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    Questo orango si è medicato da solo una ferita

    Caricamento playerIn una riserva naturale dell’Indonesia, un gruppo di ricerca ha osservato per la prima volta un orango mentre si medicava una ferita al viso utilizzando alcune parti masticate di una pianta. Secondo gli autori, la scoperta si aggiunge alle osservazioni effettuate in precedenza in diverse altre specie note per utilizzare piante e altri rimedi per medicarsi, ma nella maggior parte dei casi ingerendole.
    Il particolare comportamento è stato osservato su un maschio di orango di Sumatra (Pongo abelii) di 35 anni chiamato Rakus, che vive nel Parco nazionale di Gunung Leuser, una grande area naturale protetta nella parte settentrionale di Sumatra. La riserva ospita migliaia di specie vegetali e centinaia tra specie di uccelli e mammiferi, compresi gli oranghi che vengono sorvegliati e seguiti per anni dai gruppi di ricerca per poterli studiare.
    Un gruppo ha da poco pubblicato sulla rivista scientifica Scientific Reports uno studio che racconta il modo in cui Rakus si è medicato da solo una brutta ferita che aveva rimediato al viso alla fine di giugno del 2022. Nei giorni seguenti, Rakus aveva iniziato a masticare una pianta che viene chiamata “akar kuning” in parte dell’Indonesia e il cui nome scientifico è Fibraurea tinctoria. La pianta viene utilizzata da tempo nella medicina tradizionale indonesiana ed è nota per avere qualità antinfiammatorie e antibatteriche.
    L’akar kuning non ha un sapore particolarmente gradevole ed è raro che gli oranghi se ne nutrano, per questo quando il gruppo di ricerca ha notato che Rakus aveva iniziato a masticarla si è incuriosito. Oltre a ingerire la pianta, l’orango utilizzava parte della poltiglia ottenuta tramite la masticazione per coprire la propria ferita al viso. Cinque giorni dopo la prima osservazione, la ferita aveva iniziato a rimarginarsi e meno di un mese dopo era scomparsa, senza lasciare segni o infezioni che si sarebbero potute facilmente verificare considerata l’estensione e l’irregolarità del taglio.
    Rakus mentre mastica foglie di Fibraurea tinctoria (Scientific Reports)
    La storia di Rakus ha attirato l’attenzione di molti esperti perché sembra essere senza precedenti. In passato altri primati non umani erano stati osservati mentre applicavano insetti masticati su alcune ferite, ma non erano mai stati trovati primati che lo facessero con le piante. In precedenza era stato osservato un gruppo di oranghi del Borneo (Pongo pygmaeus) mentre si strofinava sulle braccia e sulle gambe le foglie masticate di alcune piante, apparentemente per avere un po’ di sollievo dalle infiammazioni e non per trattare ferite.
    Molti animali sono noti per ingerire piante quando hanno parassiti o infezioni all’apparato digerente, ma finora non erano stati osservati casi di trattamenti di ferite esterne seguendo un principio simile. Non è chiaro come Rakus sia arrivato a trattarsi da solo con l’akar kuning e negli studi di questo tipo è molto importante evitare l’immedesimazione, trasferendo o vedendo comportamenti umani in altre specie. Le ricerche sugli oranghi effettuate negli ultimi decenni hanno comunque evidenziato le grandi capacità di questi animali sia nel risolvere problemi relativamente complessi, sia nel relazionarsi tra loro in modi socialmente elaborati. LEGGI TUTTO

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    Questa è una roccia?

    Caricamento playerLe Hawaii sono famose per i vulcani e i grandi resort visitati ogni anno da milioni di turisti, alla ricerca di spiagge incontaminate affacciate sull’oceano Pacifico. Kamilo Beach, nella parte sud-orientale dell’isola più estesa dell’arcipelago, non rientra propriamente nella categoria: è famosa per i frequenti accumuli di plastica portati dall’oceano e provenienti dalla “grande chiazza di immondizia del Pacifico”. Non è una spiaggia sempre ideale per prendere il sole e fare il bagno, in compenso è il luogo in cui è stata scoperta una particolare sostanza. Per alcuni è un nuovo tipo di roccia e la dimostrazione dell’impatto delle attività umane nella geologia terrestre, per altri è semplicemente il frutto dell’inquinamento e non ha nulla di paragonabile alle rocce.
    Charles Moore, un oceanografo statunitense, aveva osservato per la prima volta la strana sostanza nel 2006 mentre stava effettuando alcune analisi e rilevazioni proprio a Kamilo Beach. Moore aveva notato uno strano oggetto solido formato da alcuni frammenti organici, come conchiglie e legno, tenuti insieme da del materiale plastico. Ipotizzò che si fosse formato a causa dell’accensione di un falò sulla spiaggia, che aveva portato alcuni detriti di plastica provenienti dal mare a fondersi e a inglobare al loro interno sabbia, piccole rocce e altri detriti. Qualche tempo dopo lo spegnimento del falò, la plastica si era solidificata creando un nuovo strato di sedimenti diverso da ciò che c’era prima sulla spiaggia.
    Materiale plastico fuso in un falò (1) si deposita e infiltra (2) in frammenti di roccia portando alla formazione di nuovi strati sedimentari (3) rilevabili nelle stratificazioni (4) e un indizio, secondo alcuni geologici, dell’Antropocene (Wikimedia)
    Moore aveva raccolto alcuni campioni che erano stati analizzati negli anni seguenti insieme ad altri reperti in particolare da Patricia Corcoran, dell’Università dell’Ontario occidentale (Canada). In una ricerca realizzata nel 2013, Corcoran e il suo gruppo di ricerca avevano segnalato che la sostanza di Kamilo Beach era costituita da frammenti di reti da pesca e per circa metà da piccoli pezzi di plastica, che si erano probabilmente separati da pezzi più grandi nel processo di degradazione del materiale a causa del moto ondoso e degli effetti della luce solare. Lo studio confermava inoltre l’ipotesi di Moore sulla probabile origine derivante da un fuoco acceso sulla spiaggia, ritenendo meno probabile un’origine derivante da una colata lavica.
    Il lavoro di Corcoran si fece soprattutto notare per la sua scelta di chiamare “plastiglomerato” la sostanza osservata alle Hawaii, dal materiale plastico che la compone insieme agli altri detriti che formano un materiale incoerente, un agglomerato appunto. Da alcuni geologi il plastiglomerato viene considerato una roccia sedimentaria clastica, cioè una roccia formata dall’accumulo di frammenti di materiali rocciosi e di altro tipo trasportati dal mare, dal vento o da altri agenti esterni.
    La classificazione del plastiglomerato e lo stesso nome sono però ancora molto discussi. Nel corso del tempo ne sono state trovate versioni in almeno una decina di posti diversi dalle Hawaii, con alcune caratteristiche in comune tali da ipotizzare che possano durare molto a lungo nel tempo, come gli altri strati geologici.
    Tra i principali sostenitori di questa ipotesi c’è Jan Zalasiewicz, un geologo che lavora all’Università di Leicester (Regno Unito) e che negli ultimi anni ha fatto parte del Gruppo di lavoro sull’Antropocene, dedicato a chiedere il riconoscimento di una nuova era geologica fortemente influenzata dalle attività umane e per questo chiamata “Antropocene” (dalle parole greche ἄνθρωπος,“umano”, e καινός, “tempo”). A fine marzo l’Unione internazionale di scienze geologiche (IUGS) ha confermato che l’Antropocene non sarà aggiunto alla lista delle epoche geologiche in cui è suddivisa la storia della Terra. È una decisione che potrà essere rivista in futuro e per questo molti ricercatori – come Zalasiewicz – sono al lavoro sugli indizi che secondo loro indicano una profonda modificazione, anche a livello geologico, portata dalla nostra specie.
    Zalasiewicz ha detto di recente a Slate che l’idea che le rocce debbano risalire a moltissimo tempo fa per essere considerate tali è una «leggenda metropolitana». Alcune rocce si formano praticamente in tempo reale durante le eruzioni vulcaniche, spiega, quando le colate laviche si raffreddano e si solidificano.
    Diversi geologi la pensano come Zalasiewicz e ritengono che la plastica debba essere ormai considerata come un materiale sedimentario. Quella dispersa nell’ambiente si disgrega col tempo, soprattutto a causa dell’azione dei raggi solari che la rendono friabile e meno elastica. I frammenti si infiltrano nel suolo e diventano una delle materie prime per la formazione delle rocce, in processi molto lunghi, ma che ormai avvengono da quasi un secolo se si considerano i primi materiali plastici del Novecento. Questo strato distinguibile dagli altri sarebbe uno dei principali indizi dell’esistenza dell’Antropocene.
    “Plastica” è naturalmente una parola ombrello usata per indicare prodotti con caratteristiche chimiche molto diverse tra loro: esistono plastiche di ogni tipo e la loro durata anche a livello molecolare può variare molto. Ed è proprio sulla durata che si sta concentrando il confronto tra gli esperti.
    I più scettici ritengono che sia ancora troppo presto per determinare se alcuni tipi di plastica abbiano effettivamente una durata compatibile con i processi geologici, che si estendono per migliaia, milioni e miliardi di anni a seconda dei casi. Nei processi geologici che avvengono in profondità nella crosta terrestre, per esempio, alcune plastiche potrebbero cambiare caratteristiche, tanto da non diventare sostanze di lunga durata come avviene con altre sostanze fossili. Non è nemmeno escluso che, dopo un certo periodo di tempo, i frammenti di plastica nei sedimenti si trasformino in petrolio, la sostanza da cui erano stati prodotti.
    Al di là dei nomi e della classificazione, i plastiglomerati sono comunque un ulteriore indizio dell’enorme impatto che le attività umane hanno avuto e continuano ad avere sul nostro pianeta. L’inquinamento derivante dalla plastica è una delle più importanti emergenze ambientali del nostro tempo, ma concordare le strategie per affrontarlo globalmente non è semplice. A fine aprile a Ottawa, in Canada, si è tenuta una nuova serie di negoziati per formalizzare un trattato internazionale vincolante per ridurre l’inquinamento che deriva dalla plastica. L’iniziativa è coordinata da un comitato intergovernativo delle Nazioni Unite, che ha il difficile compito di mettere d’accordo oltre 175 paesi che negli scorsi anni si erano impegnati per trovare una soluzione comune. Tra ritardi e rinvii, non si prevede di avere un trattato definitivo prima del 2025. LEGGI TUTTO

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    Forse diamo troppa importanza alla “buona postura”

    Caricamento player“Stai dritto con la schiena” è probabilmente una delle raccomandazioni che si sono sentite dire molte persone da piccole, con toni affettuosi o marziali a seconda dei casi e dei contesti. Come per molto di ciò che ci viene detto da bambini, il concetto di tenere la schiena dritta e in generale mantenere una “buona postura” (qualsiasi cosa voglia dire) si è radicato nel nostro immaginario al punto da ricordarlo periodicamente a noi stessi, magari quando ci sediamo scomposti, e naturalmente al prossimo. Eppure, per quanto la raccomandazione di stare dritti sia diffusa, non ci sono molti elementi sulla sua effettiva utilità per vivere meglio o senza dolori come il mal di schiena, al punto da far ipotizzare ad alcuni specialisti che la postura non sia poi così importante se non si hanno particolari problemi di salute.
    Anche in seguito a cosa si sentono dire da giovani, molte persone tendono ad associare una buona postura a una migliore forma fisica, e di conseguenza a migliori condizioni di salute. In realtà la parte fondamentale della schiena, cioè la colonna vertebrale, non è dritta nel senso stretto del termine. Appare allineata se la si osserva frontalmente in una radiografia, ma è sufficiente osservarla lateralmente per accorgersi che ha una forma sinuosa che ricorda quella delle “S”. La parte cervicale è convessa verso la parte frontale del torso, quella toracica verso la parte posteriore, quella lombare nuovamente in avanti e quella del sacro-coccige verso il posteriore.
    (Wikimedia)
    La schiena non è quindi fisiologicamente dritta e per buoni motivi: se lo fosse, buona parte del peso graverebbe sulle vertebre e sui muscoli della fascia lombare, soprattutto nella parte che raggiunge l’osso sacro, sottoponendola a forze eccessive tali da renderla meno mobile. La forma a “S” permette di scaricare le forze più uniformemente, anche se inevitabilmente le maggiori sollecitazioni riguardano quasi sempre le vertebre lombari: è il prezzo da pagare per avere guadagnato una postura completamente eretta nel corso dell’evoluzione.
    L’idea della schiena perfettamente dritta deriva quindi più da questioni culturali che prettamente anatomiche. Già nell’antica Grecia veniva valorizzata la postura che prevedeva di mantenere le spalle indietro, il petto protruso in avanti e di conseguenza la schiena il più possibile in linea. Le statue prodotte nel periodo, la cui estetica avrebbe fortemente influenzato l’arte di altre culture, dimostrano come nella ricerca della perfezione del corpo venisse attribuita una grande importanza allo stare in piedi in un certo modo.
    Una postura di quel tipo non era comunque un’esclusiva della Grecia antica e si trovano illustrazioni di persone in pose simili in diverse altre culture. Mantenere la schiena dritta, e di conseguenza la testa lievemente rivolta verso l’alto, dà del resto l’impressione di una maggiore imponenza, un modo di apparire che poteva tornare utile nei contesti in cui molti problemi si risolvevano con l’uso della forza. Ancora oggi associamo una buona postura a una certa idea di prestanza fisica, tanto da essere portata ai suoi estremi in ambito militare.
    (Kevin Frayer/Getty Images)
    Se però si abbandonano le abitudini culturali e si assume un punto di vista medico, i presunti benefici per la salute nel mantenere schiena dritta, spalle indietro e mento rivolto verso l’alto vacillano. Nella letteratura scientifica non si trovano molti elementi a sostegno dell’importanza della buona postura o di una sua diretta relazione con minori dolori di schiena, al collo o agli arti. Una revisione sistematica di revisioni sistematiche (in pratica uno studio di studi) pubblicata nel 2020 non aveva per esempio rilevato indizi su nessi di causalità tra postura e lombalgia, una delle forme più diffuse di mal di schiena. In alcuni studi era emersa la presenza di entrambi i fattori, ma i dati non avevano comunque permesso di trovare un nesso causale.
    Nel 2021 un’altra revisione effettuata su oltre 650 ricerche si era occupata in particolare della postura spesso poco naturale che si assume alla guida, quando ci si appoggia al volante o si tende comunque a mantenere la schiena inarcata in avanti. Anche in quel caso non era stato possibile determinare un nesso con il dolore lombare.
    Uno studio pubblicato nel 2017 era invece consistito nell’analisi delle abitudini posturali di due gruppi di persone con o senza male alle spalle. Dalla ricerca non erano emerse particolari differenze nelle pose tenute dai partecipanti, ma lo studio aveva riguardato poco meno di 150 persone, quindi non era molto rappresentativo. In un altro studio pubblicato nel 2021 un gruppo di ricerca aveva invece raccontato di avere selezionato cento persone in salute chiedendo loro come valutassero la loro postura abituale. Da seduta, la maggior parte dei partecipanti aveva nei fatti una postura rilassata e lievemente inclinata in avanti, ma se veniva chiesto loro di adottarne una che ritenessero ottimale allora si sedevano con la schiena molto più dritta. Secondo il gruppo di ricerca, il diverso comportamento dimostrava come ci sia una forte differenza nella percezione di una buona postura e il modo in cui molte persone stanno normalmente sedute.
    Nel 2021 fu invece pubblicato uno studio che fece abbastanza discutere tra gli esperti, perché aveva tra gli obiettivi una valutazione nel lungo termine della postura. Ricercatrici e ricercatori avevano selezionato quasi 700 diciassettenni, suddividendoli in gruppi a seconda del modo in cui tenevano il collo da seduti: dritto come il resto del busto, inclinato in avanti con il busto dritto o inclinato, inclinato lievemente come il resto del busto. La posizione veniva rilevata da una serie di sensori applicati ai partecipanti in modo da non modificare le loro abitudini attraverso domande o altri tipi di misurazione.
    Dopo cinque anni, il gruppo di ricerca aveva contattato i partecipanti e aveva chiesto loro se nell’anno precedente avessero avuto problemi al collo per un periodo superiore a tre mesi. Emerse che per i maschi partecipanti la postura assunta a 17 anni non costituiva un fattore di rischio per problemi di cervicale a 22 anni. Tra le femmine emerse invece che quelle abituate a mantenere collo e busto dritto a 17 anni erano più a rischio di avere problemi di cervicale nell’età adulta, rispetto alle diciassettenni abituate ad assumere una posizione più rilassata. Il gruppo di ricerca ipotizzò che una delle cause derivasse dal maggiore impegno dei muscoli della cervicale per mantenere la postura dritta, tale da incidere nel lungo periodo sulla flessibilità e sulla mobilità del collo.
    Non tutti furono convinti dallo studio e la difficoltà di replicarlo, come spesso avviene con le ricerche che riguardano salute e abitudini, spiega perché ancora oggi la questione della postura dritta sia discussa. Rispetto a un tempo, tra chi si occupa di queste cose per professione – come i fisioterapisti – c’è comunque una maggiore tendenza a consigliare il mantenimento di una postura che sia bilanciata, quindi confortevole e tale da non sottoporre a maggiore stress una metà del corpo rispetto all’altra.
    Il consiglio vale per le persone in salute e senza particolari problemi ortopedici, muscolari e di mobilità: chi ha una postura fortemente asimmetrica, magari derivante da specifici problemi di salute come la scoliosi, deve sottoporsi a terapie e ginnastica correttiva per migliorare le cose e ridurre il rischio di avere ulteriori problemi con la crescita e l’invecchiamento. E non preoccuparsi troppo della postura non significa nemmeno ignorare le posizioni che si assumono sul posto di lavoro, in particolare per professioni che richiedono un forte sforzo fisico o il mantenimento per diverse ore di una medesima posizione. Imparare a fare i giusti movimenti è importante per fare prevenzione e anche per questo rientra nella sicurezza sul lavoro.
    Secondo gli esperti i rischi maggiori derivano dai lavori che richiedono di mantenere per molte ore al giorno la stessa posizione. È il motivo per cui una persona che suona il piano di professione, trascorrendo ore alla tastiera, rischia di sviluppare col tempo una marcata cifosi, cioè la curvatura della parte alta della colonna vertebrale in avanti, quella che volgarmente viene chiamata “gobba”. Per ridurre questo rischio nei posti di lavoro dove è possibile si organizzano turni su postazioni diverse, in modo che chi lavora possa cambiare posizione e movimenti per un certo numero di volte al giorno.
    In alcune professioni, come quelle che richiedono di lavorare per molte ore al computer, difficilmente c’è la possibilità di spostarsi visto che la posizione di lavoro è sempre alla scrivania. In questo caso è quindi previsto l’uso di schermi, tastiere, mouse, sedie e altri dispositivi per mantenere una postura adeguata e ridurre il rischio di cifosi. L’effetto che si vuole ottenere non è quello di mantenere una postura completamente dritta, la preferita da alcuni zelanti insegnanti a scuola, ma una posizione confortevole e con meno vincoli di movimento rispetto per esempio all’utilizzo di un computer portatile.
    Cambiare posizione più volte nel corso della giornata, così come alzarsi dalla scrivania e fare qualche passo a intervalli regolari, è ritenuto più importante del mantenimento di una postura “corretta”, anche perché non ce n’è una che vale per tutti allo stesso modo: siamo tutti diversi, anche nella schiena. Fare regolarmente esercizio fisico aiuta a non rinunciare alle proprie posizioni laocoontiche preferite: possono essere sufficienti una passeggiata a passo veloce e un po’ di allungamento. LEGGI TUTTO

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    Il latte di cammelle e dromedarie potrebbe tornare utile

    I dromedari e i cammelli, a differenza di altri ruminanti come le mucche, vivono ancora oggi quasi esclusivamente in pascoli liberi. Sono cioè allevati con i metodi tradizionali della pastorizia nomade, che ha permesso di sfruttare la loro grande resistenza fisica e adattabilità. Ma negli stessi luoghi dove i cammelli – denominazione in cui si includono spesso anche i dromedari, quelli con una gobba sola – furono addomesticati la prima volta migliaia di anni fa dai pastori nomadi, cioè in Africa settentrionale e in Medio Oriente, oggi sono allevati anche in modo diverso: cioè con allevamenti stanziali piuttosto simili a quelli in cui siamo abituati a vedere bovini e suini.L’allevamento di dromedari finora aveva resistito all’industrializzazione, ma le cose potrebbero cambiare per due motivi principali. Il primo è che ha le caratteristiche giuste per vivere in un mondo sempre più caldo, arido e con temperature meno prevedibili a causa del riscaldamento globale. D’altronde dromedari e cammelli si sono evoluti in modo da resistere alle giornate caldissime e alle notti fredde tipiche dei deserti e possono resistere fino a sette giorni senza acqua e diverse settimane senza cibo.
    L’adattabilità ai climi caldi e aridi accomuna tutte e tre le specie che definiamo comunemente cammelli. Caratterizza i dromedari, cioè gli esemplari di Camelus dromedarius, che hanno solo una gobba e costituiscono oltre il 90 per cento dei cammelli del mondo (sono in Africa, India e Medio Oriente e persino in Australia). Ma anche le specie di cammello con due gobbe, cioè gli esemplari di Camelus bactrianus, che vivono nelle steppe eurasiatiche, e quelli di Camelus ferus, che sono a rischio di estinzione e vivono esclusivamente in alcune zone della provincia cinese dello Xinjiang e della Mongolia, come l’area rigorosamente protetta del Grande Gobi A.
    Oltre a poter vivere in ambienti particolarmente aridi e inospitali cammelli e dromedari producono anche meno metano rispetto a mucche e pecore attraverso l’espirazione, i rutti, le flatulenze e gli escrementi. Queste caratteristiche li rendono animali utile a rendere più efficiente e sostenibile la produzione alimentare soprattutto in zone desertiche e semidesertiche.
    Il secondo motivo per cui c’è interesse intorno agli allevamenti intensivi di dromedari è invece culturale: sono infatti diventati, soprattutto negli ultimi anni, degli animali simbolo in alcuni stati come l’Oman e l’Arabia Saudita. Anche negli Emirati Arabi Uniti il cammello a una gobba è un emblema nazionale e ne sono la prova, per esempio, le gare che prevedono premi che possono sfiorare i 2 milioni di euro, o le fiere dove un singolo esemplare può essere venduto a 9 milioni di euro. Sta aumentando anche l’importanza dei “concorsi di bellezza” per cammelli, con attenzioni e investimenti ingenti da parte di paesi come il Qatar. In tutti questi casi i governi puntano su fiere ed eventi pubblici per promuovere quello che considerano un prodotto tipico e riconoscibile del proprio territorio.
    Infine ci sono dei motivi economici. La richiesta di latte di dromedario è in forte crescita, soprattutto in Medio Oriente, in Africa settentrionale e in misura minore negli Stati Uniti e in Australia. Succede perché è un alimento particolarmente ricco di vitamina C, è povero di grassi e chi lo ha provato sostiene abbia un sapore gradevole, leggermente più salato di quello bovino. Sarebbe anche una valida alternativa al latte vaccino per chi soffre di intolleranza al lattosio. Secondo le stime della società di consulenza indiana Data Bridge Market Research il mercato globale di latte di dromedaria passerà da 2 miliardi di dollari nel 2022 a 13 miliardi nel 2030. Una crescita notevole, anche se ancora marginale rispetto alle dimensioni del mercato del latte bovino, dato che il solo mercato di latte di mucca in polvere supererà i 21 miliardi di dollari entro il 2028.
    Nonostante stati come Qatar, Emirati Arabi Uniti e Arabia Saudita abbiano economie piuttosto floride, allo stesso tempo hanno la necessità di diversificare i propri investimenti rispetto al mercato degli idrocarburi. In questo senso investire su un settore come quello agricolo e caseario è un vantaggio, perché oltre a diversificare consente di mantenere questi investimenti sul proprio territorio — al contrario, per esempio, dei più noti investimenti sportivi delle monarchie del Golfo in Europa.
    Un esempio notevole di questa tendenza è l’allevamento emiratino Camelicious, a Dubai, di fatto la più grande azienda lattiero-casearia di questo tipo di tutto il Medio Oriente, dove oggi ci sono oltre 10mila dromedari, tutti nutriti e munti in modo industriale. Camelicious produce soprattutto latte fresco per il consumo interno al paese, ma la produzione prevede anche prodotti destinati agli Stati Uniti e ad altri paesi sia europei che mediorientali: latte in polvere, gelato, formaggi e barrette proteiche pensate per chi fa sport.
    Camelicious non è un esempio isolato. Come hanno scritto sul sito The Conversation le due scienziate Ariell Ahearn e Dawn Chatty, negli Emirati Arabi Uniti, ma più in generale in tutto il Medio Oriente, gli allevamenti di dromedari sono in aumento. E succede lo stesso in diversi paesi africani in cui il consumo è maggiore, come Kenya e Somalia. Anche in Arabia Saudita la tendenza è simile: il fondo sovrano saudita Public Investment Fund (PIF) all’inizio del 2024 ha annunciato ufficialmente la creazione di Sawani Company, una controllata che si occuperà proprio di promuovere i prodotti caseari di cammello.
    Oltre ai vantaggi, però, ci sono degli svantaggi. La gestazione di una dromedaria dura 13 mesi, quindi circa quattro mesi in più rispetto a quella delle mucche. Inoltre i maschi tendono a diventare piuttosto aggressivi, soprattutto in corrispondenza del periodo dell’accoppiamento. Entrambe le cose rendono più complicati da gestire gli allevamenti.
    Secondo i produttori nomadi di latte di cammelle e dromedarie i nuovi allevamenti sono una minaccia alla conservazione della tradizione nomade, che resiste non solo in Africa settentrionale, ma anche in Medio Oriente e in diverse zone dell’Asia come la Mongolia e l’India, e prevede tecniche di mungitura pressoché prive di tecnologia. Il timore dei pastori nomadi è innanzitutto di vendere meno latte a causa degli allevamenti intensivi, oltre al fatto che la propria tradizione culturale potrebbe diventare ancora più rara e marginale.
    Come si legge nel comunicato pubblicato dai partecipanti al “Workshop on Camelid Pastoralism”, tenuto in India lo scorso gennaio, le preoccupazioni dei pastori riguardano anche l’impatto ambientale degli allevamenti intensivi: «i cammelli sono fondamentali per la sicurezza alimentare e la tutela della biodiversità nelle regioni aride e semiaride del mondo, ma solo se vengono mantenuti in allevamenti nomadi», e ancora «la loro mobilità è una risorsa e un metodo esplicito di resilienza, soprattutto in tempi di cambiamenti climatici globali e di imprevedibilità ambientale». Tra le preoccupazioni di chi alleva cammelli con metodi tradizionali c’è anche la selezione genetica. Le grandi fattorie infatti potrebbero tendere a preservare solo alcune razze di cammello, quelle la cui produzione di latte è maggiore, come è successo con le mucche nei secoli scorsi. LEGGI TUTTO

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    Non bisogna allarmarsi per le zanzare che possono trasmettere la malaria trovate in Puglia

    Lo scorso settembre in alcune aree rurali della provincia di Lecce è stata fatta un’indagine scientifica per verificare la presenza di zanzare appartenenti a specie capaci di trasmettere la malaria. I risultati dello studio, condotto dall’Istituto Zooprofilattico Sperimentale della Puglia e della Basilicata e dall’Istituto Superiore di Sanità insieme all’ASL di Lecce, sono stati pubblicati il 10 aprile sulla rivista scientifica Parasites & Vectors: di 216 zanzare e larve di zanzara catturate, 20 appartenevano alla specie Anopheles sacharovi, una di quelle che possono fare da vettore agli organismi unicellulari che causano la malaria.Questo non significa che la malaria sia tornata in Italia, dunque non bisogna allarmarsi. Le zanzare in questione non erano parassitate dagli organismi unicellulari (per la precisione protozoi del genere Plasmodium) che causano la malattia, e inoltre erano poche. Per le autorità sanitarie è però importante prendere in considerazione i rischi legati alla presenza delle zanzare Anopheles. Nell’ultimo decennio in Italia sono stati segnalati centinaia di casi di malaria, quasi tutti relativi a persone che avevano viaggiato all’estero: se una zanzara Anopheles succhiasse il sangue di una persona infettata in questo modo, potrebbe poi diffondere la malattia. Dunque per prevenire un’eventuale reintroduzione della malaria le autorità sanitarie devono sorvegliare la presenza di queste zanzare, peraltro favorita dal cambiamento climatico.
    Nel 2022 l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha stimato che ci siano stati 249 milioni di infezioni da malaria, quasi sempre a causa delle zanzare che sono portatrici sane della malattia (e che sono solo alcune tra le numerose specie di zanzare esistenti). Se curato subito, un paziente riesce a guarire senza particolari problemi, ma la malaria può portare alla morte se non si riceve un’assistenza sanitaria adeguata: in Africa, dove si registra più del 90 per cento dei casi e delle morti per malaria, continua a succedere.

    – Leggi anche: A gennaio è iniziata la prima campagna di vaccinazione al mondo contro la malaria

    In Italia la malaria era una malattia endemica fino alla prima metà del Novecento: è di fatto scomparsa negli anni Cinquanta, dopo decenni di bonifiche, uso di insetticidi (principalmente il DDT, poi vietato per i danni che faceva) e progressi di vario genere nel miglioramento delle tecniche agricole e nel contrasto alla povertà.
    Delle specie di zanzare che sono in grado di trasmettere la malattia, l’Anopheles sacharovi non era stata rilevata in Puglia nell’ultima indagine sui vettori della malaria, fatta alla fine degli anni Sessanta. La ricerca condotta lo scorso anno in provincia di Lecce è stata decisa a causa del ritrovamento di una singola zanzara Anopheles nel settembre del 2022 e ha confermato che questi insetti sono tuttora presenti nella regione.
    Gli autori dello studio ritengono che le iniziative di contrasto alla malaria del secolo scorso abbiano grandemente ridotto la presenza di questa specie, ma che alcune popolazioni residue siano rimaste nelle aree rurali meno antropizzate. Pensano inoltre che di recente il loro numero potrebbe essere aumentato – fino a farcene accorgere – a causa del progressivo abbandono delle zone di campagna e dell’aumento di condizioni climatiche favorevoli.
    L’Anopheles sacharovi non è la sola specie di zanzara capace di trasmettere la malaria che sia stata trovata negli ultimi anni nel Sud Italia, in particolare lungo le zone costiere. Finora la loro presenza non ha causato particolari problemi perché, come nota lo studio pubblicato su Parasites & Vectors, la loro «densità non risulta sufficientemente rilevante, dal punto di vista epidemiologico, da costituire una minaccia per la salute». Vanno però tenute sotto controllo con ulteriori indagini, anche in altre regioni del Sud.

    – Leggi anche: Come l’Italia si liberò dalla malaria, raccontato da Antonio Pascale LEGGI TUTTO

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    Weekly Beasts

    Nei giorni scorsi decine di globicefali sono stati trovati spiaggiati sulle coste dell’Australia occidentale, come mostra una delle foto di questa raccolta: con l’aiuto di ufficiali della marina e volontari, più di cento individui sono stati salvati e sono riusciti a tornare nell’oceano (circa trenta sono morti sulla spiaggia). Tra gli animali della settimana c’erano bovini ungheresi arrivati nelle praterie del Parco Nazionale di Hortobagy per il pascolo estivo, due leoni africani durante l’accoppiamento, un falco pescatore in azione, e corgi alla presentazione di una statua della regina Elisabetta II. LEGGI TUTTO

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    Il buco dell’ozono potrebbe essere ancora un problema per gli animali dell’Antartide

    Caricamento playerDa tempo ormai lo strato di ozono che avvolge la Terra ed era stato gravemente ridotto dall’inquinamento atmosferico si sta riformando: si stima che si ripristinerà completamente entro la fine di questo secolo. Tuttavia al di sopra dell’Antartide, dove si era rarefatto di più, il cosiddetto “buco” continua a svilupparsi periodicamente ogni anno, raggiungendo la sua estensione maggiore tra settembre e ottobre. Negli ultimi quattro anni, spiega un articolo scientifico pubblicato sulla rivista Global Change Biology, è stato particolarmente persistente, rimanendo fino a dicembre. È un fenomeno che preoccupa gli scienziati per i danni che potrebbe fare agli animali antartici.
    Lo strato atmosferico di ozono infatti filtra i raggi ultravioletti dannosi del Sole. In quantità eccessive, questi raggi possono causare seri problemi di salute, tra cui un aumentato rischio di sviluppare alcuni tipi di tumori cutanei e malattie degli occhi come la cataratta, agli esseri umani e alle altre specie animali, oltre che danni ai vegetali. Tra settembre e ottobre in Antartide è ancora inverno e la maggior parte delle specie viventi del continente sono protette dalla neve o dal ghiaccio marino. A dicembre invece inizia l’estate australe e dunque gli animali e le (poche) piante presenti in Antartide subiscono una maggiore esposizione ai raggi ultravioletti.
    Il buco nell’ozono sull’Antartide venne scoperto nel 1985 da un gruppo di ricercatori guidato dal fisico Joe Farman. Il 16 maggio di quell’anno sulla rivista Nature fu pubblicato l’articoli che lo fece conoscere al mondo: è considerato uno dei più influenti del secolo scorso, visto ciò che ne derivò. Due anni dopo una conferenza internazionale vietò i clorofluorocarburi (CFC), i gas responsabili del danneggiamento della fascia di ozono e contenuti nei frigoriferi del passato tra le altre cose. Adesso, quasi quarant’anni dopo, la fascia di ozono si sta lentamente ricostituendo. Quello causato dall’articolo di Farman fu uno dei pochi eventi nella storia recente in cui i leader mondiali riuscirono a prendere una decisione comune per il bene della Terra e ad agire di conseguenza.
    Le temperature particolarmente basse creano le condizioni ideali per generare la reazione chimica in grado di dissolvere l’ozono ed è per questo che ancora oggi i principali buchi dell’ozono (ce n’erano in realtà diversi) rimangono quello sull’Antartide e quello sull’Artico. Nonostante la messa al bando dei CFC continuano a esserci altri fattori che contribuiscono a ridurre la quantità di ozono nell’atmosfera. Ad esempio, si pensa che il fumo prodotto dai grandi incendi boschivi che ci sono stati in Australia tra il 2019 e il 2020 abbia avuto un ruolo nell’aumento della durata del buco sull’Antartide: le particelle disperse nell’atmosfera dagli incendi causano reazioni chimiche con effetto analogo a quelle dovute ai CFC.
    Non sappiamo ancora molto degli effetti di questa persistenza del buco dell’ozono sulla salute degli animali antartici perché la questione non è ancora stata studiata in modo approfondito, ma il nuovo articolo, firmato dalla biologa esperta di cambiamento climatico Sharon Robinson e da altri ricercatori, hanno messo insieme quello che sappiamo.
    Sono stati fatti degli studi ad esempio sulla capacità dei muschi antartici di produrre delle sostanze chimiche che li proteggono dagli effetti negativi degli ultravioletti. È una cosa rassicurante per l’ecosistema del continente, ma significa anche che dovendo usare parte della loro energia per produrre queste sostanze i muschi ne impiegano meno per crescere.
    È anche stato osservato che il cosiddetto “krill”, cioè i piccoli crostacei che vivono nell’oceano in gran numero e rappresentano la base della catena alimentare dell’Antartide, si sposta a maggiori profondità per evitare i raggi ultravioletti. Questa migrazione potrebbe danneggiare tutti gli animali che mangiano il krill, e in particolare le foche, i pinguini e gli altri uccelli marini che hanno bisogno di tornare in superficie per respirare. Ciò che vale per i muschi terrestri peraltro vale anche per il fitoplancton, le alghe microscopiche di cui si nutre il krill, ragione per cui pure la crescita dei piccoli crostacei e di tutti gli animali che li mangiano potrebbe essere influenzata dal buco dell’ozono.
    Per quanto riguarda i rischi per la pelle, è probabile che le pellicce e le penne che ricoprono i mammiferi e gli uccelli antartici siano una protezione efficace dagli ultravioletti. Può darsi che invece i problemi agli occhi siano più probabili.

    – Leggi anche: Nove mesi isolata in Antartide LEGGI TUTTO

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    La FAO ha distorto degli studi sull’importanza di ridurre il consumo di carne?

    Caricamento playerDue scienziati hanno accusato l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura (FAO) di aver distorto i risultati di due studi a cui hanno lavorato, e di averne usato un terzo in modo inappropriato, per sminuire quanto i cambiamenti nell’alimentazione delle persone possano ridurre le emissioni di gas serra globali. Più specificamente, sostengono che la FAO abbia sottostimato quanto diminuire il consumo di carne potrebbe contribuire a contrastare gli effetti del cambiamento climatico.
    Paul Behrens, un professore associato dell’Università di Leida, nei Paesi Bassi, e Matthew Hayek, un ricercatore della New York University, sono due fisici che studiano l’impatto di varie attività umane sull’ambiente. E sono entrambi tra gli autori degli studi scientifici citati dalla FAO in un rapporto sulle emissioni causate dall’allevamento per la produzione di carne e latte che è stato presentato all’ultima conferenza dell’ONU sul clima, la COP28 di Dubai. In una lettera del 9 aprile hanno chiesto all’organizzazione di ritirare il rapporto e correggerlo «selezionando le fonti in modo più appropriato e rettificando gli errori metodologici».
    L’allevamento su larga scala è una delle attività che più contribuiscono alle emissioni di gas serra. Secondo le stime dell’Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC) dell’ONU, il principale organismo scientifico internazionale per la valutazione dei cambiamenti climatici, tra il 2010 e il 2019 il settore agricolo, insieme a quello della gestione forestale, è stato responsabile del 21 per cento delle emissioni globali di gas serra. Di questo contributo, più di un quinto è dovuto ai rutti e alle flatulenze dei bovini, che contengono metano, un potente gas serra. Circa la metà invece è riconducibile ai cambiamenti nell’uso del suolo, come la deforestazione, che viene praticata in molte parti del mondo – prevalentemente Sud America, Africa e Asia – per ospitare nuovi pascoli per il bestiame e coltivare vegetali per nutrirlo.

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    Il rapporto della FAO dice che introducendo dei miglioramenti nelle tecniche di allevamento e riducendo gli sprechi alimentari si potranno ridurre «significativamente» le emissioni dovute all’allevamento. E questo anche aumentando la produzione di alimenti di derivazione animale nei prossimi 25 anni, come si prevede che sarà necessario per rispondere alla crescita della domanda di carne e latticini – del 20 per cento rispetto al 2020, a livello globale (un aumento in linea con quello della popolazione mondiale).
    Il rapporto dice anche che la riduzione delle emissioni di gas serra legate all’agricoltura che si otterrebbe se le persone adottassero le diete consigliate dalle autorità statali, che generalmente nei paesi più ricchi raccomandano di ridurre il consumo di carne, sarebbe solo del 2-5 per cento.
    Secondo Behrens e Hayek però quest’ultima valutazione è scorretta e rischia di «dare una falsa impressione che la potenziale mitigazione delle emissioni attraverso il consumo ridotto di carne sia limitata, e che quindi l’aumento del bestiame dovrebbe essere la priorità».
    Lo studio su cui la FAO basa la stima del 2-5 per cento risale al 2017 e Behrens ne è il primo autore. Insieme a un gruppo di colleghi fece una stima di quale sarebbe stato l’impatto sulle emissioni di gas serra globali se in 37 diversi paesi del mondo (Italia compresa) la popolazione avesse cambiato la propria dieta in modo da seguire le raccomandazioni delle autorità nazionali.
    Lo studio arrivava alla conclusione che un cambiamento in tal senso nei paesi più ricchi avrebbe portato a una riduzione delle loro emissioni compresa tra il 13 e il 24,8 per cento. Per i paesi con un reddito medio intermedio lo studio aveva trovato invece una diminuzione minore, tra lo 0,8 e il 12,2 per cento, mentre per quelli più poveri aveva stimato un aumento delle emissioni di gas serra (del 12,4-17 per cento): questi ultimi sono paesi in cui buona parte della popolazione ha alimentazioni carenti sotto vari aspetti, e un miglioramento delle diete dal punto di vista della salute richiederebbe maggiori consumi alimentari.
    La prima ragione per cui Behrens e Hayek dicono che la FAO ha usato male questi dati è che dal 2017 molti paesi (tra cui la popolosa Cina) hanno modificato le proprie raccomandazioni sulla dieta, riducendo notevolmente la quantità di carne consigliata. Quindi lo stesso studio, se rifatto oggi, darebbe dei risultati diversi: è ormai datato.
    Ma non sarebbe l’unico errore, per i due scienziati. Secondo loro il rapporto della FAO «sottostima sistematicamente» il potenziale della riduzione dei consumi di carne in termini di riduzione delle emissioni attraverso una «serie di errori metodologici» elencati nel dettaglio nella loro lettera. Un altro riguarderebbe uno studio del 2021 a cui Hayek aveva partecipato, da cui il rapporto della FAO ha estratto una stima delle emissioni globali legate al settore alimentare. Secondo i due scienziati, il confronto tra questo dato e quelli dello studio del 2017 è stato fatto in modo scorretto nel rapporto e ha avuto come risultato una significativa sottostima della potenziale mitigazione del cambiamento climatico ottenibile con una riduzione del consumo di carne.
    Parlando con il Guardian, il primo giornale che si è occupato della questione, Hayek non ha detto che secondo lui gli errori non sono stati intenzionali, ma ha sottolineato che nessuno di quelli che lui e Behrens hanno individuato porti argomenti a favore di una riduzione del consumo di carne per il clima. Il Guardian, che si occupa spesso ed estesamente di clima e problemi ambientali, ha ricordato che la FAO, oltre a essere un’importante fonte di dati sul settore agricolo e uno degli enti i cui rapporti sono usati dall’IPCC e da altre organizzazioni delle Nazioni Unite, è anche un ente che ha l’obiettivo di aumentare la sicurezza alimentare nel mondo e dunque la produzione di cibo: per questo si potrebbe dire che abbia un conflitto di interessi.
    Behrens e Hayek hanno contestato lo studio della FAO anche perché avrebbe basato le proprie conclusioni sui possibili effetti di una riduzione del consumo di carne quasi unicamente sullo studio del 2017, mentre generalmente in ambito scientifico si considerano tutti quelli a disposizione, ben fatti e pertinenti. Tra le altre possibili ricerche sul tema non ha preso in considerazione il grande rapporto realizzato nel 2019 dalla ong EAT assieme all’autorevole rivista scientifica Lancet per suggerire come migliorare la salute delle persone e aumentare la sostenibilità della produzione di cibo. Il rapporto EAT-Lancet dice che la versione ottimale della «dieta della salute planetaria» prevede di non consumare affatto carne rossa, a patto di ricavare la giusta quantità di proteine da altre fonti.
    Un portavoce della FAO ha replicato alle contestazioni di Behrens e Hayek al Guardian:
    Come organizzazione che basa il proprio lavoro sulla scienza la FAO si impegna pienamente ad assicurare l’accuratezza e l’integrità delle proprie pubblicazioni scientifiche, specialmente viste le loro significative implicazioni per la politica e per la comprensione del pubblico. Il rapporto in questione è stato sottoposto a un rigoroso processo di revisione, condotto sia internamente che esternamente seguendo il metodo della revisione tra pari (peer review) in doppio cieco per garantire che la ricerca soddisfacesse i più alti standard di qualità e accuratezza, e che i potenziali pregiudizi fossero ridotti al minimo. La FAO indagherà sui punti sollevati dagli studiosi e si confronterà con loro sul piano tecnico. LEGGI TUTTO