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    La grande base nucleare riscoperta sotto ai ghiacci della Groenlandia

    Caricamento playerDurante una ricognizione in Groenlandia, un aereo della NASA ha identificato per caso le tracce di “Camp Century”, una vecchia base militare costruita tra i ghiacci dall’esercito degli Stati Uniti ai tempi della Guerra Fredda. La base è abbandonata da quasi 60 anni, ma i veri scopi della sua costruzione sono diventati noti solo nella seconda metà degli anni Novanta, quando furono desecretati alcuni documenti su un più ampio progetto statunitense per installare migliaia di missili in Groenlandia, per rispondere a un eventuale attacco nucleare da parte dell’Unione Sovietica.
    Camp Century è ormai sepolta sotto la neve e il ghiaccio e non può essere osservata a occhio nudo sorvolando la zona. La NASA ne ha rilevato la presenza grazie a un particolare radar sperimentale (Uninhabited Aerial Vehicle Synthetic Aperture Radar, UAVSAR), che può essere utilizzato per ricostruire una versione tridimensionale degli strati più profondi dei ghiacci, in modo da studiarne le caratteristiche e l’andamento. I tecnici che stavano facendo la ricognizione hanno notato una strana discontinuità nella stratificazione dei ghiacci e si sono infine accorti che quello che avevano rilevato è ciò che resta di Camp Century, rilevata in precedenza con altri mezzi.
    L’idea di costruire una base in un’area della Groenlandia dove si raggiungono facilmente i -30 °C era stata valutata a partire dalla metà degli anni Cinquanta dagli Stati Uniti, interessati a realizzare un’ulteriore linea di difesa nei confronti dell’Unione Sovietica. C’era il timore che, nel caso di un attacco nucleare sovietico a sorpresa contro le principali basi di lancio di missili statunitensi, gli Stati Uniti fossero privati della loro capacità di rispondere efficacemente. Da queste valutazioni era nato “Project Iceworm”, un piano per costruire una rete sotterranea di basi di lancio in Groenlandia. I missili con le testate nucleari sarebbero partiti dal sottosuolo, avrebbero rotto lo spesso strato di ghiaccio e infine avrebbero raggiunto gli obiettivi sovietici.
    Camp Century era nata con lo scopo di verificare su piccola scala la fattibilità di un progetto di questo tipo, sperimentando nuove tecniche costruttive tra i ghiacci e perfino la possibilità di installare una piccola centrale nucleare per fornire l’energia elettrica necessaria alla base. Il progetto di per sé non fu tenuto segreto, ma fu promosso come un’iniziativa per lo più scientifica per valutare la possibilità di costruire basi di ricerca nell’Artico. Solo nel 1996, con la desecretazione di alcuni documenti, si ebbero le conferme sugli scopi più ampi e di natura bellica di Project Iceworm e di conseguenza di Camp Century.
    Benché sia dall’altra parte dell’oceano Atlantico, la Groenlandia fa parte dei territori controllati dalla Danimarca, e per questo alla fine degli anni Cinquanta il governo degli Stati Uniti avviò alcuni contatti con quello danese per avvisarlo del progetto. Si disse che l’iniziativa sarebbe stata svolta nell’ambito delle attività della NATO, l’alleanza militare dei paesi occidentali, e di fatto le ricognizioni e la costruzione della base iniziarono senza che ci fosse un permesso esplicito da parte del governo danese.

    Dopo le prime ricognizioni, fu trovata un’area pianeggiante a quasi 250 chilometri da Qaanaaq (all’epoca nota come Thule), una delle città abitate più a nord del mondo, ben al di sopra del Circolo polare artico e a circa 1.300 chilometri dal Polo Nord. La costruzione iniziò nel 1959, con il materiale che veniva trasportato via nave fino a Qaanaaq e da lì su grandi slitte collegate tra loro e trainate da mezzi cingolati. Con le loro decine di tonnellate impiegavano quasi 70 ore per arrivare a destinazione, mentre il trasporto del personale avveniva su mezzi più piccoli e leggeri, e richiedeva circa mezza giornata di viaggio.
    Uno dei convogli per il trasporto del materiale (US Army)
    Camp Century era stata pensata come una classica base militare con una via centrale e le baracche costruite perpendicolarmente lungo i suoi lati, ma in profondità nel ghiaccio. Mezzi per romperlo e rimuoverlo (frese da neve) furono impiegati per scavare grandi trincee larghe e profonde 8 metri, con una lunghezza che variava a seconda degli scopi e che poteva superare i 300 metri. All’interno di questi grandi trinceroni venivano poi assemblati gli edifici, in legno e materiale isolante, con un volume lievemente più piccolo rispetto a quello ricavato nel ghiaccio. Le trincee venivano poi coperte con un tetto di lamiera ad arco, che in breve tempo si ricopriva di nuova neve e ghiaccio, rendendo invisibile la struttura dall’esterno.
    Rappresentazione schematica di Camp Century (US Army)
    Oltre alle zone che ospitavano i 250 soldati, c’erano aree di svago, sale riunioni, un piccolo centro medico, le cucine, la mensa e i bagni con docce. Le dotazioni interne erano paragonabili a quelle di altre basi militari in climi più miti e l’unica vera grande differenza era l’assenza di finestre. Per alcuni l’esperienza non era molto diversa dalla vita in un sottomarino, ma con maggiori agi.
    Completamento di una trincea di ghiaccio (US Army)
    In una seconda fase nel lontano e gelido pianoro di Camp Century fu trasportato un reattore nucleare, sviluppato nell’ambito del programma di ricerca delle tecnologie atomiche dell’esercito degli Stati Uniti. Era un reattore “semi mobile” PM-2A e il lavoro di installazione richiese grandi sforzi logistici, soprattutto per il trasporto delle parti più voluminose della centrale che arrivarono a Qaanaaq già prefabbricate. Il reattore fu regolarmente messo in servizio e permise per qualche anno di fare a meno dei generatori diesel, riducendo la domanda di gasolio e il suo difficoltoso trasporto.

    Camp Century sembrava funzionare meglio delle aspettative, un buon segno per l’espansione di Project Iceworm, ma nei primi anni Sessanta iniziarono a emergere alcuni problemi. Il più grande di tutti era la progressiva deformazione dei trinceroni di ghiaccio in cui erano stati collocati i prefabbricati. Inizialmente gli ingegneri militari avevano valutato che le temperature molto rigide avrebbero fatto sì che il ghiaccio si comportasse più o meno come il cemento, mantenendosi rigido e fermo e costituendo un involucro ideale per le costruzioni al suo interno. Dopo qualche anno notarono invece che il ghiaccio era tutt’altro che fermo e stabile.
    Nei processi di formazione del ghiaccio l’aria rimane intrappolata, soprattutto negli strati più superficiali. Questi premono su quelli sottostanti e col passare del tempo li compattano, rendendoli più densi. Il processo non è uniforme e sul suo andamento possono influire molte variabili, a cominciare dalla temperatura. Il risultato è che anche su una profondità di circa 8 metri il ghiaccio continua ad assestarsi, muovendosi e deformandosi: se trova degli spazi vuoti, come nel caso delle trincee scavate a Camp Century, la deformazione può essere ancora più marcata.
    In circa quattro anni le pareti di ghiaccio di diverse trincee si erano spostate verso l’interno, raggiungendo i limiti di progettazione previsti per poter mantenere al loro interno i prefabbricati. In alcuni casi la deformazione era di almeno un metro e mezzo e non sempre era possibile intervenire (manualmente con le pale) per correggerla e riguadagnare lo spazio perduto. I problemi di staticità del ghiaccio furono studiati e approfonditi, facendo arrivare alla conclusione che l’installazione di sistemi di lancio per i grandi missili intercontinentali con testate nucleari non sarebbe stata probabilmente possibile. Il problema riguardò anche la piccola centrale nucleare del campo, che dopo circa tre anni fu disattivata per il rischio di congelamento di alcune sue parti.
    Rappresentazione schematica della deformazione delle trincee negli anni (US Army)
    Nonostante le difficoltà, l’esercito degli Stati Uniti concluse che ci fossero buoni margini per costruire altre basi come Camp Century, anche se non ne furono mai realizzate altre. La base in Groenlandia aveva assolto al proprio scopo e nel 1967 fu abbandonata, mettendo fine di fatto agli ambiziosi progetti statunitensi di armare parte della grande isola. La dismissione avvenne nello stile dell’epoca, senza grandi valutazioni ambientali: l’infrastruttura e i rifiuti prodotti furono lasciati dov’erano, confidando che i ghiacci si sarebbero ripresi il loro spazio e avrebbero sepolto per sempre la base.
    Camp Century fu dimenticata per molto tempo e se ne tornò a parlare brevemente nel 1996, quando furono desecretati i documenti sul vero scopo della sua costruzione. Venti anni dopo, se ne tornò a parlare quando un gruppo di ricerca fece una nuova valutazione dell’impatto ambientale della base, segnalando che a causa della fusione dei ghiacci dovuta al riscaldamento globale ciò che resta di Camp Century inquinerà in futuro un’ampia zona. Lo studio diceva che entro il 2090 potrebbero finire nell’ambiente i 200mila litri di gasolio che l’esercito statunitense si lasciò alle spalle, così come 24 milioni di litri di liquami e gli altri rifiuti, comprese alcune scorie radioattive. Un’analisi condotta nel 2021 ha in parte rivisto le previsioni, spostando a dopo il 2100 il momento in cui riaffioreranno alcuni di quei rifiuti.
    Del resto osservare oggi a occhio nudo Camp Century è impossibile, ma il nuovo radar della NASA è comunque riuscito a cogliere buona parte di ciò che rimane sotto al ghiaccio ormai a quasi 30 metri di profondità. La ricognizione era stata effettuata lo scorso aprile, ma gli esiti delle osservazioni sono stati comunicati a fine novembre. L’immagine ottenuta è stata confrontata con le mappe realizzate negli anni Sessanta per trovare alcune corrispondenze.
    La rilevazione radar effettuata dalla NASA, in profondità nel ghiaccio sono stati raccolti dati su Camp Century (NASA)
    La portata scientifica dell’osservazione, del tutto casuale, è ancora da verificare, ma conoscendo la profondità che era stata raggiunta per costruire Camp Century si possono fare migliori calcoli sull’andamento dei ghiacci in Groenlandia, visto che in alcune zone dell’isola si è assistito a un’accelerazione nella fusione del ghiaccio. Il nuovo radar dovrebbe inoltre permettere di osservare con più precisione le stratificazioni di ghiaccio, utili per comprendere l’andamento delle stagioni passate e confrontarle con quelle più recenti.
    Camp Century è quasi dimenticata, ma non da chi si occupa proprio degli studi legati al cambiamento climatico. All’epoca, la base fu infatti utilizzata anche per prelevare campioni di ghiaccio in profondità, che hanno permesso di studiare le variazioni del clima nel corso dei decenni. La Danimarca gestisce un programma di ricerca nella zona, per verificare la temperatura del ghiaccio e della neve nel corso dell’anno e comprendere meglio come siano variate rispetto ai primi anni Sessanta, quando centinaia di persone vivevano tra quei ghiacci scaldati dall’energia prodotta da un reattore nucleare sopra al Circolo polare artico. LEGGI TUTTO

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    Come distruggere la cosa più grande che abbiamo mai portato nello Spazio

    Caricamento playerNegli ultimi 26 anni l’umanità ha affrontato difficoltà tecnologiche, logistiche e di relazioni internazionali per costruire e mantenere l’oggetto più grande che abbia mai messo intorno alla Terra. Ma il tempo passa per tutti, anche in orbita, e da testimonianza dell’ingegno umano e simbolo della collaborazione tra più paesi la Stazione Spaziale Internazionale (ISS) diventerà presto un enorme rifiuto da smaltire.
    Quando non sarà più abitata dagli astronauti, intorno al 2030, non potrà continuare a girare per sempre sopra le nostre teste e dovrà essere distrutta. Un piano per farlo c’è, ma i pochi anni che separano la Stazione dalla sua fine saranno cruciali per capire che cosa ci sarà, e se ci sarà qualcosa, al posto del più grande laboratorio orbitale della storia.
    La NASA ha in programma di distruggerlo poco dopo il 2030, ma l’agenzia spaziale russa (Roscosmos) ha per ora garantito la propria collaborazione solo fino al 2028, senza offrire garanzie sui due anni che avanzano. Il peggioramento dei rapporti tra Stati Uniti e Russia in seguito alla guerra in Ucraina non ha avuto grandi ripercussioni nello Spazio, ma sta rallentando le trattative su una delle collaborazioni scientifiche più importanti tra i due paesi. Se la Russia abbandonasse la stazione già nel 2028, la NASA e le altre agenzie spaziali che partecipano al progetto (l’europea ESA, la giapponese JAXA e la canadese CSA) sarebbero in difficoltà nel mantenere da sole la Stazione.
    I rapporti tra gli stati hanno sempre avuto un ruolo centrale nella storia della ISS. Le attività di assemblaggio iniziarono nel novembre del 1998, con l’unione di un primo modulo russo a uno statunitense, che segnava l’avvio di una collaborazione impensabile fino a pochi decenni prima tra la Russia e gli Stati Uniti, i due protagonisti della cosiddetta “corsa allo Spazio”. Messi insieme, i due moduli raggiungevano una lunghezza di circa 17 metri, ma negli anni seguenti la Stazione avrebbe via via preso forma raggiungendo gli attuali 109 metri di lunghezza. Al suo interno sono stati effettuati migliaia di esperimenti sugli effetti dell’ambiente spaziale sugli organismi, compreso il nostro, e sulle opportunità di ricerca di nuovi materiali e tecnologie.
    Rappresentazione schematica dei principali elementi che costituiscono la Stazione Spaziale Internazionale (NASA)
    Come una sorta di grande LEGO, la ISS è formata da 18 moduli collegati tra loro e da una intelaiatura sulla quale sono montati altri componenti come i pannelli solari, i radiatori per dissipare il calore prodotto dalle strumentazioni, le batterie e altre attrezzature. Ha una massa che supera le 400 tonnellate, compresi i sette astronauti che solitamente vivono al suo interno, e viaggia intorno alla Terra a un’altitudine di circa 400 chilometri effettuando un giro completo del nostro pianeta ogni ora e mezza. In altre parole, con i suoi pannelli solari, è più o meno grande quanto un campo da calcio che impiega il tempo di una partita di calcio per compiere un’orbita.
    Come molti altri satelliti che girano intorno alla Terra, anche la ISS è soggetta al decadimento orbitale, cioè alla progressiva perdita di quota dovuta per lo più all’attrito atmosferico. A circa 400 chilometri di altitudine l’atmosfera terrestre è estremamente rarefatta, ma per quanto poche le molecole dei gas presenti si scontrano con la Stazione e la fanno rallentare quel tanto che basta per perdere quota. Quando la riduzione diventa significativa, si utilizzano i motori di alcuni moduli o delle capsule da trasporto collegate alla ISS per correggere l’orbita, in modo da compensare il decadimento. E questo è il principale motivo per cui la Stazione non potrà essere lasciata in orbita a tempo indefinito, quando sarà disabitata.
    In mancanza di una periodica spinta per rimettere le cose a posto, la ISS continuerebbe a cadere lentamente, fino a raggiungere gli strati più bassi e densi dell’atmosfera, dove si distruggerebbe. Con i satelliti di medie-piccole dimensioni si fa proprio questo, evitando in questo modo che rimanendo a lungo in orbita producano detriti che potrebbero danneggiare altri oggetti, ma la ISS è troppo grande e alcune sue parti potrebbero sopravvivere al rientro nell’atmosfera, schiantandosi al suolo. Nella migliore delle ipotesi nell’oceano, nella peggiore (per quanto remota) su una zona abitata.
    All’interno della ISS ogni oggetto deve essere assicurato alle superfici per evitare che galleggi via a causa dell’assenza di peso (NASA)
    Negli ultimi anni i tecnici della NASA hanno quindi studiato il modo migliore per determinare la fine della Stazione Spaziale Internazionale. Hanno per esempio valutato l’ipotesi di spingerla in un’orbita molto più alta dell’attuale, in modo da allontanarla da ciò che resta dell’atmosfera terrestre e rendere minimo il suo decadimento orbitale. Potrebbe rimanere in orbita per secoli senza la necessità di nuove spinte, ma spostarla in un’orbita più alta richiederebbe comunque molta energia e soprattutto esporrebbe la ISS a un maggior rischio di collisioni con altri oggetti rispetto a quello attuale, mitigato talvolta con manovre per evitare i detriti più pericolosi. Gli impatti potrebbero portare alla formazione di nuovi rifiuti spaziali, che potrebbero danneggiare altri satelliti e portare alla produzione di ulteriori detriti.
    Esclusa la possibilità di spostare la ISS in un’orbita più alta, la NASA ha anche esplorato la possibilità di smontare la Stazione e di riportarne i pezzi sulla Terra, in modo da conservarla in un museo per le generazioni future. Ma smantellare un oggetto così grande in orbita sarebbe un’impresa, considerato che per montarlo sono stati necessari decenni, con una trentina di viaggi degli Space Shuttle e oltre 160 attività extraveicolari (quelle che comunemente chiamiamo “passeggiate spaziali”). Gli Space Shuttle sono stati inoltre ritirati nel 2011 e a oggi non esistono altri sistemi per il recupero in orbita di oggetti ingombranti come i moduli della Stazione.
    Resta quindi un’unica soluzione: distruggere.
    Il governo degli Stati Uniti richiede che il rischio di danni alla popolazione causati dai frammenti di un veicolo spaziale, che viene distrutto nell’atmosfera, sia estremamente basso con una probabilità inferiore a un caso ogni 10mila rientri. Per la maggior parte dei satelliti il limite viene ampiamente rispettato, anche nel caso di un rientro non controllato, ma sarebbe impossibile fare altrettanto con un oggetto grande quanto la ISS, che dovrà essere quindi condotta verso un’area in cui distruggersi senza costituire un pericolo per qualsiasi zona abitata del pianeta.
    Il piano della NASA prevede di sfruttare in una prima fase il naturale decadimento orbitale, intervenendo poi con gli attuali sistemi di propulsione di cui dispone la ISS per farle perdere ulteriormente quota. La manovra di rientro vera e propria in uno specifico punto dell’atmosfera, per fare in modo che i detriti più grandi finiscano nell’oceano, non potrà però essere effettuata in autonomia dalla Stazione perché richiederà una grande quantità di propellente. Sarà utilizzato un veicolo spaziale che al momento ha due caratteristiche principali: quella di avere un nome particolarmente noioso, “US Deorbit Vehicle” (USDV), e di non esistere.
    Attività di manutenzione all’esterno di uno dei moduli della ISS (ESA)
    Lo scorso giugno, la NASA ha annunciato di avere scelto l’azienda spaziale privata SpaceX di Elon Musk per occuparsi della costruzione del veicolo che spingerà la Stazione Spaziale Internazionale verso la sua fine. Il valore stimato del contratto supera gli 800 milioni di dollari ed è solo una delle collaborazioni più recenti della NASA con SpaceX, che garantisce il trasporto degli astronauti sulla ISS con la sua capsula Crew Dragon e ha contratti per gestire il ritorno sulla Luna con Starship, l’enorme astronave in fase di sviluppo in Texas.
    SpaceX utilizzerà una versione modificata del proprio sistema di trasporto Dragon per realizzare l’USDV, con più motori e una maggiore capacità di carico del propellente. In questo modo il veicolo potrà attraccare alla ISS utilizzando i meccanismi già normalmente impiegati per i viaggi di rifornimento e per gli astronauti, sfruttando procedure ormai rodate. L’USDV avrà il compito di far rallentare la Stazione rendendo sempre più stretta la sua orbita, fino a quando raggiungerà il punto di inserimento, cioè la quota in cui non potrà più cambiare traiettoria per sfuggire alla Terra. Incontrando gli strati sempre più densi dell’atmosfera, raggiungerà temperature di migliaia di °C e inizierà a distruggersi.
    Le prime strutture a cedere saranno i pannelli solari e i radiatori, che si staccheranno dall’intelaiatura rompendosi in frammenti via via più piccoli, la maggior parte dei quali brucerà ad alta quota. Le forti sollecitazioni causeranno poi la rottura dell’intelaiatura e la separazione dei moduli, che si distruggeranno non essendo stati progettati per resistere a un rientro nell’atmosfera. Il loro rivestimento esterno fonderà privando le strumentazioni all’interno (computer, circuiti per l’aria e l’acqua, alloggiamenti degli astronauti, ecc) della loro protezione. Le alte temperature fonderanno e bruceranno buona parte della Stazione, ma qualcosa delle parti più dense e massicce sopravviverà e tornerà sulla Terra.
    I pannelli solari della ISS saranno tra le prime strutture a cedere (ISS)
    Il rientro controllato permetterà di far cadere ciò che rimane della ISS nel cosiddetto “punto Nemo”, cioè l’area oceanica più lontana dalle terre emerse. Si trova nella parte meridionale dell’oceano Pacifico e deve il proprio nome ai romanzi di avventura L’isola misteriosa e Ventimila leghe sotto i mari di Jules Verne. È un punto scelto spesso per il rientro dei veicoli spaziali e per questo viene chiamato informalmente “cimitero delle astronavi”. Non è previsto alcun recupero, ma le dimensioni e la cottura nel turbolento rientro nell’atmosfera rendono l’impatto ambientale dei detriti spaziali trascurabile, rispetto alla vastità dell’oceano.
    Prima di elaborare il proprio piano, la NASA si era rivolta alle aziende del settore spaziale per chiedere se fossero interessate a riutilizzare parte della Stazione, senza ricevere proposte credibili o facilmente realizzabili. Le parti più vecchie dell’infrastruttura e delle strumentazioni risalgono del resto a più di 20 anni fa e nel frattempo ci sono stati importanti progressi nello sviluppo dei moduli, come dimostrato dai primi modelli sperimentali realizzati dai privati. Da qualche tempo alla ISS possono infatti essere collegati nuovi moduli, che un giorno dovrebbero costituire basi orbitali interamente gestite dai privati.
    Axiom Space è una delle aziende spaziali che collegheranno propri moduli alla ISS in vista della creazione di una propria base orbitale privata (Axiom Space)
    Almeno nei piani attuali, non ci sarà infatti una nuova ISS che sostituirà quella attuale. I governi non sono interessati a spendere altri miliardi di euro per costruirne una nuova e ritengono di poter investire il denaro che risparmieranno nella manutenzione altrove, per esempio nei progetti spaziali legati all’esplorazione della Luna e forse un giorno di Marte. Non è però ancora chiaro se e con che tempi saranno costruite basi orbitali private, né se nasceranno nuove collaborazioni come quelle ventilate negli ultimi anni tra la Russia e la Cina, che ha già una propria base in orbita.
    Tra tante incertezze e cambiamenti, la fine della Stazione Spaziale Internazionale è ormai data per certa: non è una questione di se, ma di quando. Un giorno, dopo aver accompagnato per decenni la Terra girandole intorno quasi duecentomila volte, si avvicinerà sempre di più al nostro pianeta trasformandosi nella più grande meteora mai costruita dall’umanità. LEGGI TUTTO

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    Le tute spaziali della NASA disegnate da Prada

    Caricamento playerMercoledì l’azienda aerospaziale statunitense Axiom Space ha presentato a Milano le tute spaziali per l’equipaggio della missione Artemis 3, la prima missione della NASA a prevedere l’allunaggio dopo l’Apollo 17, nel 1972. Le tute sono state disegnate e realizzate da Prada, uno dei marchi di moda di lusso italiani più famosi al mondo.
    La collaborazione tra Prada e Axiom Space è nata nel 2020 da un’iniziativa di Lorenzo Bertelli, responsabile del marketing di Prada e figlio dei direttori esecutivi Miuccia Prada e Patrizio Bertelli. Russell Ralston, vicepresidente esecutivo di Axiom Space, ha detto che lavorare con Prada è stato utile non solo per l’esperienza nelle tecniche di lavorazione e per la conoscenza dei materiali ma anche per la capacità di disegnare una bella tuta: «è un simbolo, un’icona della nostra società».
    (Ansa ZumaPress)
    Prada non è l’unica azienda di lusso che ultimamente si è interessata al mondo aerospaziale, anche in vista della crescita del cosiddetto “turismo spaziale”, con aziende come Blue Origin, fondata dall’ex CEO di Amazon Jeff Bezos, e Virgin Galactic del miliardario inglese Richard Branson, che offrono voli suborbitali, i cui veicoli superano gli strati più alti dell’atmosfera e poi tornano indietro senza fare un giro completo intorno alla Terra.
    La scorsa settimana il marchio di lusso francese Pierre Cardin ha presentato una tuta da allenamento per gli astronauti del centro dell’Agenzia spaziale europea a Colonia, in Germania; anche il gruppo alberghiero Hilton sta lavorando alla realizzazione delle tute per l’equipaggio dei voli commerciali della stazione spaziale Starlab.
    Le tute disegnate da Prada (Ansa ZumaPress)
    Rivolgersi al mondo della moda è un modo per le aziende di far interessare più persone ai voli aerospaziali. Di recente Axiom ha incaricato a Esther Marquis, costumista della serie tv a tema spazio For All Mankind, di disegnare la fodera delle tute spaziali xEMU indossate dagli astronauti per le loro attività extraveicolari (quelle che chiamiamo a volte “passeggiate spaziali”); Branson ha chiesto al marchio statunitense Under Armour di disegnare le uniformi di Virgin Galactic ed Elon Musk si è rivolto a Jose Fernandez, autore dei costumi dei film Batman vs Superman e della serie Avengers, per le uniformi della sua agenzia privata spaziale SpaceX.
    Uno dei look dell’ultima sfilata di Prada che richiamava il mondo dello spazio, come questa specie di casco, Milano, 19 settembre 2024 (Dall’account Instagram di Prada)
    Esteticamente, le tute disegnate da Prada non sono molto diverse dalle precedenti: sono bianche e voluminose e non avranno alcun logo dell’azienda. Sugli avambracci, in corrispondenza della vita e sugli zaini portatili ci saranno, però, delle linee rosse che ricordano il simbolo di Linea Rossa, il marchio sportivo di Prada. Le tute saranno uguali per uomini e donne, di taglia unica e personalizzate attorno al corpo di chi le indosserà per renderle più comode ed efficienti.
    Consentiranno agli astronauti di passeggiare ogni giorno otto ore sulla Luna e garantiranno una temperatura costante al loro interno anche quando fuori ci sono -150 °C o 120 °C.  Permetteranno di muoversi più facilmente rispetto alle tute precedenti, non hanno cerniere e le cuciture proteggeranno il più possibile dalle polveri lunari che, come raccontarono già Neil Armstrong e Buzz Aldrin, le prime persone a camminare sulla Luna nel 1969, tendevano a infilarsi nelle giunture e in altre parti delle tute.
    Artemis 3 non partirà prima del settembre 2026, durerà circa 30 giorni e coinvolgerà quattro astronauti: non sono stati ancora scelti ma saranno selezionati in modo da mandare anche la prima donna e la prima persona non bianca sulla Luna. LEGGI TUTTO

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    C’è vita su Europa?

    Caricamento playerSotto uno spesso strato di ghiaccio, che avvolge un mondo lontano 786 milioni di chilometri da noi, c’è un oceano di acqua salata che potrebbe aiutarci a rispondere a uno dei più grandi misteri dell’Universo: c’è vita oltre la Terra? L’oceano si trova su Europa, una delle lune del pianeta Giove, considerata tra i migliori candidati per provare a dare una risposta che cambierebbe radicalmente il nostro modo di pensare alla vita e probabilmente a noi stessi.
    Raccogliere indizi su un corpo celeste così lontano non è però semplice e per questo la NASA ha costruito Europa Clipper, una sonda che ha iniziato oggi alle 18:06 (ora italiana) il proprio viaggio dalla base di lancio di Cape Canaveral, in Florida, a bordo di un razzo Falcon Heavy di SpaceX. Sfruttando la gravità della Terra e di Marte come “fionda gravitazionale”, la sonda viaggerà per quasi 3 miliardi di chilometri e raggiungerà Giove tra cinque anni e mezzo. Effettuerà poi decine di passaggi ravvicinati a Europa per raccogliere dati sulle caratteristiche della sua superficie gelata e dell’oceano che si nasconde al di sotto, utili per capire se effettivamente Europa possa ospitare la vita, almeno per come la conosciamo.
    È improbabile che gli strumenti di Clipper trovino prove dirette, la missione non ha del resto questo scopo e la sonda effettuerà solamente dei sorvoli, ma secondo i gruppi di ricerca Europa è la candidata ideale per cercare la vita nel nostro vicinato cosmico. I pianeti che abbiamo scoperto in orbita intorno a stelle diverse dal Sole sono troppo distanti per essere raggiunti con le attuali tecnologie, di conseguenza i corpi celesti nel nostro Sistema solare sono al momento la principale risorsa che abbiamo. L’astrobiologia si occupa di questo, perché studiandoli possiamo capire quali condizioni sono compatibili con la vita, applicando poi queste conoscenze per lo studio di pianeti molto più lontani e inaccessibili.
    Europa fu osservata e scoperta per la prima volta dall’astronomo italiano Galileo Galilei all’inizio del 1610, quando con il suo telescopio notò alcune lune in orbita intorno a Giove, il pianeta più grande del Sistema solare. Le osservazioni lo avevano portato a scoprire altre tre lune – poi chiamate Io, Ganimede e Callisto – che insieme a Europa sono note come “satelliti galileiani” o “medicei”. Europa non è molto grande, ha dimensioni comparabili con la nostra Luna, ma Galileo era riuscito a osservarla soprattutto grazie alla sua luminosità apparente, dovuta all’alta riflessività della sua superficie ghiacciata.
    In seguito le osservazioni dalla Terra di Europa affascinarono diversi astronomi, ma dai tempi di Galileo sarebbero stati necessari quasi 400 anni prima di poter vedere quella lontanissima luna da vicino. Nei primi anni Settanta le sonde Pioneer 10 e 11 si avventurarono nello Spazio profondo raggiungendo Giove, ma le prime immagini definite a sufficienza di Europa furono scattate nel 1979 da altre due sonde dell’agenzia statunitense: le Voyager 1 e 2. Grazie ai loro passaggi ravvicinati per la prima volta fu possibile osservare la superficie di Europa, che si presentava come una gigantesca palla di neve con un diametro di 3.122 chilometri circa.
    Europa ripresa dalla sonda Voyager 1 (NASA)
    Per quanto non molto definite, le immagini delle Voyager avevano permesso di osservare un’intricata serie di linee scure che attraversavano la superficie di Europa, tali da far pensare che fossero enormi crepe nella superficie ghiacciata dovute a un’attività di qualche tipo. Le loro caratteristiche suggerivano che la superficie fosse libera di muoversi in maniera indipendente dagli strati più profondi di Europa, come se si trattasse di un enorme involucro ghiacciato che racchiudeva qualcosa di diverso al suo interno.
    Molte delle ipotesi formulate all’epoca furono confermate nel 1995, quando la sonda Galileo della NASA entrò in orbita intorno a Giove. Parte della sua missione comprendeva l’osservazione e la raccolta di dati dei satelliti galileiani nel corso di più passaggi ravvicinati. E proprio grazie a queste attività fu possibile notare una particolare interazione del forte campo magnetico generato da Giove con Europa, compatibile con la presenza di un’enorme quantità di acqua salata al di sotto dell’involucro di ghiaccio, spesso tra i 10 e i 30 chilometri.
    La superficie di Europa ripresa dalla sonda Galileo (NASA)
    L’ipotesi è che l’oceano contenga circa il doppio dell’acqua di tutti gli oceani terrestri, che sia salato e che costituisca uno strato intermedio tra l’involucro ghiacciato e un interno roccioso. Ancora più in profondità ci sarebbe un nucleo ferroso, con una temperatura maggiore rispetto alla parte più esterna della luna. Dai dati raccolti finora sembra che il calore proveniente dal nucleo passi lentamente attraverso lo strato roccioso in contatto con l’oceano, contribuendo a mantenerne una buona parte allo stato liquido. Ed è proprio grazie a questi fenomeni che potrebbero esserci opportunità di vita, per quanto lontano dalla primaria fonte di energia nel Sistema solare: il Sole, la nostra unica stella.
    Elaborazione grafica dei possibili strati che formano Europa, dall’alto: la superficie ghiacciata, chilometri di involucro di ghiaccio, un oceano, il fondale con camini idrotermali (NASA)
    Almeno qui sulla Terra la vita ha bisogno di alcuni elementi chimici come il carbonio, l’ossigeno, l’azoto, il fosforo, l’idrogeno e lo zolfo. A seconda del modo in cui si combinano formano molecole e sostanze che costituiscono la quasi totalità della materia organica sul nostro pianeta, ma singolarmente o in combinazioni più semplici possono essere trovati praticamente ovunque nell’Universo. Le ricerche suggeriscono che questi elementi fossero tra gli ingredienti nei processi di formazione dei pianeti e che probabilmente siano presenti anche su Europa.
    Trovare molecole legate a quegli elementi fuori dalla Terra non implica comunque che siano il frutto di qualche forma di vita, anche perché in alcune circostanze si possono formare anche in assenza di esseri viventi. Al tempo stesso, trovarli può essere il punto di partenza per ipotizzare la presenza di fenomeni più complessi e che potrebbero essere legati alla presenza di qualche organismo elementare.
    Dettaglio della superficie ghiacciata di Europa (NASA)
    Questi indizi potrebbero essere presenti non solo all’interno, ma anche negli strati più esterni di Europa, dove sembrano esserci scambi tra ghiaccio superficiale e materiale relativamente più caldo proveniente dalle profondità. È comunque improbabile che possano esserci organismi sulla superficie della luna, a causa delle radiazioni molto intense provenienti da Giove. Questo flusso altamente energetico potrebbe però giocare a favore di chi cerca la vita da quelle parti. Le radiazioni scompongono le molecole d’acqua nei loro due costituenti, l’idrogeno e l’ossigeno. Il primo si disperde molto velocemente nell’ambiente spaziale, mentre il secondo è molto reattivo e nel caso in cui raggiungesse l’oceano potrebbe reagire con altri elementi, diventando fonte di energia per alcuni microrganismi.
    È difficile immaginare che a grande profondità dove non arriva mai la luce del Sole possa sopravvivere qualcosa. Eppure, ormai da tempo sappiamo che anche qui sulla Terra batteri e alcuni microrganismi non solo riescono a sopravvivere, ma a proliferare in condizioni estreme. Vivono per esempio a grandissima profondità negli oceani nelle vicinanze dei camini idrotermali, dai quali escono gas ad alta temperatura dovuti all’attività interna del nostro pianeta. Questi microrganismi “estremofili” si sono adattati per vivere in condizioni di alta pressione e temperatura, oppure ancora in condizioni di acidità estrema o con sostanze nutrienti pressoché assenti.
    Esseri viventi di questo tipo potrebbero vivere indisturbati da tempo su Europa, ma trovarne le tracce non è semplice, proprio per la scarsa accessibilità di un oceano protetto da un guscio di ghiaccio spesso chilometri. Clipper non si poserà sul ghiaccio nè proverà a perforarlo, ma utilizzerà i suoi strumenti per analizzare eventuali gas che fuoriescono dalle crepe del guscio. In passato sono stati osservati sbuffi di vapore acqueo con alcuni telescopi, un altro indizio dell’eventuale attività geologica della luna, ma anche un’occasione per provare ad analizzare i gas e le altre sostanze che accompagnano quelle emissioni nello Spazio circostante. La sonda esaminerà l’atmosfera estremamente rarefatta di Europa, mentre non è scontato che riesca a intercettare un getto vero e proprio.
    Fasi di preparazione della sonda Europa Clipper (NASA)
    Clipper utilizzerà inoltre i propri strumenti per effettuare rilevazioni che confermino la presenza del grande oceano, ma anche le caratteristiche della gravità di Europa in modo da confermare o meno la presenza di un nucleo ferroso e dello strato roccioso che lo racchiude. Le rilevazioni saranno inoltre importanti per calcolare con maggiore accuratezza lo spessore dell’involucro di ghiaccio e per capire se sia effettivamente la forte influenza gravitazionale di Giove a far comparire le numerose crepe sulla sua superficie.

    La sonda ha una massa di 3,2 tonnellate, cui se ne aggiungono circa altrettante di propellente che sarà impiegato per effettuare 49 passaggi ravvicinati di Europa, raggiungendo una distanza minima dalla superficie di circa 25 chilometri. La sonda si avvicinerà e allontanerà di continuo da Europa e da Giove per ridurre l’esposizione delle proprie strumentazioni alle radiazioni prodotte dal pianeta e rendere possibile la trasmissione dei dati verso la Terra. Il corpo centrale di Clipper è alto quasi cinque metri per quattro metri di larghezza, ma la sonda raggiunge una larghezza massima di 30 metri per via dei suoi grandi pannelli solari, che saranno utilizzati per alimentare le strumentazioni di bordo.
    La missione è estremamente ambiziosa e ha richiesto anni di progettazione, con qualche rischio di essere cancellata in varie fasi di rivalutazione da parte della NASA. È la sonda più grande per lo Spazio profondo mai realizzata, diretta verso un mondo lontano, che potrebbe insegnarci qualcosa sul nostro. LEGGI TUTTO

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    Cosa succederebbe a un essere umano in un viaggio verso Marte?

    In diversi film di fantascienza ambientati su Marte, da Atto di forza del 1990 a The Martian del 2015, arriva sempre un momento in cui la tuta spaziale indossata da uno dei personaggi sul suolo marziano si rompe. In tutti i casi, indipendentemente dal livello di realismo degli effetti speciali, si capisce che non sarebbe un incidente di poco conto. Sebbene sia considerato per diversi aspetti il pianeta del sistema solare più simile alla Terra, Marte è infatti un ambiente estremamente ostile per gli esseri umani. E se è il più studiato in assoluto è perché negli anni è stato oggetto di diverse missioni robotiche: inviare un equipaggio umano sarebbe molto più complicato e costoso.I successi nei lanci sperimentali di Starship, l’astronave della società spaziale privata statunitense SpaceX, e le audaci affermazioni del suo capo Elon Musk hanno contribuito ad alimentare in anni recenti le aspettative e le fantasie di molte persone riguardo alla possibile colonizzazione futura di Marte. Ma senza arrivare a tanto, immaginare anche solo di spedire un equipaggio umano a decine di milioni di chilometri dalla Terra pone una quantità e un tipo di difficoltà che nessun’altra missione umana potrebbe porre.
    La distanza tra la Terra e Marte cambia molto durante le rispettive orbite dei due pianeti intorno al Sole: in media è 225 milioni di chilometri, ma quella minima è intorno a 56 milioni. Anche ragionando per assurdo, ammettendo cioè di trovare il modo di rendere il viaggio fattibile sul piano ingegneristico e aerospaziale, qualsiasi ipotesi realistica di viaggio da un pianeta all’altro e ritorno implicherebbe comunque una prolungata permanenza delle persone nello Spazio: oltre due anni, probabilmente. E i nostri corpi non sono fatti per lo Spazio, come dimostrano diversi studi sugli effetti della permanenza in ambienti a gravità quasi assente, come la Stazione Spaziale Internazionale (ISS), sulla salute degli equipaggi.
    Nel 2024 oltre cento istituti e gruppi di ricerca di diversi paesi del mondo hanno lavorato insieme alla pubblicazione dello Space Omics and Medical Atlas (SOMA), una raccolta di studi, dati e altri documenti di medicina e biologia sugli effetti del volo spaziale sugli equipaggi umani. I più conosciuti tra quelli determinati dalle diverse condizioni di gravità sono la perdita di massa muscolare e la riduzione della densità delle ossa (in media dall’1 all’1,5 per cento al mese).
    Sono problemi risolvibili in parte facendo esercizi fisici e assumendo integratori come i bifosfonati, utilizzati per contrastare l’osteoporosi.
    L’astronauta giapponese Koichi Wakata, ingegnere di volo della spedizione 38, si allena a bordo della Stazione Spaziale Internazionale, il 2 febbraio 2014 (NASA)
    Ma le condizioni poste dall’ambiente spaziale portano anche problemi alla vista, al sistema nervoso e a quello circolatorio, aumentando il rischio di trombosi. E sebbene non siano ancora stati oggetto di studi approfonditi, alcuni di questi problemi potrebbero persistere anche per anni dopo il ritorno sulla Terra.

    – Leggi anche: La palestra per andare sulla Luna

    Altri effetti studiati da tempo riguardano un fattore, se possibile, ancora più rilevante: l’impatto delle radiazioni spaziali. Sono radiazioni ad alta energia provenienti da fonti esterne al sistema solare, in genere esplosioni stellari come le supernove e altri fenomeni nello Spazio profondo. Sulla Terra il campo magnetico protegge la popolazione e in parte anche l’equipaggio dell’ISS impedendo alla maggior parte delle particelle che compongono le radiazioni spaziali, come anche delle particelle solari, di penetrare l’atmosfera. Ma nel caso di viaggi interplanetari la protezione per gli equipaggi deriverebbe soltanto dalla necessaria schermatura delle astronavi.
    Un equipaggio in viaggio verso Marte sarebbe verosimilmente esposto in modo continuo a una quantità di radiazioni paragonabile a quella di centinaia se non migliaia di radiografie del torace. I risultati di alcuni test di laboratorio suggeriscono che un’esposizione del genere potrebbe provocare diversi problemi al cervello, a cuore e arterie, alla vista, all’apparato digerente e ad altre parti del corpo. Per di più in un ipotetico viaggio verso Marte l’equipaggio avrebbe risorse mediche, diagnostiche e farmacologiche limitate, e nessuna possibilità di rifornimenti, a differenza degli equipaggi dell’ISS.

    – Leggi anche: Nello Spazio ti può girare il sangue al contrario

    Uno studio sui topi pubblicato a settembre sulla rivista Journal of Neurochemistry ha concluso che le radiazioni potrebbero influenzare anche le capacità cognitive a lungo termine. In un esperimento condotto nel Brookhaven National Laboratory a Upton, nello stato di New York, gli autori e le autrici dello studio hanno scoperto che l’esposizione a un fascio di radiazioni che simulava quelle spaziali comprometteva varie funzioni del sistema nervoso centrale dei topi. Rispetto al gruppo di controllo, i topi esposti al fascio mostravano problemi di memoria, di attenzione e di controllo motorio, che però diminuivano somministrando sostanze antiossidanti e antinfiammatorie.
    In un precedente studio sui topi, pubblicato a giugno sulla rivista Nature Communications, l’esposizione a una dose di radiazioni paragonabile a quella assorbita durante un eventuale viaggio di andata e ritorno verso Marte aveva provocato gravi danni ai reni. Le disfunzioni erano tali, in caso di assenza di protezione dalle radiazioni, da rendere realistica l’ipotesi di necessari trattamenti di dialisi per l’equipaggio durante il viaggio di ritorno.
    Da tempo la NASA sta sviluppando tecnologie, in collaborazione con altre aziende, che in un viaggio verso Marte fornirebbero agli astronauti e alle astronaute una parziale protezione dalle radiazioni spaziali. Tra ciò che viene utilizzato per costruire parti di veicoli e tute spaziali ci sono materiali sintetici come il kevlar e il polietilene, in grado di deflettere i fasci di particelle cariche fornendo una schermatura dalle radiazioni. Anche in questo caso, come per l’atrofia muscolare e per la riduzione ossea, alcuni effetti potrebbero inoltre essere mitigati assumendo particolari integratori, utilizzati anche sulla Terra sui pazienti oncologici durante la radioterapia.

    – Leggi anche: Portare sulla Terra dei pezzetti di Marte è più costoso del previsto

    Un altro possibile problema per un eventuale equipaggio in viaggio verso Marte, che condividerebbe per lungo tempo uno spazio presumibilmente limitato, sarebbe il rischio di problemi psicologici: disturbi dell’umore e del sonno, irritabilità, incapacità di pensare lucidamente. A rendere ancora più angosciante la percezione dell’isolamento potrebbe peraltro contribuire il ritardo delle comunicazioni con la Terra: fino a 20 minuti, a seconda della distanza. Il che significa anche che l’equipaggio potrebbe verosimilmente dover risolvere eventuali problemi urgenti in completa autonomia, senza l’aiuto del controllo missione.
    La NASA segnala infine i rischi di alterazioni del sistema immunitario delle astronaute e degli astronauti, e quindi di malattie, in un ambiente chiuso in cui dopo un certo tempo microbi e microrganismi potrebbero cambiare caratteristiche in modo imprevedibile. Ricapitolando, per differenziare i tipi di rischi per il corpo umano associati ai lunghi viaggi spaziali, la NASA utilizza l’acronimo “RIDGE”: Radiazioni spaziali, Isolamento e cattività, Distanza dalla Terra, Gravità e hostile/closed Environments, cioè “ambienti chiusi/ostili”.
    Poi ci sarebbe tutta la parte di problemi da risolvere una volta sul suolo marziano. Per sopravvivere servirebbe prima di tutto ossigeno, uno dei diversi gas presenti nell’atmosfera terrestre. Il 21 per cento circa dell’aria che respiriamo ogni giorno è infatti composta da ossigeno, mentre il resto è quasi tutto azoto (il rapporto, più o meno costante, è di circa 15 atomi di azoto per quattro atomi di ossigeno). Su Marte l’ossigeno è presente solo con una concentrazione dello 0,13 per cento.
    L’atmosfera marziana è molto più rarefatta: circa cento volte più di quella terrestre, cosa che rende il pianeta peraltro più vulnerabile agli impatti con oggetti come meteoriti e asteroidi. Alla base delle varie differenze c’è quella fondamentale della grandezza tra i due pianeti: Marte è più o meno la metà della Terra. Non ha quindi una gravità tale da trattenere tutti i gas atmosferici, e l’equipaggio di un’eventuale missione dovrebbe gestire tutte le numerose conseguenze di questa condizione.
    Un’immagine che mette a confronto la Terra e Marte, ottenuta unendo immagini acquisite dalle sonde Galileo e Mars Global Surveyor della NASA (NASA)
    Sfortunatamente il gas più abbondante nell’atmosfera estremamente rarefatta di Marte è un gas per noi mortale oltre una certa concentrazione: l’anidride carbonica, di cui è composto lo 0,04 per cento dell’aria sulla Terra e circa il 96 per cento dell’atmosfera marziana. In pratica, considerando che sulla Terra un’esposizione di circa 15 minuti a una concentrazione di anidride carbonica dell’1,5 per cento sarebbe già mortale, provare a respirare su Marte senza un rifornimento di ossigeno provocherebbe la morte per asfissia in brevissimo tempo.
    L’alta concentrazione di anidride carbonica non sarebbe nemmeno il primo dei problemi su Marte. Le pressioni al suolo marziano sono simili a quelle che sulla Terra troveremmo intorno a 30 chilometri di quota, come ricorda l’astrofisico Amedeo Balbi nel recente libro Il cosmo in brevi lezioni. In pratica, senza adeguate attrezzature, un essere umano morirebbe in pochi secondi per insufficiente pressione esterna, che provocherebbe un’espansione istantanea e letale di tessuti, gas e liquidi presenti nel corpo.
    Sorvolando sulla mancanza di ossigeno e di pressione sufficiente, ostacoli non insormontabili e già gestiti nello Spazio in altri ambienti diversi da Marte, ci sarebbe comunque da gestire il problema delle temperature: quella media su Marte si aggira intorno ai -60 °C, ma la minima può arrivare a -150 °C. L’acqua, che sarebbe necessaria per creare ossigeno, coltivare cibo, produrre carburante e altre materie prime, c’è ma si trova in luoghi del pianeta e in condizioni che la rendono non facilmente accessibile.

    Resterebbe infine lo stesso problema di tutto il viaggio: le radiazioni, dal momento che Marte non ha un campo magnetico abbastanza intenso da deviare le particelle atomiche e subatomiche provenienti dal Sole, da supernove lontane e da altre fonti. Un particolare spettrometro della grandezza di un tostapane, il Radiation Assessment Detector, fu il primo strumento a essere acceso dal rover Curiosity durante la sua missione su Marte nel 2012, e da allora fornisce informazioni sul livello di radiazioni presenti sul pianeta.
    Sul lungo periodo un campo base come quello in cui sopravvive il protagonista del film The Martian probabilmente non offrirebbe una protezione sufficiente contro le radiazioni, né contro le violente tempeste solari e di polvere. Un’alternativa teoricamente più sicura, secondo l’ex biomedico della NASA Jim Logan, potrebbe essere vivere in rifugi sotterranei o in strutture con pareti di circa 2,5 metri edificate utilizzando materie presenti in superficie.
    Le caverne sotterranee sono soltanto una delle varie ipotesi, più o meno fantascientifiche, formulate nel corso degli ultimi anni per provare a immaginare una soluzione all’incompatibilità dell’ambiente marziano con la vita umana. Ma, come scrive Balbi, «è importante che la percezione pubblica di questi temi sia basata sulla realtà, e non sulle illusioni». Una cosa è stabilire un avamposto, un’altra è fondare una colonia. E del resto «non abbiamo mai costruito civiltà fiorenti in Antartide, sul fondo dei mari o in cima all’Everest», tutti luoghi ostili ma infinitamente più accoglienti in confronto a Marte.
    Indipendentemente dall’obiettivo di raggiungere Marte, ragionare sul modo in cui sarebbe possibile sostenere a lungo la salute e la fisiologia umana nello Spazio ha comunque numerosi benefici per la vita sulla Terra, scrisse nel 2023 sul sito The Conversation Rachael Seidler, insegnante di fisiologia applicata alla University of Florida. Le sostanze che proteggono gli equipaggi dalle radiazioni spaziali e contrastano i loro effetti nocivi sul corpo umano, per esempio, possono anche servire per la cura dei pazienti oncologici sottoposti a radioterapia. Capire come contrastare gli effetti della microgravità su ossa e muscoli può inoltre migliorare anche le terapie e le cure mediche per varie condizioni di fragilità associate all’invecchiamento.

    – Leggi anche: Non siamo fatti per lo Spazio LEGGI TUTTO

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    Una decisione molto difficile per la NASA

    Caricamento playerLo scorso 5 giugno due astronauti della NASA sono partiti verso la Stazione Spaziale Internazionale (ISS) per una missione che sarebbe dovuta durare poco più di una settimana: nonostante di giorni ne siano passati quasi 80, non sono ancora tornati sulla Terra.
    Starliner, la capsula di Boeing che li aveva trasportati oltre l’atmosfera terrestre, ha avuto alcuni problemi tecnici e da più di due mesi la NASA si chiede se sia sicura a sufficienza per riportare indietro i suoi due astronauti. Dopo numerosi rinvii e tentennamenti, in una riunione in programma per sabato 24 agosto i responsabili dell’agenzia spaziale dovranno concordare un piano di recupero: una delle decisioni più difficili sulla sicurezza dei sistemi di trasporto per astronauti dal tempo degli Shuttle.
    Il lancio di Starliner a inizio giugno era andato secondo i piani, ma prima che la capsula raggiungesse la ISS erano emersi problemi ai sistemi di manovra. Cinque dei 28 propulsori utilizzati per orientare la capsula e regolare la sua rotta avevano smesso di funzionare, richiedendo alcune attività aggiuntive per rendere possibile l’attracco con la Stazione a circa 400 chilometri di altitudine.
    Per Starliner era il primo volo con astronauti a bordo – Butch Wilmore e Suni Williams – dopo anni di prove e ritardi sulle consegne costati finora a Boeing e alla NASA circa 6,7 miliardi di dollari. Il test, che formalmente è ancora in corso, era fondamentale per dimostrare l’affidabilità e la sicurezza di Starliner nell’ambito del programma della NASA per affidare i viaggi verso la ISS ai privati, come già fatto in precedenza e con successo con SpaceX, la società spaziale di Elon Musk.
    Dopo l’arrivo di Wilmore e Williams sulla ISS, i tecnici avevano provato a capire le cause del malfunzionamento dei propulsori. Per farlo, avevano effettuato alcuni test qui sulla Terra identificando un potenziale problema nella parte in Teflon (il materiale plastico che rende antiaderenti le padelle) delle valvole dei propulsori, che al passaggio del propellente si era deformata lievemente impedendo al propellente stesso di fluire nelle giuste quantità. Analisi svolte in seguito hanno però portato a mettere in dubbio quelle valutazioni: il Teflon una volta deformato difficilmente recupera la forma iniziale, eppure test svolti in orbita hanno mostrato che ora i propulsori sembrano funzionare normalmente. Il sospetto è che sia qualcos’altro che occlude temporaneamente le valvole e che il problema possa ripresentarsi nelle fasi di rientro di Starliner, con esiti che potrebbero essere catastrofici nel caso in cui un propulsore otturato causasse un’esplosione.
    Le incertezze sulle effettive cause del malfunzionamento dei propulsori hanno portato a un lungo confronto tra i tecnici di Boeing e della NASA, che continua ancora oggi e che ha determinato la prolungata permanenza di Williams e Wilmore sulla ISS. Sulla Stazione ci sono risorse più che sufficienti per provvedere ai due ospiti aggiuntivi, ma se dovessero rimanere ancora a lungo ci potrebbero essere conseguenze su altre missioni, perché i posti sulla ISS sono comunque limitati.
    Gli astronauti della NASA Butch Wilmore e Suni Williams a bordo della Stazione Spaziale Internazionale (NASA via AP)
    Alcune conseguenze sulle attività in orbita ci sono del resto già state. Nelle settimane dopo il lancio di Starliner, la NASA ha rinviato di almeno un mese il lancio della prossima missione con astronauti verso la ISS e gestita da SpaceX. La partenza non avverrà prima del 24 settembre, ma i tempi sono comunque stretti: SpaceX deve sapere a breve se dovrà inviare quattro astronauti come inizialmente previsto o solamente due, in modo da poter accogliere nel viaggio di ritorno Williams e Wilmore. La necessità di saperlo con un certo anticipo deriva dai tempi che occorrono per configurare la capsula da trasporto Crew Dragon in base al numero di occupanti. La NASA dovrà quindi decidere che cosa fare entro pochi giorni e non sarà una scelta semplice.
    Nel caso in cui la decisione sia di non far rientrare Williams e Wilmore con Starliner, i due astronauti dovranno rimanere sulla ISS fino al prossimo febbraio, quando potranno effettuare il viaggio di ritorno con una capsula Crew Dragon. In questo scenario Williams e Wilmore rimarrebbero quindi a bordo della Stazione per otto mesi, una notevole estensione per una missione che sarebbe dovuta durare otto giorni. Prima dell’arrivo di Crew Dragon a fine settembre, Starliner dovrà comunque lasciare la ISS in modo da liberare lo spazio di attracco per la capsula di SpaceX. Starliner dovrebbe quindi essere configurata per effettuare un rientro in automatico sulla Terra, senza equipaggio a bordo, altra attività che richiede tempo e che rende necessaria al più presto una decisione da parte della NASA.
    La scelta finale dovrebbe spettare a Kenneth Bowersox, a capo della divisione dell’agenzia spaziale che si occupa delle operazioni di volo. Ex astronauta, nel 2003 Bowersox si trovava sulla Stazione Spaziale Internazionale quando avvenne il disastro dello Space Shuttle Columbia, che si disintegrò al proprio rientro nell’atmosfera terrestre determinando la morte delle sette persone a bordo, come ha ricordato Stephen Clark su Ars Technica. All’epoca erano stati sottostimati i danni causati allo scudo termico dello Shuttle da un detrito nella fase di lancio, una sottovalutazione che influì fortemente sul programma spaziale statunitense e sui criteri di sicurezza adottati dalla NASA da allora.
    Lo Space Shuttle Columbia si disintegra durante il rientro nell’atmosfera terrestre, 1 febbraio 2003 (Mario Tama/Getty Images)
    Bowersox deciderà basandosi sulle informazioni e sui pareri forniti dai gruppi di lavoro che si occupano della revisione dei voli spaziali, della sicurezza, delle missioni spaziali e si consulterà anche con i rappresentanti degli astronauti. Nel caso in cui dovessero emergere pareri discordanti, la decisione finale potrebbe essere affidata a Bill Nelson, l’amministratore della NASA (a sua volta ex astronauta). Lo stesso Nelson di recente ha cercato a suo modo di rassicurare sul processo decisionale: «Sono fiducioso, soprattutto perché spetta a me la decisione finale».
    Le persone che insieme a Bowersox dovranno decidere che cosa fare lavoravano già tutte alla NASA ai tempi del disastro del Columbia, cosa che secondo diversi esperti influirà sulle scelte dei prossimi giorni. I responsabili di Starliner, che dipendono da Boeing e con forti interessi nella decisione, hanno mostrato di essere un poco più propensi al rischio, ribadendo comunque che la sicurezza degli astronauti è prioritaria e che la scelta finale spetta ai responsabili della NASA.
    L’attuale direttore di missione di Starliner per conto di Boeing, LeRoy Cain, era direttore di volo quando il Columbia si disintegrò nel corso del suo rientro nell’atmosfera. All’epoca lavorava nel centro di controllo del Johnson Space Center della NASA e assistette in tempo reale all’incidente, ricevendo aggiornamenti sui sensori dello Shuttle che stavano rilevando vari cedimenti strutturali nella sua ala sinistra, che avrebbero poi portato alla distruzione dell’astronave. Ancora prima del lancio di Starliner, quando erano emersi altri problemi tecnici, Cain aveva promesso di non far partire la capsula fino a quando non fosse stata pronta.
    Proprio per il coinvolgimento di persone come Bowersox e Cain, nelle ultime settimane sono stati effettuati numerosi paralleli tra Columbia e Starliner, anche se le due astronavi hanno caratteristiche e storie molto diverse. Nel 2003 i danni effettivamente subiti dal Columbia al lancio non erano completamente chiari e, con le conoscenze dell’epoca, l’astronave sembrava avere tutti i requisiti per effettuare un rientro; non c’erano inoltre molte alternative e possibilità di studiare piani di recupero degli astronauti con altri mezzi. I problemi di Starliner sono invece ampiamente noti e si aggiungono a quelli emersi nella lunga fase di sviluppo, che ha richiesto molti più anni del previsto.
    Il lancio di Starliner sulla sommità di un razzo Atlas V il 5 giugno 2024 da Cape Canaveral, Florida, Stati Uniti (AP Photo/Chris O’Meara)
    La maggiore frequenza dei lanci spaziali con astronauti necessaria per gli avvicendamenti degli equipaggi sulla ISS hanno portato in questi anni a una percezione delle attività spaziali routinaria, al punto da essere per alcuni quasi scontato il fatto che ci siano esseri umani che superano l’atmosfera terrestre e vivono per alcuni mesi in orbita. In realtà raggiungere l’orbita è ancora oggi una delle attività più rischiose che si possano fare: gli astronauti e le astronaute ne sono consapevoli e sanno che i rischi fanno parte del loro mestiere e che le agenzie spaziali fanno il possibile per ridurli.
    Questo spiega le grandi precauzioni e i frequenti rinvii dei lanci spaziali con equipaggi, ma anche le cautele che la NASA sta mantenendo su Starliner, nonostante i ritardi e la prospettiva di dover rivedere alcuni piani non solo nel breve, ma anche nel lungo periodo.
    Se Starliner dovesse tornare sulla Terra senza equipaggio, potrebbe rendersi necessario un nuovo volo sperimentale per certificare la capsula spaziale per le missioni con esseri umani. I tempi si allungherebbero ulteriormente e Boeing potrebbe non essere in grado di garantire i sei lanci previsti da contratto entro il 2030, anno in cui la ISS smetterà di essere utilizzata. Per Boeing sarebbe inoltre un ulteriore danno di immagine, dopo quelli legati ai problemi di sicurezza emersi con alcuni dei propri aeroplani negli anni scorsi e che hanno fatto mettere in dubbio in generale l’affidabilità dell’azienda in termini di sicurezza.
    A prescindere dalla scelta di sabato della NASA, Boeing ha comunque perso la propria corsa allo Spazio con SpaceX. Dopo il pensionamento degli Shuttle nel 2011, nel 2014 la NASA affidò alle due aziende il compito di trasportare gli equipaggi in orbita, con un finanziamento di 2,6 miliardi di dollari per SpaceX e di 4,2 miliardi di dollari per Boeing. Mentre quest’ultima non ha ancora completato un volo di test, SpaceX in quattro anni ha inviato 11 equipaggi verso la ISS e si prepara per la dodicesima missione. LEGGI TUTTO

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    Ci sono due astronauti bloccati sulla Stazione Spaziale Internazionale

    Caricamento playerBarry Wilmore e Sunita Williams, i due astronauti della NASA che avevano raggiunto la Stazione Spaziale Internazionale (ISS) a bordo della prima missione della capsula spaziale Starliner di Boeing con equipaggio partita il 5 giugno, sarebbero dovuti restarci per otto giorni. Passati più di due mesi dal lancio, tuttavia, non è ancora chiaro come e quando rientreranno sulla Terra e la NASA non esclude che possa succedere addirittura il prossimo febbraio.
    Quella di Starliner è una delle missioni spaziali più importanti del 2024, ma durante il viaggio verso la ISS la capsula ha avuto dei malfunzionamenti che hanno causato il ritardo del rientro previsto settimane fa. In una conferenza stampa mercoledì la NASA ha spiegato perché Starliner potrebbe non essere sicura per il viaggio di rientro degli astronauti e ha detto di star valutando di farli rientrare con la Crew Dragon di SpaceX, la società spaziale privata di Elon Musk, rivale di Boeing.
    Se la NASA decidesse di far rientrare gli astronauti con la capsula di SpaceX anziché con Starliner la missione si allungherebbe ulteriormente di diversi mesi. Sarebbe inoltre l’ennesimo fallimento per Boeing, che negli ultimi anni ha avuto guai enormi, prima per i gravi incidenti aerei ai suoi 737 Max e più di recente per il volo di Alaska Airlines, che aveva perso un pezzo della fusoliera mentre era in volo.
    Starliner era partita dalla base di lancio di Cape Canaveral, negli Stati Uniti, lo scorso 5 giugno, dopo una serie di ritardi e rinvii per problemi tecnici vari. Wilmore e Williams avrebbero dovuto affiancare l’equipaggio che svolge missioni di lunga permanenza sulla Stazione per una settimana circa. La missione serviva per verificare i sistemi di lancio della capsula, quelli di attracco e quelli di atterraggio, in modo che la navicella di Boeing potesse ottenere le certificazioni finali della NASA per diventare ufficialmente uno dei veicoli privati da impiegare per il trasporto di persone e cose verso e dalla Stazione. Attualmente infatti per queste attività la NASA può fare affidamento solo su SpaceX e sui sistemi di lancio Soyuz dell’Agenzia spaziale russa (Roscosmos).
    Durante il viaggio verso la Stazione spaziale internazionale si sono però verificati dei malfunzionamenti: la NASA e Boeing hanno svolto test e simulazioni sui propulsori della capsula sia a terra che nello Spazio, concludendo che funzionano sufficientemente bene perché possa rientrare. Tuttavia i test non hanno chiarito con certezza cosa abbia provocato i malfunzionamenti e «in generale la comunità della NASA vorrebbe capire un po’ meglio sia la causa a monte che la fisica» dietro a questi inconvenienti, ha detto mercoledì Steve Stich, responsabile del programma dei voli commerciali dell’Agenzia.
    Alla conferenza stampa non era stato invitato alcun dirigente di Boeing, ma l’azienda aveva già espresso disaccordo con le valutazioni della NASA. In un comunicato diffuso la settimana scorsa aveva sostenuto che Starliner fosse in grado di completare il volo e di riportare gli astronauti sulla Terra «in sicurezza», come a suo dire dimostrato dai dati raccolti durante i test sui propulsori.
    (NASA via AP)
    Stich sostiene che l’opzione «preferita» continua a essere quella di riportare Wilmore e Williams sulla Terra con Starliner, anche perché fare diversamente creerebbe altri problemi. Secondo Ken Bowersox, uno dei responsabili delle operazioni spaziali della NASA, in base agli ultimi dati, alle ultime analisi e alle discussioni più recenti si sta però valutando di far tornare indietro Starliner senza equipaggio e di far rientrare gli astronauti con la capsula di SpaceX alla fine della sua prossima missione.
    Una delle opzioni possibili sarebbe appunto far rientrare Wilmore e Williams con la prossima missione Crew-9 di SpaceX, facendola partire con due astronauti anziché quattro, in modo che ci sia appunto posto per loro. Questo però comporterebbe integrarli nella rotazione degli astronauti impegnati nelle attività sulla ISS, e visto che la missione della Crew-9 dovrebbe durare fino al febbraio del 2025 Wilmore e Williams rimarrebbero sulla Stazione per altri sei mesi, per un totale di otto mesi contro una missione che sarebbe dovuta durare otto giorni.
    In questo caso la Starliner rientrerebbe sulla Terra da sola, ma questo implicherebbe la necessità di riconfigurare la capsula per il rientro senza equipaggio. Inoltre a quel punto la NASA dovrebbe decidere se i dati raccolti durante il rientro senza astronauti siano sufficienti per assegnare la certificazione per il trasporto di persone e cose a Starliner.
    I dirigenti della NASA hanno detto di avere più o meno «fino a metà agosto» per prendere una decisione definitiva.

    – Leggi anche: Un nuovo successo per Starship

    Boeing è la principale azienda statunitense produttrice di aeroplani nonché una delle due società che hanno vinto gli appalti per costruire due sistemi alternativi di trasporto per la NASA oltre appunto a SpaceX. Negli ultimi tempi tuttavia la fiducia dell’Agenzia nei confronti dell’azienda sarebbe calata, ha detto al Washington Post una persona vicina alla dirigenza della NASA citata in forma anonima perché non autorizzata a parlare pubblicamente.
    Per produrre la Starliner spaziale Boeing ha ottenuto un finanziamento da 4,2 miliardi di dollari, ma come SpaceX è stata a lungo in ritardo sulla progettazione e sulla costruzione della sua capsula, che a giugno è finalmente stata lanciata con i due astronauti a bordo dopo il mezzo fallimento della prima missione di test senza equipaggio del 2019 e altri problemi tecnici.
    Dal momento che per raggiungere la ISS la NASA può fare affidamento solo su SpaceX e sui sistemi di lancio Soyuz c’è anche chi ritiene che decidere di non usare Starliner per far rientrare i due astronauti potrebbe spingere Boeing a ritirarsi, ha notato sempre il Washington Post. Intanto la NASA ha fatto sapere di aver ritardato la partenza della missione Crew-9 dal 18 agosto alla fine di settembre in modo da avere più tempo per decidere cosa fare con Starliner. LEGGI TUTTO

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    La NASA è responsabile dei danni causati dai detriti dei suoi satelliti?

    Caricamento playerA marzo un oggetto bizzarro, caduto dal cielo, ha squarciato il tetto di un’abitazione della città di Naples, in Florida, negli Stati Uniti. Non ha causato feriti, ma per gli abitanti della casa è stato causa di un grosso spavento: il proprietario, Alejandro Otero, ha raccontato al Washington Post di aver ricevuto una chiamata dal figlio «in preda al panico», e di essere tornato rapidamente a casa per capire cosa fosse successo, trovando «un buco nel tetto e nel pavimento del secondo piano» e «un insolito proiettile – un pezzo denso e cilindrico di metallo carbonizzato, poco più piccolo di una lattina di zuppa – conficcato in un muro». Otero ha detto di essersi reso subito conto che non si trattava di un oggetto qualunque, ma che era una cosa che «veniva dallo Spazio».
    La NASA – acronimo che sta per National Aeronautics and Space Administration, ovvero l’agenzia aerospaziale statunitense – ha poi confermato che l’oggetto cilindrico faceva parte di un carico di vecchie batterie, partito dalla Stazione spaziale internazionale nel marzo del 2021. L’oggetto, che fa parte della più ampia categoria di “spazzatura spaziale”, sarebbe normalmente dovuto bruciare e quindi scomparire nel momento del rientro nell’atmosfera terrestre, ma è invece rimasto abbastanza intatto da perforare il tetto degli Otero, che ora hanno chiesto un risarcimento per danni, principalmente per motivi psicologici, alla NASA stessa.
    La NASA ha sei mesi per decidere se rimborsare la famiglia o se aprire un caso legale al riguardo: in ogni caso si tratta di una decisione che creerebbe un precedente, dato che non è mai successo prima che un oggetto lanciato in orbita dagli Stati Uniti e poi caduto dallo Spazio abbia causato qualche tipo di danno a cittadini statunitensi.
    La distinzione del paese di lancio dell’oggetto e della nazionalità delle persone coinvolte è importante perché in realtà esiste un accordo internazionale che regolamenta quel che succede in questi casi (il Trattato sullo Spazio extratmosferico del 1967), ma si applica soltanto nei casi in cui un oggetto lanciato nello Spazio da un paese caschi nel territorio di un altro stato. In quel caso, lo stato di lancio è responsabile di qualsiasi compensazione finanziaria che potrebbe derivare dai costi di danneggiamento o di bonifica.
    In questo caso, invece, è una questione interna agli Stati Uniti – è un oggetto statunitense che danneggia proprietà statunitensi – che viene però osservata con attenzione dagli esperti. Il forte aumento di rifiuti nello Spazio negli ultimi anni, infatti, ha fatto aumentare le preoccupazioni attorno al fatto che questi casi in futuro possano diventare un po’ più frequenti. Già nel 2021 la professoressa Timiebi Aganaba, che si occupa del rapporto tra Spazio e società all’Università dell’Arizona, scriveva che «l’attuale legge spaziale ha funzionato finora perché i casi erano pochi e rari, e sono stati affrontati in modo diplomatico. Man mano che un numero crescente di oggetti viene mandato in orbita, però, i rischi aumenteranno inevitabilmente».
    Tecnicamente, tutti gli oggetti che si trovano nell’orbita terrestre stanno sempre cadendo verso la Terra. I satelliti attivi hanno dei sistemi che permettono loro di rimanere nell’orbita prevista, e quindi di rimanere sostanzialmente in equilibrio, mentre i satelliti inattivi (quelli che smettono di funzionare o vengono disabilitati per qualche motivo) non hanno più modo di opporsi alla gravità, e cadono fino a rientrare nell’atmosfera terrestre. Nel 2023 i satelliti attivi in orbita attorno alla Terra erano oltre 7.700, e quelli inattivi circa 3.300.
    Ci sono principalmente due cose che si possono fare per gestire un satellite inattivo. La prima è spostarli in un’orbita più alta, la cosiddetta “orbita cimitero”, abbastanza lontana dalla Terra che l’oggetto ci metterà centinaia di anni a raggiungere l’atmosfera. La seconda è orientare il satellite in modo che bruci del tutto nell’atmosfera o possa comunque causare danni minimi nell’impatto con il suolo.
    Può capitare però che alcuni rifiuti spaziali rientrino in modo incontrollato nell’atmosfera terrestre: anche in questo caso, raramente sopravvivono alle altissime temperature raggiunte prima di arrivare al suolo. È successo per esempio nel 1979, quando i detriti dello Skylab, la prima stazione spaziale statunitense, precipitarono nell’Australia occidentale senza però causare danni. Nel 1978, invece, i resti del satellite sovietico a propulsione nucleare Cosmos 954 caddero sul Canada settentrionale, diffondendo detriti radioattivi: è l’unico caso in cui un paese (il Canada) ha chiesto di essere rimborsato da un altro (l’Unione Sovietica) in base al Trattato sullo Spazio extratmosferico.
    «Se l’incidente fosse avvenuto all’estero e qualcuno in un altro paese fosse stato danneggiato dagli stessi detriti spaziali che hanno colpito gli Otero, gli Stati Uniti sarebbero assolutamente stati tenuti a rimborsarlo per i danni», ha detto l’avvocata della famiglia Mica Nguyen Worthy. «Peraltro, se i detriti fossero caduti qualche metro più in là avrebbero potuto esserci lesioni gravi o mortali». La famiglia ha chiesto un indennizzo che comprende i danni materiali causati dal buco nel tetto, i costi per l’assistenza di terzi e i danni causati dall’angoscia emotiva e mentale provocata da un evento così imprevisto. LEGGI TUTTO