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    La vulnerabilità è una questione di genere: uomini più esposti agli choc commerciali

    L’ultimo studio dell’Osservatorio delle libere professioni, realizzato con il supporto di Confprofessioni, Gestione Professionisti e Beprof, ha analizzato l’impatto potenziale dei dazi statunitensi sui professionisti italiani, introducendo un Indice di vulnerabilità normalizzato che misura l’esposizione ai rischi legati a choc commerciali bilaterali.L’indagine, condotta su un campione rappresentativo di liberi professionisti, ha messo in luce una variabile finora poco esplorata: il ruolo del genere nella distribuzione del rischio economico. I dati dimostrano che la vulnerabilità ai dazi non dipende solo dalla categoria professionale, ma si manifesta anche con forti differenze tra uomini e donne all’interno delle stesse professioni.PERCHÉ GLI UOMINI SONO PIÙ ESPOSTITra i commercialisti l’indice normalizzato di vulnerabilità raggiunge 106,4 per gli uomini contro 69,8 per le donne. Una dinamica simile si osserva tra avvocati e notai, dove l’indice si attesta a 108,9 per gli uomini e 44,8 per le donne. In entrambi i casi, il dato maschile è ben al di sopra della media del campione, mentre quello femminile rimane più basso.Questa differenza non è imputabile solo alla diversa distribuzione delle professioni tra i sessi, ma riflette una più ampia segmentazione del mercato: gli uomini tendono a collaborare maggiormente con imprese manifatturiere ed esportatrici le più esposte ai dazi mentre le donne operano prevalentemente in ambiti legati al mercato interno, come il contenzioso civile o la consulenza fiscale a privati.La minore presenza femminile nei ruoli a più alta integrazione con il tessuto produttivo segnala un modello ancora polarizzato. Le donne sono sottorappresentate in professioni tecnico-scientifiche e ingegneristiche le più colpite da choc internazionali mentre dominano negli ambiti sanitari e di consulenza a privati, meno vulnerabili alle fluttuazioni del commercio globale.Secondo l’Osservatorio, questa disparità incide non solo sull’accesso alle opportunità professionali ma anche sul livello di rischio economico sopportato. Gli uomini, pur potendo beneficiare di una maggiore esposizione ai mercati internazionali, risultano più vulnerabili in caso di crisi commerciali, mentre le donne, meno coinvolte nelle filiere export, subiscono effetti attenuati ma restano escluse da segmenti ad alto valore aggiunto.LE POLITICHE PUBBLICHE LEGGI TUTTO

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    Il buon senso sui tempi dei crediti di lavoro

    Con un emendamento al decreto legge sull’Ilva la maggioranza si fa carico di mettere ordine nella complicata disciplina della prescrizione dei crediti di lavoro e in materia di giustizia retributiva.La questione è la seguente: in mancanza di una norma di legge specifica, sulla prescrizione dei crediti di lavoro è stata la giurisprudenza, per oltre quarant’anni, ad affermare che la decorrenza del termine quinquennale dovesse avvenire durante il rapporto di lavoro nelle imprese sottoposte alle regole dell’art. 18 dello statuto dei lavoratori in materia di licenziamenti illegittimi. Con le modifiche all’art. 18 prima (Monti), e l’introduzione delle cd. “tutele crescenti” poi (Renzi), alcuni giudici hanno ritenuto essere venuto meno l’impianto normativo originario che negli anni ’70 aveva consentito l’affermazione dell’orientamento sulla prescrizione, e ciò ha consentito il farsi strada di un nuovo orientamento (era il 2015, Milano fu la prima) approdato in Cassazione solo nel 2022, che ha messo fortemente in crisi dinamiche lavorative consolidate. Affermando che il termine di prescrizione quinquennale decorre dalla fine del rapporto anziché durante, si è ingenerato un meccanismo perverso per il quale si sono “improvvisamente” sbloccate possibilità rivendicative vastissime, moltiplicando le cause (talvolta intese anche come fonti di reddito extra) e facendo lievitare le poste economiche in gioco. Teniamo conto che qui si parla quasi sempre di rivendicazioni ad oggetto maggiori somme pretese per errori applicativi di (complicati) contratti collettivi, oppure frutto di nuovi orientamenti di giurisprudenza apparsi durante il rapporto di lavoro e via discorrendo, cioè di somme di cui il datore e il lavoratore non hanno minima contezza fintanto che lavorano.Ma tant’è, e queste casistiche sono fonte di incertezza giuridica dato che oggi qualunque azienda è esposta al rischio di sopportare esborsi ingenti per crediti di lavoro che neppure sapeva fossero dovuti, magari relativi ad anni talmente indietro nel tempo per cui non è neppure in condizione di difendersi. È evidente che un simile meccanismo non può essere tollerato, e si risolve in danno tanto per le aziende quanto per i dipendenti, che il prezzo dell’incertezza lo pagano in termini di minori risorse investite nel lavoro e nelle retribuzioni dalle imprese. La nuova norma si propone di fare qualcosa di molto semplice: e cioè stabilire per legge che il termine prescrizionale di cinque anni decorre durante il rapporto e che, se si rivendica una somma si hanno poi 180 giorni per muovere causa, un po’ come accade per l’impugnazione del licenziamento. Buon senso che si ritrova anche nelle disposizioni sulla giustizia retributiva, che vogliono introdurre un principio di presunzione di correttezza, ai sensi dell’art. 36 della Costituzione, delle retribuzioni individuate dalle parti sociali nei contratti collettivi “qualificati” e cioè rappresentativi. LEGGI TUTTO

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    Diletta Leotta a Miami tra lavoro e relax

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