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    Come si comporta il cervello nei momenti da ricordare

    Diverse ricerche di neuroscienze pubblicate negli ultimi decenni hanno permesso di scoprire che la conversione delle esperienze quotidiane in ricordi permanenti avviene per una sua parte significativa quando dormiamo. Il sonno agisce sul cervello come una specie di pulizia della memoria, utile a stabilire quali pensieri trattenere e quali scartare. Se una selezione del genere non fosse normale, in una certa misura, ricorderemmo qualsiasi cosa: come il protagonista del racconto Funes el memorioso, dello scrittore argentino Jorge Luis Borges.Un importante studio pubblicato a marzo sulla rivista Science e seguito da altri studi sullo stesso argomento ha descritto un processo neurofisiologico osservato nei topi, che potrebbe spiegare come il cervello dei mammiferi riconosce, tra le molte attività quotidiane, quelle che diventeranno ricordi a lungo termine. Le “contrassegna” con improvvise e potenti onde cerebrali ad alta frequenza, che vengono poi attivate in momenti successivi di riposo e durante il sonno. Lo studio è stato condotto da un gruppo di ricerca della New York University, guidato dall’influente neuroscienziato ungherese György Buzsáki, che si occupa da oltre trent’anni di studi sull’ippocampo, una delle aree del cervello responsabili della memoria.
    Le onde cerebrali sono oscillazioni di vario tipo prodotte dall’attività elettrica del tessuto nervoso nel sistema nervoso centrale, di solito rappresentate attraverso tracciati ottenuti tramite l’elettroencefalogramma poligrafico, che possono anche essere convertite in suoni (e persino in composizioni). Il tipo particolare di attività cerebrale studiato da Buzsáki e da altri è detto «increspature delle onde acute» (sharp wave ripples, SWR), secondo una definizione data alla fine degli anni Settanta dal neuroscienziato inglese e premio Nobel John O’Keefe, che le aveva osservate mentre studiava la memoria spaziale dei ratti.
    Le increspature delle onde acute sono generate dall’attivazione di molte migliaia di neuroni con una frequenza di pochi millisecondi: si verificano principalmente durante il sonno, ma anche in stato di veglia, quando il cervello riposa tra un’attività e un’altra. Che fossero coinvolte nel consolidamento e nella conservazione dei ricordi era noto da precedenti studi del gruppo di Buzsáki e di altri gruppi. Quello pubblicato a marzo su Science è però il primo studio a suggerire che queste specifiche oscillazioni siano coinvolte anche nel processo di selezione delle esperienze da fissare nella memoria a lungo termine.

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    Per condurre lo studio il gruppo di ricerca guidato da Buzsáki ha impiantato degli elettrodi nell’ippocampo di un gruppo di topi in laboratorio, in modo da registrare le loro onde cerebrali mentre completavano una serie di percorsi in un labirinto, intervallati da pause indotte nella loro attività esplorativa (uno zuccherino diluito in una soluzione). Di ciascun individuo hanno registrato l’attività cerebrale di diverse centinaia di neuroni simultaneamente. Sebbene le increspature delle onde acute dell’ippocampo siano uno degli eventi cerebrali più simultanei in assoluto tra quelli osservati nel cervello dei mammiferi, i neuroni che le generano non si attivano tutti nello stesso momento ma in sequenza.
    Per provare a capire il funzionamento di queste particolari oscillazioni è utile immaginare «una melodia al pianoforte», ha detto a Quanta Magazine Daniel Bendor, un neuroscienziato della University College London non coinvolto nello studio del gruppo di Buzsáki. Una sequenza specifica di neuroni si attiva per registrare un’esperienza, più o meno come un pianista batte i tasti della tastiera in un certo ordine. Poi, durante il sonno, il cervello ripete quella sequenza ma più velocemente, centinaia o migliaia di volte. E le increspature delle onde acute si propagano dall’ippocampo, che è una specie di stazione di passaggio per i ricordi episodici di particolari esperienze, verso la corteccia, che è coinvolta nella memoria a lungo termine.

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    Il gruppo di ricerca guidato da Buzsáki ha scoperto che ogni sequenza, cioè ogni ordine specifico di attivazione dei neuroni, «codificava» una particolare sezione del labirinto attraversata dai topi. E ha scoperto che i neuroni si attivavano poi secondo la stessa sequenza ma a velocità maggiore in momenti in cui i topi riposavano tra un’attività e un’altra, e mentre dormivano.
    I percorsi compiuti dai topi nel labirinto e subito seguiti da 5-20 increspature delle onde acute, durante la momentanea inattività indotta, erano quelli che venivano riprodotti di più anche durante il sonno, attraverso serie di 2-4mila increspature. Il giorno successivo i topi mostravano di ricordare di più le sezioni di labirinto associati alle increspature, mentre i percorsi seguiti da pochissime o nessuna increspatura – sia durante le pause momentanee che durante il sonno – non erano diventati ricordi duraturi.
    Il nuovo studio ha prima di tutto confermato un modello noto da tempo: gli esseri umani e gli altri mammiferi fanno esperienza dell’ambiente per alcuni istanti, poi si fermano, poi riprendono l’esplorazione, poi si fermano ancora, e così via. Dopo aver prestato attenzione a qualcosa, scrivono gli autori e le autrici dello studio, il cervello passa spesso a una modalità di provvisoria rivalutazione «inattiva», sia durante il giorno che nel sonno, in modo da rafforzare le connessioni tra le cellule coinvolte nel processo di memorizzazione.

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    Lo studio più recente di Buzsáki e dei suoi colleghi è il primo loro studio a mostrare increspature delle onde acute nella fase di esplorazione attiva, suggerendo l’ipotesi che siano parte di un meccanismo innato e inconscio di «etichettatura» delle esperienze con schemi neuronali che si attivano poi in un secondo momento. «Molte parti della nostra esperienza di veglia vengono ritagliate e legate insieme ad altre esperienze utilizzando questo schema nell’ippocampo», ha detto Buzsáki a Discover Magazine.
    È come se il cervello avesse due diverse modalità: una di acquisizione e una di archiviazione. Non è del tutto a riposo quando siamo inattivi, perché rielabora ciò che è stato «contrassegnato» durante l’attività. «Le increspature delle onde acute si verificano quando non siamo attenti, ma sono importanti quanto lo è la modalità attiva», ha detto Buzsáki. Ed è questa la ragione per cui le pause sono necessarie per il funzionamento del cervello e della memoria, come mostrano da tempo diversi studi, anche molto recenti, sugli effetti della privazione del sonno su vari processi neurofisiologici e sui comportamenti.
    Non è chiaro come né perché questo sistema si sia evoluto nei mammiferi, ha detto la ricercatrice Wannan Yang, coautrice dello studio, in un comunicato stampa diffuso dal centro ospedaliero universitario della New York University. «Future ricerche potrebbero tuttavia mostrare che dispositivi o terapie in grado di regolare le increspature delle onde acute possono migliorare la memoria o addirittura ridurre il ricordo di eventi traumatici», ha aggiunto Yang. Interrompere le increspature potrebbe diventare, per esempio, parte di un trattamento per condizioni come il disturbo da stress post-traumatico (PTSD), in cui le persone ricordano determinate esperienze in modo troppo vivido.

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    Lo studio pubblicato a marzo su Science ha fornito informazioni rilevanti sugli schemi di attivazione neuronale attraverso cui il cervello, non soltanto durante il sonno ma anche durante le pause, rafforza il ricordo di determinate esperienze. Lascia tuttavia inevasa la domanda sul perché alcune esperienze siano conservate e altre no. A volte le esperienze che ricordiamo sembrano del tutto casuali o irrilevanti, e comunque diverse da ciò che selezioneremmo se potessimo scegliere, perché è come se il cervello stabilisse priorità diverse, ha detto a Quanta Magazine Loren Frank, neuroscienziato della University of California.
    Dal momento che le esperienze nuove e quelle di grande impatto emotivo tendono a essere ricordate meglio, secondo Frank è possibile che siano le oscillazioni interne dei livelli di determinati neuromodulatori e neurotrasmettitori, come la dopamina o l’adrenalina, a influenzare i neuroni responsabili della selezione delle esperienze da ricordare. LEGGI TUTTO

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    Come riconoscere le costellazioni in queste notti d’estate

    Caricamento player«Guarda come si vede bene l’Orsa maggiore!», e non vedete niente. «Ma sì, lo vedi quel punto luminoso? Parti da lì poi vieni giù un po’ a destra e vedi il primo pezzo della costellazione» e ancora nulla. L’amico insiste, la notte è tersa e limpida, ideale per osservare le stelle, ma un’Orsa tanto più maggiore in cielo proprio non riuscite a vederla. Non resta che fingere, fare contento l’amico e sperare almeno in una stella cadente per cambiare discorso.
    Ogni notte in cielo sono visibili centinaia se non migliaia di stelle, a seconda del luogo in cui ci si trova, delle condizioni del cielo e della quantità di inquinamento luminoso, il principale ostacolo all’osservazione della volta celeste soprattutto in Europa. Eppure la maggior parte delle persone ha poca dimestichezza con l’osservazione e il riconoscimento di pianeti, stelle e costellazioni, nonostante i nomi di alcune di queste ultime siano ricorrenti come Orsa maggiore, Cassiopea o Lira, per non parlare di tutte quelle dell’oroscopo.
    Una costellazione è un modo convenzionale di raggruppare insieme alcune stelle visibili in cielo, che idealmente formano particolari figure mitologiche, animali o oggetti. Sono raggruppamenti puramente visivi e non hanno alcuna rilevanza da un punto di vista fisico e più in generale scientifico. Le stelle che le costituiscono sono infatti molto diverse tra loro, non interagiscono le une con le altre e si trovano a distanze enormi in tutte le direzioni dello Spazio. Ma a causa degli effetti prospettici, dal nostro punto di osservazione ci appaiono come se fossero sullo stesso piano, anche se non lo sono, e possiamo quindi raggrupparle insieme per riconoscerle più facilmente.
    Quasi un secolo fa, nel 1930, l’Unione Astronomica Internazionale formalizzò un elenco di 88 costellazioni, utilizzate poi per dividere la sfera celeste in 88 settori con confini ben determinati, in modo da poter identificare facilmente ogni stella in una certa costellazione. La sfera celeste è una sfera immaginaria, nel nostro caso una sorta di guscio esterno della Terra, su cui sono visibili le stelle e gli altri corpi celesti. È un modo per avere punti di riferimento condivisi quando si osserva la volta celeste, cioè come appaiono le stelle in cielo guardando da un punto di osservazione della Terra.
    La sfera celeste che “ingloba” la Terra, con le principali costellazioni disegnate (Wikimedia)
    Le costellazioni hanno quasi sempre nomi legati alla mitologia classica, per lo più dell’antica Grecia, per quanto riguarda quelle boreali – cioè osservabili dall’emisfero terrestre in cui ci troviamo – mentre le costellazioni australi hanno nomi più creativi e attribuiti da astronomi e navigatori moderni. Le costellazioni dello zodiaco sono presenti in una banda immaginaria posta intorno al cammino apparente del Sole nel cielo nel corso di un anno (“piano dell’eclittica”), area dove sono visibili anche i pianeti e per questo molto studiata già a partire dall’antichità.
    I pianeti sono molto più piccoli delle stelle, ma sono più vicini a noi, di conseguenza appaiono in cielo come puntini luminosi tali e quali alle stelle che sono invece enormemente distanti. Possono comunque essere riconosciuti per una particolarità: proprio perché sono più vicini e non emettono direttamente la luce, ma riflettono quella del Sole, i pianeti appaiono come punti luminosi “stabili”, rispetto alle stelle che per via della loro distanza e di altri fattori appaiono tremolanti (si dice che “baluginano”). A seconda dell’ora della notte, i pianeti visibili a occhio nudo sono Mercurio, Marte, Venere, Giove e Saturno.
    CostellazioniLe stelle, e di conseguenza le costellazioni, non appaiono fisse nel cielo a causa della rotazione della Terra attorno al proprio asse. Ogni minuto che passa, l’intera sfera celeste si sposta con un moto apparente: la maggior parte delle stelle sorge a est e tramonta a ovest, proprio come fa il Sole ogni giorno. Osservare alcune costellazioni significa quindi inseguirle nel corso della notte, man mano che si spostano verso ovest fino a scomparire alla stessa vista. Ma non tutte le costellazioni si muovono in questo modo.

    Le costellazioni circumpolari sono infatti particolari gruppi di stelle sempre visibili, perché sono in prossimità del nord celeste, cioè il punto nel cielo verso il quale è orientato l’asse di rotazione terrestre nell’emisfero nord (ce n’è naturalmente uno anche nell’emisfero sud). Nel loro moto apparente, queste costellazioni appaiono molto in alto nella volta celeste, di conseguenza non spariscono sotto l’orizzonte durante il loro moto apparente insieme a tutto il resto del cielo. Queste costellazioni sono state a lungo essenziali per orientarsi nel cielo notturno, proprio perché rappresentano dei punti quasi fermi.
    L’osservazione delle costellazioni è però complicata da un altro fattore, legato sempre ai movimenti del nostro pianeta. Oltre a girare su sé stessa, la Terra gira anche intorno al Sole e questo fa sì che il cielo notturno cambi un poco ogni notte nel corso dell’anno. Una costellazione osservabile in una certa posizione questa notte, per esempio, sarà lievemente spostata domani notte e lo sarà ancora di più tra uno o due mesi. È proprio a causa del movimento della Terra intorno al Sole che le costellazioni diventano più o meno osservabili nelle varie stagioni: non spariscono completamente, ma ci sono periodi dell’anno in cui sono visibili per più tempo in cielo nel corso di una notte.
    Orsa maggioreÈ forse la costellazione più citata e conosciuta tra quelle circumpolari, proprio perché alle nostre latitudini è sempre visibile. Le sue sette stelle più luminose formano il Grande Carro, il modo più semplice (“asterismo”) per identificare parte della costellazione stessa. È sufficiente guardare verso nord (potete aiutarvi con la bussola dello smartphone) e cercare alcune stelle particolarmente luminose che collegate idealmente tra loro formano una specie di mestolo, come nell’immagine qui sotto.
    Il “Grande Carro” è formato dalle stelle Dubhe, Merak, Phecda, Megrez, Alioth, Mizar e Alkaid (Wikimedia)
    Il Grande Carro è un ottimo punto di riferimento per scoprire un’altra importante stella della volta celeste. Se infatti si usano le due stelle più esterne a destra, Dubhe e Merak e si immagina di farle attraversare da una linea che prosegue poi per cinque volte la loro distanza apparente si arriva alla Stella polare, la stella più brillante nei pressi del polo nord celeste e importante punto di riferimento per l’orientamento.
    (Wikimedia)
    Orsa minoreUsando la Stella polare come riferimento si può osservare l’Orsa minore, altra costellazione che contiene al suo interno il Piccolo Carro, simile al Grande Carro dell’Orsa maggiore, ma di dimensioni più contenute come suggerisce il nome. La Stella polare è all’estremo dell’asterismo, può essere immaginata come il punto terminale del carro, e il resto della costellazione è osservabile al di sopra della stella stessa.
    (Wikimedia)
    CassiopeaAnche Cassiopea come le due orse è una costellazione circumpolare alle nostre latitudini ed è molto vicina al polo celeste, intorno al quale ruota nel suo moto apparente in verso antiorario. Rispetto alla stella polare si trova dalla parte opposta all’Orsa maggiore e ha una forma abbastanza riconoscibile che ricorda una “M” o una “W” a seconda del periodo di osservazione. È attraversata dalla Via Lattea, la galassia in cui ci troviamo, e per questo è ricca di ammassi stellari che rendono relativamente più luminosa quella porzione di cielo.
    (Wikimedia)
    Costellazioni d’estatePer l’osservazione delle costellazioni in estate di solito si utilizza come riferimento il “triangolo estivo”, un triangolo rettangolo i cui vertici sono tre stelle che in questo periodo dell’anno appaiono molto luminose: Altair, Deneb e Vega. Quest’ultima è la quinta stella più luminosa del cielo a occhio nudo e appare bianco-azzurra: d’estate è molto alta, quasi allo zenit, cioè visibile direttamente sopra la propria testa, leggermente spostata verso sud. Una volta identificata Vega è abbastanza semplice notare Altair e Deneb, disposte come nello schema qui sotto. Imparare a riconoscere il triangolo estivo è molto importante per trovare le altre costellazioni visibili nel cielo notturno d’estate.
    (Wikimedia)
    CignoDeneb, che come abbiamo visto è uno dei vertici del “triangolo estivo”, quello nord-occidentale, è la stella più brillante della costellazione del Cigno. D’estate alle nostre latitudini culmina intorno a mezzanotte allo zenit, cioè è visibile molto alta nel cielo. Idealmente la costellazione ha la forma di un uccello in volo verso sud, che si estende lungo la Via Lattea e per questo contiene moltissimi oggetti come ammassi stellari e nebulose, studiati per le loro caratteristiche. La stella Albireo è il becco del cigno, mentre la coda è Deneb, dall’arabo dhanab che significa appunto “coda”.
    (Wikimedia)
    LiraÈ in proporzione molto più piccola del Cigno, ma è spesso citata perché è facilmente riconoscibile grazie alla presenza di Vega e al fatto che raggiunge la posizione più alta in cielo a mezzanotte nel mese di luglio. Per osservarla si possono tenere come riferimenti Vega a est e la costellazione del Cigno a ovest. Il becco stesso del Cigno appare poco distante da uno dei vertici della Lira, visibile come un parallelepipedo con un piccolo manico alla cui estremità c’è Vega. Idealmente la forma ricorda quella di una lira, strumento musicale che per la mitologia greca e romana era usata da Mercurio e in seguito da Orfeo.
    (Wikimedia)
    AquilaAnche l’Aquila non è difficile da identificare tenendo sempre come riferimento il “triangolo estivo”, proprio perché una delle sue stelle principali è Altair, che forma uno dei vertici del triangolo. Altair dista appena 16 anni luce dalla Terra, contro i 1.600 anni luce di Deneb, dove termina la coda del Cigno. La costellazione appare idealmente come un’aquila in volo e Altair può essere identificata nella sua parte nord-orientale, poco distante dagli ammassi stellari e di polveri visibili formati da parte della Via Lattea.
    (Wikimedia)
    MappeIdentificare le costellazioni non è sempre semplice: oltre a un cielo limpido e con poco inquinamento luminoso (l’ideale è in alta montagna nelle notti senza Luna), occorrono pazienza, una certa resistenza per rimanere svegli fino a tardi e qualche riferimento per non perdersi tra gli astri. Esistono guide e libri che aiutano a orientarsi e a scoprire le costellazioni più famose, da usare direttamente durante le osservazioni, magari usando una torcia possibilmente con una luce poco intensa o con un filtro colorato rosso, in modo da lasciare che i propri occhi si abituino al buio.
    Da diversi anni alle mappe tradizionali si sono affiancate quelle digitali, attraverso applicazioni che permettono di puntare lo smartphone verso il cielo e di ottenere indicazioni sullo schermo per trovare le costellazioni. Una delle app più longeve e apprezzate si chiama Star Walk e ha varie funzioni non solo per cercare le costellazioni, ma anche per identificare diversi altri corpi celesti e tenere traccia del passaggio di alcuni satelliti visibili dalla Terra e della Stazione Spaziale Internazionale. Per le stelle principali oltre al nome sono disponibili descrizioni delle caratteristiche e ulteriori approfondimenti.
    Un’altra applicazione molto apprezzata tra gli astrofili è SkySafari, che oltre a fornire guide per le osservazioni permette a chi ha un telescopio di tenere traccia in tempo reale degli astri e dei loro spostamenti, in modo da semplificare la loro osservazione. L’app viene aggiornata di frequente, ma a causa delle numerose funzionalità può risultare meno intuitiva rispetto ad altre applicazioni per l’osservazione del cielo. LEGGI TUTTO

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    Gli smartphone possono capire quando siamo depressi

    Caricamento playerLa possibilità di utilizzare gli smartphone per raccogliere informazioni e dati biometrici utili in ambito clinico fu estesamente discussa all’inizio della pandemia. All’epoca se ne parlò soprattutto in relazione ad alcuni progetti sperimentali, sostenuti perlopiù da finanziamenti privati, che ambivano a semplificare la diagnosi del Covid monitorando parametri come la respirazione e la voce delle persone. Ma da tempo diversi gruppi di ricerca e aziende interessate stanno studiando la possibilità di utilizzare gli smartphone per cogliere eventuali segni di malattie mentali facilitando sia le diagnosi che la prevenzione.
    La diagnostica dei disturbi mentali tramite app per smartphone è un settore in grande espansione, in cui un certo ottimismo trainato dalla fiducia nei progressi dell’intelligenza artificiale si contrappone alle molte preoccupazioni per i rischi di violazione della privacy degli utenti e di utilizzo improprio o non autorizzato dei loro dati. Indipendentemente dalle questioni problematiche, di recente il dibattito si è concentrato sui vari modi in cui gli smartphone possono servire nel caso di diagnosi che richiedono valutazioni più articolate e complesse del semplice controllo di un valore biometrico come la frequenza cardiaca o la pressione sanguigna.
    Tra le persone che lavorano alla ricerca e allo sviluppo di software per la diagnosi dei disturbi mentali, la tecnologia degli smartphone e di dispositivi indossabili come gli smartwatch è considerata una risorsa preziosa, tanto più in un periodo storico contraddistinto da un netto aumento dei disturbi e dall’urgenza di trovare soluzioni. L’ampissima diffusione di questi dispositivi è considerato un vantaggio, prima di tutto, perché rende disponibile uno strumento diagnostico aggiuntivo – con tutti i limiti e le cautele del caso – per le molte persone che vivono in contesti in cui la quantità di servizi e professionisti della salute mentale è ancora insufficiente.
    Inoltre, anche in contesti meglio attrezzati, gli smartphone potrebbero rendere disponibile un tipo e una quantità di informazioni che i professionisti stessi difficilmente potrebbero ottenere dai pazienti in un modo diverso. Le riflessioni sul genere di dati che potrebbe aver senso raccogliere dagli utenti attraverso gli smartphone per facilitare la diagnosi di alcuni disturbi, in particolare la depressione, contribuiscono peraltro a migliorare la qualità del dibattito mostrando in generale quanto siano incerti e di volta in volta difficili da tracciare i confini tra la salute fisica e quella mentale, e quelli tra il diritto alla privacy e quello alla salute.

    – Leggi anche: Sono gli smartphone il problema degli adolescenti?

    L’obiettivo degli sviluppatori di software di intelligenza artificiale per la diagnosi della depressione, molti dei quali lavorano in collaborazione con diverse università e istituti di ricerca, è utilizzare modelli predittivi per analizzare grandi quantità di informazioni e individuare lievi cambiamenti, nel corpo o nel comportamento delle persone, che potrebbero indicare la malattia. È un settore che tra il 2020 e il 2022, secondo una stima della società di analisi di mercato CB Insights, ha ricevuto oltre 10 miliardi di dollari di finanziamenti in tutto il mondo.
    Per il momento molte app sono utilizzate soltanto per la ricerca in ambito accademico, ha scritto il sito di news Vox, ma altre forme di raccolta e analisi di grandi quantità di dati sono utilizzate già da tempo da alcune piattaforme di social media per segnalare agli operatori sanitari possibili comportamenti autolesionisti degli utenti.
    Un ragazzo in attesa in una stazione della metropolitana di New York (Drew Angerer/Getty Images)
    Secondo l’edizione più recente del Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali (DSM), che è il testo fondamentale a livello internazionale per la classificazione dei disturbi psichici, la diagnosi di depressione richiede la presenza di sintomi specifici (almeno cinque su nove) per un periodo minimo di due settimane. Tra i sintomi ci sono la perdita di interesse o piacere per le attività quotidiane, l’umore depresso e l’insonnia, o l’ipersonnia. «Ma i sintomi della depressione cambiano molto rapidamente», e potrebbero non essere correttamente notati e riferiti dai pazienti, ha detto a Vox lo psichiatra Nicholas Jacobson, professore alla Geisel School of Medicine del Dartmouth College.
    Insieme alle informazioni ottenute dal medico tramite l’anamnesi, altri dati sul sonno o sull’uso dei social registrati tramite app per smartphone, secondo Jacobson, potrebbero permettere di avere un quadro più completo della salute mentale di una persona. Uno degli obiettivi della ricerca è appunto estendere e rendere più eterogenea la raccolta di dati attraverso i dispositivi, e addestrare modelli predittivi di intelligenza artificiale a cogliere in quei dati segni di un peggioramento dell’umore che potrebbero sfuggire a una valutazione umana.

    – Ascolta anche: Sigmund: Cos’è (e cosa non è) la depressione

    Per uno studio pubblicato a febbraio in formato preprint e condotto su un campione di pazienti che avevano già ricevuto una diagnosi di depressione, Jacobson e altri ricercatori e ricercatrici del Dartmouth College hanno utilizzato un’app sperimentale chiamata MoodCapture. Lo studio prevedeva che i partecipanti aprissero la app tre volte al giorno, in momenti prestabiliti, per rispondere alle domande di un sondaggio mentre la fotocamera frontale dello smartphone scattava loro dei selfie automaticamente.
    Un modello di intelligenza artificiale ha quindi correlato le varie immagini dei partecipanti – centinaia di foto scattate ogni giorno – alle risposte del sondaggio, valutando di volta in volta i sentimenti descritti al momento della compilazione, come la tristezza e la disperazione. Ha quindi utilizzato sia le caratteristiche somatiche dei volti sia altri indizi contestuali, come il tipo di illuminazione nella stanza o gli oggetti presenti sullo sfondo, per prevedere i primi sintomi di depressione. Se un partecipante era sdraiato sul letto ogni volta che compilava il sondaggio, per esempio, il modello stimava come più probabile che fosse depresso.
    Una ragazza in una strada del centro a Berlino (Sean Gallup/Getty Images)
    L’obiettivo del modello utilizzato per lo studio non era associare la depressione a determinate caratteristiche del viso, ma registrare di volta in volta eventuali lievi cambiamenti nelle espressioni facciali di ciascun utente, o anche solo nel luogo e nel modo in cui ciascuno di loro reggeva lo smartphone. Secondo una stima ottenuta valutando i risultati finali dello studio, il sistema potrebbe essere in grado di individuare in modo attendibile i sintomi della depressione con una precisione di circa il 75 per cento. I dati su ciascun utente potrebbero essere combinati con altri dati raccolti passivamente, per esempio sulle ore di sonno o di uso dei social media, per permettere agli specialisti di valutare anche informazioni obiettive e non filtrate dai pazienti.

    – Leggi anche: Sui social si parla troppo di salute mentale?

    Come vale anche per i software di riconoscimento facciale, da tempo molto discussi, l’utilizzo di MoodCapture pone una serie di problemi noti, sia di privacy degli utenti che di malfunzionamenti dovuti a pregiudizi riconducibili ai dati usati per l’addestramento del sistema. Per esempio l’accuratezza nel prevedere la depressione era maggiore nel caso degli utenti bianchi, che formavano la maggior parte del campione, e minore nel caso degli utenti non bianchi. Potrebbe inoltre essere complicato ottenere in futuro dalle persone il particolare tipo di consenso informato necessario per questo genere di studi, che sono supervisionati da comitati etici indipendenti di revisione (Institutional review board, IRB, che analizzano e valutano procedure e metodi della ricerca scientifica per assicurarsi che i diritti degli esseri umani siano rispettati).
    Molte app per la salute mentale disponibili per il download – ne esistono migliaia – sono di un tipo diverso rispetto a MoodCapture e non riguardano propriamente la diagnostica. Alcune molto popolari e apprezzate, tra cui Bearable, sono pensate per persone con malattie croniche (non solo mentali) e prevedono una raccolta dei dati attraverso i dispositivi indossabili in modo da registrare l’evoluzione dei sintomi del tempo. Sono cioè più simili alle app che permettono di controllare l’alimentazione, una specie di diari digitali, ma mostrano nel complesso informazioni che possono anche servire a capire meglio come il proprio stile di vita influenzi i sintomi della malattia di cui si vuole tenere traccia.
    Una ragazza in una strada di un centro commerciale a Pechino (Kevin Frayer/Getty Images)
    I progressi nello sviluppo dei software di intelligenza artificiale permettono tuttavia di ipotizzare che nei prossimi anni esisteranno molte app in grado di prevedere con relativa precisione l’evoluzione dei disturbi mentali, non solo di registrarne i sintomi. Uno studio pubblicato nel 2021 sulla rivista Journal of Medical Internet Research esaminò la capacità di prevedere il rischio di depressione in una popolazione di 267 adulti in salute, sulla base delle loro risposte a un sondaggio e dei dati registrati da ciascuno di loro attraverso un popolare fitness tracker indossabile (il Fitbit). Lo studio concluse che i modelli di apprendimento automatico alla base di questo approccio potrebbero migliorare in futuro lo screening della depressione, permettendo di individuare le persone ad alto rischio.

    – Leggi anche: Le app che ricreano le persone che non ci sono più possono aiutare nel lutto?

    In generale, sia tra i ricercatori che tra gli sviluppatori, l’ottimismo nel settore delle app per la diagnostica delle malattie mentali è alimentato dalla convinzione che i sistemi di intelligenza artificiale potrebbero un giorno servire a notare aspetti della vita dei pazienti che altrimenti sfuggirebbero sia a loro che alle persone che li hanno in cura. L’ottimismo è però in parte frenato dalla consapevolezza che sarà difficile mediare tra il diritto pubblico alla salute e gli interessi privati delle aziende, che una volta ottenuti i dati degli utenti potrebbero trattarli con maggiore disinvoltura rispetto a quanta ce ne sia di solito in una relazione tra specialista e paziente. «Nessun terapista metterà mai i tuoi dati a disposizione degli inserzionisti», ha detto a Vox Stevie Chancellor, professoressa di informatica e ingegneria della University of Minnesota.
    Uno dei rischi principali, in altre parole, è che informazioni ottenute tramite strumenti diagnostici basati sull’uso delle app e dei sistemi di intelligenza artificiale possano essere indirettamente acquisite da società con interessi diversi dalla salute pubblica. Alcune aziende potrebbero utilizzarle per la selezione del personale, per esempio, o per decidere se concedere o no assicurazioni e finanziamenti.
    Questo conflitto di interessi potrebbe condizionare anche la ricerca, in un settore in cui servono ancora molte prove empiriche del beneficio clinico che strumenti di questo tipo potrebbero procurare nel trattamento dei problemi di salute mentale. Se le società mostreranno un interesse maggiore «per le prove che per la redditività, allora staremo andando nella direzione giusta», disse nel 2023 allo Smithsonian Magazine Judith Law, CEO di Anxiety Canada, un’organizzazione non profit che si occupa di strumenti e servizi per il trattamento dei disturbi d’ansia.
    Il dibattito sulle possibilità di agevolare e migliorare tramite specifiche app il lavoro necessario per la diagnosi dei problemi mentali offre diversi spunti per pensare agli smartphone non soltanto come possibile – e discussa – causa dei problemi, ma anche come possibile parte della soluzione. Ma secondo diversi esperti questo sarà possibile solo a patto di creare una tecnologia affidabile e regolamentarla in modo da ridurre il rischio di danni involontari. E a patto di non intendere l’approccio basato sulla tecnologia come sostitutivo della relazione interpersonale, dal momento che «uno dei fattori più importanti per il successo della terapia è la qualità della relazione tra l’individuo e il terapeuta», disse allo Smithsonian la psicologa clinica Vara Saripalli. LEGGI TUTTO

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    Ora alla Silicon Valley interessa l’ibogaina

    Caricamento playerNell’aprile del 2023 Sergey Brin, uno dei fondatori di Google nonché uno degli uomini più ricchi del mondo, decise di vendere le azioni della casa automobilistica Tesla in un momento in cui il loro valore era particolarmente alto: ci guadagnò 366 milioni di dollari. Li usò subito per aprire Catalyst4 Inc, un’organizzazione di venture capital non-profit che investe in startup che si dedicano a cause che stanno a cuore a Brin. Nell’ultimo anno Catalyst4 ha investito milioni di dollari in aziende che si occupano di ridurre l’anidride carbonica nell’atmosfera e nella ricerca sui disturbi neurologici.
    Questa settimana, secondo il Financial Times, Brin ha scelto chi riceverà il prossimo investimento, pari a 15 milioni di dollari. È la startup Soneira, un’azienda di biotecnologia che sta avviando studi clinici per capire se l’ibogaina – una sostanza allucinogena tratta dall’iboga, un arbusto che cresce nelle foreste pluviali di vari paesi dell’Africa occidentale – può essere usata in sicurezza per trattare alcuni tipi di lesioni cerebrali traumatiche.
    Quello di Brin è soltanto il più recente investimento massiccio nel settore delle sostanze psichedeliche da parte di un imprenditore della Silicon Valley. È una fascinazione legata in parte alla cultura da cui sono emerse molte di queste persone: l’uso di determinate sostanze è da sempre una parte molto raccontata dell’origine della Silicon Valley e della “controcultura” giovanile degli anni Sessanta a cui è legata. Ma si spiega anche con il fatto che, negli ultimi decenni, negli Stati Uniti sono molto aumentati casi di disturbi e malattie legate alla sfera della salute mentale difficilissimi da trattare. È il caso del disturbo post-traumatico da stress di cui soffrono molti reduci che hanno servito nell’esercito, della depressione e della dipendenza da oppioidi come il Fentanyl. Sono crisi che hanno spesso un forte impatto sul tessuto culturale delle città americane e che suscitano preoccupazione.
    Ha senso, quindi, che alcune persone molto ricche vogliano investire i propri soldi anche nella ricerca di soluzioni a problemi che al momento ne hanno poche: gli studi sulle sostanze psichedeliche negli ultimi anni sembrano dare qualche speranza in questo senso. In Australia, per esempio, dall’anno scorso gli psichiatri sono autorizzati a prescrivere la psilocibina, che è la sostanza presente nei funghi psichedelici, nel contesto di alcune terapie.
    Negli Stati Uniti ci sono stati tentativi di legalizzare alcune sostanze psicoattive in qualche stato, ma queste sostanze rimangono illegali a livello federale, il che scoraggia gli investimenti da parte delle grandi aziende farmaceutiche. Quasi tutti gli studi clinici sull’uso farmacologico delle sostanze psicoattive vengono quindi sponsorizzati da organizzazioni non-profit come Catalyst4.

    – Leggi anche: Il ritorno degli psichedelici

    L’ibogaina è meno conosciuta, anche perché si presta meno all’uso in contesti ricreativi, dato che gli stati mentali che induce sono molto intensi e faticosi, se non addirittura spaventosi sul momento. Le persone che l’hanno assunta normalmente la descrivono come un sogno lucido a occhi aperti che costringe a rivivere esperienze di vita dolorose, in modo però più distaccato di come succederebbe normalmente.
    Storicamente utilizzata dalle tribù dell’Africa occidentale per scopi medicinali ma anche nel contesto di rituali spirituali, si ottiene dalla corteccia delle radici dell’iboga, che viene frantumata e consumata come polvere o somministrata come estratto. Fu importata in Europa dagli esploratori francesi e belgi del diciannovesimo secolo e venduta inizialmente come stimolante. Alcuni medici cominciarono a utilizzarla per trattare le dipendenze da altre sostanze all’inizio del Novecento: il primo caso di successo si registrò in Messico nel 1913, quando una donna che soffriva di alcolismo grave ne guarì dopo un trattamento con compresse di ibogaina.

    Negli Stati Uniti cominciò a diffondersi negli anni Sessanta, e poi fu messa fuori legge nel 1967. Oggi è considerata una sostanza “senza uso medico accettato e con alto potenziale di abuso”, come l’LSD o l’eroina. Ma in alcuni paesi come Canada, Messico, Slovenia, Francia, Brasile e Paesi Bassi esistono cliniche – sia legali che illegali – che la offrono tra i trattamenti possibili per le dipendenze da sostanze. Sono comunque soluzioni molto costose: una clinica a Cancun (Messico), per esempio, chiede tra i 9 e i 15mila dollari a paziente per dieci giorni di trattamento, escluse le spese del viaggio.
    Gran parte dei dati esistenti sull’efficacia dell’ibogaina proviene da piccole ricerche e non è stata testata in studi clinici utilizzando gruppi di controllo trattati con sostanze che non fanno nulla (placebo), come accade negli studi medici più rigorosi. In Brasile, dove viene utilizzata da decenni per curare la dipendenza da crack, si riporta però un tasso di successo del 60 per cento tra i pazienti.

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    Non è ancora molto chiaro come mai sembri essere così efficace nel trattare le dipendenze. Alcuni gruppi di ricerca ritengono che l’ibogaina favorisca le connessioni tra i neuroni e aumenti la neuroplasticità, fornendo al contempo nuove prospettive sulla natura del proprio comportamento autodistruttivo e degli eventuali traumi che vi stanno dietro. «L’ibogaina sembra resettare il cervello dal punto di vista farmacologico e, allo stesso tempo, produce una profonda visione psicologica dei fattori alla base della dipendenza», ha detto al New York Times Joseph Peter Barsuglia, psicologo e ricercatore che lavora con alcune cliniche che somministrano ibogaina in Messico.
    Brin è interessato da tempo alle possibili applicazioni mediche dell’ibogaina: una sua altra fondazione ha finanziato uno studio dell’Università di Stanford in cui questa sostanza è stata somministrata a 30 veterani dell’esercito statunitensi che avevano riportato traumi cranici o soffrivano di disordine post-traumatico da stress. Secondo lo studio, assumere ibogaina una sola volta aveva migliorato le loro funzioni cognitive e aveva ridotto molto i sintomi di ansia e depressione che avevano. Uno dei partecipanti ha raccontato al Washington Post che, dopo aver assunto la sostanza, «è sprofondato in uno stato onirico, rivivendo ricordi dimenticati: una vista sul lago da bambino; un serpente che sbuca da un mucchio di foglie; un ragazzino morto in Iraq, con la testa trafitta dalle schegge di una granata nemica. L’ibogaina […] ha dato una marcia in più al suo cervello».
    «Oggi non esiste alcun altro farmaco in grado di alleviare notevolmente i sintomi funzionali e neuropsichiatrici delle lesioni cerebrali traumatiche quanto fa, secondo le nostre osservazioni, l’ibogaina», ha detto il professor Nolan Williams, che ha condotto la ricerca. Negli Stati Uniti i veterani rappresentano il 6 per cento della popolazione, ma sono il 20 per cento delle persone che si suicidano ogni anno.
    La startup  su cui Brin ha investito, Soneira, proverà a fare un passo in più. Intanto vuole capire come fare a combinarla con medicinali per il cuore per limitare quanto possibile il rischio di aritmia cardiaca, che sopraggiunge in alcuni casi all’assunzione della sostanza con esiti che possono essere letali. E poi vuole svilupparne una versione sintetica, in modo da non dover dipendere dall’estrazione dell’iboga, che al momento viene in larga parte raccolta massicciamente e illegalmente da gruppi criminali in Gabon e Camerun, contribuendo alla deforestazione di questi paesi.

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    Weekly Beasts

    In via eccezionale ci sono due foto di megattere nella raccolta di animali della settimana: una vicina a Panama e una davanti a un iceberg in Groenlandia. Ogni anno le megattere intraprendono un lungo viaggio, che le porta a migrare verso i poli. Nell’emisfero sud, la migrazione avviene verso l’Antartide quando da noi è inverno, mentre durante l’inverno australe (la nostra estate) questi grandi cetacei tornano verso nord, in tempo per il periodo della riproduzione. Facendo tutte queste cose, ovviamente, si parlano, come abbondantemente spiegato nel podcast del Post Sonar, uscito la scorsa settimana. A seguire ci sono una famiglia di coati (un tipo di procionidi), un tessitore baya (che è un uccello diffuso nel sud-est asiatico), un castoro americano, un opossum e un procione, comune. LEGGI TUTTO

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    Quelli che non hanno una voce interiore

    Caricamento playerPer molte persone parlare tra sé e sé nel corso della giornata, articolando le frasi senza pronunciarle, è un fatto del tutto normale. C’è chi lo fa per esercitarsi prima di parlare in pubblico, per esempio, e chi lo fa per abitudine mentre fa altro, senza nemmeno farci caso. Per quanto apparentemente comune, l’utilizzo del monologo interiore non è però frequente allo stesso modo tra tutte le persone. E ce ne sono alcune che dicono di non avere affatto una voce interiore.
    In un articolo uscito a maggio sulla rivista Psychological Science la scienziata cognitiva danese Johanne S. K. Nedergaard, dell’università di Copenhagen, e lo psicologo Gary Lupyan, della University of Wisconsin–Madison, hanno proposto di definire «anendofasia» l’esperienza di chi non ha esperienza della propria voce interiore. La definizione deriva dalle due parole greche éndon, “dentro”, e fásis, “voce”. È una condizione non patologica, difficile da rilevare e misurare con precisione, ma riferita da una percentuale della popolazione adulta stimata tra il 5 e il 10 per cento.
    Per la loro ricerca Nedergaard e Lupyan si sono basati sulle risposte dei partecipanti a un questionario, e hanno scoperto tra le altre cose che l’anendofasia è associata a risultati peggiori in determinati compiti cognitivi che richiedono una buona memoria di lavoro verbale. Nella terminologia della psicologia cognitiva è la parte della memoria responsabile della conservazione temporanea di informazioni che possono essere verbalizzate, come lettere, parole, numeri e nomi. Nei test che misurano questo tipo di memoria, secondo i risultati della ricerca, le persone anendofasiche se la cavano meno bene delle altre.

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    Tra le persone che dicono di non avere una voce interiore ce ne sono alcune che la descrivono come una condizione dispendiosa in termini di tempo e fatica, perché richiede loro l’impegno di tradurre i pensieri in parole nel momento in cui hanno effettivamente bisogno di dire qualcosa. «Altre descrivono il loro cervello come un computer che funziona normalmente, solo che non elabora i pensieri verbalmente, e ha un diverso collegamento con l’altoparlante e il microfono rispetto a quello di altre persone», ha detto Nedergaard in un comunicato stampa pubblicato dall’università di Copenhagen. Le persone che invece hanno una voce interiore, indipendentemente da quanto spesso la usano, la descrivono tipicamente come una voce fatta di «parole senza suono».
    La ricerca di Nedergaard e Lupyan ha confermato in parte alcune teorie già proposte in passato da vari studiosi, in particolare dall’influente psicologo russo Lev Vygotskij, che attribuiscono al linguaggio interiore una funzione fondamentale per lo svolgimento di diversi compiti cognitivamente impegnativi, tra cui la pianificazione e l’inibizione dei comportamenti. Nedergaard e Lupyan hanno selezionato i partecipanti da un campione più ampio di persone che in precedenza avevano risposto a un questionario sulle proprie rappresentazioni interiori, utilizzato anche per altre ricerche.
    Per cercare di misurare la familiarità dei partecipanti con la loro voce interiore il questionario chiedeva di indicare il livello di accordo con affermazioni del tipo «ripenso nella mia testa ai problemi sotto forma di conversazione con me stesso». Nedergaard e Lupyan hanno studiato 46 persone tra quelle meno d’accordo con queste affermazioni, e quindi prive o quasi prive di una voce interiore, e 47 che erano invece all’estremità opposta dello spettro, e cioè avevano un monologo interiore quasi costante. Per capire se e quanto questa differenza potesse riflettersi sul comportamento hanno quindi sottoposto tutti i partecipanti a diversi esperimenti, chiedendo loro di svolgere alcuni compiti.

    – Leggi anche: Si può pensare senza linguaggio?

    In un esperimento hanno mostrato loro una serie di immagini di coppie di oggetti, e il compito era dire per ogni coppia se i nomi dei due oggetti formavano una rima o no. Le persone hanno risposto più o meno negli stessi tempi, in generale, ma quelle del gruppo senza o con poca voce interiore hanno ottenuto punteggi più bassi. In un altro esperimento i partecipanti dovevano ripetere una serie di cinque parole che avevano letto in precedenza, fonologicamente o ortograficamente simili tra loro (per esempio rough, cough, through, dough, bough). Anche in questo caso il gruppo degli anendofasici ha ottenuto risultati notevolmente peggiori rispetto all’altro, confermando l’ipotesi iniziale degli sperimentatori.
    Dopo i due esperimenti ai partecipanti è stato chiesto se avessero parlato ad alta voce durante l’esecuzione dei compiti richiesti: lo aveva fatto una percentuale simile di persone in entrambi i gruppi, e confrontando soltanto questi due sottogruppi la differenza nei punteggi ai due test cognitivi scompariva. Nedergaard e Lupyan hanno interpretato questo risultato come una prova del fatto che parlare ad alta voce durante l’esecuzione di un compito – una strategia utilizzata da molte persone, con o senza l’anendofasia – può eventualmente compensare i limiti cognitivi associati alla mancanza di voce interiore.
    Altri due esperimenti condotti da Nedergaard e Lupyan hanno analizzato la capacità dei partecipanti di passare rapidamente da un compito a un altro (dalle addizioni alle sottrazioni di numeri), e di distinguere tra sagome di animali di una stessa specie e di animali di una specie diversa (la sagoma di un gatto da quella di un altro gatto e da quella di un cane). In questo caso l’anendofasia non è risultata un fattore influente, dato che non sono emerse differenze nei punteggi tra i due gruppi.

    – Leggi anche: Come sente le voci chi “sente le voci”?

    Oltre che rilevante per le scienze cognitive, la scoperta di Nedergaard e Lupyan potrebbe avere implicazioni significative anche in ambito medico e in psicologia clinica. È possibile che chi utilizza molto la propria voce interiore faccia più affidamento sul linguaggio nel modo in cui pensa, ha detto Lupyan a Scientific American. E questo, secondo lui, suggerisce l’ipotesi che eventuali disturbi del linguaggio causati da ictus o altre lesioni potrebbero avere effetti più gravi in questo tipo di pazienti che in quelli anendofasici, e richiedere terapie differenti.
    Nelle intenzioni di Nedergaard e Lupyan, dare all’assenza di voce interiore la definizione specifica di anendofasia dovrebbe semplificare e favorire ulteriori ricerche, come successo in anni recenti per altre condizioni non patologiche come la sinestesia (l’insorgenza di una sensazione indotta da uno stimolo diretto a un altro senso) e l’afantasia (l’incapacità di visualizzare immagini mentali).

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    La ricerca è stata accolta positivamente da diversi scienziati per la capacità di descrivere in nuovi modi la varietà e la diversità delle esperienze mentali umane. Ma allo stesso tempo proprio la soggettività di quelle esperienze pone una serie di limiti alle possibilità di valutare e misurare l’anendofasia in modo attendibile, perché non c’è modo di sapere con certezza se ciò che le persone dicono della propria mente sia ciò che realmente accade nella loro mente. «È molto difficile riflettere sulle proprie esperienze interiori, e la maggior parte delle persone all’inizio non è molto brava a farlo», ha detto a Scientific American Charles Fernyhough, psicologo della Durham University, in Inghilterra.
    Esiste inoltre il rischio che la scelta di attribuire un nome specifico all’assenza di voce interiore contribuisca a interpretarla come una condizione piuttosto che come un’esperienza come tante altre. Lo stesso questionario utilizzato da Nedergaard e Lupyan non serve peraltro a definire l’anendofasia come una condizione o assente o presente, ma semmai a definire l’esperienza soggettiva lungo determinate scale. «Preferirei promuovere il messaggio che la diversità nell’esperienza interiore debba essere il nostro punto di partenza» e che «non esistono due menti uguali», ha detto Fernyhough. LEGGI TUTTO

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    In Nuova Zelanda si è spiaggiato uno dei cetacei più rari al mondo

    Caricamento playerSulle spiagge della provincia di Otago, in Nuova Zelanda, è stato trovato un grosso cetaceo spiaggiato che si ritiene sia una balena dai denti a pala, o mesoplodonte di Travers (Mesoplodon traversii), considerata la specie di cetacei più rara del mondo: non ne è mai stata avvistata una viva. Per confermarne l’identificazione comunque occorrerà aspettare i risultati dei test del DNA, per cui ci vorrà qualche settimana.
    La balena dai denti a pala (che tecnicamente non è una balena, ma un cetaceo dello stesso sottordine dei delfini) è un mammifero che si ritiene viva principalmente nell’oceano Pacifico meridionale. Probabilmente gli individui della specie passano la maggior parte del tempo in acque profonde, per cui è particolarmente difficile incontrarne. Proprio per questo non conosciamo praticamente nulla del loro comportamento, anche se si suppone sia per molti versi simile a quello di altri cetacei di specie imparentate.
    La scoperta sulla spiaggia di Otago, avvenuta vicino alla cittadina di Taieri Mouth, è ritenuta particolarmente promettente dagli scienziati perché la carcassa di cinque metri era in un buono stato di conservazione. Trevor King, il professionista che si è occupato dello spostamento del corpo dalla spiaggia a una cella frigorifera, ha detto al Washington Post che l’animale doveva essere morto da molto poco quando è stata recuperata, dato che non puzzava.
    La Nuova Zelanda deve occuparsi spesso di cetacei spiaggiati sulle proprie coste, e ha quindi elaborato un sistema piuttosto rapido per gestire le carcasse. Questo include la consultazione con le comunità māori, la popolazione nativa della Nuova Zelanda, che vivono nell’area in cui vengono trovate. Le balene sono animali sacri per i māori, e si possono prelevare dei campioni solo nel caso in cui la comunità dia il proprio assenso. In questo caso i campioni sono stati inviati all’Università di Auckland (la città principale del paese). Intanto le autorità neozelandesi stanno collaborando con Te Runanga o Otakou, la comunità māori che vive nella zona del ritrovamento, per decidere come gestire il corpo del cetaceo spiaggiata.

    – Leggi anche: Il disco con i canti delle balene che fece gli interessi delle balene

    Secondo Kirsten Young, una ricercatrice dell’Università di Exeter (in Inghilterra) che si era occupata di alcuni dei ritrovamenti precedenti, il buono stato di conservazione della balena dai denti a pala trovata a luglio potrebbe permettere di dissezionarla: sarebbe il primo caso in cui gli scienziati riescono a farlo.
    Finora sono stati trovati solamente sette campioni di balena dai denti a pala, di cui quattro completi: il primo fu un frammento di mandibola inferiore trovato sull’isola di Pitt, nelle isole Chatham (vicino alla Nuova Zelanda) nel 1874. Il suo scopritore fu il naturalista Henry Travers, a cui è stata poi intitolata la specie. Sulla mandibola c’erano anche due denti rettangolari, che ricordavano le pale usate dai balenieri per separare lo strato di grasso delle balene dalla pelle.

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    Negli anni Cinquanta fu trovato un frammento di cranio a White Island, sempre in Nuova Zelanda, e nel 1993 ne fu trovato un altro sull’isola Robinson Crusoe, in Cile: solo nel 2002 i tre frammenti furono riconosciuti come appartenenti alla stessa specie.
    Il primo individuo intero fu trovato solo nel 2010: una femmina adulta e un cucciolo si spiaggiarono nella regione di Bay of Plenty, nel nord della Nuova Zelanda. Furono le prime balene coi denti a pala complete a essere trovate, ma furono identificate come tali solo nel 2012. Nel 2017 fu trovata un’altro individuo spiaggiato, sempre in Nuova Zelanda. In quei casi però non fu possibile studiarne approfonditamente i corpi, a causa del loro deterioramento.

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    Il sistema della “peer review” è pieno di problemi

    La revisione tra pari – traduzione letterale dell’espressione inglese peer review, piuttosto diffusa anche in Italia – è il più utilizzato e conosciuto sistema di valutazione preliminare delle ricerche scientifiche. Tutte quelle che finiscono sulle riviste più autorevoli devono infatti essere valutate da revisori volontari non coinvolti nella ricerca, che ne verificano l’affidabilità prima della pubblicazione. Da diversi anni il processo di revisione basato sulla peer review, considerato un fondamento della ricerca scientifica, è però oggetto di molte discussioni tra gli stessi scienziati.Da una parte c’è chi ritiene che alcuni limiti e storture di questo sistema, che possono condizionare le pubblicazioni in modo significativo ed eclatante, e ridurre la fiducia collettiva nella scienza, siano cresciuti nel tempo al punto da richiedere complicati ma necessari interventi correttivi. Dall’altra parte c’è chi contrappone alle preoccupazioni attuali la convinzione che, per quanto imperfetta, la peer review rimanga comunque il miglior modo di giudicare la ricerca scientifica tra tutti gli altri possibili, e che non esista un solo modo universalmente valido per migliorarla.
    Nel suo recente libro Rescuing science: restoring trust in an age of doubt, uscito a marzo negli Stati Uniti, l’astrofisico e divulgatore scientifico statunitense Paul Sutter ha scritto della progressiva perdita di fiducia nella scienza in una parte della società, e dei possibili modi per provare a ripristinarla ed estenderla. In un capitolo del libro dedicato alle frodi scientifiche e ripubblicato sul sito Ars Technica, Sutter ha posto l’attenzione su quello che secondo lui e secondo molti altri è uno dei fattori più influenti nell’attuale crisi della peer review: la pressione a pubblicare il più possibile per avere successo in ambito accademico. È un problema discusso da tempo, sintetizzato attraverso l’aforisma publish or perish, “pubblica o muori”.
    Il successo di questo approccio deriva dal fatto che le pubblicazioni in generale attirano l’attenzione – e di conseguenza gli investimenti – non solo verso gli autori e le autrici, ma anche verso le università e gli enti che sostengono il loro lavoro. Ma è anche una delle principali cause della proliferazione delle cosiddette “riviste predatorie”: riviste di scarsa qualità il cui modello di business si basa sulla pubblicazione di articoli scientifici dietro compenso e su processi di peer review poco rigorosi o del tutto assenti.
    È un fenomeno che interessa ambiti eterogenei della ricerca, per esempio anche quella oncologica, come scritto in un articolo pubblicato a maggio sulla rivista principale della Società americana di oncologia clinica. «L’eccessivo affidamento sulla quantità piuttosto che sulla qualità dei risultati della ricerca viene utilizzato per migliorare la visibilità internazionale e il posizionamento delle università e delle istituzioni», hanno scritto gli autori e le autrici dell’articolo.

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    La pratica della peer review risale a un’epoca precedente la diffusione dei computer, in cui gli argomenti e le analisi che portavano a trarre una certa conclusione in fondo a un articolo erano di solito contenuti nell’articolo stesso, ha scritto Sutter. Eventuali errori potevano essere notati e segnalati perché le informazioni necessarie per la valutazione erano disponibili e a portata di mano, diversamente da quanto succede nel contesto attuale. Molte delle informazioni contenute in milioni di articoli pubblicati ogni anno non sono disponibili per il pubblico perché sono ottenute tramite software per computer non utilizzabili da altri scienziati nella revisione, ha scritto Sutter.
    La ragione per cui gli autori e le autrici degli articoli non rendono disponibile tutto il codice delle loro ricerche, secondo lui, «si riduce allo stesso motivo per cui gli scienziati non fanno molte cose che potrebbero migliorare il processo scientifico: non ci sono incentivi». Rendere disponibili le informazioni e il codice dei software utilizzati non migliora il profilo accademico degli scienziati: solo pubblicare articoli lo fa, perché migliora l’indice H (una misura della prolificità e dell’impatto scientifico di un autore o un’autrice, che si basa sul numero delle pubblicazioni e sul numero di citazioni ricevute). È una questione rilevante perché condiziona pesantemente il lavoro del revisore: «Come posso giudicare la correttezza di un articolo se non riesco a vedere l’intero processo?», si è chiesto Sutter.
    La peer review è descritta da ormai molti anni come un sistema sostanzialmente «rotto» perché in moltissimi casi non riesce più a garantire l’integrità della ricerca: che è esattamente lo scopo per cui era stato pensato di introdurla. I revisori non hanno né il tempo né la voglia di valutare le nuove ricerche «con un pettine a denti fini», ha scritto Sutter. E nei casi in cui qualcuno si prende la briga di esaminarle più a fondo e segnala un problema – che sia un errore in buonafede o una presunta frode scientifica – gli articoli contestati possono essere rigirati dall’editore della rivista ad altri revisori meno scrupolosi, o essere pubblicati su altre riviste.

    – Leggi anche: C’è un dibattito su un articolo scientifico con immagini senza senso

    Al problema dell’indisponibilità dei dati delle ricerche è associato anche, secondo Sutter, un fenomeno più ampio noto come «crisi della replicazione». Definisce una progressiva e preoccupante riduzione della tendenza a riprodurre gli esperimenti, che è invece un valore fondamentale nella pratica scientifica, tanto più in un contesto in cui la replicabilità è scoraggiata dalla grande quantità di dati e di strumenti necessari. Replicando un esperimento come descritto in un articolo pubblicato su una rivista, uno scienziato concorrente può ottenere lo stesso risultato o uno diverso: entrambi i casi determinano un progresso scientifico. Il problema è che i risultati di un esperimento replicato hanno in generale uno scarso valore di «appeal» per le riviste scientifiche, perché sono giudicate meno importanti sul piano della conoscenza che permettono di acquisire, secondo Sutter.
    «Gli studi di replicazione non vengono pubblicati su riviste ad alto impatto, e gli autori di studi di replicazione non ricevono tante citazioni per il loro lavoro. Ciò significa che il loro indice H è più basso, il che riduce le loro possibilità di ottenere sovvenzioni e promozioni», ha spiegato Sutter. Le condizioni attuali nella ricerca scientifica sono tali da creare uno squilibrio profondo tra la quantità piuttosto esigua di ritrattazioni e correzioni da una parte, e la quantità di frodi scientifiche dall’altra, difficile da ridurre perché nessuno ha sviluppato un sistema efficiente e tempestivo per farlo. «Il tipo di indagini che portano a ritrattazioni o correzioni complete non vengono effettuate abbastanza spesso e, nel frattempo, viene pubblicata troppa scienza», ha scritto Sutter.
    Come spesso segnalato dal blog Retraction Watch, che si occupa di ritrattazioni di articoli scientifici, le frodi scientifiche tendono a essere scoperte troppo tardi e con ripercussioni minime o nulle. E intanto nessuno ha il tempo di leggere tutti gli articoli scientifici importanti nel proprio campo, perché «ogni scienziato scrive quanto più possibile, senza scavare davvero nella letteratura esistente, aggiungendo altro rumore», ha scritto Sutter, citando come esempio il suo campo, l’astrofisica, in cui ogni giorno – festivi inclusi – «vengono pubblicati dai 40 ai 60 nuovi articoli».
    Molti scienziati condividono l’idea che la principale ragione degli attuali limiti della ricerca non sia la malafede di chi la fa, ma piuttosto una serie di incentivi tipici di un mercato concorrenziale, in presenza dei quali «è facile convincersi che quello che stai facendo non è davvero una frode», ha scritto Sutter. Non rendere disponibile il codice delle proprie ricerche, per esempio, è visto da alcuni scienziati come una legittima protezione del proprio investimento di tempo e risorse, e un modo di non dare vantaggi competitivi a scienziati concorrenti. Altri sono più inclini a considerare eventuali revisioni con esito negativo un atto irragionevolmente severo, anziché una fondamentale forma di collaborazione tra scienziati, e sono quindi portati a pubblicare per altre vie – anche a proprie spese – i propri articoli piuttosto che ritirarli o rivederli.

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    Da qualche tempo una delle più condivise proposte per cercare di migliorare il sistema delle peer review è retribuire le revisioni, che al momento sono perlopiù il risultato di un lavoro volontario e spesso anonimo. Come scritto sulla rivista Undark dal biologo statunitense Brandon Ogbunu, professore di ecologia e biologia evolutiva alla Yale University, sarebbe un modo di riequilibrare il modello di business delle riviste, che attualmente si regge sugli abbonamenti da parte delle biblioteche e di altre istituzioni, e spesso anche sulle quote pagate dai singoli ricercatori per farsi pubblicare un articolo. «Il tutto mentre le riviste utilizzano manodopera gratuita o a basso costo da parte di redattori e revisori», ha scritto Ogbunu.
    Sebbene la maggior parte della ricerca negli Stati Uniti benefici di finanziamenti pubblici, attraverso due principali agenzie governative (la National Science Foundation e il National Institutes of Health), i risultati di quella ricerca sono spesso accessibili solo dietro pagamento. Il che significa, ha scritto Ogbunu, che sono accessibili solo per le istituzioni che possono permettersi gli abbonamenti e, molto più raramente, per gli individui che pagano da sé. Molte delle riviste open access, i cui articoli sono invece accessibili gratuitamente, addebitano ai ricercatori e alle ricercatrici costi «esorbitanti» per la pubblicazione.
    Una ricerca pubblicata nel 2023 dalla rivista Quantitative Science Studies ha stimato l’importo totale delle spese sostenute dagli autori e dalle autrici di articoli scientifici pubblicati tra il 2015 e il 2018 su riviste open access controllate dai cinque maggiori editori commerciali (Elsevier, Sage, Springer Nature, Taylor & Francis e Wiley). Secondo i risultati della ricerca, gli autori e le autrici avrebbero pagato complessivamente 1,06 miliardi di dollari in commissioni per la pubblicazione.
    Secondo Ogbunu e altri ricercatori, tra cui Lex Bouter, professore di deontologia della ricerca scientifica alla Vrije Universiteit ad Amsterdam, il sistema attuale premia molto più la produttività individuale e i comportamenti egoistici che i contributi collettivi al sistema stesso. Si è creata cioè «una discrepanza tra i desideri e i bisogni dei singoli scienziati, e lo sforzo necessario per gestire un’impresa scientifica sostenibile, in cui i giudizi dei nostri colleghi sono necessari», ha scritto Ogbunu.
    L’importanza del sistema della peer review si basa però sul presupposto che le persone valuteranno attentamente il lavoro altrui per buona volontà, o che gli autori riconosceranno le ore di lavoro richieste ai revisori restituendo in seguito il favore. Ogbunu, che è un ricercatore relativamente giovane, ha scritto di come i suoi mentori gli abbiano suggerito di rinunciare alla revisione degli articoli e di concentrarsi piuttosto sui suoi. È un suggerimento che determina però una grave stortura, perché «la peer review di qualità è ciò che ci dà la certezza che la ricerca che leggiamo sulle riviste sia di qualità», ha aggiunto.
    Il problema è che praticamente nessuno è mai stato promosso o ricompensato in modo significativo e diretto perché ha fornito ottime recensioni del lavoro altrui, ha aggiunto. Banalmente, le prospettive di carriera accademica sono migliori per chi scrive articoli che per chi partecipa alla loro valutazione. Considerando che molti articoli di grande impatto scientifico sono stati il risultato del lavoro di due o tre revisori, per mantenere una sorta di «equilibrio energetico», ha scritto Ogbunu, servirebbe invece che ogni ricercatore o ricercatrice rivedesse due o tre articoli per ciascun articolo da lui o da lei pubblicato in qualità di autore principale o autore corrispondente (corresponding author, chi è incaricato di gestire le comunicazioni con i revisori).

    – Leggi anche: Come capire le ricerche scientifiche

    Sebbene la peer review sia spesso considerata un’impresa collettiva della comunità scientifica, in pratica solo una piccola parte della comunità svolge la maggior parte del lavoro. Secondo uno studio del 2016 condotto sulle riviste di area biomedica, per esempio, il 20 per cento dei ricercatori e delle ricercatrici era stato responsabile del 94 per cento delle peer review degli articoli usciti nel 2015.
    Diversi scienziati concordano nel ritenere che il lavoro di revisione dovrebbe essere valorizzato e migliorato, ma non esistono proposte universalmente condivise e la cui accettazione non comporti una serie di altri rischi di tipo diverso. Rimuovere l’anonimato in fase di revisione degli articoli, rendendo pubblico agli autori il nome dei revisori e ai revisori il nome degli autori, negherebbe un principio alla base dell’imparzialità della revisione e dell’integrità della ricerca. Ma l’anonimato, come scritto nel 2022 sul sito The Conversation da un gruppo di ricercatrici e ricercatori di diverse università, può anche rendere il processo meno trasparente e responsabilizzante, a scapito della qualità delle revisioni. In concreto, poi, una volta ricevuto l’incarico da un editore, molti revisori cercano comunque di scoprire subito il nome degli autori dell’articolo che devono revisionare, per semplificare e accelerare il lavoro.
    Anche l’offerta di incentivi economici per le peer review potrebbe generare a sua volta altre storture, ha scritto il gruppo di ricercatrici e ricercatori su The Conversation. Ma in generale è abbastanza condivisa l’idea che il modello attuale fornisca incentivi principalmente ai comportamenti egoistici, sia nel caso di revisori più anziani che di revisori giovani. I più anziani non sono incentivati perché la loro stabilità economica non dipende dalla partecipazione ai processi di revisione, ha scritto Ogbunu su Undark. E i più giovani non sono incentivati perché sono più concentrati sulla loro produttività, determinante per l’ascesa professionale.
    Questa situazione determina una difficoltà generale a trovare revisori competenti, anche per riviste prestigiose. Anche le ricercatrici e i ricercatori più giovani potrebbero e dovrebbero partecipare ai processi di revisione più di quanto non avvenga attualmente, secondo Ogbunu, perché molte e molti di loro sono qualificati per farlo e avrebbero da guadagnarci anche sotto l’aspetto formativo.
    Oltre che un rischio per la qualità e per l’integrità della ricerca, i problemi attuali della peer review determinano anche rischi per l’innovazione, perché riducono l’eterogeneità di prospettive e vedute che è invece necessaria per la valutazione delle ricerche scientifiche. «Senza un gruppo ampio e diversificato di revisori, un numero relativamente piccolo di individui dà forma al lavoro che finisce nelle riviste», ha scritto Ogbunu. E anche se sono persone serie e affidabili, «i loro pregiudizi – metodologici o di altro tipo – sicuramente distorcono il tipo di ricerca che finisce nelle pagine delle nostre riviste preferite».

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