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    La missione spaziale SLIM del Giappone ha raggiunto la Luna, ma con qualche imprevisto

    Nel pomeriggio di venerdì la missione SLIM dell’Agenzia spaziale giapponese (JAXA) ha raggiunto il suolo lunare, aggiungendo il Giappone alla lista molto ristretta di paesi che hanno tentato un atterraggio controllato sulla Luna. Il veicolo spaziale (lander) invia segnali verso la Terra, ma al momento ci sono dubbi sulle condizioni dei pannelli solari, che non stanno generando energia elettrica e di conseguenza non possono caricare le batterie di SLIM. JAXA sta effettuando alcune verifiche sullo stato delle strumentazioni del lander, che ha utilizzato un sistema di navigazione autonomo ad alta precisione per compiere l’allunaggio.Il lander SLIM (Smart Lander for Investigating Moon) era stato lanciato il 6 settembre 2023 dal Giappone e aveva poi trascorso alcuni mesi per avvicinarsi alla Luna ed entrare in un’orbita intorno al nostro satellite naturale il 25 dicembre scorso. In seguito aveva compiuto alcune manovre per predisporre l’attività di discesa sulla superficie. Intorno alle 16 (ora italiana) di venerdì, SLIM ha acceso i motori per rallentare la propria velocità sganciarsi dall’orbita e iniziare a perdere quota. I suoi sistemi di navigazione automatici hanno poi localizzato il punto scelto in precedenza per l’allunaggio e hanno controllato il lander per evitare collisioni con eventuali ostacoli lungo la traiettoria.
    La separazione tra SLIM e i due lander più piccoli, poco prima dell’allunaggio, in un’elaborazione grafica (JAXA)
    Non è chiaro se SLIM abbia raggiunto il suolo con un orientamento non previsto, cosa che potrebbe avere compromesso la funzionalità dei pannelli solari o il loro corretto orientamento per ricevere la luce solare. La sperimentazione del sistema automatico di navigazione era uno degli aspetti più importanti di SLIM, in vista di altre missioni lunari che in futuro avrebbero dovuto utilizzare lo stesso sistema. Nei prossimi giorni JAXA effettuerà nuove analisi e valutazioni per capire come utilizzare SLIM e due lander più piccoli, LEV-1 e LEV-2, lanciati da SLIM verso il suolo poco prima di tentare il proprio allunaggio. LEGGI TUTTO

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    C’è un gigantesco anello nell’Universo

    Un gruppo di ricerca dell’University of Central Lancashire (Regno Unito) ha annunciato di avere scoperto una “struttura a grande scala dell’Universo”, con un diametro stimato di 1,3 miliardi di anni luce. Se confermata, sarebbe una delle più grandi strutture mai osservate e tale da generare qualche dubbio sulle attuali teorie che cercano di spiegare il modo in cui è organizzato l’Universo. In generale, le stelle sono raccolte in galassie che a loro volta formano: gruppi di galassie, ammassi di galassie e superammassi di galassie, ma anche “muri” e “filamenti” (modi diversi in cui ci appare l’organizzazione di più galassie). Queste strutture sono separate tra loro da grandi vuoti, al punto da dare l’impressione che l’Universo osservabile sia una sorta di ragnatela.Rappresentazione della ragnatela cosmica (“Cosmic Web”) con la distribuzione omogenea su grande scala delle galassie (NASA)
    Fino alla fine del Novecento si ipotizzava che alcuni tipi di superammassi fossero le strutture più grandi esistenti, e che fossero distribuite in modo omogeneo e uniforme in ogni direzione. Le cose cambiarono negli anni Ottanta con la scoperta di strutture ancora più grandi e nel 1989 fu confermata l’esistenza della Grande Muraglia CfA2, un grande gruppo di galassie con un’estensione stimata intorno ai 500 milioni di anni luce. La sua esistenza suggerisce una concentrazione di materia che almeno in parte mette in discussione le teorie sulla distribuzione pressoché omogenea dell’Universo su larga scala (e su cui si discute molto anche in termini di materia oscura ed energia oscura, come abbiamo raccontato estesamente qui).
    Nell’aprile del 2003 fu osservato il gigantesco ammasso di galassie noto come Grande Muraglia di Sloan, con una estensione di 1,37 miliardi di anni luce, quasi tre volte più grande della Grande Muraglia CfA2. Nel 2021 fu invece data notizia della scoperta dell’Arco Gigante, che potete immaginare come tante galassie messe in fila a formare un arco con una lunghezza di 3,3 miliardi di anni luce.
    La nuova struttura annunciata dal gruppo di ricerca britannico è stata chiamata Grande Anello e ha un diametro di 1,3 miliardi di anni luce: rientra quindi ai primi posti della classifica. Si trova a circa 9 miliardi di anni luce dalla Terra e non può essere osservata a occhio nudo. La scoperta è stata esposta nel corso di un convegno dell’American Astronomical Society a New Orleans, negli Stati Uniti, e ha fatto discutere perché aggiunge nuovi elementi sulle strutture a grande scala dell’Universo.
    In rosso l’Arco Gigante e in blu il Grande Anello, mostrati nel cielo visibile notturno (University of Lancashire)
    Dopo le prime scoperte di questo tipo, erano state elaborate teorie che ipotizzavano un limite di estensione intorno agli 1,2 miliardi di anni luce, ma sia il Grande Anello sia l’Arco Gigante sembrano contraddire quelle ipotesi e potrebbero non essere una semplice eccezione.
    Se così fosse, dovrebbe essere rivisto il principio cosmologico, cioè l’assunto secondo il quale su una scala molto grande l’Universo è omogeneo e isotropo (cioè si comporta allo stesso modo in ogni direzione che consideriamo). Queste caratteristiche appaiono appunto su grande scala, mentre a un livello più basso – come può essere un gruppo di galassie o l’organizzazione di un sistema solare come il nostro – l’Universo ci appare disomogeneo e più disordinato.
    Il principio cosmologico limita in modo significativo la quantità di teorie cosmologiche, cioè le spiegazioni su come funzioni l’Universo, che possono essere considerate possibili e plausibili. Per questo le novità sulle strutture a grande scala vengono seguite con attenzione perché potrebbero portare a rivedere alcuni assunti di quel principio, un tema molto dibattuto e sul quale non c’è ancora consenso scientifico.
    Nel caso del Grande Anello, l’identificazione è stata possibile grazie alla Sloan Digital Sky Survey (SDSS), un’iniziativa per identificare e catalogare galassie che ha permesso l’individuazione di numerosi quasar (buchi neri attivi altamente luminosi) a grande distanza. Sfruttando la loro luminosità è possibile rivelare la presenza di ammassi di galassie molte distanti, che si trovano tra i quasar e il nostro punto di osservazione, derivando in questo modo informazioni sulle caratteristiche di quegli ammassi. I dati raccolti sono stati poi analizzati utilizzando vari algoritmi per definire, tramite la statistica, l’eventuale presenza di strutture a grande scala.
    Questa tecnica di osservazione è diventata via via più affidabile, grazie ad alcuni importanti progressi sia nelle tecnologie per osservare il cielo sia nei modelli e negli algoritmi per trarre informazioni dai dati raccolti. C’è comunque sempre il rischio che l’osservazione porti a descrivere strutture che sono però diverse da come ci appaiono. Ci possono essere distorsioni legate alle distanze (soprattutto in profondità, rispetto a come ci appaiono gli elementi sullo stesso piano dal nostro punto di osservazione), al modo in cui viene osservata la luce che attraversa i gruppi di galassie e al modo in cui viene riflessa da questi. LEGGI TUTTO

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    Perché la NASA ha rinviato i suoi piani per la Luna

    Caricamento playerLa NASA ha rinviato di almeno un anno il programma lunare Artemis, che nei progetti dell’agenzia spaziale statunitense dovrà riportare gli astronauti sulla Luna dopo le missioni Apollo di oltre 50 anni fa. Il rinvio era stato previsto da tempo da numerosi esperti e analisti considerati i ritardi in quasi tutti i settori del progetto, ma fino a ieri la NASA aveva mantenuto ufficialmente il calendario fissato anni fa e che prevedeva il primo viaggio intorno alla Luna di un equipaggio entro la fine di quest’anno. Il rinvio conferma le numerose difficoltà intorno ad Artemis, con ricadute non solo per la NASA, ma per le decine di aziende private e agenzie spaziali in giro per il mondo che collaborano al progetto, compresa l’Agenzia spaziale europea (ESA).
    A oggi il programma lunare avviato sette anni fa, sulla scia di precedenti iniziative, ha portato a termine una sola missione senza equipaggio: Artemis 1, un volo dimostrativo che nel novembre del 2022 aveva permesso di verificare il funzionamento del potente razzo SLS (Space Launch System) e di Orion, la capsula all’interno della quale viaggeranno un giorno gli astronauti diretti verso il nostro satellite naturale. Quella missione, arrivata dopo numerosi ritardi e rinvii a causa di problemi tecnici, era stata un successo, ma aveva comunque messo in evidenza numerosi problemi che secondo la NASA non potranno essere risolti entro la fine dell’anno, come inizialmente auspicato.
    Nel corso di una conferenza stampa organizzata martedì 9 gennaio, l’amministratore associato della NASA Jim Free ha pronunciato una frase che molti osservatori, non necessariamente i più critici, attendevano da tempo: «Dobbiamo essere realistici». Free ha ammesso che molti dettagli di Artemis devono essere ancora chiariti, ma soprattutto che alcune tecnologie non sono pronte per permettere al programma lunare di essere realizzato secondo i piani. Il progetto è del resto molto ambizioso e al tempo stesso complicato, se confrontato con il programma Apollo che per la prima volta portò gli astronauti sulla Luna.
    A differenza di come andarono le cose negli anni Sessanta, la NASA ha previsto per Artemis un forte coinvolgimento delle aziende private, affidando loro in appalto la gestione di numerose attività sulle quali sono richieste più autonomie rispetto al passato. La società spaziale SpaceX di Elon Musk, per esempio, ha ricevuto l’incarico di sviluppare un sistema per trasportare gli astronauti dall’orbita lunare al suolo della Luna, attraverso la sua nuova grande astronave Starship. Il veicolo spaziale è però ancora in fase di test, ha condotto due soli lanci e non ha mai compiuto nemmeno un’orbita intorno alla Terra. Musk sostiene che nei prossimi mesi ci sarà una rapida accelerazione nei test e nei progressi, ma servirà del tempo prima che Starship raggiunga i requisiti della NASA per essere certificata per il trasporto di esseri umani.
    Starship sulla rampa di lancio a Boca Chica in Texas (SpaceX)
    Artemis 2 non prevede l’utilizzo di Starship, perché l’equipaggio a bordo non compirà un allunaggio; nello sviluppo dei suoi sistemi sono comunque emersi problemi legati soprattutto a Orion. L’analisi della capsula dopo Artemis 1 aveva fatto riscontrare alcuni problemi allo scudo termico, la parte che la protegge durante il rientro nell’atmosfera in cui si sviluppano temperature molto alte, fino a 2.700 °C. Lo scudo in alcuni punti si è sfaldato, rimanendo ampiamente nei margini di sicurezza, ma in modo sufficiente da far staccare alcuni frammenti: la NASA vuole capire se questi avrebbero potuto colpire altre parti di Orion, costituendo un rischio per le missioni in cui ci sarà un equipaggio a bordo, a partire proprio da Artemis 2.
    Le analisi avevano inoltre messo in evidenza un altro problema legato al sistema di abbandono del lancio, fondamentale nel caso di un malfunzionamento del grande razzo SLS che spinge Orion oltre l’atmosfera terrestre e lo indirizza poi verso la Luna. La capsula è collocata in cima a SLS e c’è la possibilità di accendere alcuni razzi, molto più piccoli, per staccarsi dal lanciatore in poche frazioni di secondo se questo non dovesse funzionare come previsto. Le simulazioni e i test sul sistema di abbandono del lancio avevano dato i risultati attesi, ma era emerso un danneggiamento di alcune batterie della capsula, che potrebbe costituire un rischio per chi è a bordo e che devono quindi essere sistemate.
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    Altri problemi sempre legati a Orion sono emersi nella preparazione delle prossime missioni di Artemis, in particolare a causa di un errore di progettazione di un circuito che gestisce il funzionamento di alcune valvole all’interno della capsula impiegate tra le altre cose per ridurre i livelli di anidride carbonica al suo interno, mantenendo l’aria respirabile per l’equipaggio. I tecnici hanno dovuto smontare il modello di Orion realizzato per Artemis 2, in modo da poter sostituire i componenti difettosi. Questi lavori secondo le informazioni fornite dalla NASA sono stati una delle principali cause del rinvio.
    Il lancio di Artemis 2 era infatti previsto per settembre di quest’anno, ma si è deciso di rinviarlo a settembre 2025. Il rinvio fa sì che tutte le altre missioni di Artemis scalino di almeno un anno, con Artemis 3 – la prima missione con un allunaggio – che non avverrà prima di settembre 2026. L’amministratore della NASA, Bill Nelson, ha motivato in modo piuttosto perentorio, ripetendo un concetto che usa spesso quando si verifica qualche imprevisto nella programmazione delle missioni con equipaggi: «Non voliamo finché tutto non è pronto. La sicurezza è fondamentale».
    Artemis 2 prevede che a bordo di Orion ci siano quattro astronauti che dopo il lancio rimarranno in orbita intorno alla Terra per 24 ore, in modo da condurre vari test sulla capsula. Dopodiché inizierà il viaggio verso la Luna, ma senza che Orion entri in orbita intorno al satellite: lo supererà, sorvolerà la parte della Luna non osservabile dalla Terra a circa 7.400 chilometri di distanza e poi tornerà verso il nostro pianeta. La missione servirà per verificare buona parte delle strumentazioni, fatta eccezione per tutto ciò che sarà necessario per l’allunaggio, a cominciare da Starship.
    (CSA)
    La grande astronave di SpaceX servirà infatti per Artemis 3, una missione molto più complessa. Nei piani della NASA, Starship dovrà raggiungere autonomamente l’orbita lunare e attendere l’arrivo di Orion con quattro astronauti a bordo. I veicoli spaziali si uniranno, rendendo possibile il passaggio di due membri dell’equipaggio, una donna e un uomo, da Orion a Starship, che effettuerà poi le manovre per compiere l’allunaggio. Dopo avere trascorso alcune ore sulla superficie lunare, i due astronauti torneranno in orbita sempre con Starship e rientreranno su Orion, raggiungendo i due colleghi che li avevano attesi nel frattempo. L’equipaggio riunito potrà quindi tornare verso la Terra e concludere la missione.
    (NASA)
    Annunciando il rinvio, la NASA ha elencato le molte difficoltà ancora da superare per poter realizzare Artemis 3. La prima e più evidente è la mancanza a oggi di un sistema per effettuare l’allunaggio: Starship non ha mai raggiunto nemmeno l’orbita terrestre ed è ancora molto lontana dall’essere testata per il suo impiego con equipaggi, così come devono essere ancora sperimentati i sistemi di attracco tra Orion e l’astronave di SpaceX, essenziali per permettere ai due astronauti di effettuare l’allunaggio.
    C’è poi un dettaglio che preoccupa più di tutto molti esperti: dopo il lancio, Starship dovrà essere in grado di ricevere rifornimenti in orbita intorno alla Terra prima di poter iniziare il proprio viaggio verso la Luna. Il rifornimento di combustibile in orbita non è stato mai sperimentato e implica l’impiego di altre astronavi per poterlo fare. La procedura pone ulteriori difficoltà tecniche, senza contare che saranno necessari più rifornimenti per Starship per le missioni lunari.
    Ipotesi del sistema di rifornimento orbitale per Starship, in un’elaborazione grafica (SpaceX)
    In futuro la NASA sfrutterà altri sistemi per l’allunaggio commissionati ad altre aziende, ma in molti da anni si chiedono l’utilità di un sistema così complicato per Artemis, soprattutto se confrontato con quello del programma Apollo. Le missioni che portarono i primi astronauti sulla Luna utilizzavano un sistema relativamente più semplice, con il modulo per l’allunaggio (LEM) che viaggiava insieme all’equipaggio già dalla Terra e progettato insieme agli altri sistemi per il trasporto degli astronauti. Quella soluzione aveva però il difetto di limitare la quantità di materiale trasportabile, un problema che la NASA ha cercato di superare anche nell’ottica di costruire Gateway, una piccola base orbitale che sarà assemblata intorno alla Luna.
    Artemis ha avuto inoltre una genesi alquanto travagliata. Ufficialmente il programma lunare fu avviato alla fine del 2017, quando l’allora presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, chiese alla NASA di tornare a esplorare la Luna con astronauti il prima possibile. Il suo predecessore, Barack Obama, aveva invece deciso che la NASA si dovesse concentrare sulle esplorazioni con equipaggi di destinazioni molto più remote come Marte. SLS e Orion erano già in fase di sviluppo da tempo e con enormi ritardi: in un certo senso fu cambiata la loro destinazione d’uso.
    I piani iniziali di Artemis prevedevano che il primo allunaggio non sarebbe stato effettuato prima del 2028, cosa che però non piaceva all’amministrazione Trump. Nel 2019 il vicepresidente Mike Pence, che aveva le deleghe sulle attività spaziali, annunciò che sarebbe stata necessaria un’accelerazione dei progetti e tra lo stupore di molti disse che l’allunaggio si sarebbe verificato entro la fine del 2024. Trump all’epoca confidava di ottenere un secondo mandato e vedeva in Artemis la possibilità di terminare la propria presidenza con un grande evento.
    Pence disse che del resto tra il famoso discorso del presidente John F. Kennedy con l’annuncio di portare i primi astronauti sulla Luna e il primo allunaggio erano passati appena otto anni, di conseguenza si poteva ottenere un risultato simile se non migliore con Artemis. All’epoca però la NASA aveva ricevuto per anni finanziamenti enormi, incomparabili con quelli degli ultimi anni destinati all’agenzia. Poco tempo dopo gli annunci di Pence si concretizzarono i problemi previsti da numerosi osservatori, sulla base di come erano andate fino ad allora le cose con i grandi ritardi legati a SLS e Orion.
    Artemis 1 nei piani iniziali sarebbe dovuta avvenire alla fine del 2020, ma nella realtà dei fatti la missione fu pronta per partire solo a novembre del 2022, quando ormai Trump non era più presidente e al suo posto c’era Joe Biden. Artemis 1 fu comunque un successo e ciò convinse la nuova presidenza a mantenere i piani, anche perché ormai la NASA aveva stretto una grande quantità di contratti e avviato anche un piano di intenti internazionale, sottoscritto da numerose agenzie spaziali.
    La capsula da trasporto Orion della missione lunare Artemis 1 e sullo sfondo la Luna e la Terra, osservate da una delle telecamere del veicolo spaziale nel corso delle attività orbitali intorno al nostro satellite naturale. L’immagine è stata realizzata a fine novembre 2022 (NASA)
    Considerati i precedenti ritardi, anche le nuove date annunciate martedì dalla NASA sembrano difficili da rispettare, come hanno fatto notare alcuni giornalisti nel corso della conferenza stampa. Free ha risposto alle obiezioni ricordando che le società che lavorano in appalto per Artemis hanno concordato sulla definizione delle nuove scadenze: «Da come la vedo io, le persone coinvolte nell’industria spaziale sono qui per dirci che sono d’accordo. Per quanto riguarda il governo abbiamo firmato contratti che ci impegnano per quelle date, sulla base dei dettagli tecnici che ci hanno fornito, e che hanno valutato i nostri gruppi di tecnici».
    Il forte coinvolgimento delle aziende private non riguarda solamente le missioni con astronauti, ma anche la possibilità di raggiungere e trasportare sulla Luna materiale come robot e strumentazioni. La NASA vuole creare un ecosistema in cui i privati sono incentivati a essere il più autonomi possibile, riducendo in questo modo i costi per l’agenzia spaziale che potrà poi fruire dei loro servizi. Tra i progetti più importanti in tal senso c’è il Commercial Lunar Payload Services (CLPS) che ha di recente portato a Peregrine, una missione lunare privata gestita dalla società Astrobotic per portare sulla Luna strumentazioni di vario tipo, compresi alcuni sistemi per esperimenti scientifici della NASA. Dopo il lancio, la missione ha però avuto problemi tecnici e non sarà in grado di compiere un allunaggio.
    I progetti come CLPS consentono di accelerare i tempi delle missioni, ma come dimostra Peregrine non offrono le garanzie che di solito danno le iniziative gestite direttamente dalla NASA. I responsabili dell’agenzia ne sono consapevoli e dicono che i maggiori rischi sono comunque compensati dalla possibilità di avviare più di frequente nuove missioni verso la Luna. Le esplorazioni lunari sono del resto considerate essenziali sia per sperimentare soluzioni che un giorno potranno essere impiegate su destinazioni ancora più ambiziose, come Marte, sia per lo sfruttamento delle risorse lunari o per la produzione di nuovi materiali, sfruttando le diverse condizioni di gravità rispetto alla Terra. Prima, però, sulla Luna dobbiamo tornarci. LEGGI TUTTO

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    Il business delle sepolture sulla Luna

    Da lunedì 8 gennaio le ceneri di oltre 80 persone sono nello Spazio, trasportate dalla missione spaziale privata statunitense Peregrine. Avrebbero dovuto essere portate sulla Luna, dove sarebbero poi rimaste per sempre, ma a causa di un problema ai sistemi del veicolo spaziale non succederà: martedì sera Astrobotic, l’azienda che aveva organizzato la missione, ha detto che ci sono «zero possibilità» che Peregrine atterri sulla luna. Familiari e amici delle persone defunte erano preparati a un eventuale fallimento della missione, che nei mesi scorsi aveva suscitato qualche polemica e protesta da parte dei nativi americani della Nazione Navajo, una riserva nel sud degli Stati Uniti, per i quali la Luna è un luogo sacro che non può essere trasformato in un cimitero.Le società che organizzano queste missioni la pensano diversamente: per loro le sepolture sono un importante opportunità di affari, con prezzi intorno ai 13mila dollari per ogni partecipante.
    Peregrine era partita nella notte tra domenica 7 e lunedì 8 gennaio (in Italia era la mattina di lunedì) da Cape Canaveral in Florida, spinta da un nuovo razzo Vulcan della joint venture United Launch Alliance, al proprio volo inaugurale. Il lancio, considerato una delle parti più critiche della missione visto che Vulcan non era mai stato utilizzato prima, era andato come previsto e aveva permesso di collocare Peregrine nella giusta orbita per raggiungere la Luna. Nelle ore seguenti, però, Astrobotic aveva segnalato alcuni problemi nei sistemi per mantenere il veicolo spaziale stabile e nella giusta traiettoria verso la Luna, che avrebbe dovuto raggiungere a fine febbraio.
    Inizialmente sembrava che ci fossero margini per sistemare le cose, ma ulteriori analisi avevano portato all’identificazione di un malfunzionamento nel sistema di propulsione tale da compromettere l’arrivo sulla Luna. Martedì mattina Astrobotic ha confermato l’impossibilità di compiere un allunaggio, ma ha detto di essere comunque al lavoro per raccogliere quanti più dati possibile e cercare di fare avvicinare Peregrine alla Luna, prima di perderne il controllo.
    Peregrine era nata nell’ambito del Commercial Lunar Payload Services (CLPS), il programma avviato dalla NASA per inviare sulla Luna piccoli robot automatici per esplorarne il suolo, raccogliere dati sulle sue caratteristiche e prepararsi meglio alle future esplorazioni con esseri umani del programma lunare Artemis. A differenza di quanto avveniva un tempo, l’iniziativa prevede un forte coinvolgimento di aziende private, che hanno la diretta responsabilità sull’organizzazione della missione e che la finanziano attraverso contratti di appalto con la NASA e accordi con altre aziende e organizzazioni, interessate a trasportare sulla Luna robot, sensori, oggetti o, appunto, le ceneri di persone che in vita avevano espresso il desiderio di essere sepolte tra i crateri lunari.
    Il lander Peregrine nelle ultime fasi di preparazione prima dell’inserimento nel razzo per il lancio (Astrobotic)
    L’idea di avere una sepoltura spaziale non è nuova, anzi, è più longeva dell’era dell’esplorazione spaziale stessa, iniziata una settantina di anni fa. Tra i primi a immaginarla ci fu lo scrittore di fantascienza statunitense Neil Ronald Jones, che nel 1931 pubblicò il racconto The Jameson Satellite sull’ultimo essere umano sopravvissuto grazie a una capsula che lo aveva perfettamente conservato per 40 milioni di anni, in giro per lo Spazio.
    Si sarebbero però dovuti attendere più di sessant’anni prima che fosse effettuata una prima sepoltura spaziale, per quanto simbolica. Nel 1992 sullo Space Shuttle Columbia della NASA c’era un piccolo campione delle ceneri di Gene Roddenberry, diventato famoso per essere stato l’ideatore della serie televisiva Star Trek. Le ceneri furono riportate sulla Terra alla fine della missione, quindi formalmente il progetto servì più che altro per portare idealmente Roddenberry nello Spazio, l’ambiente che più aveva raccontato tramite la sua serie di fantascienza (oltre a essere una buona occasione per la NASA per farsi un po’ di pubblicità, risvegliando un certo interesse ormai sopito intorno alle missioni degli Shuttle).
    Le ceneri di Roddenberry tornarono nello Spazio cinque anni dopo, quando la società Celestis organizzò la prima sepoltura spaziale vera e propria, trasportando in orbita i campioni di 24 persone cremate. Per circa un mese, le ceneri orbitarono all’interno di una capsula intorno alla Terra, ma persero man mano quota fino a quando rientrarono nell’atmosfera finendo a nord-est dell’Australia.
    Il successo dell’iniziativa e l’interesse dimostrato da molte altre persone desiderose di avere le proprie ceneri nello Spazio portò Celestis ad ampliare le attività e a organizzare altri trasporti di campioni oltre l’atmosfera terrestre. Alla fine degli anni Novanta la NASA incaricò Celestis di organizzare qualcosa di diverso: portare le ceneri di una persona sulla Luna. Non una persona qualsiasi, ma Eugene Merle Shoemaker, geologo statunitense famoso per i suoi studi sugli impatti tra corpi celesti (identificò per tempo il grandioso impatto della cometa Shoemaker-Levy 9 su Giove), morto nel 1997 in un incidente stradale in Australia, dove stava studiando un cratere.
    Due anni dopo un campione delle sue ceneri raggiunse la Luna a bordo di Lunar Prospector, una sonda della NASA per lo studio del campo magnetico e del campo gravitazionale lunare, fatta appositamente schiantare in un cratere alla fine della sua missione. Il 31 luglio 1999, a poco più di 30 anni dal primo allunaggio con gli astronauti dell’Apollo 11, Shoemaker divenne l’unico essere umano le cui ceneri erano state sepolte su un corpo celeste diverso dalla Terra. Il primato sarebbe dovuto cadere il prossimo febbraio, con l’arrivo dei campioni delle ceneri delle 66 persone gestite da Celestis e trasportate da Peregrine, ma il fallimento della missione rende improbabile questa circostanza (a bordo ci sono inoltre le ceneri di una ventina di altre persone gestite da Elysium Space, un’altra società specializzata in sepolture spaziali).
    Celestis offre diversi pacchetti e opzioni per portare oltre l’atmosfera terrestre le ceneri di qualcuno e negli anni ha ampliato la propria offerta commerciale, rispondendo a una domanda crescente per i suoi servizi. La società prenota dalle aziende spaziali un piccolo spazio sui loro razzi come “carico secondario”, rispetto a quello “primario” che può essere un satellite o una sonda. I carichi secondari sono un’importante opportunità per i centri di ricerca e alcune aziende per trasportare qualcosa nello Spazio, per effettuare test ed esperimenti di vario tipo, ma negli ultimi anni sono diventati anche una risorsa per le società che promettono di portare qualcosa (oggetti, piccole opere d’arte o appunto le ceneri di qualcuno) oltre l’atmosfera terrestre come iniziativa simbolica.
    Le capsule utilizzate da Celestis per il trasporto nello Spazio dei campioni di ceneri (Celestis)
    Un carico secondario deve avere una massa contenuta (ogni grammo conta quando si deve usare un sacco di energia per portare qualcosa nello Spazio), di conseguenza Celestis non porta tutte le ceneri derivanti dalla cremazione di una persona, ma solamente un piccolo campione che viene conservato in una capsula grande più o meno quanto una batteria stilo (AA). Sulla capsula vengono incisi nome e cognome della persona defunta e una frase per ricordarla.
    L’opportunità è sia rivolta alle persone direttamente interessate, che prima di morire si premurano di esprimere la loro volontà e firmano un contratto con Celestis, sia ai familiari e agli amici che decidono di mantenere un ricordo particolare della persona che hanno perso. Le tariffe variano molto a seconda dell’esperienza: per un semplice rapido passaggio nell’ambiente spaziale prima di tornare sulla Terra si spendono circa 3mila dollari, per un lancio in orbita si arriva a 5mila, mentre per una sepoltura sulla Luna o alla deriva nello Spazio si spendono circa 13mila dollari. La possibilità di farlo è inoltre vincolata alle leggi sul modo in cui possono essere conservate e disperse le ceneri, che variano molto a seconda dei paesi. Altre opzioni prevedono di poter inviare nello Spazio un proprio campione di DNA, cosa che può anche essere fatta in vita attraverso un prelievo di saliva che viene poi analizzata per sequenziarne il materiale genetico.
    Il maggiore coinvolgimento dei privati nelle attività verso la Luna, favorito sia dai piani della NASA sia in generale da una riduzione nei costi di lancio dalla Terra, ha fatto sì che aumentasse l’interesse per le sepolture spaziali in un contesto dove ci sono pochissime regole.
    Molte delle cose che si possono o non si possono fare oltre l’atmosfera terrestre sono regolate dal Trattato sullo spazio extra-atmosferico (Outer Space Treaty), un documento internazionale sottoscritto da diversi paesi a partire dal 1967 dove si sancisce che l’uso dello Spazio è aperto a tutti, con qualche limitazione. Il trattato dice chiaramente che non si possono collocare armi atomiche e di distruzione di massa nello Spazio e che non si può nemmeno reclamare la sovranità su un territorio di un altro corpo celeste. Viene anche chiesto ai sottoscrittori di non causare contaminazioni che siano dannose per la Luna e i pianeti del sistema solare, specialmente nell’ottica di identificare eventuali tracce di vita riducendo il rischio che siano gli umani stessi a portarle dalla Terra.
    Sulle sepolture spaziali non ci sono indicazioni e il modo in cui sono state gestite finora rientra nei criteri del trattato, almeno secondo la maggior parte degli esperti. Celestis come le altre società del settore può quindi portare nello Spazio le ceneri, che del resto sono inerti e non possono comportare particolari contaminazioni. Ma su questo aspetto non tutti sono d’accordo e tra chi protesta da più tempo ci sono i rappresentanti della Nazione Navajo – la riserva indigena tra Arizona, Nuovo Messico e Utah – per i quali la Luna è sacra e non può diventare un luogo di sepoltura.
    La Luna vista da uno dei territori della Nazione Navajo (David McNew/Getty Images)
    Già alla fine degli anni Novanta quando era stata annunciata la sepoltura lunare di Shoemaker l’allora presidente della Nazione Navajo, Albert Hale, protestò con la NASA per la scelta di lasciare i resti di un essere umano in un luogo dalla valenza sacra per molte persone. All’epoca l’agenzia spaziale statunitense ammise che forse avrebbe potuto consultare più estesamente i membri di quella comunità, prima di procedere con l’iniziativa, e si impegnò a farlo nel caso in cui ci fossero state altre sepolture sulla Luna.
    Quella consultazione, hanno segnalato nei mesi scorsi i rappresentanti della Nazione Navajo, non è però poi avvenuta in occasione del lancio di Peregrine nonostante il problema fosse stato sollevato più volte in passato. I responsabili della NASA hanno risposto ricordando che tecnicamente la missione è interamente gestita da Astrobotic e che l’agenzia non ha alcun controllo su ciò che l’azienda decide di portare sulla Luna, al di là delle strumentazioni per le attività scientifiche gestite dalla NASA. La giustificazione è stata percepita come una sorta di scaricabarile spaziale, suscitando ulteriori malumori nella comunità.
    L’attuale presidente della Nazione Navajo, Buu Nygren, ha detto che: «L’atto di depositare sulla Luna resti umani e altro materiale, che potrebbe essere percepito come uno scarto in qualsiasi altro luogo, equivale a una profanazione di un posto sacro». Il CEO e cofondatore di Celestis, Charles Chafer, la pensa diversamente: «Penso che sia l’esatto opposto di una profanazione. È una celebrazione. Non capisco perché fare questa cosa su un corpo celeste “morto” sia una profanazione, mentre abbiamo letteralmente milioni di luoghi in cui vengono disperse le ceneri su un pianeta vivente come la Terra, e non lo consideriamo una profanazione».
    A inizio anno la NASA si era comunque offerta di avviare un ulteriore confronto sulla questione. La tendenza in generale è comunque normare il meno possibile iniziative di questo tipo, considerato che per ora riguardano pochissime aziende e che regole troppo rigide potrebbero fermare la crescita in generale del settore delle esplorazioni spaziali private. Il problema comunque esiste, perché man mano che ci saranno nuove opportunità di raggiungere la Luna a costi più bassi aumenterà anche la quantità di materiali trasportati sul suolo lunare, molti dei quali a un certo punto diventeranno rifiuti.
    Nei prossimi giorni si capirà che fine farà Peregrine e come proseguirà il viaggio nello Spazio delle ceneri che ha a bordo. Tra queste c’è anche un campione delle ceneri di Arthur C. Clarke, autore di fantascienza britannico famoso soprattutto per il romanzo 2001: Odissea nello spazio del 1968 e il film con lo stesso titolo diretto da Stanley Kubrick, nel quale immaginò tra le altre cose una base lunare prima ancora che i primi astronauti l’avessero raggiunta nella realtà. La sepoltura lunare di Clarke avrebbe avuto per molti appassionati un importante valore simbolico, ma l’autore è comunque già ricordato con un asteroide (4923) e con il nome informale dato all’orbita geostazionaria della Terra. LEGGI TUTTO

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    Il primo lancio del nuovo razzo Vulcan dagli Stati Uniti è stato un successo

    Nella mattina di lunedì il nuovo razzo Vulcan della joint venture United Launch Alliance (ULA) ha effettuato con successo il proprio lancio inaugurale da Cape Canaveral in Florida, negli Stati Uniti, trasportando oltre l’atmosfera terrestre la missione Peregrine per l’esplorazione della Luna con un lander per conto della NASA.Il primo lancio era atteso da tempo a causa di alcuni ritardi nello sviluppo di Vulcan, un razzo molto importante per l’esplorazione spaziale dagli Stati Uniti frutto della collaborazione tra le due grandi aziende aerospaziali Boeing e Lockheed Martin, che lavorano insieme nell’ambito di ULA. Il successo del lancio è una prima conferma dell’affidabilità di Vulcan, che sostituirà i precedenti lanciatori Atlas V e Delta IV, più costosi e meno efficienti.
    ULA ha già venduto più di 70 lanci con Vulcan, la maggior parte dei quali ad Amazon, che ha necessità di portare rapidamente in orbita centinaia di piccoli satelliti per attivare Project Kuiper, il proprio progetto per portare Internet dallo Spazio. ULA riceverà inoltre almeno un paio di commissioni da parte della United States Space Force, quindi per strumentazioni militari, ma a patto che anche il prossimo lancio di un Vulcan avvenga senza problemi.

    We have liftoff! The first American commercial robotic launch to the Moon will deliver science instruments to study its surface, a critical part of preparing for future #Artemis missions. https://t.co/KoOZjXvqjD pic.twitter.com/Vo2Dnn6TwA
    — NASA (@NASA) January 8, 2024

    Peregrine raggiungerà la Luna nelle prossime settimane e se il suo lander toccherà regolarmente il suolo lunare avvierà alcune analisi, raccogliendo dati importanti per le nuove iniziative della NASA legate all’esplorazione della Luna anche con astronauti nei prossimi anni. La missione è totalmente gestita dalla società privata Astrobotic Technology, che ha ricevuto un appalto da 108 milioni di dollari da parte della NASA. LEGGI TUTTO

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    La sonda spaziale indiana Aditya-L1 ha raggiunto con successo la sua destinazione in orbita attorno al Sole

    Sabato la sonda spaziale indiana Aditya-L1 ha raggiunto con successo la sua destinazione in orbita attorno al Sole, a 1,5 milioni di chilometri di distanza dalla Terra. L’obiettivo della sonda è osservare il Sole con continuità, anche quando dalla Terra è nascosto a causa di eclissi, e portare avanti diversi studi: in particolare saranno analizzate la corona solare, la parte più esterna dell’atmosfera solare, la fotosfera, ossia la superficie solare, e la cromosfera, cioè il sottile strato dell’atmosfera solare spesso 10mila chilometri fra corona e fotosfera.La missione di Aditya-L1 era partita il 2 settembre, a pochi giorni di distanza da un risultato storico per l’agenzia spaziale indiana ISRO: l’atterraggio sulla Luna della missione Chandrayaan-3, che prevede di esplorare il suolo del satellite con un robot automatico (rover) per un paio di settimane. Tale missione è stata la prima ad approdare con successo al polo sud della Luna.
    La sonda realizzata per studiare la stella del Sistema solare è stata chiamata Aditya in onore della divinità indù del Sole, conosciuta con questo nome oltre che con quello di Surya. La sigla L1 rappresenta il punto di Lagrange 1, cioè la destinazione finale raggiunta oggi. Tra le altre cose Aditya-L1 permetterà di capire meglio i venti e le eruzioni solari, fenomeni dell’attività del Sole che influenzano la Terra e gli oggetti nella sua orbita (satelliti compresi) attraverso radiazioni, calore, flussi di particelle e flussi magnetici.

    India creates yet another landmark. India’s first solar observatory Aditya-L1 reaches it’s destination. It is a testament to the relentless dedication of our scientists in realising among the most complex and intricate space missions. I join the nation in applauding this…
    — Narendra Modi (@narendramodi) January 6, 2024 LEGGI TUTTO

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    Nettuno non è davvero di questo colore

    Caricamento playerNel 1989 la sonda Voyager 2 passò vicino a Nettuno, l’ottavo e più lontano pianeta del sistema solare partendo dal Sole, e raccolse dei dati che furono poi elaborati come immagini dalla NASA, l’agenzia spaziale statunitense. In queste fotografie Nettuno appare di un blu piuttosto acceso e da allora è questo il colore che gli associamo e che vediamo cercando online le sue rappresentazioni. Tuttavia non si tratta del suo colore reale, quello che vedremmo se ci trovassimo su un’astronave in viaggio vicino al pianeta. Nettuno è in realtà celeste, cioè azzurro molto tenue, un colore piuttosto simile a quello di Urano: lo ha chiarito uno studio appena pubblicato sulla rivista scientifica Monthly Notices of the Royal Astronomical Society.

    New images reveal what Neptune and Uranus really look like: pic.twitter.com/e6Jah29mAv
    — University of Oxford (@UniofOxford) January 5, 2024

    L’origine del malinteso è in parte dovuta alla tecnica usata da Voyager 2 per fotografare i pianeti, ha spiegato l’astrofisico dell’Università di Oxford Patrick Gerard Joseph Irwin, primo autore dello studio, che è basata sul modello per la resa dei colori RGB, sigla che sta per “red, green, blue” cioè “rosso, verde, blu”. In pratica per produrre un’unica immagine di un pianeta la sonda registrava tre diverse immagini: ognuna conteneva informazioni sulla componente rossa, o verde, o blu del colore del pianeta in questione, e solo combinate insieme restituivano il colore vero e proprio.
    La resa finale di questa operazione tuttavia può cambiare significativamente a seconda di come viene eseguita e di quali scelte vengono fatte. Parametri regolati diversamente possono risultare in immagini che appaiono molto differenti, come sa chiunque abbia usato un filtro di Instagram per modificare una fotografia scattata con uno smartphone.
    La NASA ha spiegato che, nel caso delle foto di Nettuno, le immagini furono composte in modo da «evidenziare la visibilità di piccole caratteristiche, a scapito della fedeltà del colore». In particolare, gli scienziati fecero una scelta consapevole per far sì che si vedessero meglio le perturbazioni nell’atmosfera del pianeta. Queste infatti sono molto meno visibili nelle immagini più fedeli realizzate dagli autori del nuovo studio. Gli astrofisici, in realtà, hanno sempre saputo che il vero colore di Nettuno non era quello delle immagini diffuse nel 1989, ma nel tempo questa informazione si è perlopiù persa nella percezione collettiva.
    Per ottenere un’immagine più realistica del pianeta Irwin e i suoi colleghi hanno utilizzato dati raccolti dal telescopio spaziale Hubble e altri ottenuti dal Very Large Telescope (VLT) dell’Osservatorio europeo australe, che si trova in Cile. Le immagini prodotte da questi strumenti più recenti sono composte da pixel che contengono ciascuno informazioni su tutti i colori dello spettro visibile all’occhio umano, e sono per questo più affidabili rispetto alle immagini registrate da Voyager 2. Grazie alle informazioni così ottenute è stato possibile riprocessare le immagini del 1989 per verificare di che colore fosse realmente Nettuno all’epoca.
    Nello stesso studio è stato anche verificato che Urano è un po’ più verde quando uno dei suoi poli è orientato verso il Sole, cioè durante le sue estati e i suoi inverni; è un po’ più bluastro invece nelle sue primavere e nei suoi autunni. LEGGI TUTTO

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    Come questo logo della NASA è finito ovunque

    Da qualche anno è sempre più frequente vedere in giro magliette, felpe e accessori come zaini e berretti con una semplice scritta: NASA. Molti sono convinti che le quattro lettere stilizzate in modo sinuoso siano il logo ufficiale dell’agenzia spaziale statunitense, mentre in realtà il simbolo principale della NASA è un altro, più elaborato e secondo alcuni un po’ confuso. Paradossalmente, il logo di maggior successo della più grande agenzia spaziale al mondo è quello secondario, che era stato adottato nella metà degli anni Settanta e abbandonato all’inizio dei Novanta, solo per essere riscoperto e rivalutato nell’ultimo periodo. C’entrano il revival degli anni Ottanta e Novanta, il gusto per le scritte grandi e vistose su alcuni capi di abbigliamento e come alcuni loghi appaiono meglio di altri sui razzi che mandiamo nello Spazio.Il logo principale della NASA viene affettuosamente chiamato dai dipendenti dell’agenzia e dagli appassionati “meatball”, cioè “polpetta” in inglese, sia per la sua forma sia per lo storico legame dell’agenzia con l’aviazione (l’OLS in aeronautica è un sistema di atterraggio ottico con globi colorati e viene spesso chiamato “polpetta”). A prima vista, il logo appare come un insieme poco coerente di linee che attraversano la scritta NASA con un disco blu di sfondo. Le linee rosse superano i margini stessi del disco, dando un senso di movimento, ma nel complesso rendono un poco disordinata la forma del simbolo. Per lungo tempo il logo della NASA è stato infatti polarizzante, tra chi lo amava e chi lo detestava e preferiva di gran lunga il logo alternativo, quello che oggi si trova più facilmente sulle magliette.
    Il disco blu è in realtà la versione schematica di una sfera che rappresenta un pianeta (quindi non necessariamente la Terra), mentre i puntini bianchi sono stelle in riferimento allo Spazio. Le due linee rosse che superano i margini del disco rappresentano l’ala di un aeroplano, per ricordare l’aeronautica, e si tratta in particolare di ali per il volo supersonico. L’ellissi bianca serve invece a indicare un veicolo spaziale che compie un’orbita intorno all’ala rossa e alla scritta NASA.
    (NASA)
    Il logo fu adottato alla fine degli anni Cinquanta e avrebbe poi ricevuto qualche aggiornamento nel corso del tempo, fino all’inizio degli anni Settanta, quando l’agenzia spaziale ritenne fosse arrivato il momento di ripensare la propria immagine. Il progetto rientrava in un’iniziativa più grande per rendere più coerente la grafica delle varie agenzie federali statunitensi.
    Il compito per quanto riguardava la NASA fu affidato all’agenzia di design Danne & Blackburn, relativamente piccola, ma conosciuta nel settore per i suoi progetti dall’aspetto futuristico. Bruce N. Blackburn, uno dei fondatori dell’agenzia, aveva lavorato in precedenza allo sviluppo del logo per il bicentenario della Rivoluzione americana. Utilizzando i colori della bandiera statunitense, aveva realizzato una stella formata da linee tondeggianti non molto diverse da quelle che avrebbero composto il nuovo logo della NASA.
    (Bruce N. Blackburn – Governo degli Stati Uniti)
    Dopo avere valutato diverse varianti e alternative, Danne & Blackburn propose infine il logo che oggi vediamo su tanti capi di abbigliamento e altri accessori. L’agenzia optò per un design futuristico, con le quattro lettere formate ciascuna da una sola linea, spessa e sinuosa, colorata di rosso-arancione. Le due A del logo erano appena abbozzate e non avevano la linea centrale, in modo da ricordare la punta dei razzi spaziali (la sezione di un’ogiva) o l’ugello di scarico dei motori utilizzati nell’industria aerospaziale.
    (NASA)
    Se il precedente logo era la “polpetta”, quello nuovo divenne conosciuto come “the worm”, cioè “il verme” in inglese, per via del modo in cui era disegnato con le sue semplici linee. Il nuovo logo era molto meno ingombrante del precedente e soprattutto poteva essere riconosciuto con facilità anche a distanza: era più leggibile rispetto al disco blu, senza le complicazioni che disturbavano la lettura della scritta NASA. Il “verme” poteva essere inserito con più facilità sulle fiancate dei veicoli spaziali e soprattutto in verticale sui razzi, visto che aveva uno sviluppo orizzontale che subiva meno la deformazione se applicato su una grande forma cilindrica.
    (NASA)
    Il nuovo logo fu adottato ufficialmente dalla NASA nel 1975 con Danne e Blackburn che lavorarono a un intero progetto di immagine coordinata per l’agenzia spaziale, per fare in modo che la NASA avesse una propria identità grafica coerente che si riflettesse in tutto ciò che faceva: dai veicoli spaziali alla propria documentazione, passando per i materiali della comunicazione. Fu prodotto il Graphic Standards Manual, un manuale di sessanta pagine che conteneva in grande dettaglio indicazioni sull’utilizzo del logo e dei font scelti per la NASA.
    Secondo Danne, l’introduzione dell’immagine coordinata non solo rese più coerente la grafica della NASA, ma semplificò anche numerose attività legate alla comunicazione interna dell’agenzia. Furono introdotti maggiori standard, come impaginazioni predefinite per i documenti, che resero più veloce la preparazione delle pubblicazioni in un’epoca in cui molte attività editoriali erano ancora realizzate analogicamente.
    (Graphic Standards Manual – NASA)
    L’introduzione del “verme” non piacque però a tutti sia all’interno sia all’esterno della NASA. I più critici ritenevano che fosse freddo e poco comunicativo, lontano dal logo precedente che trasmetteva invece un messaggio più articolato e soprattutto era legato ad alcuni dei più grandi progressi raggiunti dall’agenzia spaziale statunitense. Quando Neil Armstrong fece il famoso primo passo sulla Luna nel 1969 sulla sua tuta c’era l’emblema della NASA con il disco blu. Per alcuni il passaggio al nuovo logo aveva significato abbandonare le glorie e i successi del programma spaziale Apollo e delle imprese lunari dei suoi astronauti.
    (Graphic Standards Manual – NASA)
    Tra la fine degli anni Ottanta e i primi Novanta, la NASA attraversò uno dei propri periodi più difficili: dovette affrontare le conseguenze del disastro dello Shuttle Challenger e si erano presentati alcuni seri problemi per il telescopio spaziale Hubble. Fu in quel contesto, nel 1992, che l’allora amministratore della NASA, Daniel S. Goldin, decise di abbandonare il “verme” e di tornare allo storico logo precedente. Scelse di annunciarlo in modo categorico suscitando la sorpresa di molti dipendenti, riferendosi al logo di Danne e Blackburn disse: «A breve morirà e non lo rivedremo mai più».
    Dopo 17 anni circa di utilizzo il logo con la sola scritta NASA era ormai finito ovunque: sui documenti, sulle targhe all’esterno degli uffici, sulle tute degli astronauti, su alcuni veicoli spaziali, sulle fiancate dei razzi e sulle rampe di lancio, sui materiali usati nei laboratori e sul merchandising dell’agenzia. Farlo scomparire in breve tempo come auspicato da Goldin sarebbe stato impossibile e infatti il logo continuò a esistere, seppure mantenendo un’esistenza in secondo piano, quasi clandestina. Gli estimatori di quella grafica del resto non mancavano.
    Il presidente statunitense Ronald Reagan di fronte al prototipo dello Space Shuttle Enterprise al Dryden Flight Research Center della NASA il 4 luglio 1982 (NASA)
    Nel 2015 due designer attivarono una raccolta fondi online per finanziare la ristampa del Graphic Standards Manual cui avevano lavorato Danne e Blackburn, per far conoscere il loro lavoro, ma anche in segno di riconoscenza. L’iniziativa raccolse l’interesse di molti appassionati e portò a sette ristampe per un totale di oltre 35mila copie vendute in tutto il mondo. La nuova diffusione del manuale portò nuova visibilità al logo e iniziò ad attirare l’interesse di alcuni produttori di vestiti e accessori, interessati a utilizzarlo sui loro prodotti.
    Nel 2017 il marchio di moda Coach chiese alla NASA il permesso di utilizzare il “verme” su giacche, borse e scarpe e l’agenzia glielo concesse anche se il logo era stato ritirato. Come buona parte delle immagini e dei prodotti grafici prodotti dal governo degli Stati Uniti, infatti, gli emblemi come quelli della NASA sono di dominio pubblico e possono essere utilizzati senza pagare licenze, a patto che vengano resi rispettando alcune regole. Fatta eccezione per le rielaborazioni artistiche, i loghi della NASA dovrebbero essere riprodotti partendo dagli originali forniti dall’agenzia e mantenendo lo stesso schema di colori, che prevede l’impiego di specifici codici colore.
    (Coach)
    Coach contribuì a rendere nuovamente di moda il logo della NASA e ispirò molte altre aziende, che iniziarono a stamparlo sui loro prodotti. Visto il crescente successo e un certo attaccamento personale, nel 2020 l’amministratore dell’agenzia spaziale, Jim Bridenstine, decise di adottare nuovamente il “verme” come logo secondario e lo fece inserire sul Falcon 9 che per la prima volta riportò in orbita astronauti dal suolo statunitense, dopo il pensionamento degli Space Shuttle avvenuto nel 2011. Da allora il logo è tornato ad apparire sulle tute spaziali e su alcuni veicoli, come la capsula Orion, che un giorno sarà utilizzata per trasportare gli astronauti verso la Luna nell’ambito del programma spaziale Artemis.
    Orion e la Luna in lontananza (NASA)
    La coesistenza di due loghi così diversi non è sempre semplice da gestire e per i più ortodossi stona dalle regole di immagine coordinata che l’agenzia si era data negli anni Settanta. La NASA ha del resto 18mila impiegati e centinaia di uffici e laboratori, senza contare l’enorme indotto che genera nell’industria aerospaziale: mantenere un’identità visiva unica non è semplice e l’eccezione del logo secondario è stata accolta tutto sommato positivamente. Chi non sopportava il “verme” sa che comunque il logo principale continua a essere la “polpetta” e chi preferisce un design più futuristico si consola vedendo il logo rosso-arancione comparire di tanto in tanto.
    Il logo realizzato da Danne e Blackburn ha avuto un grande impatto, come dimostra il suo successo nel settore dell’abbigliamento e degli accessori. Anche per questo motivo a novembre la NASA ha invitato Danne a Washington, DC, per rendere omaggio al lavoro svolto circa cinquant’anni fa insieme al suo collega, morto nel 2021. Danne ha confermato che ancora oggi non è molto fan della “polpetta”, ma ha aggiunto di essere contento che i due loghi coesistano pacificamente: «Sono così diversi, ma abbiamo trovato il modo di fare funzionare questa cosa. È il modo migliore? Probabilmente no. Ma si avvicina molto a esserlo. Soprattutto, soddisfa tutti, quindi non posso lamentarmi». LEGGI TUTTO