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    La scoperta di quattro nuove colonie di pinguini imperatori è una piccola buona notizia

    Attraverso alcune osservazioni satellitari sono state identificate quattro nuove colonie di pinguini imperatori in Antartide. È considerata una buona notizia, visto che recentemente alcune analisi avevano segnalato la scomparsa di numerosi individui di questi animali a causa della fusione dei ghiacci dovuta alle temperature anomale, sia nell’inverno sia nell’estate antartiche.La scoperta è stata resa possibile grazie all’osservazione dallo Spazio delle feci (guano) prodotte dai pinguini, che ricoprendo la superficie ghiacciata ne fanno variare il colore rendendo rilevabile in maniera indiretta la presenza delle colonie nelle immagini satellitari. La tecnica viene utilizzata da diversi anni e si è rivelata fondamentale per tenere sotto controllo le popolazioni di questi animali.
    L’identificazione delle nuove colonie è stata raccontata dal ricercatore Peter Fretwell sulla rivista scientifica Antarctic Science. Lo studio segnala che grazie alla nuova scoperta si può stimare la presenza di almeno 66 colonie di pinguini imperatori in Antartide, con le quattro da poco scoperte che riempiono alcuni spazi vuoti intorno alla costa antartica dove finora non era nota la presenza di questi animali.
    I pinguini imperatori vivono per lo più lungo le zone costiere sul ghiaccio fisso, cioè la parte di ghiaccio marino (banchisa) attaccata alla costa, che come suggerisce il nome rimane stabile nella medesima posizione senza muoversi a causa delle correnti marine o dei venti. Si riproducono sul ghiaccio fisso e depongono le uova tra maggio e giugno; i piccoli nascono un paio di mesi dopo, ma non sono autonomi fino a dicembre-gennaio. Il pinguino imperatore è la specie di pinguino più grande ma meno presente in Antartide, con una popolazione stimata di circa 600mila individui.
    Le quattro nuove colonie (rosso) identificate dallo studio, nel contesto delle colonie già note (grigio) lungo la costa antartica (British Antarctic Survey)
    Negli ultimi anni erano stati segnalati molti problemi legati ad alcune colonie di pinguini imperatori, che si erano fortemente ridotte o erano proprio scomparse. Uno studio pubblicato nel 2022 aveva per esempio segnalato che, a causa della riduzione del ghiaccio marino, in almeno quattro colonie erano morti migliaia di pinguini imperatori appena nati, con gravi conseguenze sulla loro popolazione. Nel nuovo studio, Fretwell ipotizza cha una delle quattro colonie ora identificate possa essere il frutto del trasferimento di animali da una delle colonie che si credevano perse.
    La ricerca segnala che tre delle quattro nuove colonie hanno meno di un migliaio di individui, quindi la scoperta non incide più di tanto sulle stime complessive sulla presenza dei pinguini imperatori. La novità è però importante perché dà la possibilità di avere un censimento più accurato delle colonie che costellano la costa antartica, anche in vista di futuri studi per calcolare meglio la presenza di questi animali e soprattutto la variazione nelle dimensioni delle colonie nel corso del tempo.
    Le frecce indicano le aree ricoperte dal guano dove sono state identificate le quattro nuove colonie (British Antarctic Survey)
    A causa del cambiamento climatico il ghiaccio marino in Antartide è meno presente rispetto a un tempo. Negli ultimi due anni, per esempio, si è registrata la copertura più scarsa di ghiaccio da quando si è iniziato a tenerla sotto controllo dalla fine degli anni Ottanta. Si stima che almeno un terzo delle colonie di pinguini imperatori abbia avuto qualche conseguenza, soprattutto in termini di riduzione della popolazione, da quando la perdita di ghiaccio è diventata più significativa. LEGGI TUTTO

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    Perché ci si può sentire alticci anche con le bevande analcoliche

    Da diversi anni una più diffusa e profonda consapevolezza degli effetti dell’alcol sulla salute ha fatto crescere la domanda di versioni analcoliche di note bevande alcoliche: principalmente birra e vino, ma anche distillati come rum e gin. A sostenere la domanda è il desiderio di continuare a gustare queste bevande ma senza subire gli effetti provocati dalle versioni tradizionali. Alcune persone, dopo aver bevuto bibite analcoliche, riferiscono tuttavia di sentirsi più rilassate, o persino leggermente alticce: un effetto tipicamente provocato dall’alcol, che quindi sembra inspiegabile.Sebbene sia un fenomeno ancora poco studiato in modo specifico e approfondito, si ritiene che la sensazione di rilassatezza, appagamento o persino lieve ebbrezza che le bevande analcoliche possono talvolta indurre in alcune persone abbia principalmente a che fare con condizionamenti psicologici e abitudini personali. Sul piano neurobiologico, questa reazione potrebbe derivare dagli stessi meccanismi del cervello che controllano il sistema di ricompensa (quello che ci fa sentire appagati in varie circostanze) e da cui deriva in parte anche la reazione al consumo di bevande alcoliche. Lo suggeriscono indirettamente diversi esperimenti di psicologia condotti fin dagli anni Settanta sugli effetti delle bevande placebo, e direttamente alcuni studi più recenti sull’attività del cervello in risposta al consumo di bevande alcoliche e analcoliche.
    Per uno studio pubblicato nel 2023 sulla rivista Behavioural Brain Research un gruppo di ricerca della University of Texas a Austin esaminò il cervello di 22 giovani adulti dopo che avevano bevuto una bevanda analcolica pensando di berne una alcolica. Le risonanze magnetiche funzionali (fMRI) mostrarono un aumento significativo dell’attività cerebrale in due delle aree del cervello maggiormente coinvolte nei processi cognitivi della ricompensa. L’aumento era maggiore di quello determinato dall’assunzione di una bevanda “di controllo” dichiaratamente analcolica (un integratore di sali minerali). Il gruppo di ricerca riscontrò inoltre una correlazione tra l’aumento di quella particolare attività cerebrale e la sensazione dei partecipanti di essere brilli, suggerendo che l’aspettativa di consumare una bevanda alcolica può influenzare in parte l’esperienza stessa del bere, indipendentemente dal contenuto di alcol ingerito.

    – Leggi anche: Non fa male sapere che bere alcol fa male

    Negli studi sulle bevande alcoliche il coinvolgimento del sistema di ricompensa – un fattore alla base di molte forme di dipendenza – è noto da tempo. In uno studio pubblicato nel 2013 un gruppo di ricercatori della scuola di medicina della Indiana University eseguì una serie di scansioni del cervello (in questo caso PET, tomografie a emissione di positroni) su 49 bevitori abituali di birra a cui erano stati serviti 15 ml di birra. Nonostante i partecipanti avessero ingerito una quantità troppo piccola per sentire gli effetti dell’alcol (più o meno l’equivalente di un cucchiaio da tavola), le scansioni mostrarono che quel semplice assaggio era bastato a determinare un aumento dei livelli di dopamina – il neurotrasmettitore che regola le sensazioni di piacere – nelle aree del cervello associate all’aspettativa di una ricompensa.
    Il fatto che le bevande alcoliche e quelle analcoliche attivino in parte le stesse risposte neurobiologiche è anche una delle ragioni per cui molte persone che si occupano di dipendenze sconsigliano le bevande analcoliche ad alcuni soggetti a rischio. Secondo una revisione di dieci studi pubblicata nel 2022 sulla rivista Nutrients le persone con problemi di dipendenza dall’alcol o anche solo problemi di consumo eccessivo sperimentano un aumento del desiderio di alcol quando consumano bevande analcoliche. Mostrano anche alcune risposte fisiologiche simili a quelle che si verificano quando assumono alcol, tra cui un aumento della sudorazione e della frequenza cardiaca.
    Un cocktail analcolico servito durante un evento organizzato dalla rivista Teen Vogue a New York, il 2 giugno 2018 (Cindy Ord/Getty Images)
    In base alle leggi italiane è considerata alcolica qualsiasi bevanda con una gradazione superiore a 1,2 gradi: è una birra analcolica, per esempio, qualsiasi birra con una gradazione alcolica uguale a o minore di 1,2 gradi. Alcune birre analcoliche sono infatti minimamente alcoliche, perché hanno una gradazione maggiore di 0 gradi (in questo caso sono infatti presenti sull’etichetta i simboli che indicano il divieto di assunzione per le donne in gravidanza e per chi deve guidare).
    In Australia, negli Stati Uniti e in altri paesi la soglia stabilita dalle leggi per definire analcolica una bevanda è di 0,5 gradi. È una quantità di alcol paragonabile a quella che si sviluppa durante i processi di fermentazione nelle banane mature o nel succo d’arancia: troppo esigua per considerarla la ragione dell’apparente ebbrezza sperimentata da alcune persone dopo aver bevuto bevande analcoliche.
    Alcune persone attribuiscono peraltro lo stesso effetto a bevande esplicitamente descritte sull’etichetta come bevande “0,0%”. In questo caso i produttori assicurano che la bevanda sia completamente priva di alcol, a differenza delle analcoliche, il cui eventuale contenuto di alcol può appunto variare tra 0 e 1,2 gradi (ma di solito, per renderle esportabili come analcoliche in più paesi, non supera 0,5). Dagli studiosi che se ne sono occupati le ragioni del rilassamento e delle altre particolari sensazioni associate da alcune persone al consumo di bevande analcoliche sono ricondotte perlopiù a fattori psicologici.

    – Leggi anche: Perché ridiamo tutti allo stesso modo?

    Molti dati provenienti da esperimenti condotti fin dagli anni Settanta sugli effetti delle “finte” bevande alcoliche e analcoliche indicano che le persone sono generalmente in grado di riconoscere la presenza di alcol in bevande descritte come analcoliche e in cui è stato aggiunto dell’alcol a loro insaputa. Sono invece molto meno abili nel caso opposto: quando devono riconoscere l’assenza di alcol in bevande presentate come alcoliche. Lo mostrano, tra gli altri, i risultati di un esperimento condotto su 720 persone, pubblicati nel 2012 in un ampio studio su Psychological Science.
    Ad alcuni partecipanti riuniti in gruppi di tre persone fu servito un cocktail preparato versando della vodka da una bottiglia di vodka Smirnoff e del succo di mirtillo rosso: solo che la bottiglia, a insaputa dei partecipanti, conteneva in realtà acqua tonica. Tutti i partecipanti tranne uno, pur non mostrando segni di ebrezza, affermarono di aver bevuto un cocktail alcolico. A farglielo credere, oltre all’osservazione delle fasi di preparazione e alle indicazioni degli sperimentatori, contribuirono altri fattori tra cui la temperatura bassa della bevanda. Uno studio più recente condotto su quegli stessi dati indicò inoltre che il consumo di gruppo di finte bevande alcoliche generava reazioni simili a quelle riscontrate in altri esperimenti in cui i partecipanti bevevano finte bevande alcoliche da soli: il fatto che il consumo avvenisse in gruppo era quindi ininfluente rispetto alla convinzione delle persone di aver bevuto un cocktail alcolico.
    Il professore di psicologia Denis M. McCarthy, direttore del centro di ricerca sulle dipendenze della University of Missouri, ha detto a Slate che in questo tipo di esperimenti i partecipanti non solo credono di aver assunto alcol, ma spesso mostrano anche alcuni cambiamenti nel loro comportamento in base a quella convinzione. E quei cambiamenti tendono a riflettere le passate esperienze delle persone quando bevono alcolici, caso per caso: alcune diventano meno ansiose, altre più loquaci e allegre. In generale si aspettano di sentirsi come si sentono dopo aver bevuto, anche se su un piano farmacologico non è cambiato niente nel loro corpo.

    – Leggi anche: Beviamo da un pezzo

    Esistono tuttavia dei limiti a questo tipo di reazione alle finte bevande alcoliche. In generale, indipendentemente da come si comportano, le persone non arrivano a ubriacarsi: tendono a non accorgersi dell’assenza di alcol finché bevono due o tre drink, ma dopo quattro o cinque cominciano a scoprire la manipolazione. Inoltre non mostrano nel loro comportamento le difficoltà e le alterazioni tipiche del comportamento delle persone ubriache. In alcuni casi, dopo aver bevuto bevande analcoliche credendo di assumere alcol, le persone ottengono in alcuni test cognitivi risultati persino migliori rispetto alle persone che non hanno bevuto: probabilmente perché prestano maggiore attenzione a ciò che stanno facendo, pensando di dover compensare un deficit da loro attribuito al presunto effetto dell’alcol.
    Il limite delle osservazioni basate sui risultati dei molti studi esistenti sugli effetti placebo delle finte bevande alcoliche è che nella maggior parte di quegli esperimenti le persone sono intenzionalmente tratte in inganno. I risultati forniscono informazioni utili, ma fino a un certo punto: nel caso delle sensazioni di rilassatezza comunemente attribuite da alcune persone alle bevande analcoliche, quelle persone sanno di non aver assunto alcol. E gli effetti delle bevande sul loro comportamento sono verosimilmente meno forti rispetto a quelli sperimentati dai partecipanti degli studi sugli effetti placebo. Quello che servirebbe, ha detto a Slate la neuroscienziata Dylan Kirsch, è una maggior quantità di studi sugli effetti del consumo consapevole di una bevanda senza alcol esplicitamente progettata per imitare aspetto e sapore di una corrispondente bevanda alcolica.
    Una bottiglia di birra senza alcol, servita durante una conferenza stampa di presentazione di un accordo pubblicitario tra il Comitato Olimpico Internazionale e la società Anheuser-Busch InBev, a Londra, il 12 gennaio 2024 (AP Photo/Kin Cheung)
    È possibile che una parte dei condizionamenti psicologici derivi dalle somiglianze tra bevande alcoliche e analcoliche, che spesso condividono la stessa bottiglia o la stessa lattina, sia per dimensioni che per colore. «Una delle cose che sappiamo essere fondamentali per potenziare gli effetti placebo sono i simboli che li circondano», ha detto a Slate Kathryn T. Hall, professoressa della Harvard Medical School e autrice del libro Placebos, pubblicato nel 2022. Un certo tipo di lattina o di bottiglia associata al bere una birra, alla sensazione di freddo nella mano che la regge, ai simboli presenti sull’etichetta o anche soltanto a un certo rituale, come bere una birra davanti alla TV, secondo Hall, «stimolerà tutti quei percorsi che erano stati condizionati in precedenza dalle tue abitudini nel bere».

    – Leggi anche: I pulsanti progettati per non funzionare

    Diverse ricerche nel campo delle neuroscienze suggeriscono che, a determinate condizioni, le aspettative possono avere un impatto molto significativo sulla reazione a sostanze di qualsiasi tipo, non soltanto l’alcol. Secondo uno studio pubblicato nel 2023 sulla rivista Frontiers in Behavioral Neuroscience la caffeina, per esempio, non è l’unica molecola responsabile dell’impatto del caffè sui nostri livelli di attenzione. Le ricercatrici e i ricercatori riscontrarono in un gruppo di partecipanti che avevano bevuto caffè un aumento di attività cerebrale nelle regioni associate al controllo cognitivo, alla memoria di lavoro e al comportamento orientato agli obiettivi. Non riscontrarono però gli stessi effetti neurobiologici quando i partecipanti assumevano la stessa quantità di caffeina attraverso un’altra bevanda diversa dal caffè.
    Gli studi sull’impatto dei condizionamenti psicologici e degli effetti placebo tendono a suscitare una certa sorpresa nelle persone, ma secondo Hall non dovrebbero. Ogni giorno e per tutto il giorno, ha detto a Slate, le cose che pensiamo cambiano come ci sentiamo e il modo in cui funziona il nostro corpo. Se qualcuno entrasse in ufficio gridando che c’è un incendio e che bisogno uscire di corsa, la nostra frequenza cardiaca aumenterebbe, per esempio, e si verificherebbero altre reazioni: «tutta la nostra fisiologia cambierebbe in risposta a un’informazione che può essere vera o meno». LEGGI TUTTO

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    Dopo tre mesi la NASA ha infine aperto il suo barattolo

    Dopo quasi tre mesi di lavoro, i tecnici della NASA sono infine riusciti ad aprire completamente il contenitore che conserva al proprio interno i campioni dell’asteroide Bennu, portati sulla Terra alla fine dello scorso settembre dalla missione OSIRIS-REx dopo un viaggio di miliardi di chilometri. Il contenitore era stato recuperato con grande cura e attenzione, ma dopo i primi tentativi di aprirlo erano emersi problemi a due elementi del sistema di chiusura, tali da rendere necessario lo studio di nuove procedure per aprirlo mantenendolo isolato per evitare contaminazioni dall’esterno.Nell’autunno del 2023 i tecnici della NASA erano riusciti a recuperare alcuni frammenti di Bennu, ma una parte significativa dei detriti era rimasta bloccata all’interno del contenitore: il componente più importante della missione. Il prelievo del materiale spaziale era avvenuto nel 2020 attraverso un braccio robotico, che si era poggiato per qualche istante sulla superficie dell’asteroide. Alla sua estremità c’era il TAGSAM, il contenitore cilindrico la cui apertura si era poi bloccata.
    Il sistema di prelievo era stato progettato come una sorta di aspirapolvere, con un flusso di gas per generare una piccola turbolenza alla base del TAGSAM in modo da fare sollevare i detriti, che venivano poi convogliati in una camera di raccolta lungo la circonferenza del dispositivo. Il prelievo era andato meglio del previsto, tanto da intasare parte dello strumento di raccolta. Il TAGSAM era stato poi collocato da un braccio robotico all’interno di una capsula, che dopo avere compiuto un lungo viaggio era rientrata nell’atmosfera terrestre finendo nel deserto dello Utah (Stati Uniti), dove era stata recuperata e trasportata al Johnson Space Center di Houston, in Texas, per procedere con l’apertura e l’ispezione del TAGSAM.

    L’apertura della capsula era avvenuta dentro una teca isolata dall’esterno e sottoposta a un flusso continuo di azoto, un gas inerte per impedire l’ingresso di altre sostanze. Nella teca erano anche presenti gli strumenti previsti per aprire il TAGSAM ed estrarne il contenuto, come sperimentato in varie simulazioni negli anni di preparazione e gestione della missione. A ottobre dello scorso anno i tecnici avevano iniziato a rimuovere i 35 elementi che tenevano chiuso il coperchio del serbatoio in cui erano raccolti i detriti di Bennu. Nel farlo si erano accorti che due elementi si erano incastrati e che non potevano essere rimossi, impedendo il sollevamento del coperchio per raggiungere il serbatoio con i pezzi di Bennu.
    Attività di apertura del TAGSAM (NASA)
    Disponendo solamente di una varietà limitata di strumenti, quelli testati e certificati per entrare in contatto con i detriti, i tecnici non erano riusciti a risolvere il problema e ad aprire completamente il contenitore. Nelle settimane seguenti gli ingegneri della NASA si erano quindi messi al lavoro per sviluppare nuovi strumenti fatti appositamente per sbloccare la chiusura del contenitore, utilizzando acciaio inossidabile non magnetico solitamente impiegato per la produzione degli strumenti utilizzati dai chirurghi nelle sale operatorie.

    It’s open! It’s open! And ready for its closeup. After successfully removing two final fasteners on Jan. 10, members of the @astromaterials team photographed the #OSIRISREx asteroid sample with a special technique to achieve super high-res images. https://t.co/bBrfFT3FoR pic.twitter.com/NTGMVFZCP3
    — NASA Solar System (@NASASolarSystem) January 19, 2024

    Dopo varie prove e tentativi, a metà gennaio i tecnici della NASA erano infine riusciti a sbloccare i due elementi, ottenendo circa 250 grammi di detriti di Bennu, che saranno studiati da vari gruppi di ricerca in giro per il mondo per estendere le conoscenze sui processi che portarono alla formazione del nostro Sistema solare. A ottobre dello scorso anno l’analisi dei frammenti che era stato possibile estrarre con maggiore facilità aveva portato a identificare indizi sulla presenza di carbonio e acqua, importanti per lo sviluppo della vita per come la conosciamo. Da tempo si ipotizza che nel periodo in cui si formò il Sistema solare furono questi ingredienti provenienti dall’esterno a rendere possibili le prime forme di vita terrestri. LEGGI TUTTO

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    Weekly Beasts

    Si percepisce una temperatura invernale, a guardare gli animali fotografati nei giorni scorsi: pinguini in una strada ghiacciata, cavalli e pecore tra la neve, linci che ci si rotolano sopra, ma anche i soliti macachi giapponesi che invece cercano il caldo nelle sorgenti termali. Poi i discorsi tra due aquile di mare, animali benedetti per la festa di Sant’Antonio (patrono degli animali domestici) e l’espressione di un gatto a cui viene misurata la temperatura rettale. LEGGI TUTTO

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    La missione spaziale SLIM del Giappone ha raggiunto la Luna, ma con qualche imprevisto

    Nel pomeriggio di venerdì la missione SLIM dell’Agenzia spaziale giapponese (JAXA) ha raggiunto il suolo lunare, aggiungendo il Giappone alla lista molto ristretta di paesi che hanno tentato un atterraggio controllato sulla Luna. Il veicolo spaziale (lander) invia segnali verso la Terra, ma al momento ci sono dubbi sulle condizioni dei pannelli solari, che non stanno generando energia elettrica e di conseguenza non possono caricare le batterie di SLIM. JAXA sta effettuando alcune verifiche sullo stato delle strumentazioni del lander, che ha utilizzato un sistema di navigazione autonomo ad alta precisione per compiere l’allunaggio.Il lander SLIM (Smart Lander for Investigating Moon) era stato lanciato il 6 settembre 2023 dal Giappone e aveva poi trascorso alcuni mesi per avvicinarsi alla Luna ed entrare in un’orbita intorno al nostro satellite naturale il 25 dicembre scorso. In seguito aveva compiuto alcune manovre per predisporre l’attività di discesa sulla superficie. Intorno alle 16 (ora italiana) di venerdì, SLIM ha acceso i motori per rallentare la propria velocità sganciarsi dall’orbita e iniziare a perdere quota. I suoi sistemi di navigazione automatici hanno poi localizzato il punto scelto in precedenza per l’allunaggio e hanno controllato il lander per evitare collisioni con eventuali ostacoli lungo la traiettoria.
    La separazione tra SLIM e i due lander più piccoli, poco prima dell’allunaggio, in un’elaborazione grafica (JAXA)
    Non è chiaro se SLIM abbia raggiunto il suolo con un orientamento non previsto, cosa che potrebbe avere compromesso la funzionalità dei pannelli solari o il loro corretto orientamento per ricevere la luce solare. La sperimentazione del sistema automatico di navigazione era uno degli aspetti più importanti di SLIM, in vista di altre missioni lunari che in futuro avrebbero dovuto utilizzare lo stesso sistema. Nei prossimi giorni JAXA effettuerà nuove analisi e valutazioni per capire come utilizzare SLIM e due lander più piccoli, LEV-1 e LEV-2, lanciati da SLIM verso il suolo poco prima di tentare il proprio allunaggio. LEGGI TUTTO

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    Il coronavirus fu sequenziato due settimane prima che la Cina ne desse notizia

    Secondo alcuni documenti diffusi da una commissione del Congresso degli Stati Uniti, alla fine del 2019 una ricercatrice cinese pubblicò informazioni sul coronavirus due settimane prima che queste fossero ufficialmente diffuse dal governo della Cina, un probabile indizio del fatto che il governo cinese fosse a conoscenza del SARS-CoV-2 già da diverso tempo prima di comunicarne l’esistenza alle autorità sanitarie internazionali. Il ritardo nella notifica avvenne in un momento cruciale nel quale iniziavano a emergere diversi casi di polmonite in Cina, senza che ci fosse una spiegazione convincente sulle loro cause.Il 28 dicembre 2019 la virologa Lili Ren dell’Accademia delle Scienze mediche cinese inviò un sequenziamento del SARS-CoV-2 (cioè informazioni sulle caratteristiche genetiche del virus) a GenBank, una banca dati sulla quale vengono condivise sequenze di materiale genetico, mantenuta dai National Institutes of Health degli Stati Uniti. Tre giorni dopo, il lavoro di Ren fu segnalato perché incompleto e fu quindi richiesto alla ricercatrice di condividere maggiori informazioni. Secondo la ricostruzione della commissione del Congresso, Ren non rispose e in mancanza di informazioni sufficienti il suo lavoro fu rimosso da GenBank il 16 gennaio 2020. Quattro giorni prima, un altro gruppo di ricerca cinese aveva pubblicato sempre su GenBank un sequenziamento del SARS-CoV-2 sostanzialmente identico a quello proposto da Ren.
    Non è chiaro perché Ren avesse inviato le informazioni a GenBak e avesse poi deciso di non rispondere alle sollecitazioni di chiarimenti. La banca dati contiene oltre 3,8 miliardi di annotazioni, quindi è probabile che in mancanza di altri dettagli i dati forniti da Ren fossero passati inosservati o per lo meno non ricondotti alle prime notizie – al tempo piuttosto confuse – su che cosa stesse accadendo in alcuni ospedali di Wuhan, la città cinese dove furono registrati i primi casi della nuova malattia poi chiamata COVID-19.
    La commissione che ha diffuso la documentazione si sta occupando per conto del Congresso di indagare le origini del SARS-CoV-2, per provare a capire se questo si sviluppò naturalmente nel passaggio da alcuni animali agli esseri umani oppure in seguito a un errore di laboratorio. I lavori della commissione sono sotto la responsabilità di un gruppo di parlamentari Repubblicani, ma le nuove informazioni sul ritardo nella segnalazione non forniscono elementi aggiuntivi sull’origine del coronavirus.
    Secondo i membri della commissione e alcuni osservatori, il mancato riconoscimento dell’importanza della segnalazione di Ren e il ritardo con cui il governo cinese informò la comunità internazionale fecero perdere tempo prezioso, in una fase in cui si iniziavano a registrare i primi morti dovuti alla malattia, sulla quale c’erano ancora pochissime informazioni. Le notizie sul lavoro di Ren potrebbero inoltre dimostrare che alla fine di dicembre 2019 diversi gruppi di ricerca in Cina fossero già impegnati a sequenziare il coronavirus e che avessero provato a condividere le loro scoperte, fino a quando non era intervenuto il governo cinese per limitare la diffusione di informazioni. All’inizio della pandemia la Cina era stata accusata di essere poco trasparente sulla diffusione del coronavirus a Wuhan e in altre aree del paese.
    Il fatto che il sequenziamento fosse disponibile su una banca dati internazionale, e accessibile liberamente, pone inoltre alcune domande sull’efficacia dei sistemi per la rapida identificazione di nuovi patogeni.
    Da tempo si discute di adottare soluzioni per migliorare la condivisione di informazioni su malattie emergenti a livello internazionale, in modo da prevenire nuove pandemie. Se ne parlerà il prossimo maggio nel corso della 77esima Assemblea mondiale della salute, nella quale i 194 paesi membri dell’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) si confronteranno su un nuovo importante trattato sulle pandemie, per adottare linee guida comuni per prevenirle e gestirle meglio partendo anche dalle esperienze e dalle conoscenze maturate negli ultimi anni. LEGGI TUTTO

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    Un nuovo importante risultato nella clonazione delle scimmie

    ReTro è una scimmia della specie macaco rhesus (Macaca mulatta) all’apparenza simile a molti altri, ma detiene un primato: è nato da un processo di clonazione in laboratorio ed è il primo individuo clonato di questa specie ad avere raggiunto l’età adulta. ReTro ha infatti più di due anni e secondo il gruppo di ricerca cinese che lo ha clonato è in buona salute, al punto da poterlo considerare un nuovo importante progresso nelle ricerche sui primati e per la sperimentazione di nuovi farmaci. La tecnica con cui è stato clonato è però ancora complicata e richiede molti tentativi prima di ottenere un risultato come questo.Sono passati quasi trent’anni dalla clonazione della pecora Dolly, una delle primissime esperienze nel settore, e da allora sono state clonate molte specie di animali con grandi successi e molti fallimenti. Soprattutto la clonazione dei primati si è rivelata più difficile e complicata del previsto. Un importante progresso fu raggiunto nel 2018, quando un gruppo di ricerca riuscì a far portare a compimento la gestazione di due macachi di Giava (Macaca fascicularis) dopo avere creato in laboratorio 109 embrioni clonati e averne impiantati la maggior parte nell’utero di 21 scimmie: solo sei di queste avevano poi sviluppato una gravidanza.
    Nel 2022 un tentativo di clonare un macaco rhesus portò alla nascita di una scimmia, ma questa morì dopo poco meno di 12 ore dal parto. Per clonarla, il gruppo di ricerca aveva utilizzato la tecnica sviluppata per la pecora Dolly, che aveva però mostrato di non funzionare come atteso nei primati.
    In generale, in biologia un clone è un organismo che ha lo stesso identico patrimonio genetico di un altro esemplare. La clonazione è un processo che esiste in natura e che interessa soprattutto le piante, alcuni invertebrati e organismi unicellulari. Clonare in laboratorio significa creare un nuovo essere vivente con le stesse informazioni genetiche dell’organismo di partenza. La tecnica (SCNT, da “somatic cell nuclear transfer”) che fu perfezionata con Dolly prevede di effettuare un trapianto di un nucleo da cellula somatica adulta, cioè da una cellula che fa parte di un tessuto e che è specializzata per fare una cosa sola.
    Nel nucleo di ogni cellula è racchiuso il materiale genetico di un organismo, cioè le istruzioni di base che lo fanno funzionare e sviluppare. Il trasferimento di nucleo consiste nel prelevare queste informazioni da una cellula e di inserirle in un ovocita (la cellula uovo in uno stadio non completo), dalla quale è stato rimosso il nucleo originario. La cellula ibrida ottenuta viene indotta in laboratorio – quindi fuori da un organismo vivente – ad avviare la divisione cellulare. Si ottiene in questo modo la blastocisti, una delle prima fasi dell’embrione, e a questo punto è possibile procedere con l’impianto nell’utero della madre surrogata, che porterà avanti la gravidanza fino alla nascita del nuovo individuo.
    La procedura è naturalmente più complessa di così e riuscire a produrre un clone comporta numerosi tentativi e fallimenti, soprattutto nei primati. E proprio per questo un gruppo di ricerca dell’Accademia delle scienze cinese ha provato a comprendere che cosa andasse storto nella clonazione di varie specie di scimmie.
    Come spiegano nel loro studio da poco pubblicato su Nature Communications, i ricercatori hanno messo a confronto 484 embrioni ottenuti con la SCNT (quindi clonati) e 499 embrioni derivanti da normali procedure di fertilizzazione in vitro (quindi non clonati). Osservandoli in laboratorio, hanno notato che i due tipi di embrioni si erano sviluppati più o meno allo stesso modo prima di essere impiantati nelle madri surrogate. Le cose erano però cambiate dopo l’impianto uterino: meno della metà degli embrioni clonati aveva attecchito e pochi di loro erano arrivati al termine della gravidanza.
    Il gruppo di ricerca ha allora condotto alcune analisi genetiche sugli embrioni ottenuti con la SCNT, notando importanti differenze rispetto agli altri embrioni dovute al modo in cui si producevano alcune modifiche importanti nei processi di attivazione o non attivazione dei geni (modifiche epigenetiche). Le differenze erano tali da suggerire che fossero la base dei problemi per il successivo sviluppo degli embrioni, con il conseguente fallimento delle gravidanze.
    Proseguendo nelle analisi, il gruppo di ricerca ha notato che il problema riguardava in particolare le cellule all’interno della placenta, che da un lato si forma da tessuti prodotti dall’embrione e dall’altro da quelli originati dalla gestante. I ricercatori hanno allora provato a utilizzare i tessuti della placenta prodotti dagli embrioni della fertilizzazione in vitro (quindi non clonati), sostituendoli a quelli degli embrioni clonati. In questo modo gli embrioni hanno potuto sviluppare una placenta che non derivava dall’attività di clonazione in vitro, pur mantenendo il resto delle strutture clonate dell’embrione.
    La tecnica è stata impiegata per produrre 113 embrioni clonati, 11 dei quali sono stati impiantati in madri surrogate, ottenendo infine due gravidanze. Una madre surrogata ha infine portato alla nascita di ReTro, mentre per l’altra la gravidanza si è interrotta al 106esimo giorno.
    Il risultato – cioè la nascita e la crescita fino all’età adulta di ReTro – è stato accolto con grande interesse nella comunità scientifica, ma la tecnica è comunque ancora molto complicata e non offre livelli paragonabili al tasso di successo nella clonazione di altre specie, non di primati, utilizzando la SCNT. La quantità di embrioni che deve essere prodotta è molto alta così come è alto il rischio che la gravidanza non vada a termine. Il fatto che ReTro sia sopravvissuto e abbia più di due anni è comunque un risultato positivo e, secondo il gruppo di ricerca, in futuro potrebbero esserci benefici per le attività di sperimentazione che coinvolgono i primati.
    Da quando si è riusciti a clonare alcune specie di primati, vari gruppi di ricerca hanno utilizzato le scimmie per produrre modelli più accurati di alcune malattie o per verificare il funzionamento di alcune sostanze, in vista del loro impiego sugli esseri umani come terapie contro alcune malattie. Disporre di esemplari identici consente infatti di effettuare sperimentazioni più mirate, riducendo la quantità di variabili e rendendo confrontabili più facilmente i risultati. In questo modo si potrebbero anche utilizzare meno animali, una questione dibattuta da tempo e con non pochi risvolti etici.
    Già ai tempi della clonazione di Dolly si aprì un ampio dibattito etico e scientifico sull’opportunità di condurre esperimenti per clonare gli organismi, e naturalmente ci fu chi ipotizzò un futuro nemmeno troppo lontano in cui sarebbe stato possibile clonare un essere umano, con implicazioni senza precedenti nella storia dell’umanità. Nonostante i nuovi progressi, la clonazione umana continua a essere una prospettiva molto distante (per i più scettici impossibile) per gli altissimi rischi che comporta. La ricerca si è inoltre concentrata su altro, e cioè sullo sfruttamento delle conoscenze nate intorno all’esperimento di Dolly e sviluppate negli anni seguenti per trovare nuove cure e terapie per migliorare la vita di milioni di persone. LEGGI TUTTO

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    Come si studia la lava

    Le eruzioni vengono considerate fenomeni interessanti e per certi versi affascinanti anche in paesi come l’Islanda, dove sono molto meno rare che altrove, e continuano a darci informazioni su come funziona l’interno del pianeta nonostante secoli di osservazioni e studi dei vulcani. Per questo anche l’ultima eruzione avvenuta tra domenica e lunedì a Grindavík, nel sud-ovest del paese, è stata seguita con attenzione da vulcanologi e altri scienziati, e non solo per ragioni di sicurezza. Un gruppo di ricerca dell’Università dell’Islanda che si occupa di geochimica e petrologia ad esempio è andato sul sito dell’eruzione per raccogliere dei campioni di lava, per poi analizzare quali sostanze contiene in laboratorio.«La composizione chimica della lava è importante per comprendere i processi magmatici nelle profondità della crosta o del mantello superiore della Terra», spiega Alberto Caracciolo, geologo italiano che fa parte del gruppo, «che sono luoghi normalmente inaccessibili all’osservazione diretta». Sapere quali minerali sono presenti nel magma, cioè nella lava finché si trova sottoterra, permette di determinare a quale pressione era sottoposto lo stesso magma prima dell’eruzione e quindi a quale profondità si trovava. Dunque di capire qualcosa in più sulle ragioni di un’eruzione.
    La lava appena fuoriuscita in superficie ha una temperatura di 1.000-1.200 °C: è per questo che Caracciolo e i suoi colleghi le si avvicinano indossando abiti e guanti resistenti alle alte temperature. «Il calore diventa molto intenso quando ci avviciniamo ai fronti lavici attivi, simile alla sensazione di aprire un forno molto caldo in casa. Nel caso della lava, questa sensazione è costante, cosa che in Islanda, con le sue rigide temperature, viene apprezzata!». Si usano anche caschi protettivi dotati di visiera e, per via dei gas tossici che accompagnano la lava, delle maschere antigas: «Gli odori variano a seconda della quantità di gas rilasciati e della presenza o assenza di vegetazione in combustione. Domenica si percepiva prevalentemente l’odore di zolfo e di erba bruciata».
    Anche la concentrazione di gas viene registrata. Come precauzione di sicurezza si usano misuratori della quantità di diossido di zolfo (SO2) e anidride carbonica (CO2) nell’aria e si ha a portata di mano una bombola di ossigeno, da usare in caso di emergenza.
    La raccolta dei campioni poi si fa mantenendosi a una certa distanza: «Usiamo un palo lungo circa due metri con un “cucchiaio” all’estremità», continua Caracciolo, «ci avviciniamo alla colata di lava e preleviamo campioni di lava ancora fluida con questo lungo cucchiaio, raffreddandoli rapidamente in un secchiello di metallo riempito con acqua del rubinetto». Raffreddandosi la lava si solidifica e quello che si ottiene sono dei pezzi di roccia nera. Gli scienziati cercano di farli raffreddare il più in fretta possibile per limitare le contaminazioni della lava da parte dell’atmosfera: provocando una rapida solidificazione ottengono una buona approssimazione della composizione chimica del magma.

    New volcanic eruption in Svartsengi! Thanks to the civil protection who allowed us to access the area! Today, with @Alberto_Carac, Nico, Céline, Sam and Steini, we collected fresh lava samples and measured volcanic gases. Preliminary geochimical data coming tomorrow! Stay tuned. pic.twitter.com/k2pxJcLgUV
    — Geochemistry and Petrology Group @ Uni. Iceland (@rockhardIES) January 14, 2024

    L’eruzione di Grindavík, e in generale le eruzioni dell’estremo sud-ovest dell’Islanda, cioè nella penisola di Reykjanes, sono diverse da quelle che avvengono in Italia e che sono legate a vulcani che nel corso del tempo hanno creato delle montagne, come Etna e Stromboli. Queste differenze sono dovute al fatto che ciò che succede sotto Reykjanes è diverso da ciò che succede sotto i vulcani italiani. La penisola islandese si trova lungo la dorsale oceanica medio-atlantica, la congiuntura tra due placche della crosta terrestre che si allontanano. I fenomeni vulcanici italiani invece sono legati a una placca che si immerge sotto un’altra. Per via di questa differenza la composizione chimica della lava dell’Etna è diversa da quella della lava di Reykjanes: la prima contiene più sodio e potassio, quella islandese più magnesio.
    Teoricamente, dice Caracciolo, anche vicino a Grindavík «potrebbe formarsi un vulcano a scudo, ossia una montagna. Ma affinché ciò accada, le eruzioni dovrebbero continuare per moltissimo tempo».
    Intanto l’eruzione degli ultimi giorni si sta esaurendo. Potrebbero verificarsene altre nelle prossime settimane o mesi, ma non è possibile prevederlo con certezza. Nella penisola di Reykjanes l’attività vulcanica è ricominciata solo negli ultimi anni dopo quasi 800 anni di quiescenza. Dal 2021 ci sono state quattro eruzioni prima dell’ultima, tutte lontano da infrastrutture o centri abitati. Non è possibile dire quanto durerà il nuovo ciclo di attività. LEGGI TUTTO