli altri ambiti della medicina.

    – Leggi anche: Il problema nello studiare gli psichedelici

    Un altro grosso problema è il ruolo della psicoterapia: il trattamento proposto dalla Lykos prevede appunto di associare l’assunzione dell’MDMA a colloqui con psicoterapeuti adeguatamente formati, una formula prevista anche in molte altre sperimentazioni simili in attesa di analisi da parte dell’FDA. Quest’agenzia tuttavia si esprime unicamente sugli aspetti farmacologici e non ha dunque né l’obiettivo né la predisposizione per valutare la parte di psicoterapia.
    MDMA è l’abbreviazione di “3,4-metilenediossimetanfetamina”, una sostanza a cui ci si riferisce spesso come ecstasy. Anche se è di frequente associata a sostanze psichedeliche come l’LSD ed è studiata nello stesso campo di ricerca, non ha proprio lo stesso tipo di effetti. Gli psichedelici propriamente detti provocano alterazioni delle percezioni che possono essere associate a visioni o alla sensazione di aver compreso qualche verità sull’esistenza. L’MDMA invece provoca la scomparsa della stanchezza e di molte inibizioni e ha un effetto “empatogeno”, fa cioè percepire un trasporto affettivo e un senso di vicinanza per le persone che si hanno intorno. Per queste ragioni è storicamente molto assunta nei club di techno e ai rave, anche come alternativa all’alcol (a differenza del quale non fa aumentare l’aggressività).
    L’effetto dell’MDMA dura qualche ora e si conclude gradualmente. La sostanza non genera dipendenza e il principale effetto negativo, che può anche non verificarsi, è una specie di contraccolpo emotivo: una fase che si verifica qualche giorno dopo l’assunzione in cui si può provare ansia e malinconia. Tuttavia un’assunzione ripetuta, frequente e abituale può generare forme di depressione. Altri effetti collaterali di cui ogni tanto si sente parlare dai giornali sono solitamente causati da un dosaggio eccessivo, che può causare vari problemi fisici, oppure sono dovuti ad altre sostanze spacciate per MDMA.
    Negli ultimi anni l’MDMA è stata presa in considerazione come possibile farmaco da associare alla psicoterapia per curare lo stress post-traumatico, cioè quella forma di disagio che si sviluppa in seguito a esperienze fortemente traumatiche, come la partecipazione ai combattimenti di una guerra o una violenza sessuale. Metterebbe infatti i pazienti nella condizione di rielaborare insieme a un terapeuta i traumi che li affliggono, senza dover affrontare l’ostacolo dell’autogiudizio e l’angoscia causata dal ripensare ai traumi stessi: in pratica aiuterebbe le persone a tollerare i ricordi dolorosi e a evitare il meccanismo spontaneo che porta a non volerne parlare, e permetterebbe agli psicoterapeuti di discuterne con loro.
    Negli Stati Uniti era già stata usata in questo modo anche da alcuni psicoterapeuti non convenzionali tra gli anni Settanta e Ottanta, grazie all’attività di divulgazione che portò avanti lo scienziato Sasha Shulgin, prima che fosse inserita nell’elenco delle droghe illegali.
    La Lykos Therapeutics ha sviluppato la propria terapia che prevede l’uso dell’MDMA a partire da queste vecchie esperienze. L’azienda è nata nel 2014 come branca a scopo di lucro di MAPS, un’organizzazione fondata nel 1986 per contrastare le politiche proibizioniste sulle droghe e promuovere sia la decriminalizzazione del loro consumo, sia la ricerca scientifica sui possibili effetti terapeutici degli psichedelici, interrotta per anni dopo che erano stati dichiarati illegali.
    Tra le diverse sostanze che si stanno studiando, la Lycos aveva scelto di dare la priorità all’MDMA perché è quella con meno effetti collaterali e per cui riteneva di avere maggiori possibilità di arrivare a un’approvazione da parte dell’FDA.
    Grazie ai risultati incoraggianti di alcuni studi iniziali, nel 2017 l’agenzia aveva concesso a questa sostanza un percorso preferenziale nei propri processi di approvazione, dato che per i disturbi per cui ne è proposto l’uso non ci sono molte cure. Sono passati 25 anni da quando l’FDA ha approvato per l’ultima volta dei farmaci per lo stress post-traumatico, gli antidepressivi a base di sertralina e paroxetina, e si stima che per il 40 per cento dei pazienti non siano una terapia efficace. Un’altra ragione per cui la Lycos aveva deciso di puntare sull’MDMA è che negli Stati Uniti si sente molto il bisogno di trovare nuovi trattamenti per lo stress post-traumatico: è una condizione che affligge molti reduci dell’esercito, le cui associazioni di rappresentanza hanno un’influenza politica significativa, e complessivamente 13 milioni di persone nel paese.
    Gli inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina, gli antidepressivi che oggi si usano contro lo stress post-traumatico, richiedono un’assunzione continuativa e prolungata nel tempo. Invece il trattamento proposto dalla Lycos prevede solo tre assunzioni di MDMA nella vita, da effettuare con l’assistenza di uno psicoterapeuta che metta a frutto gli effetti della sostanza in un colloquio. Dato che il sistema di approvazione da parte dell’FDA non si esprime sulla psicoterapia e sui suoi effetti, e dato che esistono moltissime forme diverse di psicoterapia (uno stesso terapeuta ne può usare diverse), la Lycos aveva sviluppato un proprio protocollo per i terapeuti, da seguire in tutte le fasi della sperimentazione per avere risultati coerenti.
    Molti psicofarmaci vengono assunti in associazione con forme di psicoterapia, ma possono anche essere prescritti da soli. Nel caso degli psichedelici e delle sostanze affini, almeno per come sono state studiate finora, gli effetti benefici si avrebbero solo tenendo insieme l’aspetto farmacologico e quello di terapia della parola.
    I risultati dello studio della Lycos sono stati molto positivi. Nella sperimentazione finale sono state coinvolte più di 190 persone: a sei mesi dalla fine del trattamento, il 71 per cento di quelle a cui è stata somministrata l’MDMA dopo il trattamento non ha più avuto sintomi riconducibili allo stress post-traumatico, contro il 48 per cento del gruppo a cui è stato dato il placebo (e che comunque ha seguito la psicoterapia).
    Nonostante questi risultati a giugno una commissione di scienziati a cui l’FDA aveva chiesto di giudicare lo studio si era espressa contro l’approvazione della terapia, e ora l’agenzia ha confermato la valutazione. Secondo un comunicato della Lycos che riassume le motivazioni dell’FDA – che non le ha diffuse pubblicamente – c’erano vari aspetti che la commissione ha trovato poco convincenti. Uno è il fatto che tra i partecipanti allo studio alcuni avessero assunto l’MDMA illegalmente in precedenza. Ma anche le incertezze riguardo alla mancanza di un vero effetto placebo nel gruppo di controllo e riguardo al contributo della psicoterapia hanno avuto un ruolo.
    La FDA ha chiesto alla Lycos di effettuare una nuova sperimentazione per fornire maggiori dati a sostegno dell’efficacia del trattamento. L’azienda ha detto che ci vorranno vari anni per farlo e ha annunciato che farà ricorso contro la decisione dell’agenzia.
    In Australia già dall’anno scorso l’MDMA e la psilocibina possono essere utilizzate all’interno di sessioni di psicoterapia. Anche in questo paese però c’è chi ha ancora posizioni molto caute sull’uso di queste sostanze perché non si conoscono ancora gli effetti a lungo termine di queste terapie.
    In generale finora le ricerche sugli psichedelici – che sono tutto sommato recenti se si considerano solo quelle realizzate con i metodi scientifici più avanzati – non hanno indagato a sufficienza sui tipi di psicoterapia da associare al loro uso terapeutico. Alcune delle aziende farmaceutiche che stanno investendo in questo campo, e che diversamente dalla Lycos non sono nate dall’attivismo per la decriminalizzazione degli psichedelici, non hanno interessi a fare studi in questo ambito e si stanno concentrando sugli aspetti farmacologici, quelli determinanti per l’approvazione da parte dell’FDA.
    Per alcuni studiosi del settore è un problema: ci sarebbe il rischio che in futuro gli psichedelici e le sostanze affini come l’MDMA siano sì autorizzati per usi terapeutici, ma che anche in quanto tali siano oggetto di forme di abuso come gli antidepressivi tradizionali. LEGGI TUTTO

  • in

    Come gli scarafaggi hanno colonizzato il mondo

    Caricamento playerLa Blattella germanica è la specie di scarafaggio più diffusa al mondo, come sa bene chi ha fatto i conti con un’infestazione di questi insetti in casa. Lunghi meno di due centimetri e dal colore marrone tendente al rosso, questi scarafaggi sono praticamente ovunque ci siano esseri umani, mentre è molto più difficile trovarli negli ambienti naturali. Talmente difficile da avere indotto un gruppo di ricerca a chiedersi come mai e soprattutto quale sia l’effettiva origine di questi velocissimi, affamati ed estremamente prolifici insetti.
    A differenza di quanto suggerisca il nome, la Blattella germanica non è originaria della Germania. La specie fu classificata in questo modo dal naturalista svedese Carl Nilsson Linnaeus (quasi sempre italianizzato in Linneo), che nel Diciottesimo secolo aveva perfezionato un sistema di nomenclatura che avrebbe profondamente influenzato il modo in cui mettiamo ordine tra le specie. La scelta derivò più da ragioni storiche che scientifiche.
    I primi scarafaggi di quella specie avevano iniziato a farsi notare in Europa poco meno di tre secoli fa, almeno a giudicare dalle testimonianze dell’epoca e dai primi riferimenti a questo particolare tipo di insetto. All’epoca la Svezia era coinvolta in quella che sarebbe diventata nota come la “Guerra dei sette anni” e aveva tra i propri nemici parte dell’odierna Germania. In un certo senso finirono nel mezzo del conflitto anche gli scarafaggi, con gli opposti schieramenti che li chiamavano con riferimenti ai nemici, come “scarafaggi prussiani” o “scarafaggi russi” a seconda dei casi. In questo contesto Linneo decise di chiamare la specie Blattella germanica, nome che resiste ancora oggi e che definisce lo scarafaggio per antonomasia.
    L’origine di questi insetti non è però tedesca e nemmeno europea, almeno secondo la ricerca da poco pubblicata sulla rivista scientifica Proceedings of the National Academy of Sciences (PNAS). Per scoprire l’origine dello scarafaggio più diffuso al mondo, un gruppo di ricerca internazionale ha chiesto a esperti in diversi paesi di fornire alcuni campioni degli scarafaggi raccolti nel corso del tempo per effettuare i loro studi. Non era una richiesta particolarmente insolita: accade di frequente che entomologi e altri studiosi ricevano individui di scarafaggi, magari dalle società che si occupano di fare disinfestazione e che vogliono assicurarsi di avere a che fare con una determinata specie.
    Il gruppo di ricerca ha ottenuto in questo modo 281 scarafaggi appartenenti alla specie Blattella germanica, più alcuni individui appartenenti ad altre specie. Dopodiché ne ha studiato il materiale genetico per identificare somiglianze e differenze, in modo da stabilire legami di parentela dal punto di vista della loro evoluzione.
    Lo studio dice che gli scarafaggi che conosciamo tutti sono strettamente imparentati con una specie asiatica che si chiama Blattella asahinai, che viene comunemente chiamato scarafaggio asiatico. Secondo il gruppo di ricerca, le due specie iniziarono a differenziarsi circa 2.100 anni fa, un periodo relativamente vicino per i tempi dell’evoluzione. Le due specie hanno moltissime cose in comune, del resto, al punto che spesso gli individui di una vengono confusi con quelli dell’altra.
    Sulla base delle differenze genetiche tra i vari scarafaggi analizzati, il gruppo di ricerca ha identificato due probabili grandi ondate di diffusione della Blattella germanica dall’Asia al resto del mondo. La prima si verificò 1.200 anni fa con uno spostamento verso occidente, forse favorito dai viaggi di mercanti e soldati, usati come risorsa dagli scarafaggi per rimediare cibo e un passaggio.
    La seconda grande ondata iniziò poco meno di quattro secoli fa, forse favorita dal progressivo sviluppo delle tecnologie per scaldare gli edifici, visto che questi animali in origine erano abituati alle temperature tropicali. L’avvio delle attività coloniali e dei commerci attraverso gli oceani favorì la successiva diffusione degli scarafaggi in buona parte del mondo. Circa 270 anni fa la Blattella germanica fece il proprio ingresso in Europa, impiegando poco tempo per diffondersi in buona parte del continente e farsi notare anche da Linneo.
    L’aspetto affascinante che il gruppo di ricerca ha derivato dalle analisi è che in un certo senso sono stati gli esseri umani a favorire l’esistenza e la diffusione della Blattella germanica. Gli scarafaggi avevano di per sé una spiccata capacità di adattamento e, di generazione in generazione attraverso mutazioni casuali, sono diventati via via più abili nello sfruttare le cose che facciamo per vivere: conservare il cibo, dormire di notte e rimanere al caldo. La Blattella germanica va alla ricerca delle nostre riserve di cibo, è spesso più attiva di notte quando può agire indisturbata e predilige gli ambienti caldi, soprattutto per potersi riprodurre.
    Le specie di blatte conosciute sono circa 4.600 (le stime variano a seconda delle classificazioni), con caratteristiche anche molto diverse tra loro, ma per questioni di prossimità nell’immaginario comune gli scarafaggi sono una cosa sola: la Blattella germanica. Piccolo, sfuggente e per molti disgustoso, questo insetto ha condizionato fortemente il nostro modo di pensare agli scarafaggi e più in generale agli insetti. In realtà il mondo degli scarafaggi è vario e a tratti sorprendente.
    Uno scarafaggio scavatore gigante (Macropanesthia rhinoceros), tra le specie di scarafaggi più pesanti (Wikimedia)
    Mentre una Blattella germanica supera di rado i due centimetri di lunghezza, la Megaloblatta longipennis raggiunge una lunghezza massima di poco meno di dieci centimetri. Per i più preoccupati: vive in Colombia, Ecuador e Perù. La specie che conta gli individui più pesanti è invece quella dello scarafaggio scavatore gigante (Macropanesthia rhinoceros) che può pesare fino a 35 grammi: vive in Australia ed è ovoviparo, cioè incuba e fa schiudere le uova al proprio interno prima di rilasciare i nuovi nati all’esterno.
    Gli scarafaggi appartenenti al genere Attaphila sono invece minuscoli e raramente superano i 3 millimetri di lunghezza. Infestano i nidi di alcune specie di formiche, riuscendo a sfuggire al controllo delle loro inconsapevoli ospiti imitandone l’odore.
    Uno dei punti di forza degli scarafaggi è la loro versatilità e capacità di nutrirsi praticamente di qualsiasi cosa. In particolare la Blattella germanica è attratta dalla carne, da alimenti ricchi di amido (come il riso o la pasta), dai cibi grassi e da quelli particolarmente zuccherini. In caso di mancanza di queste prime scelte, gli scarafaggi di questa specie non disdegnano pasti a base di residui di dentifricio, colla o sapone. Nei periodi di grande carestia, uno scarafaggio non si fa comunque molti problemi nel mangiare i propri simili. Non sono gli unici insetti a farlo ed è una soluzione che permette ai loro gruppi, spesso gerarchici, di sopravvivere il tempo necessario per produrre una nuova generazione pronta a seguire le nostre abitudini. LEGGI TUTTO