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    Le navi cargo dovrebbero andare più lentamente

    Caricamento playerBuona parte degli oggetti che usiamo ogni giorno, dai cellulari agli abiti passando per le banane, ha attraversato almeno un oceano dal momento in cui è stata prodotta a quello in cui è stata venduta. Ogni giorno migliaia di navi trasportano merci di ogni tipo producendo annualmente tra il 2 e il 3 per cento di tutta l’anidride carbonica che viene immessa nell’atmosfera attraverso le attività umane. È un settore con una forte dipendenza dai combustibili fossili, ma che potrebbe diminuire sensibilmente le proprie emissioni ricorrendo a una soluzione all’apparenza semplice, quasi banale: ridurre la velocità.
    L’idea non è di per sé rivoluzionaria – si conoscono da tempo gli intervalli entro cui mantenersi per ottimizzare i consumi – ma applicarla su larga scala non è semplice soprattutto in un settore dove la velocità viene spesso vista come una priorità e un valore aggiunto. Se si cambia il modo in cui sono organizzati i trasporti marittimi ci sono conseguenze per molti altri settori, che dipendono dalle consegne delle materie prime o dei prodotti finiti. Un ritardo può avere effetti sulla capacità di un’azienda di produrre automobili o di consegnarle in tempo nei luoghi del mondo dove la domanda per le sue auto è più alta, per esempio.
    La necessità di ridurre il rischio di ritardi ha portato a una pratica piuttosto comune nel settore nota come “Sail fast, then wait”, letteralmente: “Naviga veloce, poi aspetta”. Spesso le navi cargo effettuano il più velocemente possibile il proprio viaggio in modo da arrivare quasi sempre in anticipo a destinazione rispetto al momento in cui avranno il loro posto in porto per scaricare le merci. L’attesa in alcuni casi può durare giorni, nei quali le navi restano ferme al largo prima di ricevere l’assegnazione di un posto.
    Il “naviga veloce, poi aspetta” è diventato la norma per molti trasportatori marittimi in seguito all’adozione da parte di molte aziende della strategia “just in time”, che prevede di ridurre il più possibile i tempi di risposta delle aziende alle variazioni della domanda. È un approccio che ha tra gli obiettivi la riduzione al minimo dei tempi di magazzino, rendendo idealmente possibile il passaggio diretto dall’impianto di produzione al cliente finale. Ciò consente di ridurre i costi di conservazione delle merci e i rischi di avere periodi con molti prodotti invenduti, ma comporta una gestione molto più precisa delle catene di rifornimento perché un ritardo di un singolo fornitore o di una consegna può fare inceppare l’intero meccanismo.
    Chi si occupa del trasporto delle merci deve quindi garantire il più possibile la puntualità delle consegne: di conseguenza adotta varie strategie per ridurre i rischi di ritardi dovuti per esempio alle condizioni del mare poco favorevoli o imprevisti burocratici. In molti casi sono i clienti stessi a chiedere garanzie ai trasportatori sul ricorso al “naviga veloce, poi aspetta” per la gestione delle loro merci. Il risultato è in media un maggior consumo di carburante per raggiungere le destinazioni in fretta e una maggiore quantità di emissioni di gas serra, la principale causa del riscaldamento globale.
    Per provare a cambiare le cose e a ridurre consumi ed emissioni del settore, un gruppo di aziende e di istituzioni partecipa a Blue Visby Solution, una iniziativa nata pochi anni fa e che di recente ha avviato le prime sperimentazioni di un nuovo sistema per far rallentare le navi e ridurre i tempi di attesa nei porti. Il sistema tiene traccia delle navi in partenza e in arrivo e utilizza algoritmi e modelli di previsione per stimare l’affollamento nei porti, in modo da fornire alle singole navi indicazioni sulla velocità da mantenere per arrivare al momento giusto in porto. I modelli tengono in considerazione non solo il traffico marittimo, ma anche le condizioni meteo e del mare.
    (Cover Images via ZUMA Press)
    Il sistema è stato sperimentato con simulazioni al computer utilizzando i dati reali sulle rotte e il tempo impiegato per percorrerle di migliaia di navi cargo, in modo da verificare come le modifiche alla loro velocità potessero ridurre i tempi di attesa, i consumi e di conseguenza le emissioni di gas serra. Terminata questa fase di test, tra marzo e aprile di quest’anno Blue Visby ha sperimentato il sistema in uno scenario reale, grazie alla collaborazione con un produttore di cereali australiano che ha accettato di rallentare il trasporto da parte di due navi cargo delle proprie merci in mare.
    Il viaggio delle due navi cargo è stato poi messo a confronto con simulazioni al computer degli stessi viaggi effettuati alla normale velocità. Secondo Blue Visby, i viaggi rallentati hanno prodotto tra l’8 e il 28 per cento in meno di emissioni: l’ampio intervallo è dovuto alle simulazioni effettuate in scenari più o meno ottimistici, soprattutto per le condizioni meteo e del mare. Il rallentamento delle navi ha permesso di ridurre emissioni e consumi, con una minore spesa per il carburante. Parte del risparmio è servita per compensare i maggiori costi operativi legati al periodo più lungo di navigazione, ha spiegato Blue Visby.
    I responsabili dell’iniziativa hanno detto a BBC Future che l’obiettivo non è fare istituire limiti alla velocità di navigazione per le navi cargo, ma offrire un servizio che ottimizzi i loro spostamenti e il tempo che dividono tra la navigazione e la permanenza nei porti o nelle loro vicinanze. Il progetto non vuole modificare la durata di un viaggio, ma intervenire su come sono distribuite le tempistiche al suo interno. Se per esempio in un porto si forma una coda per l’attracco con lunghi tempi di attesa, Blue Visby può comunicare a una nave in viaggio verso quella destinazione di ridurre la velocità ed evitare lunghi tempi di attesa in prossimità del porto.
    La proposta ha suscitato qualche perplessità sia perché per funzionare bene richiederebbe la collaborazione per lo meno delle aziende e dei porti più grandi, sia perché potrebbero sempre esserci navi che decidono di mettere in pratica il “naviga veloce, poi aspetta”, magari per provare ad avvantaggiarsi rispetto a qualche concorrente. I sostenitori di Blue Visby riconoscono questo rischio, ma ricordano anche che i nuovi regolamenti e le leggi per ridurre le emissioni da parte del settore dei trasporti marittimi potrebbero favorire l’adozione del nuovo sistema, che porta comunque a una minore produzione di gas serra.
    (AP Photo/POLFOTO, Rasmus Flindt Pedersen)
    Il nuovo approccio non funzionerebbe comunque per tutti allo stesso modo. È considerato applicabile soprattutto per le navi portarinfuse, cioè utilizzate per trasportare carichi non divisi in singole unità (per esempio cereali o carbone), visto che hanno quasi sempre un solo cliente di riferimento e sono maggiormente coinvolte nella consegna di materie prime. Il sistema è invece ritenuto meno adatto per le navi portacontainer, che di solito coprono quasi sempre le stesse rotte e con i medesimi tempi per ridurre il rischio di girare a vuoto o di rimanere a lungo nei porti.
    Rallentare alcune tipologie di navi cargo potrebbe ridurre le emissioni, ma non può comunque essere considerata una soluzione definitiva al problema delle emissioni prodotte dal trasporto marittimo delle merci. Da tempo si discute della necessità di convertire le navi a carburanti meno inquinanti e di sperimentare sistemi ibridi, che rendano possibili almeno in parte l’impiego di motori elettrici e la produzione di energia elettrica direttamente a bordo utilizzando pannelli solari e pale eoliche.
    Il settore, insieme a quello aereo, è considerato uno dei più difficili da convertire a soluzioni meno inquinanti, anche a causa dell’attuale mancanza di alternative. Oltre alle condizioni meteo e del mare, i trasporti attraverso gli oceani sono inoltre esposti ai rischi legati alla pirateria e agli attacchi terroristici, che portano gli armatori a rivedere le rotte in alcuni casi allungandole e rendendo di conseguenza necessaria una maggiore velocità di navigazione per rispettare i tempi delle consegne. LEGGI TUTTO

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    Weekly Beasts

    Negli anni Ottanta sulla piccola isola di Anma, nella contea del Yeonggwang (Corea del Sud), vennero introdotti una decina di cervi sika, le cui corna erano utilizzate nella medicina tradizionale. Ad anni di distanza il loro numero è cresciuto fino a raggiungere un migliaio, al punto che gli abitanti dell’isola sono esasperati dai danni che causano ai raccolti e al territorio e chiedono che vengano classificati come fauna selvatica dannosa (e non come bestiame) in modo da mettere in atto un programma di abbattimento. Nelle foto di animali della settimana c’è uno di questi cervi che prova a sfuggire a un abitante che vorrebbe anestetizzarlo con una cerbottana, che fa parte di un bel reportage dell’agenzia Reuters. Completano la raccolta un po’ di animali nati da poco: un rinoceronte bianco, una renna, un pinguino di Humboldt, tre pulcini di tucano e due di suricato nati al parco delle Cornelle in provincia di Bergamo. Per finire con il salto di due delfini e un’elegantissima berta maggiore. LEGGI TUTTO

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    L’eruzione dell’Etna vista da vicino

    Caricamento playerGiovedì sera è iniziata una nuova eruzione dell’Etna, il vulcano siciliano che è il più alto vulcano attivo dell’Europa continentale. L’attività eruttiva era in corso già da alcuni giorni, ma ieri è aumentata, tanto che venerdì si è dovuto chiudere temporaneamente l’aeroporto di Catania per lo strato di cenere che si è depositato sulle piste di decollo e atterraggio. L’eruzione riguarda il cosiddetto Cratere Voragine, uno dei quattro crateri sommitali del vulcano, e ha prodotto una colonna di lava che ha raggiunto un’altezza di 4.500 metri secondo la stima dell’Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia (INGV). Il vulcano di suo è alto 3.357 metri. LEGGI TUTTO

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    Negli Stati Uniti è stato approvato un nuovo farmaco contro l’Alzheimer precoce

    Caricamento playerMartedì la Food and Drug Administration (FDA), l’agenzia statunitense che si occupa della regolamentazione dei prodotti alimentari e farmaceutici, ha approvato un nuovo farmaco che dovrebbe rallentare gli effetti del morbo di Alzheimer, la malattia che causa una progressiva perdita della memoria e per cui al momento non è disponibile una cura. Il farmaco si chiama donanemab, è un anticorpo monoclonale ed è venduto negli Stati Uniti con il nome commerciale Kisunla da parte dell’azienda farmaceutica Eli Lilly.
    Il Kisunla è il terzo medicinale studiato per rallentare gli effetti dell’Alzheimer a essere approvato dalla FDA, ma come gli altri due farmaci approvati in precedenza non è una terapia risolutiva. In un test clinico che ha coinvolto 1.700 persone ed è durato 18 mesi si è dimostrato in grado di avere un’efficacia limitata: nei pazienti a cui era stato somministrato è stato rilevato un declino delle capacità cognitive del 35 per cento più lento rispetto ai pazienti con placebo, cioè una sostanza che non fa nulla.
    Attualmente i farmaci disponibili per le persone a cui è stato diagnosticato l’Alzheimer cercano di intervenire sui sintomi della malattia, ma non sono molto efficaci contro la malattia in sé, soprattutto nelle forme più avanzate. Per questo da tempo vari gruppi di ricerca stanno cercando modi per intervenire sulle cause della patologia – che non sono però ancora completamente chiare – in modo da farla progredire più lentamente.
    Più nello specifico sono state fatte ricerche sulla betamiloide, una proteina che causa un accumulo di placche nei neuroni (le cellule del cervello) rendendoli via via meno reattivi e funzionali. Questa proteina è sospettata di essere una, se non la principale, causa dell’Alzheimer, ma tenerla sotto controllo è molto difficile e ci sono ancora dubbi sul suo ruolo nella malattia.
    Nel 2021 la FDA aveva approvato l’Aduhelm (aducanumab) di Biogen tra molti dubbi della comunità scientifica: il farmaco non aveva dato i risultati sperati, per questo era stato poco usato e lo scorso gennaio è stato ritirato dal commercio. La scorsa estate invece la FDA aveva approvato un altro farmaco sviluppato da Biogen insieme a un’altra azienda, Eisai, cioè il Leqembi (lecanemab). Nel test clinico dedicato, i pazienti che avevano ricevuto il lecanemab avevano fatto rilevare un declino delle capacità cognitive del 27 per cento più lento rispetto ai pazienti con placebo.
    Sia nel caso del lecanemab che nel caso del donanemab la riduzione degli effetti dell’Alzheimer è tutto sommato poco marcata e di conseguenza medici ed esperti si chiedono se possa essere sufficiente per essere notata dai pazienti e dai loro cari. Inoltre entrambi i medicinali possono causare gravi effetti collaterali, potenzialmente mortali: nella sperimentazione sul donanemab tre persone sono morte in relazione all’assunzione del farmaco. Tuttavia secondo la commissione che ha consigliato l’approvazione dei farmaci i benefici sono superiori ai rischi.

    – Leggi anche: Perché andarci cauti sul lecanemab

    Eli Lilly non ha ancora fatto sapere quanto costeranno i trattamenti con il Kisunla, ma probabilmente saranno necessarie decine di migliaia di dollari all’anno. LEGGI TUTTO

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    A giugno non si era mai formato un uragano forte come Beryl

    Caricamento playerNelle prime ore di lunedì un uragano chiamato Beryl ha raggiunto la zona del mar dei Caraibi in cui si trovano le Isole Sopravento Meridionali, di cui fanno parte gli stati di Grenada di Saint Vincent e Grenadine. Finora non ci sono notizie di danni, ma di Beryl si è già molto discusso tra i meteorologi perché è il primo uragano di categoria 4, cioè della seconda categoria più alta nella scala Saffir-Simpson delle tempeste tropicali, a essere registrato nel mese di giugno. Tale primato è probabilmente dovuto alle recenti condizioni meteorologiche degli oceani: le temperature particolarmente alte della superficie dell’acqua dell’Atlantico da un lato e lo sviluppo del fenomeno periodico conosciuto come La Niña nel Pacifico dall’altro.
    La stagione degli uragani nell’oceano Atlantico occidentale va all’incirca dall’inizio di giugno alla fine di novembre. Da quando disponiamo di dati satellitari accurati per tutto il bacino Atlantico, cioè dal 1966, il primo uragano della stagione si è formato, in media, intorno al 26 luglio. E generalmente i primi non raggiungono la categoria 4, come ha fatto invece Beryl il 30 giugno, quando i suoi venti hanno superato la velocità di 209 chilometri orari. Finora il più precoce uragano di categoria 4 che fosse stato registrato era stato l’uragano Dennis, l’8 luglio 2005. Anche quelli di categoria 3 sono sempre stati molto rari a giugno: da quando sono disponibili dati sulla velocità del vento ce n’erano stati solo due, l’uragano Alma del 6 giugno 1966 e l’uragano Audrey del 27 giugno 1957.
    Generalmente il mese in cui si formano più tempeste tropicali e di maggiore intensità nell’Atlantico settentrionale è agosto perché è il periodo dell’anno in cui le acque superficiali dell’oceano sono più calde. La temperatura degli strati superiori dell’acqua influisce sulle tempeste perché più sono caldi, maggiore è l’evaporazione e dunque la quantità di acqua presente nell’atmosfera che si può raccogliere nelle grandi nubi coinvolte nelle tempeste. Per questo gli scienziati dicono spesso, per farsi capire, che il calore degli stati superficiali dell’oceano è il carburante degli uragani.
    Di solito a giugno e a luglio le temperature dell’oceano non sono sufficientemente alte da favorire uragani molto distruttivi, ma nell’ultimo anno nell’Atlantico sono state raggiunte temperature più alte della norma, in parte per via del più generale riscaldamento globale causato dalle attività umane, che non riguarda solo l’atmosfera, in parte per altri fattori che gli scienziati stanno ancora studiando.
    L’altro fattore che contribuisce alla formazione degli uragani insieme alla temperatura degli strati più superficiali dell’acqua sono venti deboli. Infatti, mentre se soffiano venti forti l’evaporazione diminuisce, con poco vento aumenta; l’assenza di vento inoltre non fa disperdere le grosse nubi create dall’alta evaporazione, quelle da cui poi si formano le tempeste. E attualmente nella fascia tropicale dell’Atlantico i venti sono deboli perché si sta sviluppando “La Niña”, uno dei complessi di eventi atmosferici che periodicamente influenzano il meteo di varie parti del mondo.
    La Niña avviene nell’oceano Pacifico meridionale, e come il più noto El Niño (che deve il suo nome, “il bambino” in spagnolo, al Natale) fa parte dell’ENSO, acronimo inglese di “El Niño-Oscillazione Meridionale”, un fenomeno che dipende da variazioni di temperatura nell’oceano e di pressione nell’atmosfera. La Niña è la fase di raffreddamento dell’ENSO e ha tra i suoi vari effetti lo sviluppo di siccità nell’ovest degli Stati Uniti, precipitazioni particolarmente abbondanti in paesi come il Pakistan, la Thailandia e l’Australia, e temperature più basse in molte regioni del Sudamerica e dell’Africa e in India. Un altro effetto è l’indebolimento dei venti sull’Atlantico tropicale, dunque un’intensificazione del numero delle tempeste tropicali e della loro forza.
    Già a maggio la National Oceanic and Atmospheric Administration (NOAA), l’agenzia statunitense che si occupa degli studi meteorologici e oceanici, aveva previsto che la stagione degli uragani di quest’anno sarebbe stata più intensa della media per via delle condizioni meteorologiche. La NOAA ha stimato che si svilupperanno tra le 17 e le 25 tempeste tropicali nel 2024, di cui tra gli 8 e i 13 uragani: in media si registrano 14 tempeste tropicali in un anno nell’Atlantico. Nel 2020, in occasione dell’ultima Niña, c’erano state 30 tempeste tropicali e 14 uragani.
    All’avvicinarsi alle Isole Sopravento Meridionali e a Barbados l’uragano Beryl ha inizialmente perso intensità e la velocità dei suoi venti è diminuita al punto da rientrare nella categoria 3 della scala Saffir-Simpson (con venti di 178–208 chilometri orari); poi però si è nuovamente rafforzato, tornando alla categoria 4. In questa parte dei Caraibi era dall’uragano Ivan del 2004 che non arrivava una tempesta tanto intensa.

    – Leggi anche: Le categorie per classificare gli uragani non bastano più? LEGGI TUTTO

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    La vescica è cervellotica

    Caricamento playerTra le tante massime attribuite ad Alfred Hitchcock, uno dei più importanti e famosi registi del Novecento, c’è quella secondo cui «la durata di un film dovrebbe essere commisurata alla capacità di resistenza della vescica umana». La paternità della frase è ancora oggi discussa, sembra che Hitchcock stesse a sua volta citando il drammaturgo George Bernard Shaw, ma dice comunque qualcosa non solo sulla sostenibilità dei film lunghi, ma anche sulla capacità di controllo di una cosa che facciamo tutti più volte al giorno per tutta la vita: svuotare la vescica facendo pipì. È una cosa che ci viene naturale e di cui non possiamo fare a meno, ma dietro alla sua apparente semplicità si nascondono processi articolati e in parte ancora poco esplorati.
    Per molto tempo medici e gruppi di ricerca hanno ritenuto che il controllo della vescica fosse il frutto di un riflesso elementare, una sorta di interruttore acceso/spento che rende possibile l’accumulo dell’urina e la sua espulsione in un dato momento. Gli studi condotti negli ultimi decenni hanno invece mostrato l’esistenza di processi molto più complessi che coinvolgono più aree del cervello e del resto del sistema nervoso centrale, particolari tessuti muscolari e terminazioni nervose che ci aiutano ad avere il senso dello stato interno del nostro organismo (enterocezione).
    Tutto inizia con un bicchiere d’acqua, una fetta di anguria, un piatto di insalata o praticamente qualsiasi altro alimento che ingeriamo che contiene una certa quantità di acqua. Attraverso i processi digestivi, l’acqua finisce in ogni cellula del nostro organismo, che non a caso è costituito in media al 65 per cento da questa sostanza. Abbiamo continuamente necessità di assumere acqua, perché ne perdiamo costantemente con la traspirazione e con la produzione di urina da parte dei reni, che tra i loro compiti hanno quello di pulire il sangue dalle impurità.
    Dopo essere stata prodotta, l’urina non viene eliminata immediatamente, ma si accumula in un piccolo sacchetto che si può espandere come un palloncino: la vescica. Quando è vuota appare rugosa e avvizzita, mentre quando è piena sembra tesa come una pelle di tamburo. La vescica di una persona adulta in salute arriva a contenere tra i 300 e i 500 millilitri (mezzo litro) di urina, ma ci sono casi in cui la vescica si gonfia di più arrivando a contenere anche più del doppio di quel volume. È tra gli organi più elastici del nostro organismo e arriva a espandersi più di sei volte rispetto a quando è completamente vuota.
    Questa notevole espansione è resa possibile dal detrusore, un muscolo che ricopre interamente la vescica e che si rilassa man mano che questa si riempie di urina. Alla base della vescica avviene invece il contrario: i muscoli che regolano lo sfintere dell’uretra si contraggono, così da evitare che la pipì fluisca verso l’esterno nei momenti indesiderati. È un processo che avviene di continuo: la vescica passa circa il 95 per cento della propria, e della nostra, esistenza piena o per meglio dire in fase di riempimento.
    (Wikimedia)
    Conosciamo il resto della storia. A un certo punto la vescica è piena a sufficienza da percepire l’esigenza di vuotarla, cerchiamo il luogo più opportuno in cui farlo e ci liberiamo: il detrusore si contrae, lo sfintere si rilassa e l’urina fluisce nell’uretra, l’ultimo tratto delle vie urinarie, e infine le molecole d’acqua dopo un lungo tour del nostro organismo rivedono la luce. Nella maggior parte dei casi agiamo quando lo stimolo è ancora sopportabile e la vescica contiene mediamente poco meno di 400 ml di pipì, ma ci possono essere casi in cui non ci si può liberare immediatamente e si accumula altra urina rendendo lo stimolo sempre meno sopportabile. Oltre una certa misura, che varia molto da persona a persona, scatta un meccanismo di emergenza e la vescica si svuota involontariamente.
    Non è necessario essere idraulici o ingegneri per apprezzare la semplicità del sistema nel suo risultato finale, ma ancora oggi i gruppi di ricerca faticano a mettere insieme tutti i pezzi che rendono possibile il coordinamento e la gestione delle varie attività legate alla minzione, cioè al fare pipì. Un secolo fa alcuni esperimenti su cavie di laboratorio, per esempio, fecero ipotizzare che il controllo della minzione derivasse dal “ponte”, una struttura che si trova nel tronco encefalico, la parte dell’encefalo appena al di sotto del cervello. Sarebbero però passati decenni prima di confermare l’ipotesi e soprattutto di scoprire che la regolazione della vescica deriva da meccanismi ancora più complessi.
    Man mano che si accumula l’urina, determinando l’espansione della vescica, alcune cellule specializzate che si trovano a contatto con il detrusore e con la parete interna della vescica stessa inviano un segnale alla sostanza grigia periacqueduttale, un complesso di neuroni che si trova nel mesencefalo, una parte del tronco encefalico. Il segnale raggiunge poi il lobo dell’insula, un’altra area del cervello che assolve a varie funzioni legate all’omeostasi corporea, cioè alla sua capacità di mantenere un certo equilibrio nelle attività che svolge di continuo. Più la vescica si riempie e si gonfia, più segnali arrivano all’insula che a sua volta si attiva con una grande quantità di impulsi elettrici (potenziali di azione).
    (Wikimedia)
    È a questo punto che dall’automatismo si passa alla gestione consapevole della necessità di fare pipì, che viene gestita attraverso la corteccia prefrontale, cioè l’area del cervello legata alla pianificazione e alla decisione delle azioni da compiere in base alla nostra volontà. Lo stimolo di urinare viene quindi valutato soprattutto in base alle condizioni in cui ci troviamo e a domande che ci facciamo spesso senza farci molto caso: è socialmente accettabile interrompere ciò che sto facendo per andare in bagno adesso? Lo stimolo è forte o posso reggere ancora per un po’? Tra quanto potrò raggiungere un bagno? E così via.
    Quando infine ci sono le condizioni per liberarsi, attraverso la corteccia prefrontale il segnale viene elaborato da altre aree del cervello, torna alla sostanza grigia periacqueduttale e viene indirizzato verso il ponte nel tronco encefalico (nucleo di Barrington). Il segnale arriva infine alla vescica, il detrusore si contrae, lo sfintere dell’uretra si rilassa e l’urina fluisce all’esterno.
    Il tortuoso percorso del segnale dal momento in cui la vescica inizia a essere piena a quando può vuotarsi si è arricchito in questi anni di ulteriori tappe grazie a nuove tecniche di analisi, come ha raccontato di recente alla rivista Knowable Rita Valentino, responsabile del dipartimento di neuroscienze e comportamento al National Institute on Drug Abuse negli Stati Uniti.
    Insieme ai propri colleghi, Valentino ha misurato l’attività elettrica dei neuroni in vari siti del sistema nervoso, identificando per esempio il particolare comportamento dei neuroni nel “locus coeruleus”, un nucleo nel tronco encefalico coinvolto nei meccanismi legati ad attenzione, stress e panico. Pochi secondi prima di iniziare a urinare, i neuroni in quest’area iniziano a produrre ritmicamente segnali indirizzati verso la corteccia. L’ipotesi è che ciò determini un maggiore stato di allerta in un momento in cui dobbiamo agire velocemente e siamo al tempo stesso vulnerabili.
    Le ricerche come quelle svolte da Valentino possono anche offrire spunti importanti per affrontare i problemi di salute legati alla minzione. Alcuni derivano da eventi traumatici, come lesioni spinali che rendono impossibile il controllo diretto della vescica, mentre altri subentrano con l’età e sono legati per lo più a problemi di incontinenza e di perdite.
    Eliminare l’urina è essenziale per l’organismo e per questo nelle prime fasi di vita questa funzione è svolta senza un diretto coinvolgimento del cervello. Subito dopo la nascita e fino ai 3-4 anni di vita, la minzione viene gestita da un riflesso spinale quando la vescica è piena. In seguito, le aree del cervello che usiamo per gestire alcune funzioni si sviluppano a sufficienza per controllare anche la minzione, riducendo i casi in cui si verifica il riflesso. Se a causa di un incidente si interrompono le vie di comunicazione tra il cervello e la vescica, il riflesso può riemergere e lo svuotamento della vescica avviene senza un controllo diretto.
    Anche in questo caso non tutti i meccanismi sono chiari, ma comprenderli meglio insieme a quelli che coinvolgono il cervello potrebbe offrire nuove opportunità per il trattamento di alcune condizioni come la sindrome da vescica iperattiva. Porta a una necessità improvvisa di urinare che non può essere rinviata nel tempo e che si ripete più volte al giorno, sia quando si è svegli sia quando si va a dormire. Stimare la diffusione di questa sindrome è molto difficile e i dati variano molto, con alcune ricerche che indicano una prevalenza del 15,6 per cento tra gli uomini e del 17,4 per cento tra le donne in Europa. In generale, la sindrome tende a presentarsi con maggiore frequenza tra le donne sopra i 60 anni e nel periodo successivo all’inizio della menopausa.
    (Sara D. Davis/Getty Images)
    Le cause della sindrome da vescica iperattiva sono ancora oggetto di studio. Un probabile fattore è una eccessiva reattività del detrusore, che porta a rapide contrazioni facendo arrivare al cervello segnali sbagliati su quanto sia effettivamente piena la vescica. Alcuni trattamenti prevedono l’impiego di farmaci per provare a ridurre gli spasmi, in modo da evitare l’attivazione dei meccanismi legati alla minzione. Calibrare correttamente le dosi non è però semplice: se il dosaggio è più basso del dovuto non ci sono benefici, se invece è troppo alto ci sono rischi di bloccare il sistema con la conseguente impossibilità di urinare.
    Diagnosticare la sindrome da vescica iperattiva richiede tempo e in alcuni casi non porta a identificare una causa precisa, per esempio se non vengono osservati spasmi anomali del detrusore. Per questo motivo alcuni gruppi di ricerca si stanno dedicando allo studio dell’urotelio (o epitelio di transizione), il rivestimento interno della vescica e delle vie urinarie. Gli strati cellulari che lo costituiscono assolvono a varie funzioni, oltre a quella di isolare l’urina dal resto dell’organismo, e sono molto importanti nel rilevare il grado di dilatazione della vescica su cui si basa poi l’attività del sistema nervoso.
    L’analisi dell’urotelio ha portato a scoprire il ruolo di una particolare proteina (PIEZO2) solitamente coinvolta nelle risposte agli stimoli sensoriali. Un trattamento potrebbe quindi mirare a regolare diversamente quella proteina, ma farlo non è semplice perché la stessa proteina è coinvolta in numerosi altri processi in altre parti del corpo che potrebbero essere compromessi.
    Ci sono poi fattori psicologici che possono condizionare la frequenza con cui si sente la necessità di vuotare la vescica, tali da rendere ancora più difficile una diagnosi. Alcune persone pensano più spesso di altre al dover fare pipì e questa condizione di assiduo “ascolto” della loro vescica fa sì che percepiscano più di frequente la necessità di vuotarla. Le cause possono essere molteplici e a volta dettate dalle circostanze.
    Alcune persone arrivate fino a questo punto leggendo un lungo articolo interamente dedicato all’argomento potrebbero avvertire un certo stimolo, o una strana sensazione di maggiore consapevolezza della loro vescica rispetto al solito. Altre avvertono l’esigenza di dover fare pipì non appena infilano la chiave nella porta per rientrare a casa, con una crescente urgenza man mano che si avvicina la possibilità di andare in bagno (è la “sindrome della toppa della chiave di casa”). Un certo condizionamento può avere temporaneamente qualche effetto e non è preoccupante, ma se circostanze di questo tipo si presentano di frequente possono essere un sintomo da non sottovalutare.
    Tra le cause di una maggiore frequentazione del bagno negli uomini di solito oltre i 50 anni c’è l’iperplasia prostatica benigna, cioè un naturale ingrossamento della ghiandola prostatica che si trova alla base della vescica, intorno all’uretra. L’aumento delle dimensioni fa sì che la prostata spinga verso l’alto la vescica riducendo la sua possibilità di espandersi: questo, insieme ad altri fattori, fa sì che la vescica si riempia più velocemente e di conseguenza che ci sia la necessità di urinare più di frequente. Le persone affette da diabete o da cistite e le donne incinte hanno anche di solito una minore autonomia prima di dovere andare in bagno.
    Rappresentazione schematica dell’iperplasia prostatica benigna e dei suoi effetti sul volume della vescica (Wikimedia)
    Anche il consumo di alcune sostanze può stimolare una maggiore produzione di urina. Il caffè e varie bibite contengono caffeina, che ha effetti diuretici piuttosto marcati. Anche l’alcol induce una maggiore attività renale e favorisce la disidratazione, portando a produrre più pipì. Periodi di particolare stress possono influire sulla frequenza con cui si va in bagno, perché alcuni neurotrasmettitori come l’adrenalina influiscono sull’attività renale. E può accadere di dovere andare più di frequente in bagno quando fa freddo: la normale traspirazione è ridotta, perché l’organismo prova a mantenere stabile la propria temperatura interna, di conseguenza c’è una minore sudorazione e maggiori quantità di acqua possono essere espulse tramite l’urina. Può succedere in una fredda giornata invernale o d’estate in una gelida sala di un cinema con l’aria condizionata.
    E per Hitchcock gli eventuali problemi di vescica per i suoi spettatori erano una preoccupazione ricorrente. In un’intervista del 1966, confidò di avere ben presente che con un film un regista chiede a una persona di starsene seduta per diverse ore e che: «Man mano che la storia procede verso la fine, il pubblico potrebbe iniziare a essere – come dire – fisicamente distratto, quindi devi aumentare le cose interessanti che succedono sullo schermo per distogliere il loro pensiero da quella cosa». Il film più lungo diretto da Hitchcock dura due ore e sedici minuti. LEGGI TUTTO

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    Cosa ci può dire il cranio di un Neanderthal con disabilità vissuto fino a sei anni

    Caricamento playerVissuti tra 600mila e 40mila anni fa (le stime sono dibattute), i Neanderthal furono l’ultima specie nota del genere Homo a convivere sul pianeta con la nostra (Homo Sapiens), per alcune decine di migliaia di anni. Tra le specie estinte di ominini è in assoluto la più conosciuta e studiata, da quando nel 1856 i primi fossili furono scoperti in una cava nella valle di Neander, in Germania.
    Il 26 giugno la rivista Science Advances ha pubblicato in un articolo i risultati di un’approfondita analisi condotta sul fossile di un Neanderthal da un gruppo di ricerca guidato dalla paleoantropologa spagnola Mercedes Conde-Valverde, insegnante dell’università di Alcalá, in Spagna. L’analisi del fossile, composto da parti del cranio di un individuo di circa sei anni di età, indicherebbe la presenza di una patologia congenita all’orecchio interno comunemente associata alla sindrome di Down e probabilmente debilitante al punto da richiedere le cure e le attenzioni di più adulti. Il fatto che l’individuo sia sopravvissuto fino ai sei anni, secondo le autrici e gli autori dello studio, proverebbe la diffusione di «comportamenti prosociali altamente adattivi» e di una stabile e disinteressata collaborazione di gruppo tra i Neanderthal.
    Sebbene siano stati immaginati, descritti e raffigurati per lungo tempo – e in parte lo siano ancora – come esseri rozzi e non civilizzati, i Neanderthal condividevano con i Sapiens molte caratteristiche. Alcune sono dibattute, come la capacità di costruire strumenti musicali e dipingere, ma molte altre sono assodate, come la sepoltura dei morti, l’uso di strumenti in pietra e indumenti, e del fuoco per cuocere il cibo, scaldarsi e difendersi dai predatori. Diversi studi pubblicati negli ultimi decenni, che hanno contribuito a rivedere precedenti valutazioni del divario socioculturale con i Sapiens, hanno inoltre suggerito che i Neanderthal collaborassero abitualmente e si prendessero cura gli uni degli altri.
    L’idea che fossero anche capaci di provare compassione è dibattuta da tempo, perché diversi studiosi sostengono che la collaborazione avvenisse tra individui in grado di ricambiare il favore, o in ogni caso con fini utilitaristici e con l’aspettativa di un beneficio reciproco, più che per benevolenza. Lo studio pubblicato su Science Advances, secondo il gruppo di ricerca guidato da Conde-Valverde, accresce tuttavia le prove a sostegno dell’esistenza di un sentimento di altruismo disinteressato tra i Neanderthal, esteso oltre la cerchia di familiari più stretti dell’individuo con la disabilità congenita.

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    Il fossile della ricerca uscita su Science Advances, codificato con la sigla CN-46700, è composto dal frammento di un osso temporale destro (la parte laterale inferiore della scatola cranica) e fa parte di un insieme di resti scoperti nel 1989 nel sito archeologico della caverna di Cova Negra nella provincia di Valencia, in Spagna, un’area occupata dai Neanderthal tra 273mila e 146mila anni fa. Per costruire un modello tridimensionale dell’osso completo il gruppo di ricerca ha utilizzato delle microtomografie computerizzate ai raggi X, una tecnica che permette, come le TAC, di ottenere sezioni trasversali di un oggetto fisico senza bisogno di distruggerlo.
    La ricostruzione di un individuo adulto esposta nel museo dei Neanderthal a Mettmann, in Germania (AP Photo/Martin Meissner)
    L’analisi ha mostrato che l’osso apparteneva a un individuo che aveva poco più di sei anni, soprannominato “Tina” dal gruppo di ricerca, sebbene non sia possibile stabilirne il genere. L’osso temporale è una struttura di grande importanza perché contiene e protegge la coclea e altri organi responsabili non soltanto dell’udito ma anche dell’equilibrio. Una serie di anomalie morfologiche riscontrate nel fossile, in attesa di un eventuale futuro esame del DNA che permetta di confermare un’anomalia cromosomica, suggerisce che Tina presentasse deficit invalidanti di vario tipo e critici per la sopravvivenza, tra cui deficit cognitivi, una ridotta capacità di suzione e una mancanza di coordinazione motoria e di equilibrio.
    Considerando lo stile di vita impegnativo e l’intensa mobilità dei Neanderthal, scrive il gruppo di ricerca, è difficile immaginare che la madre di Tina sarebbe stata in grado di fornirle da sola le cure necessarie e nel frattempo svolgere per un periodo di tempo prolungato le normali attività quotidiane tipiche dei gruppi di cacciatori-raccoglitori. È molto più probabile che abbia ricevuto continuamente aiuto da altri membri del gruppo sociale di cui lei e sua figlia facevano parte. «È la spiegazione più semplice per il fatto sorprendente che un individuo con sindrome di Down sia sopravvissuto per almeno sei anni in epoca preistorica», ha detto Conde-Valverde al Washington Post.
    I risultati delle analisi condotte su altri fossili in precedenti studi avevano già sostenuto l’ipotesi che i Neanderthal si prendessero cura dei membri fragili e vulnerabili del gruppo. Una ricerca pubblicata nel 2018 da un gruppo di archeologi e antropologi della University of York, nel Regno Unito, e della Australian National University, a Canberra, analizzò diversi fossili di individui con lesioni traumatiche guarite. Il gruppo concluse che le cure mediche e l’assistenza sanitaria tra i Neanderthal fossero pratiche abituali diffuse, non distintamente diverse da quelle tipiche di contesti sociali successivi, e probabilmente motivate dall’investimento nel benessere dei membri del gruppo.

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    Un esempio noto e molto citato di assistenza e collaborazione tra i Neanderthal è uno dei fossili scoperti alla fine degli anni Cinquanta nella grotta Shanidar, nel Kurdistan iracheno, e denominato Shanidar 1. È composto dai resti di un individuo con segni di deformazioni degli arti associate a gravi lesioni traumatiche al cranio subite in giovane età e poi guarite, che probabilmente avevano provocato problemi di vista e di udito. Le analisi del fossile mostrarono che l’individuo era sopravvissuto fino all’età di circa 40 anni: un periodo di tempo che diversi ricercatori si spiegano soltanto ammettendo l’assistenza e le cure consapevoli da parte di un gruppo sociale.
    Conde-Valverde ha spiegato alla rivista Science che la scoperta della probabile disabilità dell’individuo ricostruito a partire dal fossile CN-46700 è importante «perché finora nel dibattito sull’assistenza tra i Neanderthal avevamo soltanto individui adulti». L’ipotesi formulata per spiegare la sopravvivenza di Tina fino ai sei anni dimostrerebbe che il valore attribuito dai Neanderthal agli individui fosse esteso ai membri di ogni fascia d’età. Suggerisce inoltre che l’accudimento e la genitorialità collaborativa facessero parte di un complesso adattamento sociale molto simile a quello dei Sapiens, e con origini probabilmente molto antiche all’interno del genere Homo.
    Altri studiosi sostengono che la compassione e l’altruismo incondizionato dei Neanderthal non siano deducibili con certezza sulla base delle analisi dei fossili. Analisi simili svolte in passato su resti scoperti in tre diversi siti nell’Europa del Nord hanno permesso tra l’altro di ricavare prove di cannibalismo tra i Neanderthal, come concluso in uno studio nel 2016. Il che non è comunque incompatibile con l’ipotesi della solidarietà e dell’assistenza abituale agli individui vulnerabili, dal momento che non esistono prove che il cannibalismo fosse una pratica comune (è più probabile che fosse associato, come del resto anche nella storia umana, a periodi di estrema scarsità di cibo).
    L’archeologa spagnola Sofia C. Samper Carro, insegnante all’Australian National University ed esperta di comportamento dei Neanderthal, ha detto al Washington Post che in generale il legame tra le lesioni o le patologie e le relazioni di assistenza tra gli individui è difficile da dimostrare negli studi sui fossili. Ma ha aggiunto che lo studio pubblicato su Science Advances fornisce prove sufficienti per dimostrare un chiaro legame tra una disabilità infantile e un impegno nelle cure da parte di individui adulti.
    Anche se probabilmente non saremo in grado di dimostrare inequivocabilmente che i Neanderthal avessero questa capacità, «studi come questo sono certamente un passo avanti nella giusta direzione per demistificare la nostra unicità e il presunto comportamento meno “umano” dei Neanderthal», ha detto Samper Carro. LEGGI TUTTO

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    Weekly Beasts

    Qualche anno fa in Sudafrica è stato avviato un progetto sperimentale che prevede di iniettare un materiale radioattivo nei corni dei rinoceronti, che consentirebbe di individuare più facilmente le parti di corno che vengono asportate dagli animali e trafficate illegalmente (rilevandole in appositi sensori installati ad esempio negli aeroporti ai confini nazionali), nella speranza di limitare il fenomeno. Tra le foto di animali della settimana c’è un rinoceronte nella zona del Limpopo a cui è stato appena effettuato il procedimento. Poi orsi che fanno la doccia – questi sono in uno zoo, ma sapreste cosa fare se ne incontraste uno? –, il salto di una megattera, due procioni che si fanno cercare, un cane brutto e uno famoso sui social network. LEGGI TUTTO