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    È stato risolto un pezzetto dell’enigma di Kaspar Hauser

    Caricamento playerIl 26 maggio 1828 un ragazzo che indossava abiti trasandati fu visto aggirarsi da solo e confusamente nelle strade di Norimberga, in Germania. Si esprimeva male a parole, sembrava avere un qualche tipo di ritardo cognitivo, ma raccontò di aver passato tutta la propria vita in una stanza buia, dormendo a terra su un giaciglio di paglia e ricevendo solo pane e acqua da uno sconosciuto. Questo racconto affascinò molte persone, alcune delle quali ipotizzarono che Kaspar Hauser (così si chiamava il ragazzo secondo una di due lettere anonime che portava con sé quando fu “trovato”) fosse il legittimo erede del defunto granduca di Baden Karl, rapito e nascosto poco dopo la nascita per un intrigo dinastico.
    La storia di Hauser ebbe grande risonanza sia in Germania che all’estero, perché all’epoca c’era una grande curiosità riguardo ai comportamenti innati, quelli che un essere umano mostrerebbe anche se fosse cresciuto del tutto isolato. Le reali circostanze della vita di Hauser però non furono mai chiarite. L’uomo morì nel 1833 per una ferita al petto che, secondo quanto disse, gli procurò un assalitore ignoto. Secondo altre ricostruzioni, secondo cui fu un impostore mitomane, se la inflisse invece da solo. Nei decenni la sua vicenda ispirò vari libri, una poesia di Paul Verlaine, una canzone di Suzanne Vega e vari film, tra cui il famoso L’enigma di Kaspar Hauser di Werner Herzog (1974). Ora uno studio genetico ha aggiunto un nuovo elemento, escludendo che Hauser fosse l’erede del granduca di Baden.
    Questa conclusione è stata raggiunta attraverso delle analisi del DNA contenuto in tre ciocche di capelli appartenute a Hauser e conservate in alcune collezioni private. Lo studio, pubblicato in versione pre-print sulla rivista iScience, è stato fatto da un gruppo di ricerca internazionale all’Istituto di medicina forense di Innsbruck, in Austria, e all’Università di Potsdam, in Germania, con la collaborazione della genetista britannica Turi King, che nel 2013 identificò i resti del re d’Inghilterra Riccardo III (1452-1485).
    Per la teoria che attribuiva a Hauser un’origine aristocratica, l’uomo sarebbe stato il figlio del granduca Karl e della moglie Stéphanie di Beauharnais, una parente di Giuseppina, la prima moglie di Napoleone. Nel 1812 i due ebbero un figlio maschio, l’unico nato dal loro matrimonio, che però morì dopo 18 giorni di vita. Per questo, alla morte del granduca nel 1818, fu suo zio Ludwig a succedergli e dato che nemmeno lui aveva avuto figli maschi, nel 1830 il trono passò a un altro zio del granduca Karl, Leopold. Secondo la teoria riguardo a Kaspar Hauser, la madre di Leopold, la contessa di Hochberg Luise Karoline, avrebbe scambiato il figlio del granduca Karl con un neonato malato, per favorire l’ascesa al trono del figlio.

    Già due volte in passato erano state fatte delle analisi genetiche a partire da oggetti legati a Kaspar Hauser. Nel 1996 fu esaminata una porzione di tessuto intrisa di sangue ottenuta da un paio di calzoni conservati in un museo di Ansbach, in Baviera, che sarebbero stati indossati da Hauser prima della morte. Dal campione venne estratto del DNA mitocondriale, che contiene informazioni sull’ascendenza da parte di madre, e lo si confrontò con quello di due discendenti viventi di Stéphanie di Beauharnais. Quel primo studio non trovò corrispondenze, dunque escluse la discendenza nobile, ma lasciò un’incertezza perché non era sicuro che i calzoni appartenessero davvero a Hauser.
    Altre analisi vennero fatte tra il 2001 e il 2002, utilizzando un altro indumento del museo di Ansbach e delle ciocche di capelli riconducibili con certezza a Hauser. La sequenza di DNA mitocondriale così ottenuta risultò diversa da quella del 1996 e molto affine al DNA di uno dei discendenti di Stéphanie di Beauharnais, apparentemente confermando la teoria sulle origini nobili di Hauser. La porzione di DNA in questione tuttavia era molto piccola e statisticamente non si poteva escludere che la somiglianza trovata fosse una coincidenza. I metodi di analisi genetica usati fino ai primi anni Duemila del resto funzionavano molto male con i campioni molto piccoli o molto vecchi.
    Dal 2014 il patologo forense Bernd Brinkmann, che aveva già lavorato alle analisi dei primi anni Duemila, cercò di ottenere altri campioni dal museo di Ansbach, per poterli analizzare con tecniche genetiche più aggiornate, ma l’istituto non ha più concesso agli scienziati di esaminare gli oggetti della sua collezione. Così nel 2019 si è deciso di ripetere uno studio genetico sulle ciocche di capelli, aggiungendone una terza a quelle già esaminate. Grazie a una tecnica di sequenziamento del DNA sviluppata solo nel 2017 è stato verificato che tutti i campioni esaminati (sia le varie ciocche di capelli che il sangue sui calzoni del museo) appartenevano alla stessa persona e che questa non era imparentata con Stéphanie di Beauharnais. Le discrepanze tra le analisi precedenti erano dovute esclusivamente ai limiti delle vecchie tecniche di analisi.
    King ha commentato la scoperta chiarendo che comunque quello di Kaspar Hauser resta un mistero, perché il DNA mitocondriale, l’unico che si può ottenere da tracce di sangue antiche e da capelli senza bulbo, non permette di ricostruire interamente il genoma di una persona. Per questo non si può nemmeno fare delle ipotesi sulla regione di provenienza di Hauser, si sa solo genericamente che era probabilmente nato nell’Europa occidentale. Walther Parson dell’Università di Innsbruck, uno degli autori del nuovo studio, ha spiegato che servirebbero dei campioni ossei per ottenere maggiori informazioni.
    Nemmeno quelli tuttavia potrebbero chiarire se la storia raccontata da Hauser a proposito della sua lunga prigionia fosse vera, o se, come nel tempo hanno concluso molti studiosi appassionati alla sua vicenda, l’uomo fosse in realtà un mentitore patologico, desideroso di attirare l’attenzione. LEGGI TUTTO

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    Quando finisce questo caldo?

    Caricamento playerPiù o meno dall’8 agosto l’Italia e vari altri paesi europei sono interessati da un’ondata di calore, cioè da temperature inusualmente più alte rispetto alla media, che ha fatto registrare massime superiori ai 36 o ai 38 °C in molte località. Il caldo è dovuto all’anticiclone sub-tropicale africano, un’area atmosferica di alta pressione proveniente dall’Africa che ha mantenuto il meteo mediamente stabile (lo si può immaginare come una grande montagna di aria calda che impedisce il passaggio di correnti più fresche).
    Nell’ultimo bollettino sulle ondate di calore, il ministero della Salute ha previsto per il 15 agosto il più alto livello di rischio per il caldo in 21 delle 27 città dove vengono fatti i monitoraggi, tra cui Roma, Milano, Napoli, Torino, Firenze e Bologna. Il livello di rischio più alto, che corrisponde al 3 ed è informalmente chiamato “bollino rosso”, segnala le condizioni meteorologiche che possono avere effetti negativi per la salute non solo per le persone più vulnerabili, come anziani, bambini molto piccoli e malati cronici, ma anche per le persone sane. La situazione sarà più o meno invariata anche il 16 agosto; migliorerà però fino al livello 1 a Milano e Torino.
    Nei giorni successivi le cose dovrebbero cambiare perché è previsto l’arrivo di una perturbazione proveniente dall’oceano Atlantico che porterà precipitazioni e un abbassamento delle temperature. Il servizio meteorologico dell’Aeronautica militare ha previsto temperature più o meno stazionarie per le giornate di giovedì (Ferragosto) e venerdì, e un lieve raffrescamento nel corso del fine settimana, in particolare domenica e soprattutto nelle regioni del Centro-Nord.

    Rispetto ad altre zone d’Europa, comunque, in Italia quest’estate non sono stati registrati dei particolari record di temperatura. È andata peggio alla Spagna e alla Grecia, dove le alte temperature degli ultimi giorni hanno favorito l’espansione di un vasto incendio vicino ad Atene.

    – Leggi anche: Perché si muore per il caldo LEGGI TUTTO

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    Usare l’MDMA come farmaco si sta rivelando più complicato del previsto

    Caricamento playerIl 9 agosto la Food and Drug Administration (FDA), l’agenzia statunitense che si occupa della regolamentazione dei prodotti farmaceutici, ha deciso di non approvare una terapia per lo stress post-traumatico che prevede l’uso combinato dell’MDMA, una sostanza psicoattiva illegale nella maggior parte dei paesi del mondo, e della psicoterapia. Il trattamento, sviluppato dall’azienda Lykos Therapeutics, era il primo in cui fosse coinvolta l’MDMA a essere stato sottoposto alla FDA, le cui valutazioni hanno una vasta influenza anche al di fuori degli Stati Uniti.
    L’esito dell’analisi dell’agenzia era molto atteso nel campo di ricerca che negli ultimi vent’anni si è dedicato ai possibili impieghi di sostanze come l’MDMA e gli psichedelici per curare disturbi resistenti al trattamento con altri psicofarmaci, comprese certe forme di depressione. Il fatto che per ora questo trattamento non sia stato approvato non significa che i vari altri in attesa di essere valutati dall’FDA saranno giudicati allo stesso modo, ma la notizia ha deluso gli scienziati che studiano gli psichedelici, molte persone in attesa di nuove terapie per lo stress post-traumatico e tante altre che per varie ragioni in questi anni hanno formato un movimento di interesse per gli studi sugli effetti di psichedelici e affini.
    Ha anche reso evidenti alcuni dei problemi della ricerca farmacologica sulle sostanze psicoattive che sono piuttosto difficili da risolvere e gestire. Uno è il fatto che generalmente una persona che partecipa a uno studio che prevede l’assunzione di una di queste sostanze capisce in fretta se gli è stato somministrato un placebo, cosa che si fa con una parte dei soggetti partecipanti per distinguere eventuali effetti dovuti all’autosuggestione: per questo non è possibile ottenere risultati in linea con gli standard scientifici usati in tutti gli altri ambiti della medicina.

    – Leggi anche: Il problema nello studiare gli psichedelici

    Un altro grosso problema è il ruolo della psicoterapia: il trattamento proposto dalla Lykos prevede appunto di associare l’assunzione dell’MDMA a colloqui con psicoterapeuti adeguatamente formati, una formula prevista anche in molte altre sperimentazioni simili in attesa di analisi da parte dell’FDA. Quest’agenzia tuttavia si esprime unicamente sugli aspetti farmacologici e non ha dunque né l’obiettivo né la predisposizione per valutare la parte di psicoterapia.
    MDMA è l’abbreviazione di “3,4-metilenediossimetanfetamina”, una sostanza a cui ci si riferisce spesso come ecstasy. Anche se è di frequente associata a sostanze psichedeliche come l’LSD ed è studiata nello stesso campo di ricerca, non ha proprio lo stesso tipo di effetti. Gli psichedelici propriamente detti provocano alterazioni delle percezioni che possono essere associate a visioni o alla sensazione di aver compreso qualche verità sull’esistenza. L’MDMA invece provoca la scomparsa della stanchezza e di molte inibizioni e ha un effetto “empatogeno”, fa cioè percepire un trasporto affettivo e un senso di vicinanza per le persone che si hanno intorno. Per queste ragioni è storicamente molto assunta nei club di techno e ai rave, anche come alternativa all’alcol (a differenza del quale non fa aumentare l’aggressività).
    L’effetto dell’MDMA dura qualche ora e si conclude gradualmente. La sostanza non genera dipendenza e il principale effetto negativo, che può anche non verificarsi, è una specie di contraccolpo emotivo: una fase che si verifica qualche giorno dopo l’assunzione in cui si può provare ansia e malinconia. Tuttavia un’assunzione ripetuta, frequente e abituale può generare forme di depressione. Altri effetti collaterali di cui ogni tanto si sente parlare dai giornali sono solitamente causati da un dosaggio eccessivo, che può causare vari problemi fisici, oppure sono dovuti ad altre sostanze spacciate per MDMA.
    Negli ultimi anni l’MDMA è stata presa in considerazione come possibile farmaco da associare alla psicoterapia per curare lo stress post-traumatico, cioè quella forma di disagio che si sviluppa in seguito a esperienze fortemente traumatiche, come la partecipazione ai combattimenti di una guerra o una violenza sessuale. Metterebbe infatti i pazienti nella condizione di rielaborare insieme a un terapeuta i traumi che li affliggono, senza dover affrontare l’ostacolo dell’autogiudizio e l’angoscia causata dal ripensare ai traumi stessi: in pratica aiuterebbe le persone a tollerare i ricordi dolorosi e a evitare il meccanismo spontaneo che porta a non volerne parlare, e permetterebbe agli psicoterapeuti di discuterne con loro.
    Negli Stati Uniti era già stata usata in questo modo anche da alcuni psicoterapeuti non convenzionali tra gli anni Settanta e Ottanta, grazie all’attività di divulgazione che portò avanti lo scienziato Sasha Shulgin, prima che fosse inserita nell’elenco delle droghe illegali.
    La Lykos Therapeutics ha sviluppato la propria terapia che prevede l’uso dell’MDMA a partire da queste vecchie esperienze. L’azienda è nata nel 2014 come branca a scopo di lucro di MAPS, un’organizzazione fondata nel 1986 per contrastare le politiche proibizioniste sulle droghe e promuovere sia la decriminalizzazione del loro consumo, sia la ricerca scientifica sui possibili effetti terapeutici degli psichedelici, interrotta per anni dopo che erano stati dichiarati illegali.
    Tra le diverse sostanze che si stanno studiando, la Lycos aveva scelto di dare la priorità all’MDMA perché è quella con meno effetti collaterali e per cui riteneva di avere maggiori possibilità di arrivare a un’approvazione da parte dell’FDA.
    Grazie ai risultati incoraggianti di alcuni studi iniziali, nel 2017 l’agenzia aveva concesso a questa sostanza un percorso preferenziale nei propri processi di approvazione, dato che per i disturbi per cui ne è proposto l’uso non ci sono molte cure. Sono passati 25 anni da quando l’FDA ha approvato per l’ultima volta dei farmaci per lo stress post-traumatico, gli antidepressivi a base di sertralina e paroxetina, e si stima che per il 40 per cento dei pazienti non siano una terapia efficace. Un’altra ragione per cui la Lycos aveva deciso di puntare sull’MDMA è che negli Stati Uniti si sente molto il bisogno di trovare nuovi trattamenti per lo stress post-traumatico: è una condizione che affligge molti reduci dell’esercito, le cui associazioni di rappresentanza hanno un’influenza politica significativa, e complessivamente 13 milioni di persone nel paese.
    Gli inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina, gli antidepressivi che oggi si usano contro lo stress post-traumatico, richiedono un’assunzione continuativa e prolungata nel tempo. Invece il trattamento proposto dalla Lycos prevede solo tre assunzioni di MDMA nella vita, da effettuare con l’assistenza di uno psicoterapeuta che metta a frutto gli effetti della sostanza in un colloquio. Dato che il sistema di approvazione da parte dell’FDA non si esprime sulla psicoterapia e sui suoi effetti, e dato che esistono moltissime forme diverse di psicoterapia (uno stesso terapeuta ne può usare diverse), la Lycos aveva sviluppato un proprio protocollo per i terapeuti, da seguire in tutte le fasi della sperimentazione per avere risultati coerenti.
    Molti psicofarmaci vengono assunti in associazione con forme di psicoterapia, ma possono anche essere prescritti da soli. Nel caso degli psichedelici e delle sostanze affini, almeno per come sono state studiate finora, gli effetti benefici si avrebbero solo tenendo insieme l’aspetto farmacologico e quello di terapia della parola.
    I risultati dello studio della Lycos sono stati molto positivi. Nella sperimentazione finale sono state coinvolte più di 190 persone: a sei mesi dalla fine del trattamento, il 71 per cento di quelle a cui è stata somministrata l’MDMA dopo il trattamento non ha più avuto sintomi riconducibili allo stress post-traumatico, contro il 48 per cento del gruppo a cui è stato dato il placebo (e che comunque ha seguito la psicoterapia).
    Nonostante questi risultati a giugno una commissione di scienziati a cui l’FDA aveva chiesto di giudicare lo studio si era espressa contro l’approvazione della terapia, e ora l’agenzia ha confermato la valutazione. Secondo un comunicato della Lycos che riassume le motivazioni dell’FDA – che non le ha diffuse pubblicamente – c’erano vari aspetti che la commissione ha trovato poco convincenti. Uno è il fatto che tra i partecipanti allo studio alcuni avessero assunto l’MDMA illegalmente in precedenza. Ma anche le incertezze riguardo alla mancanza di un vero effetto placebo nel gruppo di controllo e riguardo al contributo della psicoterapia hanno avuto un ruolo.
    La FDA ha chiesto alla Lycos di effettuare una nuova sperimentazione per fornire maggiori dati a sostegno dell’efficacia del trattamento. L’azienda ha detto che ci vorranno vari anni per farlo e ha annunciato che farà ricorso contro la decisione dell’agenzia.
    In Australia già dall’anno scorso l’MDMA e la psilocibina possono essere utilizzate all’interno di sessioni di psicoterapia. Anche in questo paese però c’è chi ha ancora posizioni molto caute sull’uso di queste sostanze perché non si conoscono ancora gli effetti a lungo termine di queste terapie.
    In generale finora le ricerche sugli psichedelici – che sono tutto sommato recenti se si considerano solo quelle realizzate con i metodi scientifici più avanzati – non hanno indagato a sufficienza sui tipi di psicoterapia da associare al loro uso terapeutico. Alcune delle aziende farmaceutiche che stanno investendo in questo campo, e che diversamente dalla Lycos non sono nate dall’attivismo per la decriminalizzazione degli psichedelici, non hanno interessi a fare studi in questo ambito e si stanno concentrando sugli aspetti farmacologici, quelli determinanti per l’approvazione da parte dell’FDA.
    Per alcuni studiosi del settore è un problema: ci sarebbe il rischio che in futuro gli psichedelici e le sostanze affini come l’MDMA siano sì autorizzati per usi terapeutici, ma che anche in quanto tali siano oggetto di forme di abuso come gli antidepressivi tradizionali. LEGGI TUTTO

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    Come gli scarafaggi hanno colonizzato il mondo

    Caricamento playerLa Blattella germanica è la specie di scarafaggio più diffusa al mondo, come sa bene chi ha fatto i conti con un’infestazione di questi insetti in casa. Lunghi meno di due centimetri e dal colore marrone tendente al rosso, questi scarafaggi sono praticamente ovunque ci siano esseri umani, mentre è molto più difficile trovarli negli ambienti naturali. Talmente difficile da avere indotto un gruppo di ricerca a chiedersi come mai e soprattutto quale sia l’effettiva origine di questi velocissimi, affamati ed estremamente prolifici insetti.
    A differenza di quanto suggerisca il nome, la Blattella germanica non è originaria della Germania. La specie fu classificata in questo modo dal naturalista svedese Carl Nilsson Linnaeus (quasi sempre italianizzato in Linneo), che nel Diciottesimo secolo aveva perfezionato un sistema di nomenclatura che avrebbe profondamente influenzato il modo in cui mettiamo ordine tra le specie. La scelta derivò più da ragioni storiche che scientifiche.
    I primi scarafaggi di quella specie avevano iniziato a farsi notare in Europa poco meno di tre secoli fa, almeno a giudicare dalle testimonianze dell’epoca e dai primi riferimenti a questo particolare tipo di insetto. All’epoca la Svezia era coinvolta in quella che sarebbe diventata nota come la “Guerra dei sette anni” e aveva tra i propri nemici parte dell’odierna Germania. In un certo senso finirono nel mezzo del conflitto anche gli scarafaggi, con gli opposti schieramenti che li chiamavano con riferimenti ai nemici, come “scarafaggi prussiani” o “scarafaggi russi” a seconda dei casi. In questo contesto Linneo decise di chiamare la specie Blattella germanica, nome che resiste ancora oggi e che definisce lo scarafaggio per antonomasia.
    L’origine di questi insetti non è però tedesca e nemmeno europea, almeno secondo la ricerca da poco pubblicata sulla rivista scientifica Proceedings of the National Academy of Sciences (PNAS). Per scoprire l’origine dello scarafaggio più diffuso al mondo, un gruppo di ricerca internazionale ha chiesto a esperti in diversi paesi di fornire alcuni campioni degli scarafaggi raccolti nel corso del tempo per effettuare i loro studi. Non era una richiesta particolarmente insolita: accade di frequente che entomologi e altri studiosi ricevano individui di scarafaggi, magari dalle società che si occupano di fare disinfestazione e che vogliono assicurarsi di avere a che fare con una determinata specie.
    Il gruppo di ricerca ha ottenuto in questo modo 281 scarafaggi appartenenti alla specie Blattella germanica, più alcuni individui appartenenti ad altre specie. Dopodiché ne ha studiato il materiale genetico per identificare somiglianze e differenze, in modo da stabilire legami di parentela dal punto di vista della loro evoluzione.
    Lo studio dice che gli scarafaggi che conosciamo tutti sono strettamente imparentati con una specie asiatica che si chiama Blattella asahinai, che viene comunemente chiamato scarafaggio asiatico. Secondo il gruppo di ricerca, le due specie iniziarono a differenziarsi circa 2.100 anni fa, un periodo relativamente vicino per i tempi dell’evoluzione. Le due specie hanno moltissime cose in comune, del resto, al punto che spesso gli individui di una vengono confusi con quelli dell’altra.
    Sulla base delle differenze genetiche tra i vari scarafaggi analizzati, il gruppo di ricerca ha identificato due probabili grandi ondate di diffusione della Blattella germanica dall’Asia al resto del mondo. La prima si verificò 1.200 anni fa con uno spostamento verso occidente, forse favorito dai viaggi di mercanti e soldati, usati come risorsa dagli scarafaggi per rimediare cibo e un passaggio.
    La seconda grande ondata iniziò poco meno di quattro secoli fa, forse favorita dal progressivo sviluppo delle tecnologie per scaldare gli edifici, visto che questi animali in origine erano abituati alle temperature tropicali. L’avvio delle attività coloniali e dei commerci attraverso gli oceani favorì la successiva diffusione degli scarafaggi in buona parte del mondo. Circa 270 anni fa la Blattella germanica fece il proprio ingresso in Europa, impiegando poco tempo per diffondersi in buona parte del continente e farsi notare anche da Linneo.
    L’aspetto affascinante che il gruppo di ricerca ha derivato dalle analisi è che in un certo senso sono stati gli esseri umani a favorire l’esistenza e la diffusione della Blattella germanica. Gli scarafaggi avevano di per sé una spiccata capacità di adattamento e, di generazione in generazione attraverso mutazioni casuali, sono diventati via via più abili nello sfruttare le cose che facciamo per vivere: conservare il cibo, dormire di notte e rimanere al caldo. La Blattella germanica va alla ricerca delle nostre riserve di cibo, è spesso più attiva di notte quando può agire indisturbata e predilige gli ambienti caldi, soprattutto per potersi riprodurre.
    Le specie di blatte conosciute sono circa 4.600 (le stime variano a seconda delle classificazioni), con caratteristiche anche molto diverse tra loro, ma per questioni di prossimità nell’immaginario comune gli scarafaggi sono una cosa sola: la Blattella germanica. Piccolo, sfuggente e per molti disgustoso, questo insetto ha condizionato fortemente il nostro modo di pensare agli scarafaggi e più in generale agli insetti. In realtà il mondo degli scarafaggi è vario e a tratti sorprendente.
    Uno scarafaggio scavatore gigante (Macropanesthia rhinoceros), tra le specie di scarafaggi più pesanti (Wikimedia)
    Mentre una Blattella germanica supera di rado i due centimetri di lunghezza, la Megaloblatta longipennis raggiunge una lunghezza massima di poco meno di dieci centimetri. Per i più preoccupati: vive in Colombia, Ecuador e Perù. La specie che conta gli individui più pesanti è invece quella dello scarafaggio scavatore gigante (Macropanesthia rhinoceros) che può pesare fino a 35 grammi: vive in Australia ed è ovoviparo, cioè incuba e fa schiudere le uova al proprio interno prima di rilasciare i nuovi nati all’esterno.
    Gli scarafaggi appartenenti al genere Attaphila sono invece minuscoli e raramente superano i 3 millimetri di lunghezza. Infestano i nidi di alcune specie di formiche, riuscendo a sfuggire al controllo delle loro inconsapevoli ospiti imitandone l’odore.
    Uno dei punti di forza degli scarafaggi è la loro versatilità e capacità di nutrirsi praticamente di qualsiasi cosa. In particolare la Blattella germanica è attratta dalla carne, da alimenti ricchi di amido (come il riso o la pasta), dai cibi grassi e da quelli particolarmente zuccherini. In caso di mancanza di queste prime scelte, gli scarafaggi di questa specie non disdegnano pasti a base di residui di dentifricio, colla o sapone. Nei periodi di grande carestia, uno scarafaggio non si fa comunque molti problemi nel mangiare i propri simili. Non sono gli unici insetti a farlo ed è una soluzione che permette ai loro gruppi, spesso gerarchici, di sopravvivere il tempo necessario per produrre una nuova generazione pronta a seguire le nostre abitudini. LEGGI TUTTO

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    Weekly Beasts

    A Kula, sull’isola di Maui, c’è un ranch che offre servizi di ippoterapia (utilizza cioè i cavalli a scopo terapeutico) per le persone colpite direttamente o indirettamente dai grandi incendi che nell’agosto 2023 devastarono le Hawaii: per loro il servizio è gratuito e in una delle foto di animali di questa settimana c’è un cavallo di quel ranch, accarezzato durante una sessione. Poi abbiamo uno dei panda giganti prestati dalla Cina agli Stati Uniti nell’ambito di quella che viene definita “la diplomazia dei panda” e poi ancora una balena che sbuca alle Olimpiadi, il salvataggio di un leone marino e una femmina di bradipo, neomamma. LEGGI TUTTO

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    San Lorenzo non è il momento migliore per vedere le stelle cadenti

    Caricamento playerLa notte di San Lorenzo, quella tra il 10 e l’11 agosto, è tradizionalmente nota anche come “notte delle stelle cadenti” ed è diffusa l’abitudine, tra appassionati e non, di sdraiarsi a guardare il cielo sapendo che la probabilità di vederne una sarà maggiore delle altre sere dell’anno. Un tempo quella di San Lorenzo era effettivamente la notte in cui il cosiddetto sciame meteorico delle Perseidi si poteva osservare meglio: in questo secolo però il momento migliore per guardare le stelle cadenti è leggermente cambiato, ed è quello che va dall’11 al 13 agosto.
    Quest’anno i momenti ideali per vedere le “stelle cadenti di San Lorenzo”, conosciute anche come “Lacrime di San Lorenzo”, saranno quindi la notte tra domenica 11 e lunedì 12 agosto e la successiva.
    Quelle che chiamiamo stelle cadenti non sono stelle, bensì frammenti meteorici di roccia che si sono generati dalla disintegrazione di una cometa: per la maggior parte questi frammenti sono grandi come granelli di sabbia. Quelli che si possono vedere in questi giorni appartengono al gruppo di detriti particolare, chiamato Perseidi, dal nome della costellazione di Perseo, che attraversa l’orbita terrestre in un periodo compreso tra la fine di luglio e la terza settimana di agosto. Nel momento di maggiore attività è possibile osservare a occhio nudo dalla Terra circa cento scie luminose ogni ora.
    La cometa che diede origine al cosiddetto sciame delle Perseidi si chiama Swift-Tuttle e fu scoperta per la prima volta nel 1862 grazie a due distinte osservazioni fatte da Lewis Swift e da Horace Parnell Tuttle. Le scie luminose che osserviamo sono create dai detriti rilasciati dalla cometa, che incontrando l’atmosfera a una velocità di 200.000 chilometri orari si incendiano, creando delle “palle di fuoco” visibili dalla Terra. Il fenomeno è osservato da millenni: tra le prime notazioni su quanto accadeva nel cielo in questo periodo dell’anno ci sono quelle di astronomi cinesi, risalenti al 36 dopo Cristo.

    – Leggi anche: Come riconoscere le costellazioni in queste notti d’estate

    Di solito in presenza di uno sciame meteorico come quello delle Perseidi si parla di “stelle cadenti” perché nel cielo notturno sembra che le stelle si spostino velocissime prima di morire. In realtà, le stelle non c’entrano e anzi rimangono a debita distanza dall’atmosfera terrestre: milioni di chilometri nel caso del Sole, miliardi per tutte le altre. La fine di una stella così vicino a noi avrebbe effetti catastrofici per il pianeta e ne determinerebbe la sua completa distruzione.
    A volte le scie luminose vengono chiamate “lacrime di San Lorenzo” proprio perché un tempo il momento di massima attività si verificava il 10 di agosto, in corrispondenza del giorno in cui si commemora il santo cristiano. Secondo la tradizione, le stelle cadenti ricordavano anche i tizzoni ardenti su cui San Lorenzo era stato martirizzato. Le cose però nell’universo sono sempre in movimento, e lentamente l’incontro tra le Perseidi e l’orbita terrestre si è spostato di circa un giorno in avanti.
    Per osservare al meglio le Perseidi è sufficiente guardare il cielo di notte: meglio se nell’emisfero boreale e possibilmente lontano dai grandi centri urbani, dove l’inquinamento luminoso tende a renderle meno visibili. Il posto migliore per osservarle solitamente è la montagna, dove l’aria è meno inquinata ed è più probabile che il cielo sia limpido. La costellazione di Perseo sorge a nord-est dopo le 22, ma le stelle cadenti si possono vedere in tutto il cielo. LEGGI TUTTO

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    L’iceberg più grande del mondo è finito in un loop

    Caricamento playerDa qualche mese l’iceberg più grande del mondo, noto con il nome di A-23A, è finito in una sorta di vortice: sta girando lentamente su se stesso, intrappolato in una corrente che si è formata tra esso e la montagna sottomarina sopra cui galleggia. L’iceberg è vicino alle isole Orcadi Meridionali, poco più di 600 chilometri a nord est della Penisola Antartica, l’estremo settentrionale del continente che si protende verso le coste del Sudamerica. È grande 3.880 chilometri quadrati, più dell’intera Valle d’Aosta, e ha un’altezza di più di trecento metri, tre volte quella del Bosco Verticale di Milano. La dimensione ne rende i movimenti impercettibili, ma dalle immagini satellitari si vede chiaramente che dallo scorso aprile ogni 24 giorni compie un giro completo su se stesso: se dureranno ancora per molto, questi movimenti ininterrotti potrebbero portare al suo scioglimento, con conseguenze sull’ecosistema marino.

    L’iceberg è in un’area dell’oceano Antartico conosciuta come “vicolo degli iceberg”: di solito i grossi iceberg ci passano velocemente per dirigersi poi altrove grazie alle correnti. Questo non è successo all’iceberg A-23A: è rimasto intrappolato in una cosiddetta “colonna di Taylor”, una corrente che si forma attorno alle montagne sottomarine creando proprio una sorta di vortice che fa ruotare lentamente l’acqua in senso antiorario attorno alla cima. La montagna sottomarina su cui sta ruotando l’A-23A è larga circa 100 chilometri e alta circa mille metri.
    Non sembra possibile stabilire per quanto tempo l’iceberg rimarrà lì e quali saranno le conseguenze. I ricercatori che ne seguono la traiettoria sostengono che il fatto che si sia bloccato in acque ancora fredde ne abbia posticipato lo scioglimento, a cui solitamente vanno comunque incontro gli iceberg che si dirigono a nord, dove le acque sono più calde. Se trascorresse un periodo prolungato nel vortice, potrebbe comunque finire per sciogliersi in modo significativo a causa del movimento, e danneggiare così l’ecosistema marino della zona. Secondo alcuni studiosi è però possibile che alla fine finisca per seguire il percorso di altri grossi iceberg, come quello dell’A-68A, che nel 2020 aveva ruotato per qualche mese un po’ più a ovest rispetto a dov’è ora l’A-23A prima di liberarsi dalle correnti e dirigersi verso acque più calde, e finire per sciogliersi comunque.

    L’iceberg A-23A aveva già avuto un percorso tormentato, a partire da quando nel 1986 si era staccato da un altro iceberg, l’A-23, uno dei tre che si erano staccati quell’anno dalla piattaforma di ghiaccio Filchner-Ronne, nel mare di Weddell, in Antartide. Da allora era rimasto fermo per 34 anni.
    È piuttosto comune per gli iceberg più grandi rimanere fermi per molto tempo: il grande spessore del ghiaccio ne ostacola infatti la deriva, soprattutto nelle acque intorno alla Penisola Antartica e in quelle del mare di Weddell, che sono relativamente basse. Capita dunque che gli iceberg più grandi si incaglino, restino fermi per un po’, ruotando lievemente su loro stessi, prima di riuscire a superare le asperità del fondale e raggiungere acque più profonde.
    Nel 2020 l’A-23A ha iniziato ad allontanarsi. Alex Brearley, uno studioso a capo del gruppo di ricerca della British Antarctic Survey che ne studia i movimenti, ha detto che a dicembre, quando ha guidato una spedizione, ci è voluto un giorno intero per circumnavigarlo tutto. È talmente vasto che «sembra proprio terraferma, è l’unico modo per descriverlo», ha detto Brearley al New York Times.

    Il distaccamento degli iceberg è un processo naturale molto comune e ben noto ai ricercatori, che indirettamente viene influenzato dal cambiamento climatico e dal riscaldamento delle acque. La ricerca si occupa molto dei movimenti degli iceberg, perché conoscerne dimensioni e caratteristiche è importante per prevedere come si potrebbero muovere e verso quale direzione, soprattutto per garantire la sicurezza delle rotte commerciali vicine all’Antartide. LEGGI TUTTO

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    Ci sono due astronauti bloccati sulla Stazione Spaziale Internazionale

    Caricamento playerBarry Wilmore e Sunita Williams, i due astronauti della NASA che avevano raggiunto la Stazione Spaziale Internazionale (ISS) a bordo della prima missione della capsula spaziale Starliner di Boeing con equipaggio partita il 5 giugno, sarebbero dovuti restarci per otto giorni. Passati più di due mesi dal lancio, tuttavia, non è ancora chiaro come e quando rientreranno sulla Terra e la NASA non esclude che possa succedere addirittura il prossimo febbraio.
    Quella di Starliner è una delle missioni spaziali più importanti del 2024, ma durante il viaggio verso la ISS la capsula ha avuto dei malfunzionamenti che hanno causato il ritardo del rientro previsto settimane fa. In una conferenza stampa mercoledì la NASA ha spiegato perché Starliner potrebbe non essere sicura per il viaggio di rientro degli astronauti e ha detto di star valutando di farli rientrare con la Crew Dragon di SpaceX, la società spaziale privata di Elon Musk, rivale di Boeing.
    Se la NASA decidesse di far rientrare gli astronauti con la capsula di SpaceX anziché con Starliner la missione si allungherebbe ulteriormente di diversi mesi. Sarebbe inoltre l’ennesimo fallimento per Boeing, che negli ultimi anni ha avuto guai enormi, prima per i gravi incidenti aerei ai suoi 737 Max e più di recente per il volo di Alaska Airlines, che aveva perso un pezzo della fusoliera mentre era in volo.
    Starliner era partita dalla base di lancio di Cape Canaveral, negli Stati Uniti, lo scorso 5 giugno, dopo una serie di ritardi e rinvii per problemi tecnici vari. Wilmore e Williams avrebbero dovuto affiancare l’equipaggio che svolge missioni di lunga permanenza sulla Stazione per una settimana circa. La missione serviva per verificare i sistemi di lancio della capsula, quelli di attracco e quelli di atterraggio, in modo che la navicella di Boeing potesse ottenere le certificazioni finali della NASA per diventare ufficialmente uno dei veicoli privati da impiegare per il trasporto di persone e cose verso e dalla Stazione. Attualmente infatti per queste attività la NASA può fare affidamento solo su SpaceX e sui sistemi di lancio Soyuz dell’Agenzia spaziale russa (Roscosmos).
    Durante il viaggio verso la Stazione spaziale internazionale si sono però verificati dei malfunzionamenti: la NASA e Boeing hanno svolto test e simulazioni sui propulsori della capsula sia a terra che nello Spazio, concludendo che funzionano sufficientemente bene perché possa rientrare. Tuttavia i test non hanno chiarito con certezza cosa abbia provocato i malfunzionamenti e «in generale la comunità della NASA vorrebbe capire un po’ meglio sia la causa a monte che la fisica» dietro a questi inconvenienti, ha detto mercoledì Steve Stich, responsabile del programma dei voli commerciali dell’Agenzia.
    Alla conferenza stampa non era stato invitato alcun dirigente di Boeing, ma l’azienda aveva già espresso disaccordo con le valutazioni della NASA. In un comunicato diffuso la settimana scorsa aveva sostenuto che Starliner fosse in grado di completare il volo e di riportare gli astronauti sulla Terra «in sicurezza», come a suo dire dimostrato dai dati raccolti durante i test sui propulsori.
    (NASA via AP)
    Stich sostiene che l’opzione «preferita» continua a essere quella di riportare Wilmore e Williams sulla Terra con Starliner, anche perché fare diversamente creerebbe altri problemi. Secondo Ken Bowersox, uno dei responsabili delle operazioni spaziali della NASA, in base agli ultimi dati, alle ultime analisi e alle discussioni più recenti si sta però valutando di far tornare indietro Starliner senza equipaggio e di far rientrare gli astronauti con la capsula di SpaceX alla fine della sua prossima missione.
    Una delle opzioni possibili sarebbe appunto far rientrare Wilmore e Williams con la prossima missione Crew-9 di SpaceX, facendola partire con due astronauti anziché quattro, in modo che ci sia appunto posto per loro. Questo però comporterebbe integrarli nella rotazione degli astronauti impegnati nelle attività sulla ISS, e visto che la missione della Crew-9 dovrebbe durare fino al febbraio del 2025 Wilmore e Williams rimarrebbero sulla Stazione per altri sei mesi, per un totale di otto mesi contro una missione che sarebbe dovuta durare otto giorni.
    In questo caso la Starliner rientrerebbe sulla Terra da sola, ma questo implicherebbe la necessità di riconfigurare la capsula per il rientro senza equipaggio. Inoltre a quel punto la NASA dovrebbe decidere se i dati raccolti durante il rientro senza astronauti siano sufficienti per assegnare la certificazione per il trasporto di persone e cose a Starliner.
    I dirigenti della NASA hanno detto di avere più o meno «fino a metà agosto» per prendere una decisione definitiva.

    – Leggi anche: Un nuovo successo per Starship

    Boeing è la principale azienda statunitense produttrice di aeroplani nonché una delle due società che hanno vinto gli appalti per costruire due sistemi alternativi di trasporto per la NASA oltre appunto a SpaceX. Negli ultimi tempi tuttavia la fiducia dell’Agenzia nei confronti dell’azienda sarebbe calata, ha detto al Washington Post una persona vicina alla dirigenza della NASA citata in forma anonima perché non autorizzata a parlare pubblicamente.
    Per produrre la Starliner spaziale Boeing ha ottenuto un finanziamento da 4,2 miliardi di dollari, ma come SpaceX è stata a lungo in ritardo sulla progettazione e sulla costruzione della sua capsula, che a giugno è finalmente stata lanciata con i due astronauti a bordo dopo il mezzo fallimento della prima missione di test senza equipaggio del 2019 e altri problemi tecnici.
    Dal momento che per raggiungere la ISS la NASA può fare affidamento solo su SpaceX e sui sistemi di lancio Soyuz c’è anche chi ritiene che decidere di non usare Starliner per far rientrare i due astronauti potrebbe spingere Boeing a ritirarsi, ha notato sempre il Washington Post. Intanto la NASA ha fatto sapere di aver ritardato la partenza della missione Crew-9 dal 18 agosto alla fine di settembre in modo da avere più tempo per decidere cosa fare con Starliner. LEGGI TUTTO