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    Che cosa sappiamo sulla “misteriosa” malattia in Congo

    Nella provincia di Kwango, nella parte occidentale della Repubblica Democratica del Congo al confine con l’Angola, dalla fine di ottobre sono state segnalate decine di morti a causa di una malattia non ancora identificata. L’area dove è avvenuto il contagio è remota e le notizie sono per il momento scarse, come ha spiegato l’Organizzazione mondiale della sanità (OMS). Nonostante la mancanza di dettagli, negli ultimi giorni sono stati pubblicati articoli con toni allarmati e si è creata una certa confusione intorno a una malattia definita “misteriosa” o causata dal “virus del Congo”, anche se al momento non si sa né se sia causata da un virus né se questo abbia avuto origine nel paese.Lo scorso 29 novembre, il ministero della Salute congolese aveva avvisato l’OMS segnalando un aumento anomalo di morti causate da una malattia non diagnosticata nell’area di Panzi, nella provincia di Kwango. Secondo il bollettino più recente, tra il 24 ottobre e il 5 dicembre i casi di contagio sono stati circa 400 e sono state registrate 31 morti. Nei giorni seguenti sono circolate notizie su ulteriori decessi con stime che variano tra 70 e 140 morti, ma non è stato ancora possibile avere conferme ufficiali.
    Circa il 70 per cento delle persone morte aveva meno di 17 anni e tutti i casi più gravi avevano seri problemi di malnutrizione. Le condizioni di vita nell’area rurale interessata sono infatti peggiorate negli ultimi mesi, con minore disponibilità di cibo e quasi totale assenza di assistenza sanitaria. Le cause sono riconducibili all’estrema povertà e alla stagione delle piogge, che ha complicato le possibilità di accesso nell’area. Da Kinshasa, la capitale del Congo, sono necessari quasi due giorni di viaggio su strade e piste maltenute per raggiungere la zona.

    I sintomi più ricorrenti segnalati finora sono febbre, tosse, spossatezza e naso che cola. In alcune persone la malattia evolve con lo sviluppo di complicazioni respiratorie, anemia e forte inappetenza. I sintomi sono compatibili con una grande quantità di malattie già note e presenti nella zona, dunque i casi più gravi potrebbero essere conseguenza di malattie diverse tra loro. Come spiega l’OMS:
    Sulla base dell’attuale contesto nell’area interessata e dell’ampio spettro di sintomi, una certa quantità di malattie sospette deve essere esclusa attraverso ulteriori approfondimenti e analisi di laboratorio. Sono prese in considerazione, tra le altre: morbillo, influenza, polmonite acuta, malattia renale da infezione da Escherichia coli, COVID-19 e malaria.
    In particolare la malaria è solitamente diffusa nella zona e le piogge potrebbero avere contribuito a un aumento della popolazione di zanzare che trasmettono i parassiti che causano la malattia. L’unico modo per capirlo è attraverso la raccolta di campioni tra le persone contagiate e la loro analisi in laboratorio, cosa che si sta però rivelando difficoltosa perché nell’area non ci sono strutture per effettuare i test. Le analisi di alcuni campioni trasportati a Kinshasa sono ancora in corso e nel fine settimana non sono state comunicate molte informazioni dalle autorità sanitarie.
    Un “gruppo di risposta rapido” (RRT da “rapid response team”) è attivo nella zona da fine novembre e sabato 7 dicembre si è aggiunto un ulteriore gruppo di lavoro, che comprende alcuni esperti dell’OMS, per indagare i casi segnalati nel territorio e offrire maggiori trattamenti sanitari. Le attività prevedono anche l’impiego di test rapidi per COVID-19 e malaria, in modo da escludere i casi di malattie già note e concentrarsi nella raccolta di campioni da persone senza una diagnosi chiara.
    L’OMS ritiene che il rischio sanitario per la popolazione locale sia alto, mentre per ora è moderato per il resto del Congo e basso per l’estero. I trasferimenti di persone dalla zona in cui sono stati riscontrati i casi sono rari e le poche strade disponibili possono essere tenute sotto controllo, secondo le autorità locali. La valutazione del rischio potrebbe comunque cambiare nei prossimi giorni, man mano che diventeranno più chiare le cause e l’estensione del problema.
    Alla fine della scorsa settimana alcuni paesi, compresa l’Italia, hanno annunciato di avere intensificato i controlli negli aeroporti e negli altri punti di ingresso al nostro paese, per chi proviene dal Congo. Al momento non ci sono comunque elementi per ritenere che il rischio sia aumentato, come del resto chiarito dall’OMS nel suo bollettino.
    Tra domenica e lunedì si è parlato molto sui giornali, anche in questo caso con qualche allarmismo, di una persona proveniente dal Congo che era stata ricoverata in ospedale a Lucca con sintomi simili a quelli di un’influenza lo scorso 22 novembre e dimessa una decina di giorni dopo, una volta guarita. Come da prassi e per precauzione, l’ospedale ha informato l’Istituto Superiore di Sanità e saranno effettuate ulteriori verifiche sui campioni prelevati da quel paziente. Non ci sono comunque elementi per ritenere un collegamento con i casi rilevati in Congo, anche perché la persona interessata aveva lavorato nel paese a diverse centinaia di chilometri di distanza dalla zona in cui sono stati finora rilevati i casi. LEGGI TUTTO

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    Weekly Beasts

    Una centrale elettrica ad Apollo Beach, in Florida, ha costruito un centro di osservazione di lamantini sfruttando l’interesse di questi mammiferi marini per l’acqua calda scaricata dalla centrale. In inverno, infatti, le acque del Golfo del Messico sono troppo fredde per i lamantini, e alcuni si rifugiano nella baia di Tampa, dove la centrale riversa l’acqua calda utilizzata per raffreddare gli impianti: nella nostra raccolta settimanale di animali c’è proprio la fotografia di una femmina di lamantino e del suo cucciolo mentre emergono dalle acque della baia. Poi ci sono uccelli di ogni sorta, un giaguaro, e una tartaruga di Kemp, ma anche ippopotami e panda. Per finire: due suricati e una farfalla monarca. LEGGI TUTTO

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    Pando, l’albero più grande di tutti

    Caricamento playerUn paio di anni fa il fumettista Randall Munroe propose nel suo apprezzato fumetto online xkcd di realizzare il più grande albero di Natale di sempre, utilizzando quasi 3 chilometri di lucine colorate. Munroe non aveva in mente di disporle intorno a un gigantesco abete immaginario, ma tra i rami di un concretissimo e sterminato pioppo tremulo: Pando, il più grande di tutti.
    Pando vive da migliaia di anni (le stime variano molto) su un pianoro a 2.700 metri nelle vicinanze del Fish Lake, un lago che si trova 250 chilometri a sud di Salt Lake City, la capitale dello Utah, negli Stati Uniti. A prima vista sembra una piccola foresta, come ce ne sono tante, ma è in realtà una “colonia clonale”: ogni albero è geneticamente identico all’altro e fa parte di un unico sistema diffuso che copre un’area di 0,4 chilometri quadrati, più o meno quanto la Città del Vaticano. Si ritiene che abbia una massa di 6mila tonnellate e che sia quindi l’organismo vivente più pesante conosciuto, nonché probabilmente uno dei più vecchi.
    I botanici statunitensi Jerry Kemperman e Burton V. Barnes si accorsero di Pando tra la fine degli anni Sessanta e i primi Settanta, ma il nome fu scelto nel 1992 da un gruppo di ricerca che si era interessato agli studi effettuati precedentemente nella zona. Si decise di chiamare l’albero “Pando” dal verbo latino “pandĕre”, che tra i suoi vari significati ha quelli di “estendersi” ed “espandersi”. Il nome, semplice e orecchiabile, avrebbe contribuito alla fama della pianta, e sarebbe stato usato in seguito in libri, film e perfino per dare il nome a un microprocessore.
    Come altre piante, i pioppi tremuli (Populus tremuloides) hanno la capacità di riprodursi sia in maniera sessuata sia asessuata, con la produzione di cloni. Di solito se le condizioni ambientali non sono molto favorevoli, prevale la riproduzione sessuata perché aumenta la probabilità che la pianta possa stabilirsi altrove e sopravvivere meglio. Ovviamente una pianta non si sposta, ma può fare in modo che il polline dei suoi fiori raggiunga altre piante e le fecondi. Il fiore produce dei frutti e i semi al loro interno possono poi essere trasportati a grandi distanze, sempre dal vento o da qualche uccello, germinando dove le condizioni sono più favorevoli.
    Evidenziata in verde, l’area occupata da Pando (Wikimedia)
    Probabilmente fu in questo modo che migliaia di anni fa Pando raggiunse la zona vicina a Lake Fish dove vive ormai stabilmente. Le condizioni ambientali molto favorevoli fecero sì che dopo qualche anno Pando iniziasse a riprodursi per via asessuata, che richiede un diverso dispendio di energie e permette di continuare a crescere dove ci sono le risorse per farlo.
    I pioppi tremuli hanno un sistema di radici molto esteso che si diffonde sottoterra e dalle quali possono poi emergere nuovi tronchi, che hanno quindi lo stesso materiale genetico della pianta originaria. Queste piante sono “ramet”, unità che hanno la capacità di svilupparsi e continuare poi a vivere con un certo grado di autonomia.
    In media ogni ramet vive per circa 130 anni, poi muore e cade al suolo, dove si decompone e restituisce importanti nutrienti, che saranno usati dalla pianta per la sua crescita. Questo significa che non si possono contare gli anelli nella sezione di un tronco per stabilire l’età complessiva di Pando, come si fa con altri alberi. Occorrono ricerche più elaborate e da diverso tempo i gruppi di ricerca fanno studi e ipotesi su quale possa essere l’età effettiva di questo grande sistema vegetale integrato. Oltre a essere probabilmente l’organismo vivente più pesante conosciuto, è anche il più vecchio?
    Per rispondere a questa domanda di recente un gruppo di ricerca ha raccolto una grande quantità di campioni ottenuti dalle radici, dalla corteccia, dai rami e dalle foglie di Pando. Ne ha poi analizzato il materiale genetico e lo ha confrontato con quelli di altri pioppi tremuli che vivono altrove. In questo modo hanno ottenuto il genoma (pressoché tutto il DNA che troviamo all’interno di una cellula) delle piante e lo hanno studiato, sviluppando un modello che sulla base dei tempi di evoluzione dei pioppi può dare qualche indizio sull’età di Pando.
    Pando e, sullo sfondo, Fish Lake (Wikimedia)
    La ricerca, che deve essere ancora sottoposta a una revisione per essere pubblicata, è stata accolta con interesse perché è una delle più complete tra quelle svolte sulla questione. Ha stimato che Pando abbia almeno 16mila anni, ma che potrebbe essere ancora più antico con un’età di 80mila anni. Questa seconda possibilità è molto dibattuta perché così indietro nel tempo la zona di Fish Lake era periodicamente ricoperta da ghiacciai e difficilmente un pioppo tremulo sarebbe sopravvissuto a quelle rigide temperature.
    Lo studio in compenso ha contribuito a offrire qualche nuovo indizio sul perché Pando si sia clonato così tante volte, rendendo marginale la riproduzione sessuata. La pianta è “triploide”, cioè le sue cellule contengono tre copie di ogni cromosoma, invece di due come avviene di solito. Pando ha perso la capacità di riprodursi per via sessuata, mescolando il proprio materiale con piante geneticamente diverse, e di conseguenza prosegue col clonarsi. I nuovi tronchi hanno comunque talvolta qualche mutazione, derivante da errori casuali che si possono verificare quando le cellule producono nuove copie di sé stesse. Il gruppo di ricerca ha identificato quasi 4mila varianti, che probabilmente hanno contribuito a mantenere in salute la pianta, riducendo i rischi di subire danni dai parassiti per esempio.
    Pando rientra in un’area protetta, ma le conoscenze su grandi colonie clonali di questo tipo sono ancora limitate ed è difficile stabilire il loro grado di salute. Negli ultimi anni sono stati analizzati alcuni fattori che potrebbero incidere negativamente come la siccità, la pratica di estinguere gli incendi naturali (che hanno un ruolo importante nella rigenerazione del suolo) e la presenza di animali che pascolano nei dintorni. La longevità di Pando indica che la pianta sopravvisse senza problemi a diversi periodi in cui il clima nella zona era molto diverso dall’attuale, per esempio, o rigenerandosi dopo grandi incendi. Lo United States Forest Service e alcune associazioni collaborano comunque per tenere sotto controllo l’albero più grande di tutti per le generazioni future. LEGGI TUTTO

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    Alcune orche usano i salmoni morti come cappellini

    Caricamento playerNello stretto di Puget, una lunga insenatura nel nord-ovest Pacifico, nello Stato di Washington, è stata osservata un’orca che nuotava tenendo in equilibrio sulla testa un salmone morto. Il particolare comportamento era già stato notato in passato, tanto che la pratica è nota come quella del “cappellino di salmone morto”, ma sembrava essere passata di moda tra le orche che frequentano la costa occidentale degli Stati Uniti. Perché lo facciano è ancora oggi un mistero.
    I primi casi di cappellini di salmone erano stati segnalati negli anni Ottanta: un’orca aveva iniziato a farlo e altre, forse per imitazione, si erano messe a fare altrettanto. Il comportamento era stato osservato non solo tra orche appartenenti allo stesso gruppo, ma anche tra individui di gruppi diversi, a conferma di una certa diffusione della moda. A un certo punto le orche avevano smesso di farlo e non si erano più visti cappellini di salmone morto nelle acque dell’oceano Pacifico.
    Alcune settimane fa l’organizzazione Orca Network, che si occupa di fare divulgazione su questi animali, ha però pubblicato nella propria newsletter la fotografia di un’orca che nuotava con un pesce sulla propria testa. La fotografia è stata ripresa molto sui social network ed è finita su diverse televisioni e giornali statunitensi, portando a una nuova attenzione per il particolare fenomeno. Un solo avvistamento (ce n’è stato un secondo da confermare) non è però sufficiente per dichiarare il ritorno di una moda e il comportamento dell’orca nello stretto di Puget potrebbe rimanere un caso isolato.

    Ci sono molti appassionati di orche e tour organizzati per avvistarle nello stretto, quindi se i cappellini fossero di nuovo molto diffusi a quest’ora sarebbero circolate altre fotografie. In mancanza di nuove immagini è quindi difficile fare ipotesi e soprattutto studiare meglio il comportamento, come vorrebbero fare i gruppi di ricerca. Negli anni sono circolate varie teorie, ma nessuna è ancora soddisfacente.
    Secondo alcuni esperti, i cappellini potrebbero essere un modo per conservare uno spuntino da consumare in un secondo momento, soprattutto nei momenti in cui c’è una grande quantità di pesce a disposizione da cacciare. Le orche sono note per conservare il cibo per qualche tempo, per esempio pizzicandolo con una delle loro pinne. I salmoni potrebbero essere troppo piccoli e sfuggenti per conservarli in quel modo e quindi un’orca più creativa delle altre avrebbe iniziato a tenerli sulla testa.
    È inoltre noto che le orche si tengono molto d’occhio l’una con l’altra e tendono a imitarsi, adottando comportamenti che hanno notato in altri individui. Sono di solito abitudini temporanee, che tendono a sparire con la crescita, il cambiamento delle condizioni ambientali e altre variabili. LEGGI TUTTO

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    Il nuovo capo della NASA è più ricco, più giovane e cammina nello Spazio

    Caricamento playerMentre lo scorso settembre osservava la Terra dal punto più distante mai raggiunto da un essere umano dai tempi delle missioni lunari Apollo, Jared Isaacman disse che «laggiù abbiamo molto lavoro da fare. Ma da quassù, la Terra sembra davvero un mondo perfetto». Ora che Isaacman è tornato sul nostro pianeta, le cose da fare certamente non gli mancheranno. Nel tardo pomeriggio di mercoledì, infatti, il presidente eletto Donald Trump lo ha scelto come prossimo amministratore della NASA, raccogliendo insolitamente un assenso trasversale tra Repubblicani e Democratici.
    Se come probabile la sua nomina sarà confermata dal Senato degli Stati Uniti, Isaacman diventerà il più giovane e il più ricco capo della NASA nell’intera storia dell’agenzia spaziale statunitense. Succederà a Bill Nelson, ex astronauta e politico di lungo corso nominato per quell’incarico nel 2021 dal presidente ora uscente Joe Biden. Nelson ha 82 anni, il doppio di Isaacman, e ha un patrimonio non comparabile con quello del suo successore, che è stimato intorno agli 1,7 miliardi di dollari.
    Nelson e Isaacman hanno comunque qualcosa in comune: entrambi hanno partecipato a missioni spaziali. Nelson sullo Space Shuttle nel 1986, Isaacman – che all’epoca stava per compiere tre anni – ha invece partecipato a due missioni, entrambe gestite interamente da privati e senza un diretto coinvolgimento della NASA. Nel farlo ha stretto rapporti con Elon Musk, il capo di SpaceX, che ha fortemente sostenuto la candidatura di Trump e sarà coinvolto nella sua prossima amministrazione.
    La vicinanza di Isaacman a Musk ha con molta probabilità influito sulla scelta di Trump e pone non pochi problemi di conflitto d’interessi, ma la nomina è stata comunque accolta positivamente dalla maggior parte dei commentatori e da chi ha gestito in passato la NASA. Isaacman nel corso della campagna elettorale non si era del resto esposto particolarmente, mostrando di essere interessato alle esplorazioni spaziali e a nient’altro.
    Elon Musk e Donald Trump durante il lancio sperimentale di Starship a Boca Chica, Texas, il 19 novembre 2024 (Brandon Bell/Pool via AP)
    Isaacman deve buona parte della propria ricchezza a un’intuizione che ebbe nel 1999, quando aveva 16 anni. Appassionato di informatica, mise insieme un sistema per la gestione dei pagamenti online, che in pochi anni divenne tra i più utilizzati negli Stati Uniti con centinaia di milioni di dollari di ricavi ogni anno. La società, che oggi si chiama Shift4 Payments, è ancora attiva e ha sempre Isaacman come amministratore delegato. Con parte dei ricavi della sua azienda, nel 2012 Isaacman partecipò alla fondazione di Draken International, una società che si occupa di fornire corsi di formazione per i piloti dell’aeronautica militare.
    Lo stesso Isaacman è pilota, attività che da più giovane pensava lo avrebbe avvicinato alla possibilità, un giorno, di fare l’astronauta. E quel giorno arrivò nel 2021 con la missione spaziale privata Inspiration4, finanziata in buona parte con i suoi soldi e gestita da SpaceX. A settembre di quest’anno, Isaacman era tornato nello Spazio effettuando la prima “passeggiata spaziale” (attività extraveicolare) interamente gestita dai privati, sempre in collaborazione con SpaceX.
    Isaacman è un forte sostenitore dei processi che stanno portando alla privatizzazione del settore spaziale. In tempi recenti ha criticato le scelte della NASA per il programma lunare Artemis, soprattutto per quanto riguarda il costoso sistema di trasporto per gli astronauti verso la Luna (il grande razzo SLS e la capsula Orion) e la decisione di avere due sistemi alternativi per compiere l’allunaggio, con un aumento dei contratti e dei costi. SpaceX ha ricevuto l’incarico di svilupparlo adattando la sua enorme astronave Starship, con un contratto da 4 miliardi di dollari, e anche Blue Origin di Jeff Bezos (il fondatore di Amazon) ha un contratto da 3,4 miliardi di dollari per fare altrettanto.
    Jared Isaacman durante la sua attività extraveicolare, il 12 settembre 2024 (SpaceX)
    Da amministratore della NASA, Isaacman dovrà decidere come riorganizzare Artemis, ormai in ritardo e con la possibilità che gli Stati Uniti vengano battuti sul tempo dalla Cina per il ritorno sulla Luna con esseri umani. Nel farlo dovrà amministrare un bilancio di circa 25 miliardi di dollari, che tiene insieme tantissime cose: dall’esplorazione con sonde del Sistema solare ai satelliti intorno alla Terra per le osservazioni scientifiche, passando per gli ancora poco chiari piani per raggiungere Marte con gli astronauti, la principale fissazione di Elon Musk.
    Senza SpaceX ed Elon Musk, Isaacman difficilmente avrebbe raggiunto lo Spazio, ma gli stretti rapporti con l’azienda e i potenziali conflitti d’interessi non sembrano essere al momento una grande preoccupazione. Lori Garver, ex viceamministratrice della NASA durante la presidenza di Barack Obama, ha definito «una notizia fantastica» la nomina, mentre l’ex amministratore della NASA Jim Bridenstine (scelto per quel ruolo da Trump durante il suo primo mandato) ha invitato il Senato ad approvare velocemente la scelta perché Isaacman è «la persona giusta per guidare la NASA in una nuova ambiziosa era di scoperte ed esplorazioni».
    Isaacman aveva in programma di effettuare altri viaggi nello Spazio, ma dovrà probabilmente rivedere i propri piani. Ripensare quelli della NASA sarà comunque più complicato, soprattutto nel caso di tagli di alcuni progetti che potrebbero influire sul grande indotto del settore spaziale negli Stati Uniti che impiega centinaia di migliaia di persone. Anche per questo l’amministratore uscente Bill Nelson aveva mantenuto un approccio cauto, che però secondo i più critici aveva portato a un certo immobilismo per non assumersi troppi rischi.
    Isaacman ha un modo un po’ diverso di valutare il rischio, come ha dimostrato lo scorso settembre uscendo da una capsula in orbita con una tuta spaziale mai sperimentata prima. La ricerca di altri primati sarà il suo principale obiettivo da amministratore della NASA, almeno nelle sue intenzioni: «Ispireremo i bambini, i vostri e i miei, a guardare in alto e a sognare che cosa si possa fare. Gli statunitensi cammineranno sulla Luna e su Marte e, nel farlo, miglioreremo la vita qui sulla Terra». LEGGI TUTTO

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    La grande base nucleare riscoperta sotto ai ghiacci della Groenlandia

    Caricamento playerDurante una ricognizione in Groenlandia, un aereo della NASA ha identificato per caso le tracce di “Camp Century”, una vecchia base militare costruita tra i ghiacci dall’esercito degli Stati Uniti ai tempi della Guerra Fredda. La base è abbandonata da quasi 60 anni, ma i veri scopi della sua costruzione sono diventati noti solo nella seconda metà degli anni Novanta, quando furono desecretati alcuni documenti su un più ampio progetto statunitense per installare migliaia di missili in Groenlandia, per rispondere a un eventuale attacco nucleare da parte dell’Unione Sovietica.
    Camp Century è ormai sepolta sotto la neve e il ghiaccio e non può essere osservata a occhio nudo sorvolando la zona. La NASA ne ha rilevato la presenza grazie a un particolare radar sperimentale (Uninhabited Aerial Vehicle Synthetic Aperture Radar, UAVSAR), che può essere utilizzato per ricostruire una versione tridimensionale degli strati più profondi dei ghiacci, in modo da studiarne le caratteristiche e l’andamento. I tecnici che stavano facendo la ricognizione hanno notato una strana discontinuità nella stratificazione dei ghiacci e si sono infine accorti che quello che avevano rilevato è ciò che resta di Camp Century, rilevata in precedenza con altri mezzi.
    L’idea di costruire una base in un’area della Groenlandia dove si raggiungono facilmente i -30 °C era stata valutata a partire dalla metà degli anni Cinquanta dagli Stati Uniti, interessati a realizzare un’ulteriore linea di difesa nei confronti dell’Unione Sovietica. C’era il timore che, nel caso di un attacco nucleare sovietico a sorpresa contro le principali basi di lancio di missili statunitensi, gli Stati Uniti fossero privati della loro capacità di rispondere efficacemente. Da queste valutazioni era nato “Project Iceworm”, un piano per costruire una rete sotterranea di basi di lancio in Groenlandia. I missili con le testate nucleari sarebbero partiti dal sottosuolo, avrebbero rotto lo spesso strato di ghiaccio e infine avrebbero raggiunto gli obiettivi sovietici.
    Camp Century era nata con lo scopo di verificare su piccola scala la fattibilità di un progetto di questo tipo, sperimentando nuove tecniche costruttive tra i ghiacci e perfino la possibilità di installare una piccola centrale nucleare per fornire l’energia elettrica necessaria alla base. Il progetto di per sé non fu tenuto segreto, ma fu promosso come un’iniziativa per lo più scientifica per valutare la possibilità di costruire basi di ricerca nell’Artico. Solo nel 1996, con la desecretazione di alcuni documenti, si ebbero le conferme sugli scopi più ampi e di natura bellica di Project Iceworm e di conseguenza di Camp Century.
    Benché sia dall’altra parte dell’oceano Atlantico, la Groenlandia fa parte dei territori controllati dalla Danimarca, e per questo alla fine degli anni Cinquanta il governo degli Stati Uniti avviò alcuni contatti con quello danese per avvisarlo del progetto. Si disse che l’iniziativa sarebbe stata svolta nell’ambito delle attività della NATO, l’alleanza militare dei paesi occidentali, e di fatto le ricognizioni e la costruzione della base iniziarono senza che ci fosse un permesso esplicito da parte del governo danese.

    Dopo le prime ricognizioni, fu trovata un’area pianeggiante a quasi 250 chilometri da Qaanaaq (all’epoca nota come Thule), una delle città abitate più a nord del mondo, ben al di sopra del Circolo polare artico e a circa 1.300 chilometri dal Polo Nord. La costruzione iniziò nel 1959, con il materiale che veniva trasportato via nave fino a Qaanaaq e da lì su grandi slitte collegate tra loro e trainate da mezzi cingolati. Con le loro decine di tonnellate impiegavano quasi 70 ore per arrivare a destinazione, mentre il trasporto del personale avveniva su mezzi più piccoli e leggeri, e richiedeva circa mezza giornata di viaggio.
    Uno dei convogli per il trasporto del materiale (US Army)
    Camp Century era stata pensata come una classica base militare con una via centrale e le baracche costruite perpendicolarmente lungo i suoi lati, ma in profondità nel ghiaccio. Mezzi per romperlo e rimuoverlo (frese da neve) furono impiegati per scavare grandi trincee larghe e profonde 8 metri, con una lunghezza che variava a seconda degli scopi e che poteva superare i 300 metri. All’interno di questi grandi trinceroni venivano poi assemblati gli edifici, in legno e materiale isolante, con un volume lievemente più piccolo rispetto a quello ricavato nel ghiaccio. Le trincee venivano poi coperte con un tetto di lamiera ad arco, che in breve tempo si ricopriva di nuova neve e ghiaccio, rendendo invisibile la struttura dall’esterno.
    Rappresentazione schematica di Camp Century (US Army)
    Oltre alle zone che ospitavano i 250 soldati, c’erano aree di svago, sale riunioni, un piccolo centro medico, le cucine, la mensa e i bagni con docce. Le dotazioni interne erano paragonabili a quelle di altre basi militari in climi più miti e l’unica vera grande differenza era l’assenza di finestre. Per alcuni l’esperienza non era molto diversa dalla vita in un sottomarino, ma con maggiori agi.
    Completamento di una trincea di ghiaccio (US Army)
    In una seconda fase nel lontano e gelido pianoro di Camp Century fu trasportato un reattore nucleare, sviluppato nell’ambito del programma di ricerca delle tecnologie atomiche dell’esercito degli Stati Uniti. Era un reattore “semi mobile” PM-2A e il lavoro di installazione richiese grandi sforzi logistici, soprattutto per il trasporto delle parti più voluminose della centrale che arrivarono a Qaanaaq già prefabbricate. Il reattore fu regolarmente messo in servizio e permise per qualche anno di fare a meno dei generatori diesel, riducendo la domanda di gasolio e il suo difficoltoso trasporto.

    Camp Century sembrava funzionare meglio delle aspettative, un buon segno per l’espansione di Project Iceworm, ma nei primi anni Sessanta iniziarono a emergere alcuni problemi. Il più grande di tutti era la progressiva deformazione dei trinceroni di ghiaccio in cui erano stati collocati i prefabbricati. Inizialmente gli ingegneri militari avevano valutato che le temperature molto rigide avrebbero fatto sì che il ghiaccio si comportasse più o meno come il cemento, mantenendosi rigido e fermo e costituendo un involucro ideale per le costruzioni al suo interno. Dopo qualche anno notarono invece che il ghiaccio era tutt’altro che fermo e stabile.
    Nei processi di formazione del ghiaccio l’aria rimane intrappolata, soprattutto negli strati più superficiali. Questi premono su quelli sottostanti e col passare del tempo li compattano, rendendoli più densi. Il processo non è uniforme e sul suo andamento possono influire molte variabili, a cominciare dalla temperatura. Il risultato è che anche su una profondità di circa 8 metri il ghiaccio continua ad assestarsi, muovendosi e deformandosi: se trova degli spazi vuoti, come nel caso delle trincee scavate a Camp Century, la deformazione può essere ancora più marcata.
    In circa quattro anni le pareti di ghiaccio di diverse trincee si erano spostate verso l’interno, raggiungendo i limiti di progettazione previsti per poter mantenere al loro interno i prefabbricati. In alcuni casi la deformazione era di almeno un metro e mezzo e non sempre era possibile intervenire (manualmente con le pale) per correggerla e riguadagnare lo spazio perduto. I problemi di staticità del ghiaccio furono studiati e approfonditi, facendo arrivare alla conclusione che l’installazione di sistemi di lancio per i grandi missili intercontinentali con testate nucleari non sarebbe stata probabilmente possibile. Il problema riguardò anche la piccola centrale nucleare del campo, che dopo circa tre anni fu disattivata per il rischio di congelamento di alcune sue parti.
    Rappresentazione schematica della deformazione delle trincee negli anni (US Army)
    Nonostante le difficoltà, l’esercito degli Stati Uniti concluse che ci fossero buoni margini per costruire altre basi come Camp Century, anche se non ne furono mai realizzate altre. La base in Groenlandia aveva assolto al proprio scopo e nel 1967 fu abbandonata, mettendo fine di fatto agli ambiziosi progetti statunitensi di armare parte della grande isola. La dismissione avvenne nello stile dell’epoca, senza grandi valutazioni ambientali: l’infrastruttura e i rifiuti prodotti furono lasciati dov’erano, confidando che i ghiacci si sarebbero ripresi il loro spazio e avrebbero sepolto per sempre la base.
    Camp Century fu dimenticata per molto tempo e se ne tornò a parlare brevemente nel 1996, quando furono desecretati i documenti sul vero scopo della sua costruzione. Venti anni dopo, se ne tornò a parlare quando un gruppo di ricerca fece una nuova valutazione dell’impatto ambientale della base, segnalando che a causa della fusione dei ghiacci dovuta al riscaldamento globale ciò che resta di Camp Century inquinerà in futuro un’ampia zona. Lo studio diceva che entro il 2090 potrebbero finire nell’ambiente i 200mila litri di gasolio che l’esercito statunitense si lasciò alle spalle, così come 24 milioni di litri di liquami e gli altri rifiuti, comprese alcune scorie radioattive. Un’analisi condotta nel 2021 ha in parte rivisto le previsioni, spostando a dopo il 2100 il momento in cui riaffioreranno alcuni di quei rifiuti.
    Del resto osservare oggi a occhio nudo Camp Century è impossibile, ma il nuovo radar della NASA è comunque riuscito a cogliere buona parte di ciò che rimane sotto al ghiaccio ormai a quasi 30 metri di profondità. La ricognizione era stata effettuata lo scorso aprile, ma gli esiti delle osservazioni sono stati comunicati a fine novembre. L’immagine ottenuta è stata confrontata con le mappe realizzate negli anni Sessanta per trovare alcune corrispondenze.
    La rilevazione radar effettuata dalla NASA, in profondità nel ghiaccio sono stati raccolti dati su Camp Century (NASA)
    La portata scientifica dell’osservazione, del tutto casuale, è ancora da verificare, ma conoscendo la profondità che era stata raggiunta per costruire Camp Century si possono fare migliori calcoli sull’andamento dei ghiacci in Groenlandia, visto che in alcune zone dell’isola si è assistito a un’accelerazione nella fusione del ghiaccio. Il nuovo radar dovrebbe inoltre permettere di osservare con più precisione le stratificazioni di ghiaccio, utili per comprendere l’andamento delle stagioni passate e confrontarle con quelle più recenti.
    Camp Century è quasi dimenticata, ma non da chi si occupa proprio degli studi legati al cambiamento climatico. All’epoca, la base fu infatti utilizzata anche per prelevare campioni di ghiaccio in profondità, che hanno permesso di studiare le variazioni del clima nel corso dei decenni. La Danimarca gestisce un programma di ricerca nella zona, per verificare la temperatura del ghiaccio e della neve nel corso dell’anno e comprendere meglio come siano variate rispetto ai primi anni Sessanta, quando centinaia di persone vivevano tra quei ghiacci scaldati dall’energia prodotta da un reattore nucleare sopra al Circolo polare artico. LEGGI TUTTO

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    Il mondo non si mette d’accordo sulla plastica

    Caricamento playerManca meno di un mese alla fine di un anno che si sarebbe dovuto concludere con l’approvazione del primo trattato internazionale delle Nazioni Unite per ridurre l’inquinamento causato dalla plastica, ma qualcosa è andato storto. I paesi coinvolti non si sono messi d’accordo nel corso dell’ultima sessione di trattative a Busan, in Corea del Sud, soprattutto a causa dell’opposizione delle nazioni che producono grandi quantità di petrolio, la principale materia prima per produrre la plastica. Il confronto riprenderà il prossimo anno, ma al momento i programmi sono vaghi.
    Come dimostrato in questi anni dalle Conferenze contro il cambiamento climatico, mettere d’accordo molti paesi sul modo per affrontare i problemi ambientali non è semplice, soprattutto se alcuni provvedimenti si scontrano con gli interessi di certe nazioni. I principali produttori di petrolio, come l’Arabia Saudita, non vogliono regole troppo stringenti per la produzione di nuova plastica perché potrebbero incidere sulla domanda di idrocarburi, e di conseguenza sulle loro possibilità di sviluppo.
    In più occasioni il trattato sulla plastica era stato definito come la prima vera occasione per regolamentare meglio un settore che si è espanso molto velocemente nell’ultimo secolo, senza che fossero decise regole comuni tra le nazioni per lo smaltimento dei suoi rifiuti. L’iniziativa era nata poco meno di tre anni fa, nel marzo del 2022, quando 175 paesi avevano sottoscritto a Nairobi, in Kenya, un impegno per adottare un documento internazionale sulla plastica. Da quel momento erano state avviate le trattative ed era stato costituito un comitato intergovernativo, con l’obiettivo molto ambizioso di arrivare all’approvazione di un trattato entro la fine di quest’anno.
    L’incontro di Busan era considerato come l’occasione più importante per raggiungere un accordo, dopo gli alti e bassi delle trattative negli scorsi anni. Un centinaio di paesi, compresi quelli dell’Unione Europea e quindi l’Italia, aveva scelto di sostenere una proposta di Panama per inserire nel testo un chiaro riferimento alla necessità di ridurre la produzione di plastica portandola a «livelli sostenibili». La proposta non era però piaciuta ai rappresentanti dell’Arabia Saudita e di altri grandi produttori di petrolio, secondo i quali il trattato deve avere il solo scopo di ridurre l’inquinamento da plastica nell’ambiente e non la sua produzione. (Le trattative sono segrete, ma più fonti interne ai negoziati hanno confermato la contrarietà dei produttori di petrolio guidati dall’Arabia Saudita.)

    I paesi che fanno parte della “High Ambition Coalition” (HAC), una coalizione internazionale che ha l’obiettivo di mettere fine all’inquinamento causato dalla plastica, avevano criticato già in passato i produttori di petrolio accusandoli di fare ostruzionismo durante le trattative. Tra i paesi che più o meno direttamente hanno ostacolato i lavori sono stati spesso segnalati la Russia e l’Iran, che come l’Arabia Saudita hanno economie che dipendono dall’estrazione dei combustibili fossili.
    La scelta degli Stati Uniti nel corso dell’estate di sostenere con maggior forza la riduzione della produzione di plastica sembrava che potesse condizionare i lavori di Busan, ma secondo alcuni analisti la vittoria di Donald Trump alle presidenziali statunitensi ha cambiato gli equilibri. Trump ha in più occasioni dimostrato di non avere un particolare interesse per le questioni ambientali ed è a favore di un potenziamento delle attività estrattive. Facendo fallire i negoziati, gli stati interessati hanno ottenuto di prendere tempo in attesa dell’insediamento di Trump all’inizio del prossimo anno.
    Anche la Cina, il principale produttore di plastica del mondo, non fa parte della HAC, ma ha comunque mantenuto un atteggiamento più aperto per lo meno nelle trattative sull’identificazione dei prodotti di plastica che inquinano di più. Sulla riduzione della produzione il governo cinese è invece contrario, sempre per l’impatto economico che potrebbe esserci per molti settori produttivi. Il coinvolgimento della Cina è però essenziale per intervenire sull’inquinamento da plastica.
    Le stime variano molto, ma secondo quelle delle Nazioni Unite ogni anno si producono mediamente circa 400 milioni di tonnellate di nuova plastica, e il suo impiego è più che quadruplicato negli ultimi trent’anni. Agli attuali ritmi di crescita, entro il 2040 si potrebbe arrivare a oltre 700 milioni di tonnellate di nuova plastica prodotta ogni anno, con un aumentato rischio di inquinamento dei corsi d’acqua e dei mari, dove finisce una parte importante dei rifiuti.
    Una sessione delle trattative a Busan, Corea del Sud, il primo dicembre 2024 (AP Photo/Ahn Young-joon)
    Le attività di riciclo sono importanti per ridurre l’inquinamento ed evitare che si produca nuova plastica, ma la raccolta e il corretto trattamento dei rifiuti per riciclarli sono ancora poco diffusi. A livello globale si stima che meno del 10 per cento della plastica venga riciclato, il resto finisce nelle discariche, viene incenerito oppure disperso impropriamente nell’ambiente. Si stima che negli ambienti marini circa l’85 per cento di tutti i rifiuti siano materie plastiche.
    Molti tipi di plastica impiegano decine di anni prima di iniziare a degradarsi e a separarsi in frammenti sempre più piccoli. Quelle con dimensioni inferiori a cinque millimetri sono definite “microplastiche” e si stima che abbiano contaminato praticamente qualsiasi ambiente conosciuto, con un impatto sulle specie viventi ancora in corso di valutazione, soprattutto per la salute umana.
    La plastica è tra i materiali più diffusi e utilizzati al mondo, ha reso possibili importanti attività di ricerca, lo sviluppo di nuovi materiali in moltissimi ambiti e ha migliorato la qualità della vita di milioni di persone. La conservazione e la sicurezza dei cibi sono strettamente legate allo sviluppo della plastica, per esempio, così come molte attività in ambito sanitario. Metterla al bando sarebbe impossibile e non è nemmeno l’obiettivo del trattato, il cui scopo è di trovare regole comuni per evitare il più possibile che la plastica contamini gli ambienti e che se ne faccia un uso non responsabile.
    Gli interessi economici sono però molto forti e sono diventati evidenti nell’aprile di quest’anno in Canada, durante alcune delle trattative per la stesura del trattato. Agli incontri erano presenti circa 200 lobbisti delle industrie petrolchimiche, più degli scienziati presenti per fornire dati e informazioni sull’impatto ambientale della plastica ai rappresentanti politici.
    Come per altri negoziati sul clima, anche per il trattato sulla plastica è prevista un’approvazione all’unanimità ed è quindi sufficiente l’opposizione di uno o più stati per rallentare il processo o fermarlo completamente. Alcuni paesi approfittano della mancanza di una votazione vera e propria per ostacolare i negoziati, al tempo stesso senza esporsi più di tanto. Difficilmente le regole di approvazione saranno modificate per i prossimi passaggi delle trattative.
    Il mancato accordo a Busan non è arrivato completamente inatteso, visti i tempi stretti che erano stati decisi per l’approvazione del trattato, ma avrà comunque conseguenze sulle prossime iniziative. Le trattative proseguiranno con nuovi negoziati, per i quali non sono ancora noti tempi e luogo. LEGGI TUTTO

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    Come distruggere la cosa più grande che abbiamo mai portato nello Spazio

    Caricamento playerNegli ultimi 26 anni l’umanità ha affrontato difficoltà tecnologiche, logistiche e di relazioni internazionali per costruire e mantenere l’oggetto più grande che abbia mai messo intorno alla Terra. Ma il tempo passa per tutti, anche in orbita, e da testimonianza dell’ingegno umano e simbolo della collaborazione tra più paesi la Stazione Spaziale Internazionale (ISS) diventerà presto un enorme rifiuto da smaltire.
    Quando non sarà più abitata dagli astronauti, intorno al 2030, non potrà continuare a girare per sempre sopra le nostre teste e dovrà essere distrutta. Un piano per farlo c’è, ma i pochi anni che separano la Stazione dalla sua fine saranno cruciali per capire che cosa ci sarà, e se ci sarà qualcosa, al posto del più grande laboratorio orbitale della storia.
    La NASA ha in programma di distruggerlo poco dopo il 2030, ma l’agenzia spaziale russa (Roscosmos) ha per ora garantito la propria collaborazione solo fino al 2028, senza offrire garanzie sui due anni che avanzano. Il peggioramento dei rapporti tra Stati Uniti e Russia in seguito alla guerra in Ucraina non ha avuto grandi ripercussioni nello Spazio, ma sta rallentando le trattative su una delle collaborazioni scientifiche più importanti tra i due paesi. Se la Russia abbandonasse la stazione già nel 2028, la NASA e le altre agenzie spaziali che partecipano al progetto (l’europea ESA, la giapponese JAXA e la canadese CSA) sarebbero in difficoltà nel mantenere da sole la Stazione.
    I rapporti tra gli stati hanno sempre avuto un ruolo centrale nella storia della ISS. Le attività di assemblaggio iniziarono nel novembre del 1998, con l’unione di un primo modulo russo a uno statunitense, che segnava l’avvio di una collaborazione impensabile fino a pochi decenni prima tra la Russia e gli Stati Uniti, i due protagonisti della cosiddetta “corsa allo Spazio”. Messi insieme, i due moduli raggiungevano una lunghezza di circa 17 metri, ma negli anni seguenti la Stazione avrebbe via via preso forma raggiungendo gli attuali 109 metri di lunghezza. Al suo interno sono stati effettuati migliaia di esperimenti sugli effetti dell’ambiente spaziale sugli organismi, compreso il nostro, e sulle opportunità di ricerca di nuovi materiali e tecnologie.
    Rappresentazione schematica dei principali elementi che costituiscono la Stazione Spaziale Internazionale (NASA)
    Come una sorta di grande LEGO, la ISS è formata da 18 moduli collegati tra loro e da una intelaiatura sulla quale sono montati altri componenti come i pannelli solari, i radiatori per dissipare il calore prodotto dalle strumentazioni, le batterie e altre attrezzature. Ha una massa che supera le 400 tonnellate, compresi i sette astronauti che solitamente vivono al suo interno, e viaggia intorno alla Terra a un’altitudine di circa 400 chilometri effettuando un giro completo del nostro pianeta ogni ora e mezza. In altre parole, con i suoi pannelli solari, è più o meno grande quanto un campo da calcio che impiega il tempo di una partita di calcio per compiere un’orbita.
    Come molti altri satelliti che girano intorno alla Terra, anche la ISS è soggetta al decadimento orbitale, cioè alla progressiva perdita di quota dovuta per lo più all’attrito atmosferico. A circa 400 chilometri di altitudine l’atmosfera terrestre è estremamente rarefatta, ma per quanto poche le molecole dei gas presenti si scontrano con la Stazione e la fanno rallentare quel tanto che basta per perdere quota. Quando la riduzione diventa significativa, si utilizzano i motori di alcuni moduli o delle capsule da trasporto collegate alla ISS per correggere l’orbita, in modo da compensare il decadimento. E questo è il principale motivo per cui la Stazione non potrà essere lasciata in orbita a tempo indefinito, quando sarà disabitata.
    In mancanza di una periodica spinta per rimettere le cose a posto, la ISS continuerebbe a cadere lentamente, fino a raggiungere gli strati più bassi e densi dell’atmosfera, dove si distruggerebbe. Con i satelliti di medie-piccole dimensioni si fa proprio questo, evitando in questo modo che rimanendo a lungo in orbita producano detriti che potrebbero danneggiare altri oggetti, ma la ISS è troppo grande e alcune sue parti potrebbero sopravvivere al rientro nell’atmosfera, schiantandosi al suolo. Nella migliore delle ipotesi nell’oceano, nella peggiore (per quanto remota) su una zona abitata.
    All’interno della ISS ogni oggetto deve essere assicurato alle superfici per evitare che galleggi via a causa dell’assenza di peso (NASA)
    Negli ultimi anni i tecnici della NASA hanno quindi studiato il modo migliore per determinare la fine della Stazione Spaziale Internazionale. Hanno per esempio valutato l’ipotesi di spingerla in un’orbita molto più alta dell’attuale, in modo da allontanarla da ciò che resta dell’atmosfera terrestre e rendere minimo il suo decadimento orbitale. Potrebbe rimanere in orbita per secoli senza la necessità di nuove spinte, ma spostarla in un’orbita più alta richiederebbe comunque molta energia e soprattutto esporrebbe la ISS a un maggior rischio di collisioni con altri oggetti rispetto a quello attuale, mitigato talvolta con manovre per evitare i detriti più pericolosi. Gli impatti potrebbero portare alla formazione di nuovi rifiuti spaziali, che potrebbero danneggiare altri satelliti e portare alla produzione di ulteriori detriti.
    Esclusa la possibilità di spostare la ISS in un’orbita più alta, la NASA ha anche esplorato la possibilità di smontare la Stazione e di riportarne i pezzi sulla Terra, in modo da conservarla in un museo per le generazioni future. Ma smantellare un oggetto così grande in orbita sarebbe un’impresa, considerato che per montarlo sono stati necessari decenni, con una trentina di viaggi degli Space Shuttle e oltre 160 attività extraveicolari (quelle che comunemente chiamiamo “passeggiate spaziali”). Gli Space Shuttle sono stati inoltre ritirati nel 2011 e a oggi non esistono altri sistemi per il recupero in orbita di oggetti ingombranti come i moduli della Stazione.
    Resta quindi un’unica soluzione: distruggere.
    Il governo degli Stati Uniti richiede che il rischio di danni alla popolazione causati dai frammenti di un veicolo spaziale, che viene distrutto nell’atmosfera, sia estremamente basso con una probabilità inferiore a un caso ogni 10mila rientri. Per la maggior parte dei satelliti il limite viene ampiamente rispettato, anche nel caso di un rientro non controllato, ma sarebbe impossibile fare altrettanto con un oggetto grande quanto la ISS, che dovrà essere quindi condotta verso un’area in cui distruggersi senza costituire un pericolo per qualsiasi zona abitata del pianeta.
    Il piano della NASA prevede di sfruttare in una prima fase il naturale decadimento orbitale, intervenendo poi con gli attuali sistemi di propulsione di cui dispone la ISS per farle perdere ulteriormente quota. La manovra di rientro vera e propria in uno specifico punto dell’atmosfera, per fare in modo che i detriti più grandi finiscano nell’oceano, non potrà però essere effettuata in autonomia dalla Stazione perché richiederà una grande quantità di propellente. Sarà utilizzato un veicolo spaziale che al momento ha due caratteristiche principali: quella di avere un nome particolarmente noioso, “US Deorbit Vehicle” (USDV), e di non esistere.
    Attività di manutenzione all’esterno di uno dei moduli della ISS (ESA)
    Lo scorso giugno, la NASA ha annunciato di avere scelto l’azienda spaziale privata SpaceX di Elon Musk per occuparsi della costruzione del veicolo che spingerà la Stazione Spaziale Internazionale verso la sua fine. Il valore stimato del contratto supera gli 800 milioni di dollari ed è solo una delle collaborazioni più recenti della NASA con SpaceX, che garantisce il trasporto degli astronauti sulla ISS con la sua capsula Crew Dragon e ha contratti per gestire il ritorno sulla Luna con Starship, l’enorme astronave in fase di sviluppo in Texas.
    SpaceX utilizzerà una versione modificata del proprio sistema di trasporto Dragon per realizzare l’USDV, con più motori e una maggiore capacità di carico del propellente. In questo modo il veicolo potrà attraccare alla ISS utilizzando i meccanismi già normalmente impiegati per i viaggi di rifornimento e per gli astronauti, sfruttando procedure ormai rodate. L’USDV avrà il compito di far rallentare la Stazione rendendo sempre più stretta la sua orbita, fino a quando raggiungerà il punto di inserimento, cioè la quota in cui non potrà più cambiare traiettoria per sfuggire alla Terra. Incontrando gli strati sempre più densi dell’atmosfera, raggiungerà temperature di migliaia di °C e inizierà a distruggersi.
    Le prime strutture a cedere saranno i pannelli solari e i radiatori, che si staccheranno dall’intelaiatura rompendosi in frammenti via via più piccoli, la maggior parte dei quali brucerà ad alta quota. Le forti sollecitazioni causeranno poi la rottura dell’intelaiatura e la separazione dei moduli, che si distruggeranno non essendo stati progettati per resistere a un rientro nell’atmosfera. Il loro rivestimento esterno fonderà privando le strumentazioni all’interno (computer, circuiti per l’aria e l’acqua, alloggiamenti degli astronauti, ecc) della loro protezione. Le alte temperature fonderanno e bruceranno buona parte della Stazione, ma qualcosa delle parti più dense e massicce sopravviverà e tornerà sulla Terra.
    I pannelli solari della ISS saranno tra le prime strutture a cedere (ISS)
    Il rientro controllato permetterà di far cadere ciò che rimane della ISS nel cosiddetto “punto Nemo”, cioè l’area oceanica più lontana dalle terre emerse. Si trova nella parte meridionale dell’oceano Pacifico e deve il proprio nome ai romanzi di avventura L’isola misteriosa e Ventimila leghe sotto i mari di Jules Verne. È un punto scelto spesso per il rientro dei veicoli spaziali e per questo viene chiamato informalmente “cimitero delle astronavi”. Non è previsto alcun recupero, ma le dimensioni e la cottura nel turbolento rientro nell’atmosfera rendono l’impatto ambientale dei detriti spaziali trascurabile, rispetto alla vastità dell’oceano.
    Prima di elaborare il proprio piano, la NASA si era rivolta alle aziende del settore spaziale per chiedere se fossero interessate a riutilizzare parte della Stazione, senza ricevere proposte credibili o facilmente realizzabili. Le parti più vecchie dell’infrastruttura e delle strumentazioni risalgono del resto a più di 20 anni fa e nel frattempo ci sono stati importanti progressi nello sviluppo dei moduli, come dimostrato dai primi modelli sperimentali realizzati dai privati. Da qualche tempo alla ISS possono infatti essere collegati nuovi moduli, che un giorno dovrebbero costituire basi orbitali interamente gestite dai privati.
    Axiom Space è una delle aziende spaziali che collegheranno propri moduli alla ISS in vista della creazione di una propria base orbitale privata (Axiom Space)
    Almeno nei piani attuali, non ci sarà infatti una nuova ISS che sostituirà quella attuale. I governi non sono interessati a spendere altri miliardi di euro per costruirne una nuova e ritengono di poter investire il denaro che risparmieranno nella manutenzione altrove, per esempio nei progetti spaziali legati all’esplorazione della Luna e forse un giorno di Marte. Non è però ancora chiaro se e con che tempi saranno costruite basi orbitali private, né se nasceranno nuove collaborazioni come quelle ventilate negli ultimi anni tra la Russia e la Cina, che ha già una propria base in orbita.
    Tra tante incertezze e cambiamenti, la fine della Stazione Spaziale Internazionale è ormai data per certa: non è una questione di se, ma di quando. Un giorno, dopo aver accompagnato per decenni la Terra girandole intorno quasi duecentomila volte, si avvicinerà sempre di più al nostro pianeta trasformandosi nella più grande meteora mai costruita dall’umanità. LEGGI TUTTO