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    La calotta glaciale dell’ovest dell’Antartide continuerà a sciogliersi anche con meno emissioni

    Caricamento playerLa calotta glaciale antartica occidentale, cioè la grande massa di ghiaccio che ricopre l’ovest dell’Antartide, continuerà a sciogliersi sempre di più nel corso di questo secolo. Succederà anche se diminuiremo l’uso dei combustibili fossili al punto da raggiungere il più ambizioso degli obiettivi dell’Accordo sul clima di Parigi del 2015, quello che prevede di mantenere l’aumento della temperatura media globale annuale sotto 1,5 °C in più rispetto all’epoca preindustriale. Lo dice un nuovo studio della British Antarctic Survey (BAS), l’organizzazione governativa britannica che si occupa di ricerca e divulgazione scientifica sull’Antartide, pubblicato sulla rivista Nature Climate Change.Le conclusioni dello studio implicano che anche le politiche più significative per il contrasto del riscaldamento globale non permetteranno di limitare l’innalzamento del livello dei mari dovuto allo scioglimento della calotta antartica occidentale: già ora è la parte di ghiaccio dell’Antartide che contribuisce di più a questo fenomeno, e secondo questa ricerca lo farà sempre di più nei prossimi decenni. «Se avessimo voluto preservare la calotta antartica occidentale, avremmo dovuto intervenire contro il cambiamento climatico decenni fa», ha detto Kaitlin Naughten, oceanografa della BAS e prima autrice dello studio.La calotta glaciale antartica è la più grande massa di ghiaccio presente sulla Terra ed è divisa in due parti da una catena montuosa, i Monti Transantartici. La parte orientale è quella di maggiori dimensioni, poggia su una base continentale, cioè su terre emerse, ed è molto stabile: non è previsto che la sua massa diminuirà in modo significativo nei prossimi anni. La parte occidentale invece è una calotta di ghiaccio con base marina: il ghiaccio si appoggia sul suolo, che però si trova sotto il livello del mare.L’innalzamento del livello dei mari è dovuto a due fenomeni legati al riscaldamento globale. Il primo è la dilatazione termica dell’acqua degli oceani: insieme alla temperatura dell’atmosfera sta aumentando anche quella degli oceani, e quando l’acqua si scalda, la sua densità diminuisce facendo aumentare il volume che occupa. Il secondo fenomeno è il fatto che d’estate i ghiacciai del mondo e i ghiacci che ricoprono zone dell’Antartide e della Groenlandia fondono più di quanto poi riescano a righiacciare. Il progressivo scioglimento dei ghiacci che si trovano sulla terra (quindi calotta antartica occidentale compresa) fa infatti aumentare l’acqua negli oceani. Per via dei due fenomeni combinati, tra il 1900 e il 2021 il livello medio del mare è aumentato di 21 centimetri.Facendo delle simulazioni di quattro diversi scenari climatici futuri gli autori dello studio sono giunti alla conclusione che l’umanità non può fermare lo scioglimento della calotta antartica occidentale. Anche rispettando il limite di 1,5 °C, ritenuto ormai inverosimile dagli esperti di clima, la fusione dei ghiacci della calotta antartica occidentale diventerà tre volte più veloce rispetto al secolo scorso. A causa del riscaldamento del mare di Amundsen, il ramo dell’oceano Antartico su cui si affaccia l’Antartide occidentale, la banchisa legata alla calotta, cioè il ghiaccio marino attaccato a quello continentale, fonderà senza riformarsi, e così diminuirà la stabilità dei ghiacciai sulla terraferma. Sarà il loro contributo a far aumentare la quantità d’acqua negli oceani.– Leggi anche: È molto probabile che supereremo il limite di 1,5 °C entro il 2027Lo studio della BAS non comprende una stima di quale sarà il contributo all’aumento del livello del mare della calotta antartica occidentale (è stato calcolato che se fondesse tutta alzerebbe il livello medio di 5 metri, ma non è di una prospettiva così catastrofica che si sta parlando), ma comporta che le attuali stime sull’innalzamento del livello del mare potrebbero essere superate. Secondo le ultime valutazioni dell’IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change), l’organismo scientifico internazionale dell’ONU per la valutazione dei cambiamenti climatici, si prevede un aumento medio compreso tra 28 centimetri e 1,01 metri entro il 2100: 1 metro in più potrebbe sembrare poco, ma in certe zone del mondo metterebbe centinaia di milioni di persone a rischio di allagamenti costieri.Queste stime hanno una certa incertezza perché non si sa bene in che modo le calotte glaciali in riduzione interagiranno con gli oceani nel corso del secolo: lo studio della BAS appena pubblicato è il primo ad aver simulato cosa potrebbe succedere alla calotta antartica occidentale. Anche per questo ne saranno necessari altri, sia per confermarne i risultati sia per fare previsioni più precise, che tengano conto di altri aspetti – ad esempio la possibilità che l’aumento delle temperature in Antartide causi nevicate e quindi un accrescimento della massa dei ghiacciai del continente.L’innalzamento del livello del mare è un problema soprattutto per alcune piccole isole nell’oceano, come quelle di Tuvalu, e per le zone abitate costiere, alcune più di altre: ad esempio quelle lungo la costa orientale degli Stati Uniti, ma anche in India, nel Sud-Est asiatico e in Cina, dove si trovano grandi città popolosissime, come Calcutta, Mumbai, Dacca, Bangkok e Shanghai. Naughten ha commentato lo studio dicendo che «il lato positivo» è che abbiamo ancora tempo per «adattarci all’innalzamento del livello del mare che verrà»: «Se c’è bisogno di abbandonare o ripensare totalmente una regione costiera avere 50 anni di tempo a disposizione fa la differenza».– Leggi anche: La sfida per trovare il ghiaccio più vecchio, in Antartide LEGGI TUTTO

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    Forse Dracula era vegetariano

    Un articolo di biologia molecolare pubblicato ad agosto sulla rivista scientifica Analytical Chemistry ha presentato i risultati di un’analisi delle tracce di biomolecole ritrovate su tre lettere scritte da Vlad III di Valacchia, noto anche come Vlad Tepes, nobile e condottiero rumeno del XV secolo a cui si ispirò lo scrittore irlandese Bram Stoker per creare il personaggio Dracula. I risultati hanno ricevuto diverse attenzioni su alcuni media perché definiti da uno dei coautori dello studio, pur tra molte cautele e con grande approssimazione, teoricamente compatibili con l’ipotesi che l’alimentazione di Vlad III non includesse carne, per necessità e mancanza di alternative.Oltre che per questa supposizione, basata su risultati comunque molto parziali, l’articolo ha attirato curiosità e interesse per altre ipotesi che suggerisce e per la tecnica utilizzata dal gruppo di ricerca, in parte composto da ricercatori e ricercatrici del laboratorio di spettrometria di massa organica dell’Università degli Studi di Catania. Ha accresciuto inoltre la relativa popolarità di un ambito di ricerca in espansione già da alcuni anni: la paleoproteomica, cioè l’analisi del complesso di proteine recuperate da resti di materiali paleontologici e beni culturali come oggetti personali, lettere autografe e altri documenti.L’analisi delle tre lettere di Vlad III – una del 1457 e due del 1475 – ha permesso di individuare e isolare migliaia di peptidi, l’unione di due o più molecole di aminoacidi, che costituiscono le proteine. Tra quelli che mostravano segni di degrado coerenti con un’età di oltre 500 anni, circa cento peptidi erano di origine certamente umana, e più o meno duemila provenivano dall’ambiente. I dati analizzati non possono essere considerati esaustivi, stando alle conclusioni del gruppo di ricerca, ma potrebbero indicare che, compatibilmente con alcuni racconti, Vlad III abbia sofferto negli ultimi anni della sua vita di emolacria, una condizione clinica rara che porta alla produzione di sangue nelle lacrime. Ed è anche probabile che abbia sofferto di processi infiammatori delle vie respiratorie e della pelle. Il gruppo di ricerca comunque non ha tratto conclusioni sulla relazione tra queste condizioni (comunque difficili da confermare) e le caratteristiche del personaggio letterario di Stoker.(American Chemical Society, agosto 2023)Secondo lo studio, sebbene altre persone abbiano verosimilmente maneggiato le lettere all’epoca, è presumibile che le proteine antiche più importanti siano correlate a Vlad III, che scrisse e firmò queste lettere. L’interpretazione dei dati ha inoltre permesso di ricostruire attraverso l’analisi di migliaia di peptidi non umani, riconducibili a batteri, virus e funghi, le condizioni ambientali della Valacchia, una regione storico-geografica dell’attuale Romania meridionale, nella seconda metà del XV secolo, un periodo di clima eccezionalmente freddo in Europa. In quel periodo la Valacchia era un punto d’incontro strategico per soldati, schiavi e mercanti provenienti da tutta Europa e dal Medio Oriente, ed è probabile che questi flussi abbiano favorito non soltanto la circolazione di beni commerciali e tradizioni culturali, ma anche di malattie ed epidemie.Uno dei coautori dello studio è l’israeliano di origini kazake Gleb Zilberstein, tra i più conosciuti ricercatori impegnati in questo tipo di analisi su materiali paleontologici e documenti antichi. È stato lui, come recentemente raccontato dal New Yorker, a recuperare negli archivi della città di Sibiu, in Romania, le tre lettere di Vlad III, di cui due in perfette condizioni. «Queste molecole sono più stabili del DNA e forniscono maggiori informazioni sulle condizioni ambientali, sulla salute, sullo stile di vita e sull’alimentazione del personaggio storico a cui appartenevano le molecole», disse Zilberstein al Guardian parlando delle tecniche utilizzate per lo studio.Sorpreso dall’assenza di proteine alimentari di origine animale tra i campioni analizzati, Zilberstein aveva in seguito parlato al quotidiano inglese Times dell’alimentazione di Vlad III ipotizzabile a partire dall’analisi delle lettere, tra cui una scritta il 4 agosto 1475 agli abitanti della città di Sibiu, in Romania. Tutti i peptidi ritrovati nei campioni e solitamente associati all’alimentazione umana provenivano da frutta e verdura, e alcune tracce da funghi e moscerini della frutta.Questi dati, secondo Zilberstein, sono compatibili con l’ipotesi che l’alimentazione di Vlad III, che non includeva carne ma soltanto verdura e frutta piuttosto matura, fosse condizionata dal clima particolarmente freddo nell’Europa del XV secolo e dalla scarsità di cibi molto proteici all’epoca in Valacchia. «Il prototipo del vampiro potrebbe essere stato vegetariano o vegano», aveva detto Zilberstein: non per scelta etica, ma per ragioni di salute o per mancanza di alternative, dal momento che «secondo i bioarcheologi gli aristocratici di tutta Europa avevano una dieta molto povera e la carne non veniva mangiata spesso».– Leggi anche: Mangiare la carne solo in qualche occasionePer comprendere come siano possibili analisi come quelle condotte sulle lettere di Vlad III di Valacchia è utile riprendere alcune nozioni di biologia. Contrapposta alla genomica, che si occupa dei geni umani, la proteomica è la branca della biologia molecolare che studia come le diverse proteine codificate da quei geni interagiscono negli organismi viventi. Ogni proteina ha le proprie caratteristiche, determinate dalle catene di aminoacidi da cui è costituita e dalla forma che assume ripiegandosi su sé stessa. E ogni forma determina a una funzione specifica, tra le moltissime assolte dalle proteine negli esseri viventi (dalla regolazione del metabolismo alla risposta agli stimoli o al trasporto delle molecole).La proteomica cerca di comprendere sia le relazioni tra le proteine, sia come queste si ripieghino su sé stesse e a quali funzioni assolvano. E per farlo utilizza varie tecniche, metodi e strumenti di laboratorio, tra cui gli spettrometri di massa, dispositivi che servono a selezionare e studiare – una molecola alla volta – migliaia di tipi di proteine contenute all’interno di un campione. Lo studio del complesso delle proteine espresse da un determinato organismo (proteoma), sia in condizioni fisiologiche che a seguito di alterazioni proteiche, permette di comprendere i meccanismi alla base dell’insorgenza delle malattie e, potenzialmente, di individuarne i primi indizi.Sfruttando il fatto che le proteine tendono a degradarsi più lentamente del DNA e possono, nelle giuste condizioni, rimanere pressoché invariate per milioni di anni, da circa due decenni un gruppo di scienziati utilizza metodi e strumenti della proteomica su opere d’arte e resti archeologici, espandendo le prospettive di ricerca di una branca nota appunto come paleoproteomica. Studi di questo tipo, argomento di un lungo articolo del New Yorker nel 2018, hanno permesso negli ultimi anni di raccogliere varie informazioni biologiche, come per esempio la presenza di sottilissimi strati di colla di pesce su sculture religiose del XVII secolo e denti da latte umani in fosse di resti fossili risalenti al Neolitico.Sebbene sia un ambito di ricerca in rapida espansione, i cui metodi e strumenti sono peraltro migliorati nel tempo a fronte dei continui progressi nel campo delle biotecnologie e dell’intelligenza artificiale, attualmente la proteomica ha una serie di limiti.Uno riguarda la conservazione dei materiali, e il fatto che il legame tra proteine e minerali sia un processo complesso e non ancora studiato in modo sistematico nei contesti archeologici. Un altro problema riguarda la fragilità stessa dei materiali e i danni provocati da alcune tecniche di campionamento. E un altro limite riguarda l’incompletezza dei database di riferimento utilizzati per individuare le proteine antiche, peraltro spesso danneggiate, nei materiali archeologici: condizione che può incrementare la probabilità di falsi positivi e falsi negativi.– Leggi anche: Il più grande contributo di un’intelligenza artificiale alla biologia LEGGI TUTTO

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    Gli effetti della grave siccità in Amazzonia

    Nella città brasiliana di Manaus, la più popolata di tutta l’Amazzonia con oltre 2 milioni di abitanti, negli ultimi giorni sono stati registrati livelli molto più alti del solito di inquinamento atmosferico a causa di un prolungato periodo di siccità. Gli incendi nella foresta intorno alla città hanno contribuito al peggioramento della qualità dell’aria, al punto che in alcuni giorni della scorsa settimana Manaus era la città più inquinata del Brasile e una delle aree abitate con il più alto livello di inquinamento al mondo.La stagione secca più lunga e intensa del solito in parte dell’Amazzonia è probabilmente dovuta a “El Niño”, l’insieme di periodici fenomeni atmosferici nell’oceano Pacifico che influenza il clima in gran parte del pianeta, causando anche un aumento delle temperature che si unisce agli effetti del riscaldamento globale dovuto alle attività umane.Oltre a essere rimasti avvolti per diversi giorni nelle polveri e nei fumi prodotti dagli incendi, gli abitanti di Manaus si sono anche dovuti confrontare con una marcata riduzione delle risorse idriche. Il livello dell’acqua si è ridotto al punto da lasciare in secca molte imbarcazioni nel porto, di solito florido grazie alla vicina confluenza del Rio Negro con il Rio delle Amazzoni, due dei fiumi più grandi e importanti al mondo. L’acqua solitamente abbondante è diventata scarsa a causa delle poche piogge in un’area solitamente molto piovosa, soprattutto alla fine della stagione secca che è invece durata più a lungo del solito.Manaus, Amazonas, Brasile, 16 ottobre 2023 (AP Photo/Edmar Barros)La siccità ha interessato diverse altre zone dello stato di Amazonas, il più esteso del Brasile e coperto per buona parte dalla foresta amazzonica. Le autorità locali hanno stimato che ci siano stati oltre 2.700 incendi durante la stagione secca, la quantità più alta mai registrata. La crisi era in parte prevedibile, considerato che nei periodi in cui si forma “El Niño” ci sono temperature più alte e meno pioggia. Nonostante ciò, il Brasile non si è attrezzato con squadre di vigili del fuoco e mezzi a sufficienza per affrontare l’emergenza.Manaus, Amazonas, Brasile, 16 ottobre 2023 (AP Photo/Edmar Barros)Una stagione secca prolungata non si traduce solamente in maggiori quantità di incendi, ma anche in minori volumi d’acqua nel complesso sistema idrico dell’Amazzonia. Oltre a essere essenziale per la vita di migliaia di specie diverse sia vegetali sia animali, l’acqua è anche il principale mezzo di trasporto per le decine di popolazioni indigene che vivono nello sterminato territorio amazzonico. Muoversi a piedi per lunghe distanze sul fondo della foresta pluviale è pericoloso e quasi sempre impraticabile, di conseguenza gli spostamenti vengono effettuati su canoe e piccole barche attraverso i corsi d’acqua che si formano stagionalmente, ma che quest’anno non sono sempre navigabili a causa della siccità.Manaus, Amazonas, Brasile, 16 ottobre 2023 (AP Photo/Edmar Barros)I cambiamenti climatici stanno avendo ormai da anni un forte impatto sulla foresta amazzonica, con conseguenze per la sua biodiversità, cioè la varietà di organismi che popolano i suoi ambienti. Gli incendi non si verificano solo naturalmente: spesso hanno cause dolose dovute alla costruzione di nuove infrastrutture, come strade, o alla creazione di nuovi campi per uso agricolo che modificano gli ecosistemi amazzonici con gravi conseguenze per numerose specie. LEGGI TUTTO

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    I rischi di bere poca acqua, o berne di mare

    Da dieci giorni l’accesso all’acqua potabile nella Striscia di Gaza è estremamente limitato a causa dei bombardamenti israeliani e del blocco delle condutture che trasportano circa un terzo dell’acqua da Israele. Lunedì il governo israeliano ha annunciato di avere ripristinato alcune forniture, ma in molte zone di Gaza manca l’energia elettrica e di conseguenza non funzionano i sistemi per il pompaggio dell’acqua, che raggiunge con difficoltà le abitazioni e soprattutto gli ospedali. Molte persone affrontano questa scarsità scavando pozzi improvvisati o provando a bere l’acqua di mare, con grandi rischi per la salute che si aggiungono alle difficoltà dovute alla mancanza di cibo e medicinali.Una persona adulta è costituta per il 60 per cento circa da acqua, essenziale per il funzionamento delle cellule e di conseguenza di tutti gli organi. Il nostro organismo ha la capacità di riciclare una quota importante dell’acqua di cui dispone, ma deve comunque ottenerne periodicamente di nuova per ripristinare quella persa attraversa la traspirazione, il sudore e le urine. Uno stato persistente di disidratazione ha effetti molto gravi e può causare numerose malattie, da quelle neurologiche a quelle dei reni, gli organi che si occupano di ripulire il sangue tramite le urine.In condizioni normali una persona adulta assume in media 2,5 litri di liquidi al giorno, con l’acqua come componente principale. Non c’è una quantità standard di acqua da assumere ogni giorno: siamo fatti tutti diversamente e molto dipende dalle proprie caratteristiche e dalle condizioni di salute. Una persona sana può temporaneamente sopravvivere assumendo 1-1,5 litri di liquidi al giorno, con quantità ancora inferiori per brevi periodi. Più si prolunga la fase in cui si beve poca acqua, più aumentano i rischi per la salute. Nelle persone fragili o con malattie, i rischi sono molto più alti perché la disidratazione riduce molte funzionalità dell’organismo comprese quelle del sistema immunitario.L’organismo umano, come quello di moltissimi altri animali, lavora costantemente per mantenere un certo equilibrio tra il liquido intracellulare e quello extracellulare, che si trovano rispettivamente all’interno e all’esterno delle cellule. Buona parte dell’acqua fuori dalle cellule si trova nel liquido interstiziale, una soluzione acquosa che sta fra le cellule in prossimità dei vasi sanguigni e di quelli linfatici. È la via attraverso cui avvengono gli scambi tra le cellule e il sangue, con il passaggio di ormoni, sostanze nutritive e scorie da smaltire, solo per fare qualche esempio.L’acqua è inoltre il principale componente del plasma, la parte liquida del sangue, ed è quindi importante che sia alla giusta concentrazione per garantire gli scambi delle sostanze e per fare in modo che il sistema circolatorio funzioni al meglio. Una persona adulta ha circa sei litri di sangue nel proprio corpo, se la quantità diminuisce la costrizione dei vasi consente di compensare il calo e di mantenere una pressione tale da permettere al sangue di continuare a fluire, ma solo per periodi di tempo limitati e in attesa di un ripristino delle giuste quantità attraverso l’assunzione di liquidi.Secondo le informazioni raccolte da alcune agenzie di stampa internazionali, nella Striscia di Gaza alcune persone alla ricerca di acqua hanno scavato pozzi vicino alle spiagge, nel tentativo di raggiungere la falda acquifera. I normali pozzi non sono sempre funzionanti anche a causa della mancanza dell’energia elettrica per il pompaggio dell’acqua e sono state segnalate contaminazioni con l’acqua di mare. Non potendo fare altrimenti, molte persone hanno iniziato a consumare un misto di acqua dolce e salata, con tutti i rischi del caso.L’acqua marina contiene un’alta percentuale di sale, di conseguenza la sua assunzione comporta che quel sale finisca nelle cellule del nostro organismo. Una minima quantità di sale è importante per regolare le attività cellulari, ma la quantità che si introduce bevendo acqua marina è molto più alta e non può essere smaltita in modo efficiente dall’organismo. I reni non hanno per esempio la capacità di produrre urine con una concentrazione di sale superiore a quella che si trova mediamente nell’acqua di mare. Per smaltire accumuli eccessivi di sale si devono bere grandi quantità di acqua dolce, in modo che questa riduca la concentrazione e permetta ai reni di espellere il sale. Se ciò non avviene, l’accumulo di sale continua e si va incontro a una grave disidratazione che nei casi più gravi può rivelarsi letale.Dalle notizie che con difficoltà arrivano dalla Striscia di Gaza sembra che il consumo di acqua di mare sia misto a quello di acqua dolce, a causa delle contaminazioni nei pozzi. Nella Striscia non stanno inoltre funzionando i sistemi per desalinizzare e depurare l’acqua, che richiedono molta energia elettrica. È un problema che si riscontrava già prima dei bombardamenti israeliani, ma che è peggiorato nell’ultima decina di giorni.Il mancato trattamento dell’acqua implica inoltre che in molte zone di Gaza l’acqua non sia potabile e che non sempre sia sufficiente farla bollire. Questa pratica permette di eliminare batteri e altri patogeni, ma non consente di ridurre le concentrazioni di altre sostanze contaminanti che potrebbero essere presenti. Anche in questo caso i rischi sono maggiori per i bambini, le persone anziane e quelle fragili. Bere acqua contaminata può portare per esempio a infezioni all’apparato urinario e intestinale, con febbre e diarrea che causano una veloce disidratazione che in molti casi non può essere trattata proprio a causa della mancanza d’acqua. LEGGI TUTTO

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    Sull’asteroide Bennu c’è molto carbonio

    I pezzi dell’asteroide Bennu portati sulla Terra dalla missione OSIRIS-REx della NASA contengono molto carbonio e molta acqua, secondo le prime analisi del materiale nella capsula recuperata un paio di settimane fa. È una scoperta importante perché queste sostanze sono necessarie allo sviluppo di esseri viventi e la loro presenza sugli asteroidi del sistema solare potrebbe aiutarci a capire come e dove ha avuto e può avere origine la vita.I campioni di Bennu sono atterrati nel deserto dello Utah alla fine di settembre all’interno di una capsula con un diametro di 81 centimetri e altezza di 50 e sono stati sottoposti a un esame preliminare al Johnson Space Center di Houston, in Texas. «Il campione di OSIRIS-REx è il pezzo di asteroide più ricco di carbonio che sia mai stato portato sulla Terra», ha detto l’amministratore dell’agenzia spaziale statunitense Bill Nelson nel presentare le prime scoperte mercoledì, «e aiuterà gli scienziati a indagare sulle origini della vita sul nostro pianeta».Gli asteroidi sono corpi spaziali rocciosi che orbitano nel sistema solare e hanno dimensioni molto inferiori ai pianeti e forme più irregolari. Secondo gli studi più condivisi, sono ciò che rimane del “disco protoplanetario”, l’enorme ammasso di polveri e gas in orbita intorno al Sole dal quale miliardi di anni fa si formarono la Terra e gli altri pianeti del sistema solare, oltre ai satelliti naturali come la Luna. Per questo lo studio delle rocce raccolte su Bennu potrebbe darci informazioni aggiuntive sulle origini del sistema solare e sulla formazione degli elementi necessari all’origine della vita. Dante Lauretta dell’Università dell’Arizona, che è lo scienziato a capo di OSIRIS-REx, ha definito i campioni di Bennu «una capsula del tempo» per ciò che potrebbe farci imparare sulla storia del sistema solare.L’interno della capsula della missione OSIRIS-REx, aperta all’interno di un contenitore trasparente al Johnson Space Center di Houston (Dante Lauretta/NASA via AP)La capsula che ha portato i pezzi di Bennu sulla Terra è stata esaminata dall’interno di un grosso contenitore sigillato costruito per evitare che i campioni fossero contaminati da sostanze di origine terrestre. Questo tipo di contenitore è chiamato “scatola a guanti” (in inglese glovebox) perché per manipolare il suo contenuto senza venire fisicamente in contatto con esso si usano dei guanti lunghi e robusti inseriti nella struttura della scatola.Mari Montoya, a sinistra, e Curtis Calva raccolgono dei pezzi dell’asteroide Bennu attraverso la scatola a guanti contenente la capsula di OSIRIS-REx, il 27 settembre 2023 (NASA via AP)Quando gli scienziati hanno aperto la capsula all’interno della scatola a guanti si sono accorti che probabilmente sono arrivati sulla Terra più dei 60 grammi di rocce di Bennu che erano state previsti dalla NASA: della polvere aggiuntiva dell’asteroide e alcuni piccoli pezzi di roccia sono rimasti al di fuori del contenitore interno per la conservazione del campione. Prima di procedere con l’osservazione del campione principale è stata studiata proprio questa polvere, che ammonta a 1,5 grammi di materiale. Il peso complessivo dei pezzi di Bennu portati sulla Terra invece non lo si conosce ancora, perché ritardati dallo studio della polvere gli scienziati non hanno ancora cominciato a studiare il campione principale.La parte esterna della capsula di OSIRIS-REx dove si è raccolta la polvere di Bennu (Erika Blumenfeld, Joseph Aebersold/NASA via APLa polvere è stata analizzata con un microscopio elettronico (cioè un microscopio che usa elettroni al posto della luce e così consente di “vedere” oggetti molto piccoli) e con altri strumenti che consentono di stabilire gli elementi chimici che compongono un campione.Così è stato scoperto che le rocce di Bennu sono ricche di carbonio. Uno dei pezzi esaminati è fatto per il 4,7 per cento di questo elemento, che è la base di tutte le macromolecole biologiche, le molecole fondamentali di cui sono fatti gli esseri viventi, umani compresi. Sono anche state trovate delle piccole quantità d’acqua all’interno dei cristalli che compongono i pezzi di Bennu analizzati finora. È possibile che all’interno del campione principale possano essere presenti anche maggiori quantità d’acqua.A sinistra la capsula di OSIRIS-REx aperta, a destra la polvere di Bennu presente nel riquadro bianco vista più da vicino (Dante Lauretta/NASA via AP)È previsto che lo studio dei pezzi di Bennu andrà avanti per i prossimi due anni: almeno il 70 per cento del campione resterà al Johnson Space Center, mentre il resto sarà analizzato da circa 200 scienziati in varie parti del mondo e una parte verrà esposta al pubblico temporaneamente a Washington, a Houston e a Tucson, in Arizona.Tra le altre cose il materiale proveniente da Bennu sarà confrontato con quello raccolto dall’agenzia spaziale giapponese JAXA su un altro asteroide, Ryugu. Alcune differenze sono già state notate: nei campioni di Ryugu c’era meno acqua. Poi verrà misurata la percentuale di deuterio al suo interno: il deuterio è uno degli isotopi dell’idrogeno, cioè una delle forme in cui questo elemento si presenta, e si vuole scoprire se è più o meno presente nell’acqua di Bennu rispetto all’acqua terrestre. Infine si cercheranno eventuali amminoacidi, quelle molecole biologiche che sono già state trovate all’interno di meteoriti caduti sulla Terra ma che potrebbero esservi arrivate a causa della contaminazione con materiali terrestri durante e dopo l’impatto sul pianeta. LEGGI TUTTO

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    Le cimici dei letti che infestano Parigi arriveranno anche in Italia?

    Le notizie sulla estesa infestazione di cimici dei letti a Parigi hanno suscitato qualche preoccupazione in alcuni paesi vicini o molto ben collegati alla Francia. Il 5 ottobre il ministero della Salute dell’Algeria ha annunciato l’introduzione di «misure preventive» su aerei e navi per evitare la diffusione degli insetti nel proprio territorio. E dopo che vari giornali del Regno Unito hanno parlato della possibilità che le cimici dei letti arrivassero da Parigi a Londra, Eurostar, il servizio ferroviario che collega le due capitali, ha fatto sapere che i suoi treni saranno controllati per verificare l’eventuale presenza dei parassiti.Anche tra Francia e Italia ci sono molti collegamenti, sebbene dal 27 agosto e fino alla prossima estate quelli ferroviari siano sospesi a causa di una frana, ma tra gli esperti di insetti e di disinfestazioni non c’è particolare preoccupazione. Per il momento infatti nelle città italiane non ci sono stati aumenti significativi di segnalazioni di cimici dei letti, e inoltre chi si occupa di disinfestazioni ritiene che i metodi usati in Italia per contrastarle siano più efficaci di quelli preferiti all’estero.Le cimici dei letti in Italia comunque ci sono già. Dopo essere quasi scomparse a metà Novecento in seguito al grande uso di DDT e al miglioramento delle condizioni igieniche delle case, è dai primi anni Duemila che hanno ricominciato a essere avvistate all’interno di abitazioni e alberghi sia nei paesi europei che negli Stati Uniti a causa dei viaggi internazionali. In Italia il numero di infestazioni è aumentato soprattutto tra il 2012 e il 2014 e poi è rimasto più o meno costante.«Sono abbastanza diffuse quindi la probabilità di incontrarle nelle città italiane c’è», dice Fabrizio Montarsi, biologo dell’Istituto Zooprofilattico Sperimentale delle Venezie (IZSVe) che tra le altre cose si occupa di insetti e altri parassiti. «Ma non sono comuni come le mosche o le zanzare, il problema è comunque limitato per ora. Se si riesce a intercettare subito un’infestazione, il ciclo di diffusione si interrompe facilmente».Le cimici dei letti, il cui nome scientifico è Cimex lectularius, sono insetti ematofagi, cioè che si nutrono di sangue. I loro morsi sono fastidiosi, ma non costituiscono un pericolo a meno che non si sia allergici. In natura sono parassiti di uccelli e pipistrelli e creano le proprie colonie nei nidi o nei dormitori dei pipistrelli nelle grotte, ma nel corso della storia si sono trovate bene anche nelle abitazioni umane: soprattutto nei secoli passati era facile che nei tetti delle case si riparassero degli uccelli, e da lì le cimici potevano passare a infestare i materassi di una volta, fatti di paglia ricoperta da teli. Si chiamano “cimici dei letti” appunto per questo.Cimici dei letti (Uwe Anspach, ANSA-DPA)Di giorno si nascondono dalla luce e se infestano una casa si annidano nelle strutture dei letti e dei divani, ma anche tra i libri, dietro battiscopa, quadri o altri anfratti nascosti. Di notte escono per nutrirsi, quindi di solito la loro presenza viene scoperta dopo essersi svegliati con una serie di arrossamenti pruriginosi sulla pelle. Si possono diffondere o perché aumentano talmente tanto di numero da spostarsi da una camera di albergo a un’altra, o da un appartamento all’altro, oppure perché trovano riparo all’interno di valigie e borse e grazie a questi involontari mezzi di trasporto raggiungono treni, aerei, case o stanze d’albergo in altre città.«La diffusione delle cimici avviene quasi sempre tramite i bagagli, non sono come le zecche che rimangono addosso alle persone», chiarisce Montarsi, «quindi la cosa importante se si passa per un albergo infestato è “bonificare” i bagagli e il loro contenuto, con lavaggi ad alte temperature o usando il congelatore».Non c’è invece nessuna relazione tra la pulizia di un ambiente e la presenza di cimici, che si possono presentare anche in hotel di lusso estremamente puliti, perché l’unica condizione necessaria alla loro prosperità è la vicinanza di persone o altri animali da cui succhiare il sangue. È solo più facile che in luoghi in cui ci sono scarse condizioni igieniche una piccola infestazione venga trascurata e finisca per aggravarsi.Secondo Marco Leva, disinfestatore di Roma e consigliere dell’Associazione nazionale delle imprese di disinfestazione (ANID), a Parigi la situazione si è aggravata perché sono stati fatti degli errori: «A giudicare dalle immagini che sono state diffuse le infestazioni sono davvero estreme e se i letti sono pieni di cimici significa che la convivenza va avanti da tempo o che la ditta di disinfestazione che se ne è occupata ha sbagliato approccio».Leva spiega che all’estero contro le cimici dei letti si usano ancora molto gli insetticidi, che sono poco efficaci perché molto spesso questi insetti si rivelano resistenti alle sostanze che contengono. Gli insetticidi possono addirittura essere controproducenti, perché le operazioni per stanare le cimici ed esporle alle sostanze velenose possono spingerle a spostarsi e infestare altri spazi.L’approccio più efficace, che in Italia è stato adottato negli ultimi dieci anni e oggi è usato dalla stragrande maggioranza delle aziende che si occupano di disinfestazioni, si basa sull’uso di macchine per uccidere le cimici e le loro uova con un vapore ad alte temperature, fino a 180 °C. La prima macchina di questo tipo – prodotta dall’azienda italiana Polti – è stata sviluppata a partire dal 2011 proprio facendo degli esperimenti con le cimici dei letti, che hanno coinvolto lo stesso Leva e l’entomologo e disinfestatore Franco Casini. Da allora sul mercato sono arrivate anche altre macchine simili e il loro uso si è diffuso nel settore. «È un approccio più impegnativo rispetto a quello chimico, ma è apprezzato anche dai clienti che preferiscono che non siano sparsi insetticidi nelle camere da letto».Né l’ANID né Montarsi nelle regioni in cui lavora l’IZSVe hanno osservato un aumento dei casi di infestazioni da cimici dei letti negli ultimi mesi. Anche per questo «non c’è da creare allarmismo», per Leva: «Non ci sarà un’invasione delle cimici dei letti dalla Francia, così come non c’era stata da New York qualche anno fa». LEGGI TUTTO

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    La nuova altezza del Monte Bianco

    Il Monte Bianco attualmente è alto 4.805,59 metri, due metri in meno rispetto al 2021. Lo dice l’ultima misura della Chambre Départementale des géomètres-experts dell’Alta Savoia, che dal 2001 misura l’altezza della montagna più alta delle Alpi ogni due anni organizzando una spedizione alpinistica. La cima del Monte Bianco, che si trova tra Italia e Francia, non ha infatti sempre la stessa altitudine, dato che nel misurarne l’altezza si tiene conto della neve che ricopre il ghiaccio che sovrasta le rocce più alte. Lo spessore dello strato di ghiaccio è di una ventina di metri, quello della neve che lo ricopre invece varia.Giovedì, durante una conferenza stampa a Chamonix, il geometra Denis Borrel, presidente della commissione che si occupa delle misure del Monte Bianco, ha raccomandato cautela nel collegare la variazione di altezza al cambiamento climatico. «Anche se osserviamo una leggera tendenza in calo della calotta di neve sopra al Monte Bianco, i climatologi e i glaciologi ci dicono che serviranno circa 50 anni di misurazioni per trarre conclusioni sul possibile riscaldamento globale alla quota di 4.800 metri».Il 2023 è stato comunque un anno «eccezionale», ha detto Borrel, secondo il quale sul Monte Bianco ci sono 3.500 metri cubi di ghiaccio e neve in meno rispetto al 2021, l’equivalente di una piscina olimpionica. Una diminuzione «molto considerevole» rispetto a quelle misurate in precedenza. Non sarebbe comunque corretto dire che il Monte Bianco “si sta abbassando”. Luc Moreau, un glaciologo di Chamonix, ha detto al canale televisivo TF1 che «non è rappresentativo del cambiamento climatico» perché a influire sull’altezza della copertura della neve sulla cima del Monte Bianco è principalmente il vento, su quello che Moreau ha paragonato a un «complesso di dune».Se si considera solo la parte rocciosa della montagna, l’altezza è di 4.792 metri, ma generalmente quando si parla dell’altezza del Monte Bianco si considera anche la parte di ghiaccio e neve. Borrel ha spiegato che «in una notte può cadere un metro o un metro e mezzo di neve sulla cima, per cui l’altezza può cambiare da un giorno all’altro». A seconda delle precipitazioni e dei venti, insomma, l’altezza del Monte Bianco potrebbe tornare ad aumentare nei prossimi anni.L’altezza del Monte Bianco fu stimata per la prima volta nel Settecento con la triangolazione, una tecnica che permette di calcolare distanze fra punti in virtù delle proprietà geometriche dei triangoli. Nel 1775 il matematico britannico George Schuckburgh-Evelyn stimò che la montagna fosse alta 4.804 metri. Oggi per replicare la misura si usa la tecnologia GPS (Global Positioning System), il sistema di posizionamento e navigazione satellitare grazie al quale possiamo risalire alle coordinate geografiche di più o meno qualunque punto sulla Terra. E quest’anno per la prima volta i geometri francesi hanno usato anche un drone, che hanno portato con sé sul Monte Bianco durante una spedizione verso la cima, per rendere la misura più precisa.Le riprese del drone hanno permesso di realizzare velocemente un modello tridimensionale della cima della montagna. «Ci sono voluti dieci minuti per farlo», ha raccontato Borrel, «mentre nelle spedizioni precedenti dovevamo stare lassù per due ore per ottenere lo stesso risultato».Al di là della misurazione dell’altezza, il modello tridimensionale realizzato grazie al drone ha un valore scientifico perché permetterà di verificare i cambiamenti della calotta glaciale della cima della montagna nel tempo. I ghiacci sulla cima del Monte Bianco sono perenni, cioè non fondono mai, ma le ondate di calore degli ultimi anni, che sono legate al riscaldamento globale causato dalle attività umane e hanno effetti ad altitudini sempre più alte, potrebbero avere un effetto anche oltre i 4mila metri a lungo andare. Una sempre maggiore frequenza di temperature più alte della norma potrebbe compromettere lo stato del permafrost, cioè della parte di suolo ghiacciata. Rispetto a quote più basse comunque si prevede che l’effetto del cambiamento climatico sulla cima delle montagne più alte delle Alpi si vedrà più a lungo termine, e finora non c’è stato sulla cima del Monte Bianco.– Leggi anche: Il futuro dello sci col cambiamento climatico LEGGI TUTTO

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    Il settembre del 2023 è stato il più caldo mai registrato sulla Terra

    Il settembre del 2023 è stato il settembre più caldo mai registrato secondo i dati del Climate Change Service di Copernicus, il programma di collaborazione scientifica dell’Unione Europea che si occupa di osservazione della Terra. La temperatura media globale dell’aria è stata di 16,38 °C, che significa 0,93 °C in più della media per lo stesso mese tra il 1991 e il 2020, il trentennio di riferimento, e 0,5 °C in più rispetto al precedente massimo storico, registrato nel settembre del 2020. Più in generale tra gennaio e settembre le temperature globali sono state di 0,52 °C superiori alla media e di 0,05 °C in più rispetto allo stesso periodo più caldo mai registrato in un anno (il 2016).Secondo Samantha Burgess, vicedirettore del Copernicus Climate Change Service, le «temperature senza precedenti» di questi mesi fanno ipotizzare che con buona probabilità alla fine di dicembre il 2023 risulterà l’anno più caldo mai registrato.La temperatura media globale di settembre tra il 1940 e il 2023 (Climate Change Service di Copernicus)Le stime di Copernicus sono realizzate usando diversi tipi di dati: le misure dirette della temperatura fatte da reti di termometri presenti sulla terra e in mare, e le stime dei satelliti. Questi rilevano la radiazione infrarossa emessa dalla superficie terrestre e oceanica e ne calcolano la temperatura. (AP Photo/Gregorio Borgia) LEGGI TUTTO