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    Che fine ha fatto la sinistra? La nuova puntata di Sky TG25

    “D’Alema di’ qualcosa di sinistra. D’Alema dì qualcosa. Reagisci”.  Quello che Nanni Moretti urla in una scena memorabile del suo “Aprile” guardando in tv un duello tra Berlusconi e D’Alema è legato all’Italia degli anni Novanta, la discesa in campo del Cavaliere, la vittoria del centrodestra. Eppure quel “dì qualcosa di sinistra, dì’ qualcosa, reagisci” echeggia anche oggi. Eccome. Trent’anni dopo è Calenda a dirlo a Elly Schlein sull’onda del caos Stellantis: “dica qualcosa di sinistra!”. La stessa frase.
    Ma che succede alla sinistra? Che fine ha fatto la sinistra? Da cosa e da chi deve ripartire periodicamente la sinistra, deflagrata all’inverosimile in mille pezzetti che litigano tra loro dalla fine del partito comunista a oggi.
    Scissioni, divisioni, distinguo, partiti, rifondazioni a sinistra della sinistra, fughe a destra della sinistra, galassie, correnti, anime democristiane contro anime radicali, fronde, liti, veti, faide, cespugli, girotondini, sardine. Su tutto il rischio ztl con cui combatte da anni sotto le accuse di essere elite che elitiga, sistema che si sistema, establishment al caviale sul viale del tramonto. 
    Si vince al centro? Si vince tornando a fare la sinistra? Si vince tutti insieme? Che deve fare il cosiddetto centro sinistra per tornare a esistere, prima ancora che a vincere?
    La nuova puntata di Sky TG25 (guarda il video in alto).  LEGGI TUTTO

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    Antiriciclaggio, scatta la stretta sui controlli per il trasferimento di contanti

    Ascolta la versione audio dell’articolo2′ di lettura Stretta in arrivo sul trasferimento di denaro contante in entrata o uscita dal territorio nazionale, con sanzioni più salate, inasprimento dei sequestri e la possibilità per le autorità di trattenere il denaro nel caso di violazione degli obblighi di dichiarazione o qualora emergano indizi che potrebbe essere legato ad attività criminose. Lo prevede la bozza del decreto legislativo sul denaro contante all’ordine del giorno del Cdm di lunedì.Loading…Inasprimento dei sequestriIl provvedimento, in 4 articoli, apporta modifiche alla disciplina sul mercato dell’oro del 2000 e ad un decreto legislativo del 2008 sulla normativa in materia valutaria. Per quanto riguarda in particolare il contante, resta l’obbligo di dichiarazione per chi entra o esce dal territorio nazionale con contante di importo pari o superiore a 10mila euro: viene aggiunto che l’obbligo non è soddisfatto non solo se le informazioni sono inesatte o incomplete, ma anche «se il denaro contante non è messo a disposizione ai fini di controllo». Viene poi introdotto un nuovo articolo, in base al quale «l’Agenzia delle dogane e dei monopoli e la Guardia di finanza possono trattenere il denaro» se gli obblighi di dichiarazione non sono stati assolti in tutto o in parte o «qualora emergano indizi che il denaro contante, accompagnato o non accompagnato, a prescindere dall’importo, potrebbe essere correlato ad attività criminose».Trattenimento del contante fino a 90 giorniIl trattenimento temporaneo, che può essere disposto «anche nel caso di denaro contante, accompagnato o non accompagnato, di importo inferiore a 10.000 euro», ha una durata massima di 30 giorni, con possibile estensione a 90 in casi particolari, ed è finalizzato ad individuare «gli elementi richiesti per l’applicazione della legge penale».Sanzioni più salateI controlli, inoltre, oltre che casuali potranno essere anche basati sull’analisi dei rischi anche con procedimenti informatici. E i dati e le informazioni acquisiti potranno essere utilizzati ai fini fiscali. Viene inoltre eliminata la soglia di almeno 10mila euro per il sequestro del denaro contante trasferito o che si cerca di trasferire e vengono alzati i limiti stabiliti per il sequestro (le percentuali attuali del 30% e 50% dell’importo eccedente passano a 50, 70 e 100%). Il sequestro può avvenire anche con informazioni “inesatte o incomplete”. L’importo del sequestro non può essere inferiore a 900 euro e superiore a 1.000.000. Vengono infine inasprite anche le sanzioni, che partono da un minimo di 900 euro, anziché 300. LEGGI TUTTO

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    Autonomia, a chi conviene il referendum: l’inedito asse Cgil-Lega

    Ascolta la versione audio dell’articolo2′ di letturaA parte la Lega, che ripete la narrazione che basta un piccolo “aggiustamento” della legge Calderoli e che la trattativa per il trasferimento di alcune materie alle regioni del Nord andrà avanti, nel resto della maggioranza spira un’aria gelida. Il deposito delle motivazioni della sentenza con cui la Consulta ha bocciato il 14 novembre scorso molti punti dell’autonomia differenziata targata Lega ha confermato quanto già era evidente dalla lettura del dettagliato comunicato stampa: l’intervento dei giudici è stato tale che non solo la legge Calderoli andrà di fatto riscritta, ma che potrebbero non esserci più i presupposti per celebrare il referendum la prossima primavera. L’attesa è dunque tutta per la decisione della Corte di Cassazione, che a giorni dovrà stabilire se dopo l’intervento della Consulta i due quesiti di abrogazione totale e parziale presentati dalle opposizioni, dalle regioni di centrosinistra e dai sindacati Cgil e Uil restano ancora in piedi o sono superati.In base alla sentenza 68 del 1978 della stessa Consulta, il referendum non si tiene più se vengono superati «i principi ispiratori» o i «contenuti normativi essenziali», superamento che secondo molti osservatori è avvenuto con la pronuncia del 14 novembre. Secondo altri osservatori, invece, il referendum di abrogazione totale potrebbe comunque restare in piedi per quel (poco) che resta della legge Calderoli. Anche per la delicatezza della questione, e per i suoi riflessi politici, l’udienza della Cassazione inizialmente prevista per oggi è ora attesa per la prossima settimana, probabilmente il 12 dicembre. In questo modo anche i proponenti dei quesiti hanno più tempo, fino a lunedì 9 dicembre, per stendere la memoria affidata alla penna di Giovanni Maria Flick.Loading…Nell’attesa di una decisione che potrebbe cambiare il corso della legislatura, dunque, da Palazzo Chigi (e da Forza Italia) si evitano commenti. Anche se Giorgia Meloni ha agito con i fatti, mantenendo personalmente la delega sul Sud quasi a farsene protettrice. Se i quesiti dovessero essere dichiarati superati sarebbe proprio lei, la premier, a tirare il respiro di sollievo più grande: passare i prossimi mesi sotto il tiro delle opposizioni, divise su tutto ma per una volta unite, e al contempo dover difendere una legge che non ha mai sentito sua e che è stata sostanzialmente una concessione alla Lega non è una prospettiva allettante. Al contrario, in caso di mancato referendum, la riscrittura della legge Calderoli prenderebbe tempi lunghi proprio per far stemperare un tema altamente divisivo.Tutto sommato lo stop al referendum converrebbe anche al Pd, vista la difficoltà di centrare il quorum del 50% più uno degli elettori in epoca di alta astensione. Gli unici attori a premere per il sì al referendum sono a conti fatti la Lega di Matteo Salvini e la Cgil di Maurizio Landini: i leghisti potrebbero intestarsi il mancato raggiungimento del quorum con l’argomentazione che in questo caso l’astensione vale come voto a favore; il leader sindacale ha invece bisogno del traino dell’autonomia per centrare l’obiettivo di cancellare l’odiato Jobs act renziano. LEGGI TUTTO

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    Boccia (Pd): «Sulle università online dal governo approccio mercantile»

    Dal Ministero assicurano che si sta lavorando per fissare un valore standard di borse di studio, anche dopo la spinta del Pnrr; ricordano gli investimenti (687 mln in due tranche) per gli studentati, da leggere insieme ai valori del fondo finanziamento ordinario che nel 2025 ha avuto un taglio di 173 milioni, ma con la previsione – dicono – di tornare l’anno prossimo a 9 mld e 200 mln, più del 2023.Il dato oggettivo è il taglio dei fondi: se la Ministra è d’accordo sugli investimenti per favorire il diritto allo studio sostenga gli emendamenti Pd sulle residenze universitarie, ad esempio, battaglie portate avanti da Alfredo D’Attorre, referente Pd per università e ricerca. Ma anche sulle Università, come sul resto, il governo ha una visione privatistica. E così la legge consente alle telematiche, ad esempio, di non avere certi standard sul rapporto studenti/professori.Il decreto del governo Draghi fissava il 2024 come termine per equiparare le telematiche a quelle tradizionali nel rapporto studenti/professori. Non pare si vada in questa direzione, mentre sarebbe confermata una riduzione delle lezioni registrate e si confermano gli esami in presenza, sia pur con delle deroghe e con un’apertura alla possibilità di farlo in futuro da remoto, con tecnologie adeguate da definire in un nuovo dm. Non pensa però che anche le università tradizionali dovrebbero confrontarsi con le mutate esigenze aumentando l’offerta a distanza?Molte lo fanno, ma di sicuro devono attrezzarsi per rafforzare ulteriormente queste attività da remoto, conservando gli stessi standard di qualità. Il discente può scegliere se studiare a distanza, ma è fondamentale garantire un confronto di persona. L’Università è fatta anche di incontri, confronti, idee, di preparazione alla vita, oltre che alla professione e uno schermo non lo permette. Quanto agli standard garantiti, su ricerca e numero dei docenti ci deve essere assoluta parità tra università tradizionali e online. A fronte invece del boom di iscrizioni, negli stessi dieci anni i docenti delle telematiche sono passati solo da 288 a 582. La destra permette alle telematiche di non avere gli stessi standard, viste anche le commistioni politiche imbarazzanti, come quelle di Stefano Bandecchi (sindaco di Terni, fondatore della Niccolò Cusano, ndr), primo teorizzatore della telematizzazione della cultura. Per loro, l’importante è piazzare il prodotto, stanno scambiando l’università con Airbnb.Ci sono anche atenei telematici, nel cui comitato consultivo ci sono nomi di peso, compreso quello di Luciano Violante. LEGGI TUTTO

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    Verso una nuova stretta sui cronisti, stop alla pubblicazione di atti

    Ascolta la versione audio dell’articolo3′ di letturaNon solo gli atti di custodia cautelare. Non più pubblicabili potrebbero essere anche altre misure cautelari personali, le interdittive e i sequestri. Il Governo si prepara ad una nuova stretta sui giornalisti, che potrebbe essere inserita nello stesso decreto legislativo già approvato lo scorso settembre in via preliminare dal Consiglio dei ministri: il provvedimento nato dopo un emendamento e ribattezzato “legge bavaglio” dalle opposizioni e dalla Federazione nazionale della stampa.Si lavora all’ambito di applicazioneLa nuova versione del decreto, ricevuti i pareri e le indicazioni dalla commissione Giustizia, potrebbe approdare in uno dei prossimi Cdm, ma a via Arenula si è ancora in attesa di capire se Palazzo Chigi deciderà di dare il via libera per l’inserimento del decreto in calendario fin da subito o ci sarà una proroga. Al momento – spiegano fonti del ministero della Giustizia – si sta valutando il perimetro entro il quale estendere il divieto e decidere se includere in generale l’interdizione di pubblicazione per tutti gli atti, come tutte le misure cautelari personali, il carcere, le interdittive e perquisizioni, o solo determinati documenti. Sembra però chiaro che la formula di secretazione stabilita sarà comunque la stessa decisa già due mesi fa: il testo preciso del documento diventa di fatto segreto e la stampa non potrà pubblicarlo, almeno finché non siano concluse le indagini preliminari o fino al termine dell’udienza preliminare. Nel caso della custodia cautelare sarà pubblicabile soltanto il contenuto dell’atto, senza poterlo citare tra virgolette, e potrà essere fedelmente riportato solo il capo di imputazione per esteso.Loading…L’ipotesi di multe ai cronistiLa modifica riguarda l’articolo 114 del codice di procedura penale ed era stata decisa diverso tempo prima in Parlamento, quando il Senato approvò l’articolo 4 della legge di adeguamento della normativa nazionale alle disposizioni della direttiva europea. A dare l’avvio all’iter fu un emendamento del deputato Enrico Costa (ex di Azione e ora in Forza Italia), durante il passaggio alla Camera. Poi il decreto legislativo è passato una prima volta al vaglio dei ministri nel settembre scorso per essere in seguito sottoposto alla lettura e agli eventuali suggerimenti, non vincolanti, delle due commissioni Giustizia di Camera e Senato entro sessanta giorni. Scaduto questo periodo resta resta da capire quando approderà in Cdm per avere il via libera definitivo dell’Esecutivo. E l’incognita potrebbe essere sciolta già nelle prossime ore. Al di là dei tempi, sono proprio le indicazioni arrivate dalle commissioni a stringere le maglie: la maggioranza, assieme a Italia Viva, chiede di estendere ulteriormente il divieto a tutte le altre ordinanze prevedendo anche multe per i giornalisti e non solo agli editori (fino a 500mila euro). Ma è molto possibile che il Governo non accolga tutte le proposte e frenerà sulle sanzioni troppo alte ai cronisti. Non si può escludere comunque che le multe possano essere inserite nel disegno di legge sulla diffamazione fermo al Senato.Passo indietro rispetto alla riforma OrlandoÈ certo che a breve le modalità dei contenuti giornalistici, riguardo alle inchieste giudiziarie, cambieranno: si torna indietro rispetto a quanto stabilito dalla riforma del 2017 dell’allora ministro Andrea Orlando, secondo cui le ordinanze sono pubblicabili senza limiti. Il provvedimento ha intanto suscitato la reazione dei Cinque Stelle: «Sono passati pochi giorni dal pericolo scampato sul bavaglio che il Governo voleva imporre ai magistrati e subito ci troviamo di fronte ad un nuovo tentativo di imbavagliare ulteriormente la libertà di stampa e colpire il diritto dei cittadini ad essere informati su atti giudiziari di particolare importanza. Con la slavina dei provvedimenti del governo Meloni ormai l’Italia è una Repubblica poco democratica, fondata sul bavaglio», sostengono i rappresentanti del M5S nelle commissioni Giustizia. LEGGI TUTTO

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    Due donne in cima alla classifica dei redditi parlamentari: le avvocate Rossello e Bongiorno

    Ascolta la versione audio dell’articolo2′ di letturaLa classifica è ancora provissoria perché non tutti i parlamentari hanno depositato la loro dichiarazione dei redditi 2024 e, tra questi, mancano alcuni che lo scorso anno erano in cima alla graduatoria come il senatore a vita e architetto Renzo Piano ma soprattutto Antonio Angelucci, deputato della Lega e proprietario delle cliniche del Gruppo San Raffaele oltre che editore dei quotidiani della galassia di centrodestra Libero, Il Tempo e Il Giornale. Al momento le più ricche tra Camera e Senato in base alla documentazione patrimoniale risultano due donne, entrambe di centrodestra e tutte e due avvocate: si tratta di Giulia Bongiorno e Cristina Rossello.Bongiorno a quota 2,541 milioniBongiorno, palermitana, senatrice della Lega e già ministro della Pubblica amministrazione nel primo governo giallo-verde di Giuseppe Conte, una popolarità da avvocata cominciata nel ’95 quando il principe del Foro Franco Coppi le chiese di occuparsi in prima persona della difesa di Giulio Andreotti, per il 2024 ha dichiarato un reddito di 2,541 milioni di euro. Un valore inferiore rispetto ai due anni precedenti (2,754 nel 2023 e quasi 3 milioni di euro nel 2022).Loading…Il primato di RosselloAndamento opposto per Rossello, in passato avvocata di Silvio Berlusconi, eletta deputata con Forza Italia (e coordinatrice del partito azzurro a Milano): dai 2,054 milioni dello scorso anno è salita a oltre tre milioni (3,159). Una cifra che al momento non ha uguali tra le colleghe e i colleghi che hanno depositato presso gli uffici parlamentari la propria documentazione patrimoniale aggiornata.L’ex ministro dell’Economia dei governi Berlusconi e ora deputato di Fdi, Giulio Tremonti, si ferma a 2,229 milioni (-365mila euro rispetto all’anno precedente). Più o meno sulle stesse latitudini l’ex premier Matteo Renzi: il leader e senatore di Italia viva ha dichiarato 2,339 milioni, con un calo più pronunciato rispetto al 2023 (-878mila euro). LEGGI TUTTO

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    M5s, il “partito” di Grillo toglierebbe a Conte almeno un terzo dei voti

    Ascolta la versione audio dell’articolo2′ di letturaBeppe Grillo scioglie le riserve e si avvia a rivendicare anche legalmente il simbolo del “suo” M5s («fatevi il vostro simbolo, fatevi le vostre cose», è la sfida lanciata a Giuseppe Conte & C). Ma per farci cosa? Forse «metterlo in una teca», come confida ai pochi fedelissimi rimastigli accanto. La realtà è che il fondatore e (ex?) Garante del movimento si dichiara stanco e sembra al momento solo voler strappare la sua creatura dalle mani dell’usurpatore, costringendolo a creare un partito nuovo “contiano” a sua misura. Della serie: il movimento è morto, muoia Sansone con tutti i filistei. Eppure chi lo conosce bene, come l’ex senatore Elio Lannutti, avverte che Grillo è imprevedibile. E certamente la voglia di “far male” a Conte non manca. Nel nome dei principi delle origini «distrutti» dall’ex premier (limite ai mandati, democrazia diretta, ecologismo integrale, alterità rispetto ai partiti tradizionali) potrebbe anche tentare una nuova avventura con i fedelissimi (Danilo Toninelli, Virginia Raggi e forse Alessandro Di Battista).Grillo “I valori sacri del Movimento 5 Stelle sono stati traditi”Ma quanti voti potrebbe prendere un partito di Grillo? Il sondaggista Antonio Noto ha subito sondato gli umori degli elettori pentastellati chiedendogli quale partito sceglierebbero se a presentarsi alle prossime politiche fossero due partiti, uno di Conte e uno di Grillo. E i risultati, resi noti in tarda serata durante la trasmissione Porta a porta di Bruno Vespa, sono in qualche modo sorprendenti: il 65% degli intervistati sceglierebbe Conte e ben il 28%, quasi un terzo, Grillo (il 2% non sa e il 5% non voterebbe nessuno dei due partiti ritenendo finita l’esperienza). Tradotto in percentuali, visto che al momento Noto stima il M5s all’11% a livello nazionale, significherebbe il 7% a Conte e il 4% a Grillo.Loading…Un partito di Grillo, stando a questi dati, farebbe insomma piuttosto male a Conte e ai contiani. Anche tenendo conto del fatto che la percentuale potrebbe alla fine rivelarsi maggiore se il fondatore dovesse vincere il contenzioso legale su nome e simbolo (Noto ha giocoforza sottoposto agli intervistati un quesito generico sul punto). I “marchi” storici, si sa, hanno il loro valore anche affettivo in politica. Il meno che si possa dire è che per Conte, che nel week end sarà costretto a ripetere la votazione sull’abolizione della figura del Garante e altre modifiche allo statuto chiesta da Grillo con il rischio di non centrare una seconda volta il quorum del 50% più uno degli iscritti, inizia una via crucis giudiziaria e politica dagli esiti imprevedibili. Via crucis che anche il Pd guarda con preoccupazione: un’eventuale scissione del M5s ridurrebbe i consensi già in discesa di quello che al momento è il principale alleato della segretaria Elly Schlein per costruire l’alternativa di governo. LEGGI TUTTO

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    Renzi ancora tra i parlamentari più ricchi: nel 2023 redditi da 2,33 milioni di euro

    Ascolta la versione audio dell’articolo1′ di letturaIn calo rispetto all’anno precedente ma con oltre 2 milioni di euro Matteo Renzi potrebbe essere il parlamentare più ricco: come risulta dalla documentazione patrimoniale pubblicata sul sito del Senato, nel 2023 l’ex premier e leader di Iv ha dichiarato un reddito di 2,339 milioni di euro. Valore in calo rispetto all’anno precedente quando era stato di 3,217 milioni di euro.Sull’ultima dichiarazione dei redditi non sono specificate proprietà o quote in società, come ad esempio un anno fa in riferimento alla modifica della ragione sociale della società Ma.re consulting, costituita nel 2021 e diventata Mare holding, cedendo – si specificava – il 10% delle quote.Loading…A ottobre era stato pubblicato anche il reddito della premier Giorgia Meloni: quasi mezzo milione di euro (459.460), più alto rispetto a quello dell’anno prima (293.531).Il duello con AngelucciL’anno scorso Renzi era stato considerato a lungo il parlamentare con la dichiarazione dei redditi più alta fino a quando negli uffici della Camera era stata depositata, in ritardo, la documentazione di Antonio Angelucci, deputato della Lega, imprenditore della sanità ed editore dei quotidiani di centrodestra Il Tempo, Il Giornale e Libero: il suo reddito complessivo per il 2023 (periodo d’imposta 2022) era di 3.334.400 euro. Cifra di poco superiore (116mila euro) a quella del senatore di Rignano. Angelucci non ha ancora presentato la propria situazione patrimoniale per l’anno di imposta 2023. Ma è qusi certo che il duello è destinato a ripetersi anche quest’anno. LEGGI TUTTO