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    Le categorie per classificare gli uragani non bastano più?

    Caricamento playerDagli anni Settanta gli uragani che suscitano maggiori preoccupazioni quando si avvicinano alle coste dell’America del Nord sono quelli «di categoria 5». Questa descrizione fa riferimento alla scala Saffir-Simpson, un sistema di classificazione per le tempeste tropicali più forti che si formano nel nord dell’oceano Atlantico o nel nord-est dell’oceano Pacifico basata sulla misura della velocità dei venti. Rientrano nella categoria 1, quella associata a danni limitati, le tempeste con venti di velocità compresa tra 119 e 153 chilometri orari. La categoria 5 invece è quella degli uragani i cui venti superano i 252 chilometri orari, ed è associata a danni «catastrofici».
    La scala non contempla una velocità massima oltre la quale non si può più parlare di categoria 5, perché già con venti di 252 chilometri orari si possono avere danni gravissimi. Tuttavia secondo due scienziati statunitensi potrebbe esserci una buona ragione per aggiungere una “categoria 6” alla scala o almeno discutere l’idea. In un articolo pubblicato la settimana scorsa sull’autorevole rivista Proceedings of the National Academy of Sciences Michael Wehner e James Kossin lo hanno proposto perché il cambiamento climatico sta causando un aumento della frequenza delle tempeste tropicali più intense. Secondo loro distinguerle dalle altre aiuterebbe a far conoscere questo problema ed eviterebbe di sottostimare i rischi per la sicurezza di infrastrutture e persone.
    La “categoria 6” ipotizzata da Wehner e Kossin comprenderebbe le tempeste tropicali con venti di velocità superiore a 309 chilometri orari. Dal 2013 a oggi ce ne sono state cinque, un uragano e quattro tifoni, come sono chiamati gli uragani del nord-ovest del Pacifico, a cui sono esposte le coste del sud-est asiatico: il tifone Haiyan, che nel novembre del 2013 uccise migliaia di persone nelle Filippine; l’uragano Patricia, che ha riguardò l’ovest del Messico nell’ottobre del 2015 e i cui venti arrivarono a 346 chilometri orari di velocità; il tifone Meranti del 2016, il tifone Goni del 2020 e il tifone Surigae del 2021.

    – Leggi anche: Che differenza c’è tra uragani e tifoni

    In generale la frequenza delle tempeste tropicali più intense è aumentata. Se si considerano i 42 anni tra il 1980 e il 2021, quelli per cui si hanno dati affidabili, le tempeste tropicali classificabili come di categoria 5 sono state 197: la metà è stata registrata negli ultimi 17 anni del periodo e i cinque più forti, già citati, sono avvenuti tutti negli ultimi nove anni.
    Questo fenomeno è legato all’aumento della temperatura degli oceani, che si stanno scaldando a livello globale come l’atmosfera, anche se più lentamente: semplificando, tanto più sono caldi gli strati superficiali dell’acqua, maggiore è l’energia che può generare precipitazioni particolarmente intense. E secondo le stime di Wehner e Kossin nello scenario in cui la temperatura media globale aumenterà di 2 °C rispetto ai livelli preindustriali il rischio tempeste “di categoria 6” raddoppierà.
    Non è la prima volta che degli scienziati mettono in discussione la scala Saffir-Simpson, che ha vari limiti e peraltro è usata solo in Nord America e non in Asia, dove si verificano tifoni e cicloni. Il suo difetto principale è che è basata unicamente sulla velocità del vento, e non sulla forza delle onde che si abbattono sulle coste all’arrivo di una tempesta e delle inondazioni che può causare, sebbene la maggior parte dei danni dovuti agli uragani sia causata proprio dall’acqua e non dall’aria.
    Tuttavia già in passato e anche in questa occasione alcuni scienziati si sono detti contrari all’ampliamento della scala con una “categoria 6”. Michael Fischer del laboratorio oceanografico e meteorologico dell’Atlantico della National Oceanic and Atmospheric Administration (NOAA), l’agenzia statunitense che si occupa degli studi meteorologici e oceanici, ha detto al Washington Post che potrebbe essere controproducente perché potrebbe far sottostimare gli uragani di categoria 5.
    Le agenzie statali statunitensi che si occupano di meteorologia e dei rischi legati agli uragani in ogni caso non hanno in programma di modificare l’uso della scala Saffir-Simpson al momento. Già oggi in realtà le associano delle previsioni sulle inondazioni, che però sono meno note, soprattutto dove solitamente non arrivano uragani. Deirdre Byrne, un’oceanografa della NOAA, si è espressa abbastanza positivamente sulla proposta di una “categoria 6” («non sarebbe inappropriata») ma ha detto che forse sarebbe più utile associare la scala Saffir-Simpson a un sistema simili che classifichi i rischi legati alle alluvioni, ad esempio con una scala da A a E.
    Gli stessi Kossin e Wehner hanno detto che per decidere se estendere la scala esistente bisognerebbe prima commissionare una ricerca sociologica per verificare come modificherebbe la percezione del rischio delle persone. LEGGI TUTTO

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    La scoperta di quattro nuove colonie di pinguini imperatori è una piccola buona notizia

    Attraverso alcune osservazioni satellitari sono state identificate quattro nuove colonie di pinguini imperatori in Antartide. È considerata una buona notizia, visto che recentemente alcune analisi avevano segnalato la scomparsa di numerosi individui di questi animali a causa della fusione dei ghiacci dovuta alle temperature anomale, sia nell’inverno sia nell’estate antartiche.La scoperta è stata resa possibile grazie all’osservazione dallo Spazio delle feci (guano) prodotte dai pinguini, che ricoprendo la superficie ghiacciata ne fanno variare il colore rendendo rilevabile in maniera indiretta la presenza delle colonie nelle immagini satellitari. La tecnica viene utilizzata da diversi anni e si è rivelata fondamentale per tenere sotto controllo le popolazioni di questi animali.
    L’identificazione delle nuove colonie è stata raccontata dal ricercatore Peter Fretwell sulla rivista scientifica Antarctic Science. Lo studio segnala che grazie alla nuova scoperta si può stimare la presenza di almeno 66 colonie di pinguini imperatori in Antartide, con le quattro da poco scoperte che riempiono alcuni spazi vuoti intorno alla costa antartica dove finora non era nota la presenza di questi animali.
    I pinguini imperatori vivono per lo più lungo le zone costiere sul ghiaccio fisso, cioè la parte di ghiaccio marino (banchisa) attaccata alla costa, che come suggerisce il nome rimane stabile nella medesima posizione senza muoversi a causa delle correnti marine o dei venti. Si riproducono sul ghiaccio fisso e depongono le uova tra maggio e giugno; i piccoli nascono un paio di mesi dopo, ma non sono autonomi fino a dicembre-gennaio. Il pinguino imperatore è la specie di pinguino più grande ma meno presente in Antartide, con una popolazione stimata di circa 600mila individui.
    Le quattro nuove colonie (rosso) identificate dallo studio, nel contesto delle colonie già note (grigio) lungo la costa antartica (British Antarctic Survey)
    Negli ultimi anni erano stati segnalati molti problemi legati ad alcune colonie di pinguini imperatori, che si erano fortemente ridotte o erano proprio scomparse. Uno studio pubblicato nel 2022 aveva per esempio segnalato che, a causa della riduzione del ghiaccio marino, in almeno quattro colonie erano morti migliaia di pinguini imperatori appena nati, con gravi conseguenze sulla loro popolazione. Nel nuovo studio, Fretwell ipotizza cha una delle quattro colonie ora identificate possa essere il frutto del trasferimento di animali da una delle colonie che si credevano perse.
    La ricerca segnala che tre delle quattro nuove colonie hanno meno di un migliaio di individui, quindi la scoperta non incide più di tanto sulle stime complessive sulla presenza dei pinguini imperatori. La novità è però importante perché dà la possibilità di avere un censimento più accurato delle colonie che costellano la costa antartica, anche in vista di futuri studi per calcolare meglio la presenza di questi animali e soprattutto la variazione nelle dimensioni delle colonie nel corso del tempo.
    Le frecce indicano le aree ricoperte dal guano dove sono state identificate le quattro nuove colonie (British Antarctic Survey)
    A causa del cambiamento climatico il ghiaccio marino in Antartide è meno presente rispetto a un tempo. Negli ultimi due anni, per esempio, si è registrata la copertura più scarsa di ghiaccio da quando si è iniziato a tenerla sotto controllo dalla fine degli anni Ottanta. Si stima che almeno un terzo delle colonie di pinguini imperatori abbia avuto qualche conseguenza, soprattutto in termini di riduzione della popolazione, da quando la perdita di ghiaccio è diventata più significativa. LEGGI TUTTO

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    Le foto della lava che si sta raffreddando, in Islanda

    La seconda eruzione vulcanica di Grindavík, in Islanda, si sta esaurendo, secondo le analisi dell’Agenzia meteorologica islandese. Questa mattina l’esperta di disastri naturali dell’ente Elísabet Pálmadóttir ha detto alla RÚV, la principale rete televisiva del paese, che anche dalla fessura più settentrionale che si era aperta domenica, quella più ampia, si è interrotto il flusso della lava poco dopo l’una di oggi. Nella notte sono stati registrati più di 160 piccoli terremoti dovuti al movimento del magma sotto terra e anche per questo non si può ancora dire che l’eruzione sia finita: c’è ancora la possibilità che si aprano altre fessure nelle prossime ore e per questo attualmente gli abitanti della cittadina non possono tornare nelle proprie abitazioni. LEGGI TUTTO

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    La nuova vita delle foglie morte

    In questo periodo dell’anno nel nostro emisfero le chiome di miliardi di alberi si tingono di rosso, arancione e giallo, il segno più evidente dell’arrivo della stagione fredda. Man mano che si riducono le ore di luce giornaliere e si abbassano le temperature, le piante caducifoglie rallentano il loro metabolismo e fanno cadere a terra le foglie, che nel corso della stagione calda sono state essenziali per la fotosintesi. Una quantità gigantesca di foglie decidue ricopre quindi il sottobosco, i prati, i campi, i parchi cittadini, ma anche le strade e i marciapiedi, causando qualche disagio ma anche grandissime opportunità talvolta sottovalutate.Soprattutto le persone che vivono in città tendono a vedere le foglie secche a terra come un fastidio e un pericolo nei giorni di pioggia, quando rendono scivolosi i marciapiedi. La loro mancata rimozione è spesso fonte di lamentele e polemiche contro le amministrazioni comunali, accusate di tanto in tanto di non intervenire con tempestività per fare pulizia. Nelle città più grandi, ripulire strade e piazze richiede uno sforzo non indifferente: solo a Milano l’azienda per la raccolta dei rifiuti (AMSA) stima di raccogliere in media 450 tonnellate di foglie alla settimana nel periodo autunnale; corrispondono a un volume notevole, considerato quanto poco pesano le foglie in rapporto allo spazio che occupano.Le foglie secche vengono poi smaltite in vario modo a seconda di come sono organizzati i comuni. In alcuni casi vengono incenerite insieme agli altri rifiuti, in altri smaltite con l’umido oppure riutilizzate per altri scopi, compresi quelli di rigenerazione del suolo. Oltre alle questioni di sicurezza per chi cammina sui marciapiedi o va in bicicletta, le foglie secche su asfalto e cemento vengono di preferenza rimosse perché durano a lungo e nel caso di prolungati periodi senza pioggia si rompono in pezzi sempre più piccoli, producendo polveri che possono contribuire al peggioramento della qualità dell’aria.Le pratiche di rimozione variano moltissimo a seconda delle città, ma in generale interessano soprattutto le foglie cadute sulle aree ricoperte da cemento e asfalto, mentre riguardano in misura minore le zone verdi come quelle dei parchi cittadini. Le foglie secche a contatto diretto con il terreno sono infatti un’ottima risorsa per rigenerare il suolo, arricchendolo di minerali e altre sostanze utili per la crescita delle piante e per la vita di microrganismi, funghi, insetti, uccelli e altri animali di piccola taglia. Per questo viene consigliato di non raccogliere e bruciare le foglie secche, ma di lasciarle dove sono sul terreno o di riutilizzarle in altro modo, per esempio per produrre il compost che potrà poi essere impiegato come fertilizzante.(Spencer Platt/Getty Images)Nel caso di foglie decidue di piccole dimensioni che si depositano su un prato, come quello di un parco pubblico o del giardino di casa, il consiglio è di non fare sostanzialmente nulla. Complice la pioggia, le foglie marciscono e si decompongono durante la stagione fredda, aggiungendo nutrienti al suolo. Nel caso di grandi quantità o di foglie di maggiori dimensioni, c’è il rischio che il prato o piante di piccole dimensioni restino completamente coperti non ricevendo luce e ossigeno a sufficienza, con un conseguente “soffocamento”. In queste condizioni può rendersi necessaria la rimozione delle foglie, che possono però essere trasferite in altre aree del prato o in aiuole dove sono coltivate piante più grandi e vigorose, meno esposte al rischio di soffocamento.Non sempre le foglie che cadono al suolo sono però sane. Un albero malato, per esempio a causa di alcuni parassiti, può contaminare altre piante più piccole. È quindi importante verificare sempre la salute degli alberi caducifogli per decidere se lasciare o meno in terra le foglie che hanno perso. Dovrebbero essere raccolte separatamente, in modo da non utilizzarle per fare il compost dove alcuni parassiti potrebbero proliferare più facilmente, complice l’umidità e il calore che si sviluppa con la decomposizione.(AP Photo/Matthias Schrader)Le foglie secche possono essere utilizzate inoltre per la pacciamatura, il processo con cui si ricopre una porzione di terreno con materiali vegetali (e non solo) di vario tipo, per proteggerlo dall’erosione e mantenerlo più fertile. È un’attività che viene svolta in ambito agricolo, ma anche per il giardinaggio e in misura più contenuta nei parchi urbani. Si utilizzano frammenti di corteccia, aghi di pino, paglia e all’occorrenza anche le foglie secche. Di solito vengono triturate direttamente sul prato, per esempio utilizzando un tagliaerba regolato in modo che lasci il materiale triturato dove si trova invece di raccoglierlo in un contenitore.I prati sottoposti a questi trattamenti nei parchi urbani e nei giardini appaiono molto diversi dall’immaginario collettivo in cui sono sempre verdi, ma non significa che siano meno curati. La presenza delle foglie non è un indicatore della trascuratezza di un prato e ricorda che anche un giardino costituisce un ecosistema, con molte specie diverse che lo popolano e che variano a seconda delle stagioni. C’è un tempo in cui un prato è verde e fiorito e un altro in cui riposa e si rigenera, sotto a uno strato di foglie. LEGGI TUTTO

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    Allevare i tonni rossi sulla terraferma è meglio o peggio che pescarli?

    Caricamento playerLo scorso luglio l’Istituto spagnolo di oceanografia (IEO) ha annunciato di essere riuscito, per la prima volta a livello mondiale, a far riprodurre dei tonni rossi in cattività in un impianto di acquacoltura sulla terraferma. Questo successo del centro di ricerca ha subito suscitato l’interesse di alcune aziende che si stanno organizzando per aprire i primi grandi allevamenti terrestri di tonno rosso con la collaborazione dello IEO.La carne del tonno rosso infatti è molto richiesta, ma la pesca e l’allevamento in mare di questo pesce hanno grandi impatti ambientali: la possibilità di allevarlo “a terra” potrebbe rendere il settore più sostenibile. Però c’è anche chi pensa che acquacolture di questo genere potrebbero risultare più dannose rispetto ai metodi attuali, anche per il benessere dei tonni, che da adulti possono superare i due metri di lunghezza e alcune centinaia di chili di peso e, in natura, si spostano per migliaia di chilometri nell’oceano.Il tonno rosso è una delle varie specie di tonni che ci sono al mondo e vive nell’oceano Atlantico e nel mar Mediterraneo: il suo nome scientifico è Thunnus thynnus ed è detto anche “tonno pinna blu”. Non è una delle specie di tonno le cui carni sono vendute in scatolette (quelle sono il tonnetto striato, il tonno pinna gialla e il tonno obeso, economicamente meno costose e considerate meno pregiate), ma è una delle tre con cui si fanno il sushi e il sashimi di tonno. Le altre sono il tonno del Pacifico (Thunnus orientalis), che come suggerisce il nome vive nell’oceano Pacifico, e il tonno australe (Thunnus maccoyii), che vive in una fascia molto meridionale degli oceani del mondo, quasi fino ai limiti dell’oceano Antartico: esteriormente queste due specie sono praticamente indistinguibili dal tonno rosso e hanno a loro volta la carne di colore rosso.La maggior parte dei tonni rossi delle tre specie che viene consumata nel mondo è pescata, anche se negli ultimi anni si è diffusa una forma di allevamento basata sulla tecnica dell’ingrasso: si catturano giovani tonni liberi e li si fa crescere all’interno di grandi reti in mare fino a quando non raggiungono la taglia adatta per essere venduti sul mercato. Dal 2015 poi a questa forma di acquacoltura se ne è aggiunta una seconda, per ora minoritaria. In quell’anno l’azienda giapponese Maruha Nichiro ha venduto i primi tonni del Pacifico che ha allevato a partire dalla nascita, prima in strutture di acquacoltura sulla terra e poi all’interno di reti in mare: è stato possibile far riprodurre i pesci in cattività mettendo una certa quantità di ormoni nelle vasche in cui nuotavano gli individui adulti, che così sono stati spinti a produrre e fertilizzare uova.L’Istituto spagnolo di oceanografia è il primo ente che è riuscito a fare la stessa cosa anche con i Thunnus thynnus, i tonni rossi dell’Atlantico e del Mediterraneo, e due aziende europee, la tedesca Next Tuna e la norvegese Nortuna, stanno lavorando per creare acquacolture di tonni di scala con i suoi metodi. Next Tuna vuole realizzare un impianto vicino a Valencia, in Spagna, mentre Nortuna a Capo Verde, in Africa occidentale.Anche se per ora questo tipo di acquacoltura è agli inizi, ha attirato molto interesse perché il modo in cui è praticata la pesca dei tonni è considerato poco sostenibile per la conservazione delle specie.Il Giappone è il più grande importatore di tutte e tre le specie di tonni rossi e il principale consumatore al mondo, seguito dagli Stati Uniti, dove si stima si mangi tra l’8 e il 10 per cento del sashimi del mondo. Negli ultimi decenni del Novecento la grande domanda di Giappone e Stati Uniti ha notevolmente ridotto la quantità di tonni rossi delle tre specie, anche se poi le restrizioni alla loro pesca introdotte intorno al 2010 hanno migliorato la situazione. Secondo le stime dell’Unione Internazionale per la Conservazione della Natura (IUCN), l’ente riconosciuto dall’ONU che valuta quali specie animali e vegetali rischiano l’estinzione, il tonno australe è tuttora a rischio di estinzione e il tonno del Pacifico è minacciato.Invece il tonno rosso (quello che vive nell’Atlantico e nel Mediterraneo) non è più considerato minacciato, perché sebbene tra il 1966 e il 2018 la popolazione dell’Atlantico occidentale sia diminuita dell’83 per cento per l’eccesso di pesca, si stima che i tonni rossi dell’Atlantico orientale, la cui popolazione è molto maggioritaria considerando la specie nel complesso, siano diventati più numerosi dagli anni Sessanta a oggi. Le preoccupazioni sulla sostenibilità della pesca comunque rimangono, per via del calo della popolazione occidentale.Per le aziende che si occupano di acquacoltura dei tonni rossi o sono interessate a praticarla, l’uso delle tecniche che consentono la riproduzione dei pesci in cattività ridurrebbe la pressione sulle popolazioni selvatiche e per questo dovrebbe essere favorito. Tenere i tonni in età da riproduzione in vasche sulla terraferma significa poter regolare sia la temperatura dell’acqua che l’illuminazione. In questo modo, secondo chi sta lavorando ai progetti di acquacoltura, si potrà allungare il periodo dell’anno in cui i tonni rossi si possono riprodurre. In natura lo fanno per circa 45 giorni tra giugno e luglio: se negli allevamenti lo faranno per più tempo si otterranno popolazioni in cattività più numerose di quelle che si fanno ingrassare dopo aver catturato giovani tonni in mare.Tuttavia alcuni scienziati hanno espresso delle preoccupazioni riguardo alla nuova forma di allevamento, che riguardano sia il benessere degli animali sia gli impatti ambientali del settore che si potrebbe sviluppare.Per quanto riguarda direttamente i tonni, l’ong spagnola per i diritti degli animali Observatorio de Bienestar Animal ritiene che anche vasche molto grandi e spaziose non siano un ambiente adatto per i bisogni di una specie migratoria come i tonni rossi, che si spostano per migliaia di chilometri per cercare cibo e riprodursi.In un articolo pubblicato su The Conversation Wasseem Emam, ricercatore dell’Istituto di acquacoltura dell’Università di Stirling, ha spiegato che è difficile giudicare l’esperienza di vita dei tonni nelle vasche perché le aziende che le hanno non diffondono troppe informazioni in merito. Ma «generalmente le specie di pesci non domesticate sperimentano forme maggiori di stress in cattività e quando sono gestite da personale umano rispetto alle specie che si sono adattate all’allevamento nel tempo». Emam cita anche alcuni studi secondo cui i pesci possono essere stressati dal rumore e da certe vibrazioni, che sono probabilmente presenti all’interno di impianti di allevamento a terra. Però sarebbe nell’interesse degli allevatori evitare questo tipo di stress perché si sa che la carne dei pesci stressati ha una qualità minore. In particolare è noto che se prima di essere uccisi i tonni rossi provano a scappare, il loro corpo produce grandi quantità di acido lattico che peggiora il gusto della loro carne.Alle preoccupazioni sul benessere dei tonni si aggiungono poi quelle sull’impatto ambientale e la sostenibilità di eventuali grandi allevamenti a terra. La prima è legata all’alimentazione dei tonni in cattività: attualmente i tonni rossi all’ingrasso sono nutriti in grandissima parte con specie ittiche che potrebbero essere usate anche nell’alimentazione umana e in Giappone per produrre 1 chilogrammo di carne di tonno del Pacifico allevato servono tra i 2,5 e i 3,5 chili di altri pesci. Significa anche che per allevare i tonni a terra in grande quantità bisognerebbe aumentare la pesca di altre specie.Maruha Nichiro sta facendo delle ricerche per migliorare l’efficienza nell’alimentazione dei tonni in cattività. Il presidente di Nortuna Anders Attramadal ha invece sminuito questo problema parlando con il Guardian perché sostiene che i tonni allevati a terra mangino meno di quelli in mare; Andrew Eckhardt di Next Tuna invece ha detto che la sua azienda cercherà di ridurre la quantità di pesce necessaria a nutrire i tonni creando mangimi a base di altri ingredienti, come proteine vegetali, alghe e insetti.Altre preoccupazioni riguardano l’uso di antibiotici che sarà richiesto negli allevamenti per evitare la diffusione di malattie (molto alto in tutti i generi di allevamenti di animali su scala industriale) e l’inquinamento delle acque legato agli scarichi degli impianti di acquacoltura. Next Tuna dice di non voler usare antibiotici, e Nortuna dice che ne farà un uso minimo. Riguardo all’inquinamento delle acque, la prima azienda progetta un sistema per prelevare acqua marina che poi però non sarà riscaricata in mare. Per il momento non si conoscono i dettagli né dell’impianto di Next Tuna né di quello di Nortuna. Con i tonni del Pacifico Maruha Nichiro ha un approccio diverso, perché una volta che i pesci hanno raggiunto una certa dimensione nelle vasche a terra li sposta all’interno di reti in mare. LEGGI TUTTO

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    Le sperimentazioni per produrre fertilizzanti con la pipì

    A Brattleboro, nello stato americano del Vermont, c’è un’organizzazione che raccoglie donazioni di pipì. Si chiama Rich Earth Institute e dal 2012 conduce ricerche sui fertilizzanti ottenuti ​​dall’urina. Il suo obiettivo è recuperare alcune sostanze che rendono il suolo fertile, riducendo al tempo stesso la quantità di acque fognarie da trattare e l’uso di fertilizzanti sintetici, la cui produzione è responsabile di grosse quantità di emissioni di gas serra.I fertilizzanti che sostentano gran parte della produzione di cibo nel mondo contengono tre elementi particolarmente importanti: l’azoto, il potassio e il fosforo, elemento usato anche per la realizzazione di pannelli solari e batterie per auto elettriche. Ed è proprio il fosforo una delle sostanze che il Rich Earth Institute ricava dall’urina.Oggi i fertilizzanti contenenti fosforo si ottengono nella stragrande maggioranza dei casi dalla fosforite, un minerale estratto da rocce di origine sedimentaria. Fino al 2021 i dati dello US Geological Survey, l’istituto geologico statunitense, parlavano di riserve mondiali di fosforite che ammontavano a 71 miliardi di tonnellate e si trovavano principalmente in Marocco (50 miliardi di tonnellate): per questo si parlava del rischio che in qualche decennio si sarebbe arrivati a una carenza di fertilizzanti con gravi conseguenze sulla produzione alimentare globale.Dopo la recente scoperta di un gigantesco deposito da 70 miliardi di tonnellate di fosforite in Norvegia, le cose potrebbero cambiare: la compagnia mineraria Norge Mining prevede che tali disponibilità potrebbero soddisfare la domanda mondiale di fertilizzanti, pannelli solari e batterie per auto elettriche dei prossimi 50 anni. Inserito dalla Commissione Europea nella lista delle materie prime critiche, il fosforo rimane comunque una risorsa esauribile nel medio periodo.Le piante richiedono sostanze nutritive per crescere e produrre il cibo che mangiamo, e per incrementare la rendita dei raccolti i fertilizzanti sintetici ricchi di fosforo e azoto sono diventati sempre più usati dagli agricoltori di tutto il pianeta. Dal momento in cui, nei primi del Novecento, i chimici tedeschi Fritz Haber e Carl Bosch impararono a produrre industrialmente ammoniaca a partire dall’azoto, i fertilizzanti sintetici hanno contribuito in modo determinante alla riduzione delle carestie nel mondo. Sono così importanti che, con i metodi agricoli attuali, il centro di ricerche britannico Rothamsted stima che senza di essi potremmo produrre solamente la metà del cibo. Negli ultimi 50 anni l’utilizzo di fertilizzanti è quadruplicato e con l’aumento della popolazione la domanda è destinata a salire.L’urina può contenere tra il 50 e il 70 per cento del fosforo contenuto negli scarichi domestici, e il suo riciclo per uso agricolo – o “pipiciclo”, come lo chiamano in Vermont – è considerato una pratica che, comparata alla produzione e all’uso di tradizionali fertilizzanti sintetici, può avere un minore impatto ambientale per diverse ragioni. Secondo uno studio del 2023 realizzato da un gruppo di ricerca dell’Institut national de recherche pour l’agriculture, l’alimentation et l’environnement (INRAE) francese, causa minori emissioni di anidride carbonica (CO2), il principale gas che causa l’effetto serra, minore eutrofizzazione (cioè nutrimento eccessivo delle alghe nei corsi d’acqua), limita l’utilizzo di materie prime e di acqua. Le diverse tecnologie disponibili per trattare l’urina umana ed estrarne il fosforo consumano ancora tanta energia, e dunque causano una significativa produzione di emissioni di gas serra a meno di usare esclusivamente energia prodotta da fonti rinnovabili, ma il riciclo consentirebbe una riduzione degli impatti ambientali sia nella fertilizzazione agricola sia nel trattamento delle acque reflue.A livello globale l’80 per cento delle acque fognarie non riceve alcun trattamento, e per questo l’urina e le feci umane non correttamente trattate rilasciano fosforo e azoto nelle acque di fiumi e laghi, contaminandoli. Un eccessivo incremento provoca l’eutrofizzazione, che può portare alla crescita eccessiva di alghe che impoveriscono l’acqua di ossigeno e per questo decimano le specie acquatiche. In alcuni casi poi le specie di alghe in eccesso possono contenere e disperdere nell’acqua sostanze tossiche anche per gli esseri umani.L’eutrofizzazione non deriva solamente dall’inquinamento provocato dalle acque fognarie non trattate, ma anche dal suolo dedicato all’allevamento intensivo. Per esempio, la proliferazione di alghe tossiche nel lago Erie, nel nord degli Stati Uniti, è causata dalle feci prodotte negli allevamenti che sorgono lungo il fiume Maumee, immissario del lago: mucche e maiali trasformano soia e granturco (fertilizzati) in letame contenente sostanze nutritive per le piante che poi finisce nel lago. Nel 2018 la superficie di un altro lago americano, il lago Okeechobee, in Florida, è stata coperta per il 90 per cento da una fanghiglia tossica. La stessa situazione riguarda anche altri laghi e fiumi in giro per gli Stati Uniti, il terzo maggior produttore di fosfato raffinato, un composto del fosforo.La proliferazione di alghe nell’ovest del lago Erie nel settembre del 2017 vista da un satellite della NASA (NASA via AP)Questo tipo di inquinamento è dovuto al fatto che i fertilizzanti vengono spesso applicati in dosi più elevate rispetto alla capacità di assorbimento delle piante. Le sostanze nutritive che contengono filtrano rapidamente attraverso il terreno e gli agricoltori ne applicano grandi quantità per essere sicuri di nutrire sufficientemente le radici. Il risultato è che si diffonde nell’ambiente una grande quantità di sostanze che si trasformano in una fonte di inquinamento.L’uso eccessivo di fertilizzanti contribuisce anche al cambiamento climatico. Se vengono applicati in eccesso o in modo improprio, diffondono nell’atmosfera protossido di azoto, un gas che ha un contributo all’effetto serra 300 volte maggiore rispetto a quello dell’anidride carbonica a parità di massa. E la produzione di ammoniaca sintetica (sostanza attraverso cui le piante assorbono azoto e quindi ingrediente fondamentale dei fertilizzanti) richiede molta energia e dunque causa notevoli emissioni di CO2. Si stima che il letame e i fertilizzanti sintetici siano responsabili dell’emissione di 2,6 miliardi di tonnellate di anidride carbonica all’anno, più dell’aviazione e del trasporto marittimo messi insieme.Diversi studi scientifici dicono che il riciclo dell’urina può diventare una pratica efficiente anche in termini di resa agricola, soprattutto nei paesi in via di sviluppo. «La combinazione di humus (complesso di sostanze organiche presenti nel suolo derivate dalla decomposizione di residui vegetali e animali) e fertilizzante organico-minerale ottenuto dal riciclo dell’urina migliora la crescita delle piante e mantiene la fertilità del suolo», dice Ariane Krause, ricercatrice al Leibniz-Institut e co-autrice di uno studio che ha testato i benefici del riciclo da urina e feci, stimando che i fertilizzanti ricavati dagli escrementi umani potrebbero sostituire oltre il 25 per cento di quelli sintetici attualmente utilizzati.Tuttavia anche le quantità dei fertilizzanti organico-minerali devono essere dosate in modo da consentire al suolo di rigenerarsi. Per mantenere la fertilità del terreno e contenere la fuoriuscita di sostanze nutritive dal letame animale è quindi importante nutrire le piante senza esagerare.Al Rich Earth Institute l’urina donata deve essere consegnata in apposite taniche con imbuto, progettate per eliminare gli odori e consentire il travaso del liquido. Poi viene pastorizzata, cioè sottoposta a un trattamento termico che serve per eliminare molti microrganismi e aumentare i tempi di conservazione, e distribuita agli agricoltori locali come fertilizzante organico-minerale. Grazie alle ultime tecnologie è possibile produrre 100 litri di concime liquido da mille litri di urina. Considerando che in un anno gli abitanti della città di New York producono circa 4,5 miliardi di litri di pipì e quelli di Shanghai quasi 14, il potenziale potrebbe essere immenso.Al momento però la sfida più complessa è trovare un metodo efficiente ed economico per raccogliere la giusta quantità di pipì. Un modo prevede la raccolta e il trattamento dell’urina dagli impianti di depurazione delle acque reflue (acqua contaminata dall’uso umano e industriale). Nonostante si parli di questa pratica da diversi decenni, sono ancora molti, forse troppi, gli ostacoli per vedere un suo sviluppo su vasta scala. Gli impianti odierni sono progettati per rimuovere i nutrienti come fosforo e azoto piuttosto che recuperarli. Alcune ricerche suggeriscono che per far diventare il pipiciclo una possibilità reale nell’agricoltura su larga scala sarebbe necessaria una riconversione dei nostri sistemi fognari che renda possibile la separazione dell’urina.L’approccio di raccolta più innovativo consiste invece nel separare l’urina alla fonte: per quanto abbiano ancora dimensioni ridotte, esistono varie iniziative che se ne occupano.Diversamente dalle feci, la pipì presenta un rischio molto basso di trasmissione di agenti patogeni (i microrganismi responsabili dell’insorgenza di una patologia) e offre la possibilità di filtrare meglio i residui farmaceutici. La raccolta viene effettuata tramite orinatoi a secco (senza o con pochissima acqua) e sono previsti trattamenti che vanno dalla semplice conservazione per uso locale, come nel caso del Rich Earth Institute, a trasformazioni industriali più complesse che producono fertilizzanti organici come l’Aurin, un concentrato a base di urina sviluppato dall’Istituto federale svizzero di scienza e tecnologia acquatica (Eawag) e autorizzato per la vendita anche in Liechtenstein e in Austria.In Francia, il parco dei divertimenti Futuroscope ha iniziato a riciclare la pipì dei suoi visitatori. Entro il 2025 utilizzerà solo orinatoi senza lo sciacquone, in modo che l’urina non finisca nelle fogne ma in appositi serbatoi. Lanciato a luglio 2021 come esperimento, dal parco sono stati recuperati oltre 23.000 litri di pipì con un risparmio di 275.000 litri d’acqua. L’idea è nata dalla startup francese Toopi Organics che collabora con festival di musica, eventi e servizi autostradali per raccogliere l’urina da riciclare.Viste le difficoltà logistiche nella raccolta e il trasporto della pipì, è molto improbabile che il riciclo della pipì possa sostituire completamente i fertilizzanti sintetici, ma può essere un’alternativa più sostenibile e praticabile in alcuni contesti. LEGGI TUTTO

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    La calotta glaciale dell’ovest dell’Antartide continuerà a sciogliersi anche con meno emissioni

    Caricamento playerLa calotta glaciale antartica occidentale, cioè la grande massa di ghiaccio che ricopre l’ovest dell’Antartide, continuerà a sciogliersi sempre di più nel corso di questo secolo. Succederà anche se diminuiremo l’uso dei combustibili fossili al punto da raggiungere il più ambizioso degli obiettivi dell’Accordo sul clima di Parigi del 2015, quello che prevede di mantenere l’aumento della temperatura media globale annuale sotto 1,5 °C in più rispetto all’epoca preindustriale. Lo dice un nuovo studio della British Antarctic Survey (BAS), l’organizzazione governativa britannica che si occupa di ricerca e divulgazione scientifica sull’Antartide, pubblicato sulla rivista Nature Climate Change.Le conclusioni dello studio implicano che anche le politiche più significative per il contrasto del riscaldamento globale non permetteranno di limitare l’innalzamento del livello dei mari dovuto allo scioglimento della calotta antartica occidentale: già ora è la parte di ghiaccio dell’Antartide che contribuisce di più a questo fenomeno, e secondo questa ricerca lo farà sempre di più nei prossimi decenni. «Se avessimo voluto preservare la calotta antartica occidentale, avremmo dovuto intervenire contro il cambiamento climatico decenni fa», ha detto Kaitlin Naughten, oceanografa della BAS e prima autrice dello studio.La calotta glaciale antartica è la più grande massa di ghiaccio presente sulla Terra ed è divisa in due parti da una catena montuosa, i Monti Transantartici. La parte orientale è quella di maggiori dimensioni, poggia su una base continentale, cioè su terre emerse, ed è molto stabile: non è previsto che la sua massa diminuirà in modo significativo nei prossimi anni. La parte occidentale invece è una calotta di ghiaccio con base marina: il ghiaccio si appoggia sul suolo, che però si trova sotto il livello del mare.L’innalzamento del livello dei mari è dovuto a due fenomeni legati al riscaldamento globale. Il primo è la dilatazione termica dell’acqua degli oceani: insieme alla temperatura dell’atmosfera sta aumentando anche quella degli oceani, e quando l’acqua si scalda, la sua densità diminuisce facendo aumentare il volume che occupa. Il secondo fenomeno è il fatto che d’estate i ghiacciai del mondo e i ghiacci che ricoprono zone dell’Antartide e della Groenlandia fondono più di quanto poi riescano a righiacciare. Il progressivo scioglimento dei ghiacci che si trovano sulla terra (quindi calotta antartica occidentale compresa) fa infatti aumentare l’acqua negli oceani. Per via dei due fenomeni combinati, tra il 1900 e il 2021 il livello medio del mare è aumentato di 21 centimetri.Facendo delle simulazioni di quattro diversi scenari climatici futuri gli autori dello studio sono giunti alla conclusione che l’umanità non può fermare lo scioglimento della calotta antartica occidentale. Anche rispettando il limite di 1,5 °C, ritenuto ormai inverosimile dagli esperti di clima, la fusione dei ghiacci della calotta antartica occidentale diventerà tre volte più veloce rispetto al secolo scorso. A causa del riscaldamento del mare di Amundsen, il ramo dell’oceano Antartico su cui si affaccia l’Antartide occidentale, la banchisa legata alla calotta, cioè il ghiaccio marino attaccato a quello continentale, fonderà senza riformarsi, e così diminuirà la stabilità dei ghiacciai sulla terraferma. Sarà il loro contributo a far aumentare la quantità d’acqua negli oceani.– Leggi anche: È molto probabile che supereremo il limite di 1,5 °C entro il 2027Lo studio della BAS non comprende una stima di quale sarà il contributo all’aumento del livello del mare della calotta antartica occidentale (è stato calcolato che se fondesse tutta alzerebbe il livello medio di 5 metri, ma non è di una prospettiva così catastrofica che si sta parlando), ma comporta che le attuali stime sull’innalzamento del livello del mare potrebbero essere superate. Secondo le ultime valutazioni dell’IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change), l’organismo scientifico internazionale dell’ONU per la valutazione dei cambiamenti climatici, si prevede un aumento medio compreso tra 28 centimetri e 1,01 metri entro il 2100: 1 metro in più potrebbe sembrare poco, ma in certe zone del mondo metterebbe centinaia di milioni di persone a rischio di allagamenti costieri.Queste stime hanno una certa incertezza perché non si sa bene in che modo le calotte glaciali in riduzione interagiranno con gli oceani nel corso del secolo: lo studio della BAS appena pubblicato è il primo ad aver simulato cosa potrebbe succedere alla calotta antartica occidentale. Anche per questo ne saranno necessari altri, sia per confermarne i risultati sia per fare previsioni più precise, che tengano conto di altri aspetti – ad esempio la possibilità che l’aumento delle temperature in Antartide causi nevicate e quindi un accrescimento della massa dei ghiacciai del continente.L’innalzamento del livello del mare è un problema soprattutto per alcune piccole isole nell’oceano, come quelle di Tuvalu, e per le zone abitate costiere, alcune più di altre: ad esempio quelle lungo la costa orientale degli Stati Uniti, ma anche in India, nel Sud-Est asiatico e in Cina, dove si trovano grandi città popolosissime, come Calcutta, Mumbai, Dacca, Bangkok e Shanghai. Naughten ha commentato lo studio dicendo che «il lato positivo» è che abbiamo ancora tempo per «adattarci all’innalzamento del livello del mare che verrà»: «Se c’è bisogno di abbandonare o ripensare totalmente una regione costiera avere 50 anni di tempo a disposizione fa la differenza».– Leggi anche: La sfida per trovare il ghiaccio più vecchio, in Antartide LEGGI TUTTO

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    Gli effetti della grave siccità in Amazzonia

    Nella città brasiliana di Manaus, la più popolata di tutta l’Amazzonia con oltre 2 milioni di abitanti, negli ultimi giorni sono stati registrati livelli molto più alti del solito di inquinamento atmosferico a causa di un prolungato periodo di siccità. Gli incendi nella foresta intorno alla città hanno contribuito al peggioramento della qualità dell’aria, al punto che in alcuni giorni della scorsa settimana Manaus era la città più inquinata del Brasile e una delle aree abitate con il più alto livello di inquinamento al mondo.La stagione secca più lunga e intensa del solito in parte dell’Amazzonia è probabilmente dovuta a “El Niño”, l’insieme di periodici fenomeni atmosferici nell’oceano Pacifico che influenza il clima in gran parte del pianeta, causando anche un aumento delle temperature che si unisce agli effetti del riscaldamento globale dovuto alle attività umane.Oltre a essere rimasti avvolti per diversi giorni nelle polveri e nei fumi prodotti dagli incendi, gli abitanti di Manaus si sono anche dovuti confrontare con una marcata riduzione delle risorse idriche. Il livello dell’acqua si è ridotto al punto da lasciare in secca molte imbarcazioni nel porto, di solito florido grazie alla vicina confluenza del Rio Negro con il Rio delle Amazzoni, due dei fiumi più grandi e importanti al mondo. L’acqua solitamente abbondante è diventata scarsa a causa delle poche piogge in un’area solitamente molto piovosa, soprattutto alla fine della stagione secca che è invece durata più a lungo del solito.Manaus, Amazonas, Brasile, 16 ottobre 2023 (AP Photo/Edmar Barros)La siccità ha interessato diverse altre zone dello stato di Amazonas, il più esteso del Brasile e coperto per buona parte dalla foresta amazzonica. Le autorità locali hanno stimato che ci siano stati oltre 2.700 incendi durante la stagione secca, la quantità più alta mai registrata. La crisi era in parte prevedibile, considerato che nei periodi in cui si forma “El Niño” ci sono temperature più alte e meno pioggia. Nonostante ciò, il Brasile non si è attrezzato con squadre di vigili del fuoco e mezzi a sufficienza per affrontare l’emergenza.Manaus, Amazonas, Brasile, 16 ottobre 2023 (AP Photo/Edmar Barros)Una stagione secca prolungata non si traduce solamente in maggiori quantità di incendi, ma anche in minori volumi d’acqua nel complesso sistema idrico dell’Amazzonia. Oltre a essere essenziale per la vita di migliaia di specie diverse sia vegetali sia animali, l’acqua è anche il principale mezzo di trasporto per le decine di popolazioni indigene che vivono nello sterminato territorio amazzonico. Muoversi a piedi per lunghe distanze sul fondo della foresta pluviale è pericoloso e quasi sempre impraticabile, di conseguenza gli spostamenti vengono effettuati su canoe e piccole barche attraverso i corsi d’acqua che si formano stagionalmente, ma che quest’anno non sono sempre navigabili a causa della siccità.Manaus, Amazonas, Brasile, 16 ottobre 2023 (AP Photo/Edmar Barros)I cambiamenti climatici stanno avendo ormai da anni un forte impatto sulla foresta amazzonica, con conseguenze per la sua biodiversità, cioè la varietà di organismi che popolano i suoi ambienti. Gli incendi non si verificano solo naturalmente: spesso hanno cause dolose dovute alla costruzione di nuove infrastrutture, come strade, o alla creazione di nuovi campi per uso agricolo che modificano gli ecosistemi amazzonici con gravi conseguenze per numerose specie. LEGGI TUTTO