Caricamento playerNegli ultimi giorni si è generata molta confusione intorno al nirsevimab, un anticorpo monoclonale contro il virus respiratorio sinciziale umano (VRS) – una delle cause delle bronchioliti nei bambini con meno di un anno – noto con il nome commerciale Beyfortus. In un primo momento il ministero della Salute aveva ribadito che la spesa per il nirsevimab è a carico dei cittadini salvo diverse decisioni delle Regioni (con limiti per quelle con i conti sanitari non in ordine), ma in un secondo momento è stata diffusa una nota che annuncia l’avvio dei confronti necessari con l’Agenzia italiana del farmaco (AIFA) per renderlo accessibile a tutti gratuitamente. Una decisione definitiva non è stata ancora presa, lasciando molti dubbi a chi vorrebbe sottoporre i propri figli al trattamento in vista della stagione fredda in cui il virus circola di più.
Il VRS è un virus piuttosto diffuso e come quelli dell’influenza ha una maggiore presenza tra novembre e aprile. Nelle persone adulte in salute non dà sintomi particolarmente rilevanti (è più insidioso negli anziani e nei soggetti fragili), ma può essere pericoloso nei bambini con meno di un anno di età. È infatti una delle cause principali della bronchiolite, una malattia respiratoria che può comunque avere diverse altre cause virali (coronavirus, virus influenzali, rhinovirus e adenovirus, per citarne alcuni).
L’infiammazione nelle vie respiratorie riguarda i bronchi e i bronchioli, le strutture nei polmoni che rendono possibile il trasferimento di ossigeno al sangue e la rimozione dell’anidride carbonica: fa aumentare la produzione di muco che insieme ad altri fattori può portare a difficoltà respiratorie. Nella maggior parte dei casi l’infezione passa entro una decina di giorni senza conseguenze, ma possono esserci casi in cui la malattia peggiora. Negli ultimi anni alcuni studi hanno rilevato una maggiore quantità di casi gravi associati ad alcune varianti del VRS, che hanno reso necessario il ricovero dei bambini in ospedale e in alcuni casi in terapia intensiva.
Le infezioni da VRS si prevengono con gli accorgimenti solitamente impiegati per altre malattie virali, quindi evitando il contatto con persone che hanno un’infezione in corso, lavandosi le mani e aerando regolarmente gli ambienti in cui si vive. A queste forme di prevenzione da qualche tempo si è aggiunta la possibilità di ricorrere a un trattamento con anticorpi monoclonali, cioè anticorpi simili a quelli che produce il nostro sistema immunitario, ma realizzati con tecniche di clonazione in laboratorio. Il loro impiego consente di avere a disposizione direttamente gli anticorpi, senza che questi debbano essere prodotti dal sistema immunitario dopo aver fatto conoscenza con un virus.
Il nirsevimab fa esattamente questo, in modo che un bambino che lo riceve abbia gli anticorpi per affrontare il VRS riducendo il rischio di ammalarsi. Il trattamento non è un vaccino, che svolge invece una funzione diversa e cioè stimolare la produzione degli anticorpi; anche per questo motivo il trattamento è piuttosto costoso (contro il VRS esiste al momento un solo vaccino, il cui uso non è però consentito nei bambini).
Il nirsevimab è stato autorizzato nell’Unione Europea nel 2022 e viene venduto come Beyfortus dall’azienda farmaceutica Sanofi, che lo ha sviluppato insieme ad AstraZeneca, e inizia a essere sempre più impiegato per fare prevenzione in paesi come la Francia e la Spagna dove è fornito gratuitamente. La sua somministrazione permette di fornire una maggiore protezione ai bambini con meno di un anno che vivono la loro prima stagione di alta circolazione del VRS. È pensato per tutelarli nel periodo in cui sono esposti a qualche rischio in più perché ancora molto piccoli, poi crescendo non è più necessario.
A inizio anno la Società italiana di neonatologia (SIN) aveva segnalato che il nirsevimab: «Ha una lunga emivita [durata nell’organismo, ndr] ed è in grado con una sola somministrazione di proteggere il bambino per almeno 5 mesi riducendo del 77 per cento le infezioni respiratorie da VRS che richiedono ospedalizzazione e dell’86 per cento il rischio di ricovero in terapia intensiva». La SIN segnalava inoltre che un impiego su larga scala del nirsevimab avrebbe permesso di ridurre i costi sanitari rispetto all’impiego di altri anticorpi monoclonali e di contenere le spese dovute ai ricoveri ospedalieri, per i ricoveri dei bambini che sviluppano forme gravi della malattia. Per questo motivo invitava il ministero della Salute e le Regioni, che mantengono ampie autonomie nelle politiche sanitarie, a considerare una revisione delle regole di accesso al trattamento.
A oggi il nirsevimab è infatti compreso nei farmaci di “fascia C”, quindi a carico di chi li acquista, e ha un prezzo base al pubblico indicato dal produttore di 1.150 euro (importo che potrebbe essere più basso a seconda delle contrattazioni con i servizi sanitari regionali). Questa classificazione fa sì che le Regioni non possano utilizzare per il suo acquisto i fondi che ricevono dallo Stato per la gestione della sanità nei loro territori: hanno però la facoltà di offrirlo gratuitamente se finanziano l’iniziativa con altri fondi previsti nei loro bilanci. È una pratica che viene seguita spesso, ma con alcune limitazioni legate alla necessità di evitare che le Regioni non sforino troppo rispetto alle loro previsioni di spesa.
Oltre a essere in “fascia C”, il nirsevimab non è compreso nel Piano nazionale prevenzione vaccinale ed è quindi un extra rispetto ai Livelli essenziali di assistenza (LEA), le prestazioni che il Servizio sanitario nazionale deve obbligatoriamente fornire a tutti i cittadini gratuitamente o con il pagamento di un ticket.
In vista della stagione fredda, negli ultimi mesi alcune Regioni avevano annunciato di voler fornire il nirsevimab senza oneri per i pazienti, portando il ministero della Salute a diffondere una circolare il 18 settembre per ricordare le regole di finanziamento di queste iniziative. Oltre a segnalare la necessità di fornire il trattamento attingendo a fondi diversi da quelli sanitari regionali, il ministero aveva ricordato che «le regioni in piano di rientro dal disavanzo sanitario», cioè le regioni senza i conti a posto, «non possono, ad oggi, garantire la somministrazione dell’anticorpo monoclonale».
La limitazione riguardava quindi Lazio, Abruzzo, Molise, Campania, Calabria, Puglia e Sicilia e portava di fatto a una disparità di trattamento per gli abitanti di queste regioni rispetto alle altre. La circolare aveva fatto discutere, soprattutto tra i genitori di bambini con meno di un anno ancora in attesa di capire se poter accedere o meno gratuitamente al trattamento, a ridosso dell’inizio della stagione di maggiore circolazione del VRS.
In seguito alle proteste e alle polemiche il 19 settembre, quindi appena un giorno dopo la pubblicazione della circolare del ministero della Salute, la responsabile del Dipartimento della prevenzione, Maria Rosaria Campitiello, ha diffuso una nota con la quale ha annunciato l’avvio di un confronto con l’AIFA per rivedere le regole di accesso al nirsevimab per renderlo non a carico: «È nostra intenzione rafforzare le strategie di prevenzione e immunizzazione universale a tutela dei bambini su tutto il territorio nazionale, garantendo a tutte le regioni la somministrazione dell’anticorpo monoclonale senza oneri per i pazienti».
Nella nota non sono però indicati tempi o modalità del confronto, che secondo diversi osservatori arriva comunque in ritardo considerato l’avvicinarsi del periodo in cui la diffusione di VRS ha il proprio picco. Il Board del calendario per la vita, iniziativa che comprende le federazioni dei medici e dei pediatri, aveva già raccomandato a inizio 2023 l’impiego del nirsevimab il prima possibile: «Nell’imminenza della autorizzazione all’immissione in commercio, auspicano che venga prontamente riconosciuta la novità anche in termini regolatori di nirsevimab, considerando la sua classificazione non quale presidio terapeutico (come sempre avvenuto per gli anticorpi monoclonali) ma preventivo, nella prospettiva dell’inserimento nel Calendario Nazionale di Immunizzazione». Nel caso di una fornitura non a carico il prezzo del trattamento dovrà essere contrattato con Sanofi, una procedura che richiede tempi che variano molto a seconda dei casi. LEGGI TUTTO