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    C’è molta confusione su un trattamento per prevenire la bronchiolite

    Caricamento playerNegli ultimi giorni si è generata molta confusione intorno al nirsevimab, un anticorpo monoclonale contro il virus respiratorio sinciziale umano (VRS) – una delle cause delle bronchioliti nei bambini con meno di un anno – noto con il nome commerciale Beyfortus. In un primo momento il ministero della Salute aveva ribadito che la spesa per il nirsevimab è a carico dei cittadini salvo diverse decisioni delle Regioni (con limiti per quelle con i conti sanitari non in ordine), ma in un secondo momento è stata diffusa una nota che annuncia l’avvio dei confronti necessari con l’Agenzia italiana del farmaco (AIFA) per renderlo accessibile a tutti gratuitamente. Una decisione definitiva non è stata ancora presa, lasciando molti dubbi a chi vorrebbe sottoporre i propri figli al trattamento in vista della stagione fredda in cui il virus circola di più.
    Il VRS è un virus piuttosto diffuso e come quelli dell’influenza ha una maggiore presenza tra novembre e aprile. Nelle persone adulte in salute non dà sintomi particolarmente rilevanti (è più insidioso negli anziani e nei soggetti fragili), ma può essere pericoloso nei bambini con meno di un anno di età. È infatti una delle cause principali della bronchiolite, una malattia respiratoria che può comunque avere diverse altre cause virali (coronavirus, virus influenzali, rhinovirus e adenovirus, per citarne alcuni).
    L’infiammazione nelle vie respiratorie riguarda i bronchi e i bronchioli, le strutture nei polmoni che rendono possibile il trasferimento di ossigeno al sangue e la rimozione dell’anidride carbonica: fa aumentare la produzione di muco che insieme ad altri fattori può portare a difficoltà respiratorie. Nella maggior parte dei casi l’infezione passa entro una decina di giorni senza conseguenze, ma possono esserci casi in cui la malattia peggiora. Negli ultimi anni alcuni studi hanno rilevato una maggiore quantità di casi gravi associati ad alcune varianti del VRS, che hanno reso necessario il ricovero dei bambini in ospedale e in alcuni casi in terapia intensiva.
    Le infezioni da VRS si prevengono con gli accorgimenti solitamente impiegati per altre malattie virali, quindi evitando il contatto con persone che hanno un’infezione in corso, lavandosi le mani e aerando regolarmente gli ambienti in cui si vive. A queste forme di prevenzione da qualche tempo si è aggiunta la possibilità di ricorrere a un trattamento con anticorpi monoclonali, cioè anticorpi simili a quelli che produce il nostro sistema immunitario, ma realizzati con tecniche di clonazione in laboratorio. Il loro impiego consente di avere a disposizione direttamente gli anticorpi, senza che questi debbano essere prodotti dal sistema immunitario dopo aver fatto conoscenza con un virus.
    Il nirsevimab fa esattamente questo, in modo che un bambino che lo riceve abbia gli anticorpi per affrontare il VRS riducendo il rischio di ammalarsi. Il trattamento non è un vaccino, che svolge invece una funzione diversa e cioè stimolare la produzione degli anticorpi; anche per questo motivo il trattamento è piuttosto costoso (contro il VRS esiste al momento un solo vaccino, il cui uso non è però consentito nei bambini).
    Il nirsevimab è stato autorizzato nell’Unione Europea nel 2022 e viene venduto come Beyfortus dall’azienda farmaceutica Sanofi, che lo ha sviluppato insieme ad AstraZeneca, e inizia a essere sempre più impiegato per fare prevenzione in paesi come la Francia e la Spagna dove è fornito gratuitamente. La sua somministrazione permette di fornire una maggiore protezione ai bambini con meno di un anno che vivono la loro prima stagione di alta circolazione del VRS. È  pensato per tutelarli nel periodo in cui sono esposti a qualche rischio in più perché ancora molto piccoli, poi crescendo non è più necessario.
    A inizio anno la Società italiana di neonatologia (SIN) aveva segnalato che il nirsevimab: «Ha una lunga emivita [durata nell’organismo, ndr] ed è in grado con una sola somministrazione di proteggere il bambino per almeno 5 mesi riducendo del 77 per cento le infezioni respiratorie da VRS che richiedono ospedalizzazione e dell’86 per cento il rischio di ricovero in terapia intensiva». La SIN segnalava inoltre che un impiego su larga scala del nirsevimab avrebbe permesso di ridurre i costi sanitari rispetto all’impiego di altri anticorpi monoclonali e di contenere le spese dovute ai ricoveri ospedalieri, per i ricoveri dei bambini che sviluppano forme gravi della malattia. Per questo motivo invitava il ministero della Salute e le Regioni, che mantengono ampie autonomie nelle politiche sanitarie, a considerare una revisione delle regole di accesso al trattamento.
    A oggi il nirsevimab è infatti compreso nei farmaci di “fascia C”, quindi a carico di chi li acquista, e ha un prezzo base al pubblico indicato dal produttore di 1.150 euro (importo che potrebbe essere più basso a seconda delle contrattazioni con i servizi sanitari regionali). Questa classificazione fa sì che le Regioni non possano utilizzare per il suo acquisto i fondi che ricevono dallo Stato per la gestione della sanità nei loro territori: hanno però la facoltà di offrirlo gratuitamente se finanziano l’iniziativa con altri fondi previsti nei loro bilanci. È una pratica che viene seguita spesso, ma con alcune limitazioni legate alla necessità di evitare che le Regioni non sforino troppo rispetto alle loro previsioni di spesa.
    Oltre a essere in “fascia C”, il nirsevimab non è compreso nel Piano nazionale prevenzione vaccinale ed è quindi un extra rispetto ai Livelli essenziali di assistenza (LEA), le prestazioni che il Servizio sanitario nazionale deve obbligatoriamente fornire a tutti i cittadini gratuitamente o con il pagamento di un ticket.
    In vista della stagione fredda, negli ultimi mesi alcune Regioni avevano annunciato di voler fornire il nirsevimab senza oneri per i pazienti, portando il ministero della Salute a diffondere una circolare il 18 settembre per ricordare le regole di finanziamento di queste iniziative. Oltre a segnalare la necessità di fornire il trattamento attingendo a fondi diversi da quelli sanitari regionali, il ministero aveva ricordato che «le regioni in piano di rientro dal disavanzo sanitario», cioè le regioni senza i conti a posto, «non possono, ad oggi, garantire la somministrazione dell’anticorpo monoclonale».
    La limitazione riguardava quindi Lazio, Abruzzo, Molise, Campania, Calabria, Puglia e Sicilia e portava di fatto a una disparità di trattamento per gli abitanti di queste regioni rispetto alle altre. La circolare aveva fatto discutere, soprattutto tra i genitori di bambini con meno di un anno ancora in attesa di capire se poter accedere o meno gratuitamente al trattamento, a ridosso dell’inizio della stagione di maggiore circolazione del VRS.
    In seguito alle proteste e alle polemiche il 19 settembre, quindi appena un giorno dopo la pubblicazione della circolare del ministero della Salute, la responsabile del Dipartimento della prevenzione, Maria Rosaria Campitiello, ha diffuso una nota con la quale ha annunciato l’avvio di un confronto con l’AIFA per rivedere le regole di accesso al nirsevimab per renderlo non a carico: «È nostra intenzione rafforzare le strategie di prevenzione e immunizzazione universale a tutela dei bambini su tutto il territorio nazionale, garantendo a tutte le regioni la somministrazione dell’anticorpo monoclonale senza oneri per i pazienti».
    Nella nota non sono però indicati tempi o modalità del confronto, che secondo diversi osservatori arriva comunque in ritardo considerato l’avvicinarsi del periodo in cui la diffusione di VRS ha il proprio picco. Il Board del calendario per la vita, iniziativa che comprende le federazioni dei medici e dei pediatri, aveva già raccomandato a inizio 2023 l’impiego del nirsevimab il prima possibile: «Nell’imminenza della autorizzazione all’immissione in commercio, auspicano che venga prontamente riconosciuta la novità anche in termini regolatori di nirsevimab, considerando la sua classificazione non quale presidio terapeutico (come sempre avvenuto per gli anticorpi monoclonali) ma preventivo, nella prospettiva dell’inserimento nel Calendario Nazionale di Immunizzazione». Nel caso di una fornitura non a carico il prezzo del trattamento dovrà essere contrattato con Sanofi, una procedura che richiede tempi che variano molto a seconda dei casi. LEGGI TUTTO

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    Quando finisce questo caldo?

    Caricamento playerPiù o meno dall’8 agosto l’Italia e vari altri paesi europei sono interessati da un’ondata di calore, cioè da temperature inusualmente più alte rispetto alla media, che ha fatto registrare massime superiori ai 36 o ai 38 °C in molte località. Il caldo è dovuto all’anticiclone sub-tropicale africano, un’area atmosferica di alta pressione proveniente dall’Africa che ha mantenuto il meteo mediamente stabile (lo si può immaginare come una grande montagna di aria calda che impedisce il passaggio di correnti più fresche).
    Nell’ultimo bollettino sulle ondate di calore, il ministero della Salute ha previsto per il 15 agosto il più alto livello di rischio per il caldo in 21 delle 27 città dove vengono fatti i monitoraggi, tra cui Roma, Milano, Napoli, Torino, Firenze e Bologna. Il livello di rischio più alto, che corrisponde al 3 ed è informalmente chiamato “bollino rosso”, segnala le condizioni meteorologiche che possono avere effetti negativi per la salute non solo per le persone più vulnerabili, come anziani, bambini molto piccoli e malati cronici, ma anche per le persone sane. La situazione sarà più o meno invariata anche il 16 agosto; migliorerà però fino al livello 1 a Milano e Torino.
    Nei giorni successivi le cose dovrebbero cambiare perché è previsto l’arrivo di una perturbazione proveniente dall’oceano Atlantico che porterà precipitazioni e un abbassamento delle temperature. Il servizio meteorologico dell’Aeronautica militare ha previsto temperature più o meno stazionarie per le giornate di giovedì (Ferragosto) e venerdì, e un lieve raffrescamento nel corso del fine settimana, in particolare domenica e soprattutto nelle regioni del Centro-Nord.

    Rispetto ad altre zone d’Europa, comunque, in Italia quest’estate non sono stati registrati dei particolari record di temperatura. È andata peggio alla Spagna e alla Grecia, dove le alte temperature degli ultimi giorni hanno favorito l’espansione di un vasto incendio vicino ad Atene.

    – Leggi anche: Perché si muore per il caldo LEGGI TUTTO

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    L’eruzione dell’Etna vista da vicino

    Caricamento playerGiovedì sera è iniziata una nuova eruzione dell’Etna, il vulcano siciliano che è il più alto vulcano attivo dell’Europa continentale. L’attività eruttiva era in corso già da alcuni giorni, ma ieri è aumentata, tanto che venerdì si è dovuto chiudere temporaneamente l’aeroporto di Catania per lo strato di cenere che si è depositato sulle piste di decollo e atterraggio. L’eruzione riguarda il cosiddetto Cratere Voragine, uno dei quattro crateri sommitali del vulcano, e ha prodotto una colonna di lava che ha raggiunto un’altezza di 4.500 metri secondo la stima dell’Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia (INGV). Il vulcano di suo è alto 3.357 metri. LEGGI TUTTO

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    Per qualcuno il tempo si è fermato: Heidi Klum a 51 anni mostra il suo fisico ancora mozzafiato in vacanza in Italia, guarda

    Ha spento le candeline lo scorso 1 giugno: sul social la top model è strepitosa in intimo
    “Buongiorno amore mio”, scrive, le parole accompagnano foto ‘bollenti’

    Un corpo longilineo, tonico, senza un filo di grasso. Anche l’addome, un punto critico con l’età che avanza, è perfetto. Per qualcuno il tempo si è davvero fermato… Heidi Klum a 51 anni mostra il suo fisico ancora mozzafiato in vacanza in Italia. Sul social la top model è strepitosa in intimo. “Buongiorno amore mio”, scrive accompagnando le sue parole con foto ‘bollenti’ in reggiseno e slip in pizzo. Il post raccoglie in brevissimo tempo un mare di ‘like’.
    Per qualcuno il tempo si è fermato: Heidi Klum a 51 anni mostra il suo fisico ancora mozzafiato in vacanza in Italia
    Ha spento le candeline lo scorso 1 giugno, nonostante gli anni passino, Heidi rimane una ragazzina. Mai volgare, ha un fisico che pare inossidabile. Sposata con Tom Kaulitz, chitarrista dei Tokio Hotel, si gode i suoi giorni spensierati nel Bel Paese. La sintonia con l’uomo a cui ha detto di sì nel 2019 rimane massima, come anche la loro passione: gli scatti che posta sono dedicati a lui.
    Ha spento le candeline lo scorso 1 giugno: sul social la top model è strepitosa in intimo
    La Klum e il marito hanno grande complicità. Mamma di quattro figli, nati da diverse relazioni, lei lo ha definito un ‘extra dad’, un padre acquisito per i pargoli. La prima è Leni, nata nel 2004 dalla relazione con Flavio Briatore, nel 2005 Heidi ha sposato Seal, dal loro matrimonio sono nati Henry, nel 2005, l’anno dopo Johan e nel 2009 Lou.
    “Buongiorno amore mio”, scrive, le parole accompagnano foto ‘bollenti’ dedicate al marito Tom Kaulitz
    Tutte vorrebbero conoscere il segreto dell’eterna giovinezza della modella tedesca naturalizzata statunitense. In passato è stata seguita dal personal trainer newyorchese David Kirsch, che l’ha aiutata a rimettersi in forma dopo le quattro gravidanza, scolpendole i muscoli. Oggi ama fare sport all’aperto. Al magazine Women’s Health UK qualche anno aveva confessato di avere un’alimentazione molto leggera ed equilibrata: uova, tacchino, insalata, broccoli, tonno, tantissima verdura, tanti centrifugati, frutta e ogni tanto yogurt e cioccolato fondente. Pasta, pizza, cheesburger e patate se li concede solo in vacanza. E in Italia non può proprio farne a meno, come svela nelle sue storie. LEGGI TUTTO

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    Dopo due anni, quest’inverno non c’è stata carenza di neve in Italia

    Grazie alle nevicate di febbraio e marzo la quantità d’acqua che si è accumulata sulle montagne italiane sotto forma di neve nell’inverno appena concluso è superiore alla mediana degli ultimi 12 anni. Significa che dopo due inverni in cui c’era stata una grossa carenza di neve sulle montagne, che aveva molto contribuito alla grave siccità del Nord Italia durata dall’inizio del 2022 all’estate del 2023, attualmente ce n’è un surplus, che sarà un’importante fonte d’acqua per i mesi estivi. Tuttavia se il bilancio è positivo per le Alpi, non lo è per gli Appennini, dove c’è ancora una situazione di scarsità d’acqua.A dirlo è l’ultima analisi della Fondazione CIMA, Centro Internazionale in Monitoraggio Ambientale, un ente di ricerca nelle scienze ambientali che è stato fondato e collabora con il dipartimento di Protezione civile. Da quattro anni la Fondazione CIMA raccoglie dei dati sul territorio e dai satelliti per stimare un parametro chiamato snow water equivalent (in italiano “equivalente idrico nivale”) e indicato con la sigla “SWE”, che indica la quantità d’acqua contenuta nella neve.
    Il parametro SWE può essere calcolato a livello nazionale, ma anche per singoli bacini fluviali, perché le montagne del paese possono essere suddivise in base al fiume principale che riforniscono d’acqua quando tra la primavera e l’estate la neve si scioglie.

    L’attuale abbondanza di neve avrà un effetto positivo soprattutto per i fiumi del Nord Italia e in particolare il Po, il più lungo fiume italiano. La Fondazione CIMA ha stimato che secondo i dati aggiornati al primo aprile il bacino idrografico del Po può contare su una quantità d’acqua dovuta alla neve che è superiore del 29 per cento rispetto alla mediana (il valore centrale, non la media) del periodo 2011-2022. Per quanto riguarda l’Adige, un altro importante fiume del Nord Italia e il secondo più lungo del paese, il valore dello SWE è inferiore alla mediana (del 4 per cento) ma è comunque doppio rispetto a quello di inizio aprile dello scorso anno.
    La situazione è molto diversa per il Centro e il Sud Italia. Sugli Appennini si sono registrate temperature parecchio alte quest’inverno (a marzo anche superiori di 2,5 °C rispetto ai valori mediani dello scorso decennio) e per questo anche la neve che c’era si è fusa. Per quanto riguarda il bacino del Tevere, il terzo fiume italiano per lunghezza, che scorre in Toscana, Umbria e Lazio, la Fondazione CIMA ha stimato un deficit dell’80 per cento rispetto alla mediana di riferimento al primo aprile.
    Anche al Nord comunque ci sono dei rischi per le risorse d’acqua dei prossimi mesi, molto importanti sia per la produzione agricola che per le centrali elettriche. «Se e quanto l’acqua ora finalmente presente nel bacino del Po sotto forma di neve potrà sostenere i mesi primaverili ed estivi, però, dipende dalle temperature», ha spiegato Francesco Avanzi, idrologo di Fondazione CIMA: «Le temperature elevate possono ancora causare, anche sulle Alpi, fusioni precoci: perché sia davvero utile nei periodi in cui l’acqua ci è più necessaria, la neve deve restare tale ancora per alcune settimane».
    In ogni caso per questa stagione le nevicate dovrebbero essere finite. Generalmente in Italia il picco della quantità di neve sulle montagne si registra a marzo e da aprile inizia il periodo di fusione. LEGGI TUTTO

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    Non ci sono più mufloni sull’isola del Giglio

    Caricamento playerIl 28 febbraio il tribunale amministrativo della Toscana (TAR) ha firmato un’ordinanza per sospendere le uccisioni dei mufloni sull’isola del Giglio da parte dei cacciatori, fino alla fine della stagione di caccia. La misura, che è stata decisa in seguito al ricorso di alcune organizzazioni animaliste, ha una durata molto limitata, dato che la stagione di caccia terminerà il 15 marzo. Probabilmente però sia il ricorso sia la sospensione non hanno avuto particolari effetti, perché sembra che già il 28 febbraio sull’isola del Giglio non ci fosse nessun muflone. Negli ultimi cinque anni infatti il Parco nazionale dell’Arcipelago toscano ha portato avanti un progetto di eradicazione della specie dall’isola e lo scorso dicembre ha dichiarato conclusa l’operazione.
    Capire come si è arrivati a questo provvedimento, apparentemente insensato, è importante perché da tempo si sta parlando di una possibile eradicazione dei mufloni anche sulla vicina isola d’Elba, che è molto più grande dell’isola del Giglio: uno studio sulla fattibilità del progetto è atteso per la fine di marzo.
    Molto in breve, i mufloni si potrebbero descrivere come pecore selvatiche. Il tema è ancora dibattuto nella comunità scientifica, ma è molto probabile che le pecore siano state ottenute attraverso la domesticazione, cioè con un processo di selezione artificiale, proprio dai mufloni, che in origine vivevano in Asia. I mufloni che oggi si trovano in Italia e in altri paesi europei invece discendono quasi sicuramente da pecore primitive, quindi non del tutto domesticate, che ancora in epoca antica sfuggirono ai loro allevatori e si rinselvatichirono.
    Tutti i mufloni che vivono in libertà in Europa arrivano dalla Sardegna: si ritiene che furono portati sull’isola dagli esseri umani in epoca neolitica, circa 6mila anni fa, e che lì siano sopravvissuti per secoli dopo essersi rinselvatichiti mentre i mufloni sul continente diventavano sempre più simili alle pecore di oggi. Dalla fine del Settecento, e per vari decenni, gruppi di mufloni sardi vennero portati in varie zone d’Italia e d’Europa, dove diedero origine a nuove popolazioni selvatiche. In tutti questi contesti i mufloni sono considerati una specie aliena (o “alloctona”), mentre nella sola Sardegna sono considerati “para-autoctoni” perché pur se introdotti dagli esseri umani fanno parte della fauna locale da vari millenni.
    Per questo quasi ovunque in Europa e in Italia i mufloni non sono una specie protetta e possono essere cacciati. Solo in Sardegna sono tutelati, anche perché nei decenni passati il loro numero era molto diminuito (si stima che oggi possano essercene circa 8mila nell’intera regione).
    Mufloni in una zona del porto di Arbatax nell’agosto del 2023 (ANSA)
    Nell’Arcipelago toscano, di cui l’isola del Giglio e l’isola d’Elba fanno parte, i mufloni vennero portati in epoca molto recente, negli anni Cinquanta. All’epoca le leggi sulla fauna erano molto permissive, sia per la caccia che per l’introduzione di animali alloctoni in nuovi territori. Il proprietario terriero e cacciatore Ugo Baldacci, che possedeva un’azienda faunistico-venatoria (cioè una riserva di caccia) in provincia di Pisa e dei terreni al Giglio, portò sette mufloni sull’isola, all’interno di un’area recintata. All’epoca si pensava che i mufloni sardi avrebbero potuto estinguersi, cosa che Baldacci voleva evitare, e le conoscenze sull’impatto dannoso delle specie alloctone non erano le stesse di oggi.
    Quattro dei mufloni portati da Baldacci provenivano direttamente dalla Sardegna, altri tre dalla Germania: discendevano da mufloni sardi portati in Ungheria nell’Ottocento. Gli animali si trovarono bene al Giglio e si riprodussero. Negli anni Ottanta, a causa dell’incuria della recinzione, si diffusero in tutta l’isola.
    Sono animali molto adattabili ed è possibile che nel loro periodo di massima prosperità sull’isola fossero tra 50 e 150. Il Giglio ha meno di 1.500 residenti e ha un’area di 24 chilometri quadrati, di cui una buona parte rientra nel Parco nazionale dell’Arcipelago toscano, dove fauna e flora sono protette.
    Diffondendosi nell’intero territorio dell’isola, i mufloni diventarono una delle specie che si potevano cacciare al Giglio, almeno nelle aree al di fuori del Parco nazionale dell’Arcipelago toscano. Dentro ai parchi nazionali infatti le uniche uccisioni di animali selvatici sono quelle compiute dagli enti che gestiscono i parchi stessi, allo scopo di preservare al meglio la biodiversità sulla base di conoscenze scientifiche condivise.
    Dal punto di vista della biodiversità, cioè della ricchezza di specie animali e vegetali, le piccole isole sono luoghi particolari. Da un lato sono molto più vulnerabili agli effetti negativi dell’invasione di una specie alloctona: avendo un territorio ridotto possono essere interamente colonizzate in tempi brevi, e quindi in tempi brevi una specie aliena può portare all’estinzione di una locale. Dall’altro però sono anche luoghi in cui è più facile eradicare una specie dannosa. Al Giglio sono (o erano) presenti varie specie alloctone, animali e vegetali: per questo nel 2019 è iniziato il progetto “LetsGo Giglio”, portato avanti dal Parco nazionale dell’Arcipelago toscano e finanziato dall’Unione Europea, con l’obiettivo di rimuoverle o ridurle in maniera consistente per preservare le specie locali.
    Per quanto riguarda i mufloni, la principale specie minacciata è il leccio (Quercus ilex), un albero tipico della regione del Mediterraneo, ma anche varie specie di arbusti: i mufloni mangiano queste piante quando sono molto giovani, impedendo che crescano. Gli effetti possono essere considerevoli.
    Uno studio realizzato nel 2019 dall’Università di Firenze sul territorio dell’Elba ha mostrato che nella parte occidentale dell’isola, dove i mufloni sono presenti, la vegetazione boschiva si rinnova molto più lentamente rispetto alla parte orientale dell’isola. Nel 2021 peraltro questi animali sono stati giudicati i più dannosi tra gli ungulati (cioè tra i mammiferi erbivori che hanno gli zoccoli) quando si diffondono in ambienti in cui sono alieni: è la conclusione di uno studio che ha preso in considerazione gli effetti a livello globale.
    Inizialmente il progetto “LetsGo Giglio” prevedeva che i mufloni fossero eradicati dall’isola in due modi: attraverso l’abbattimento o la cattura e la sterilizzazione. «Per arrivare a un’eradicazione la cosa migliore è utilizzare tecniche miste», spiega Giampiero Sammuri, zoologo e presidente del Parco nazionale dell’Arcipelago toscano: «Ci sono animali che è più facile catturare, proprio per via del loro comportamento individuale, e altri che è più facile abbattere. In tutte le operazioni di eradicazione di ungulati si privilegia la forma mista».

    Con i primi abbattimenti cominciarono anche le proteste delle organizzazioni che si occupano di difesa dei diritti degli animali. Il Parco allora si confrontò con le organizzazioni e nel novembre del 2021 fece un accordo con due di queste, il WWF e la LAV: si impegnò a sospendere gli abbattimenti e a proseguire con l’eradicazione aumentando le catture. Da parte loro le due organizzazioni promisero di occuparsi del mantenimento dei mufloni catturati e sterilizzati in strutture private sulla penisola, come il Centro di recupero per animali selvatici ed esotici di Semproniano, in provincia di Grosseto, che è gestito dall’associazione Irriducibili Liberazione Animale.
    Altri gruppi animalisti e il comitato di residenti del Giglio “Save Giglio”, che non avrebbe voluto né l’abbattimento dei mufloni né il loro trasferimento, continuarono comunque a protestare in vari modi, ottenendo anche un’interrogazione parlamentare nel marzo del 2023. Negli ultimi due anni ENPA, LNDC Animal Protection, VITADACANI e la Rete dei Santuari hanno comunicato in più occasioni la loro contrarietà all’eradicazione dei mufloni e portato avanti varie iniziative, tra cui il ricorso al TAR.
    Secondo quanto riferito dal Parco, qualcuno avrebbe inoltre compiuto «numerose azioni di disturbo» durante le pratiche di cattura dei mufloni: gli addetti a queste operazioni «sono stati pedinati e filmati mentre lavoravano e numerose sono state le azioni di sabotaggio, danneggiamento e, addirittura, di furto delle attrezzature utilizzate per le catture». Per questo il Parco aveva chiesto l’aiuto dei carabinieri per completare l’eradicazione e aveva vietato il passaggio su alcuni sentieri.
    A dicembre il Parco ha dichiarato conclusa l’eradicazione e ha fatto sapere che dopo l’accordo con WWF e LAV sono stati abbattuti 35 mufloni mentre altri 52 sono stati catturati e trasferiti. Per più di un anno dall’accordo non sono stati fatti abbattimenti.
    Più di recente è arrivata la decisione del TAR, che però non riguarda il progetto di eradicazione ma il piano della Regione Toscana che autorizzava le uccisioni dei mufloni sul territorio per la stagione di caccia 2023-2024, iniziata il primo ottobre. Il TAR ha sospeso per le ultime due settimane il permesso di cacciare mufloni sull’isola del Giglio, dunque di ucciderli al di fuori del territorio del Parco nazionale dell’Arcipelago toscano.
    «Penso che in realtà in questa stagione venatoria di caccia al muflone non ci sia andato nessun cacciatore a caccia di mufloni al Giglio», commenta Sammuri: «All’inizio di ottobre qualche muflone c’era ancora, perché gli ultimi li abbiamo prelevati tra ottobre e dicembre, ma erano pochissimi. Chi vuole andare a caccia di mufloni va dove ce ne sono molti».
    Ad esempio sull’isola d’Elba, dove secondo Sammuri sono stati cacciati circa 150 mufloni nella stagione che sta finendo. Nello stesso periodo all’interno del territorio del Parco nazionale dell’Arcipelago toscano, che si estende in parte anche sull’isola d’Elba, sono stati abbattuti circa 400 mufloni. «Quest’anno è stato un po’ un record, però almeno 300 all’anno nel Parco li abbiamo sempre abbattuti», dice ancora Sammuri, «e io non ho mai capito perché di 300 all’isola d’Elba non gliene importa niente a nessuno e invece queste poche decine dell’isola del Giglio hanno avuto questa grande attenzione».
    All’Elba sembra prevalere un’opinione pubblica favorevole alla possibilità di un’eradicazione della specie: ci sono ben due comitati locali che chiedono di eliminare mufloni e cinghiali dall’isola per via dei danni all’agricoltura e ai giardini e agli incidenti stradali causati da impatti con gli animali. I comuni dell’isola hanno finanziato uno studio di fattibilità per stimare costi e tempi necessari per l’eradicazione delle due specie. Servirebbero probabilmente molti più soldi di quelli con cui è stato finanziato “LetsGo Giglio” (1,6 milioni di euro) e in parte usati per i mufloni: l’isola d’Elba ha una superficie quasi dieci volte superiore a quella del Giglio, una popolazione venti volte superiore e centinaia di mufloni e cinghiali.
    In un incontro pubblico organizzato per discutere della possibile eradicazione delle due specie c’erano anche alcune persone contrarie, ma su fronti opposti: si dividevano tra animalisti e cacciatori che vorrebbero continuare ad andare a caccia sull’isola.
    Il TAR si esprimerà nuovamente sul ricorso che riguarda il Giglio a luglio. Per allora saranno stati fatti i controlli per verificare che davvero sull’isola non siano rimasti più mufloni, come previsto dai protocolli di “LetsGo Giglio”, e secondo Sammuri «mancherà il tema del contendere». Il presidente del Parco è certo che l’anno prossimo la Regione Toscana non farà un piano di caccia al muflone per l’isola, perché non ce ne sarà nessuno. LEGGI TUTTO

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    È stata trovata una nuova sottospecie di Xylella in provincia di Bari

    Caricamento playerA Triggiano, in provincia di Bari, è stata trovata una nuova sottospecie del batterio Xylella fastidiosa, quello che negli ultimi anni ha causato la morte e l’abbattimento di milioni di ulivi. La nuova specie è stata trovata su sei mandorli. Donato Pentassuglia, assessore all’Agricoltura della Puglia, ha detto all’agenzia di stampa ANSA che gli alberi su cui il batterio è stato trovato saranno abbattuti e verranno fatte analisi sulle piante presenti in un’area di 800 metri di raggio intorno. Il nome della sottospecie individuata sui mandorli è Xylella fastidiosa fastidiosa, mentre la sottospecie già ben nota è la Xylella fastidiosa pauca.
    La Xylella è la causa del “disseccamento rapido”, una malattia che se colpisce gli ulivi li porta a non produrre più olive e a morire in poco tempo. Si trasmette da un albero all’altro grazie ad alcuni insetti vettori, e principalmente attraverso il Philaenus spumarius, noto con il nome comune di “sputacchina”. È stato ricostruito che il batterio arrivò in Salento, nel sud della Puglia, nel 2008, trasportato da una pianta di caffè proveniente dal Costa Rica. Della sua presenza ci accorgemmo solo nel 2013, quando in Salento molti ulivi cominciarono a morire per il disseccamento rapido, per cui non esiste una cura. Da allora il batterio ha continuato a diffondersi verso nord e negli ultimi due anni è arrivato in provincia di Bari.
    Da anni la Regione Puglia contrasta la diffusione del batterio facendo ripetuti controlli su ampie aree di territorio agricolo. Il Piano d’azione per contrastare la diffusione di Xylella fastidiosa in Puglia 2023-2024 prevede zone dette “cuscinetto” e “di contenimento” a nord delle zone infette in cui vengono fatte analisi a campione sugli insetti vettori e, se è confermata la presenza della Xylella, su piante della zona. È stato così che è stato trovato il batterio nei mandorli, dopo una raccolta di campioni fatta a gennaio.

    Dall’inizio dell’anno le operazioni di monitoraggio hanno già interessato 2.614 ettari di terreno, cioè circa 26 chilometri quadrati; le piante ispezionate sono state più di 17mila. Tra gennaio e febbraio gli abbattimenti sono stati 237, ma finora nessuno ha riguardato piante infette: sono state abbattute anche quelle valutate a rischio per contenere la diffusione del batterio.
    «Non dobbiamo creare allarmismi», ha detto Pentassuglia, «ma nemmeno abbassare la guardia». L’assessore ha poi aggiunto che non si sa ancora se la sottospecie di Xylella sia più o meno dannosa per gli ulivi o altre piante, ma ha ricordato che la sputacchina si nutre anche della linfa della vite, un’altra pianta fondamentale per l’economia agricola non solo pugliese, e anche per questo bisogna continuare a fare attenzione alla diffusione del batterio. LEGGI TUTTO