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Tra il 2015 e il 2016 lungo la costa nordamericana dell’oceano Pacifico furono trovati i corpi di oltre 60mila uccelli marini, morti durante una delle più gravi ondate di calore marine mai registrate nella zona. Erano individui di , uccelli grandi più o meno quanto un pollo, ma decisamente più agili e abituati a vivere per mesi sul mare aperto, prima di tornare verso la costa per riprodursi. Sulla base di quei ritrovamenti, alcuni gruppi di ricerca stimarono che fossero morti in tutto almeno mezzo milione di uccelli, ma a quanto pare avevano a dir poco sottostimato il problema.
Un nuovo da poco pubblicato sulla rivista scientifica Science ha infatti calcolato che in quell’ondata di calore marina, chiamata “The Blob”, morirono almeno quattro milioni di urie comuni, circa la metà dell’intera popolazione di questi uccelli censita in Alaska prima che si verificasse il marcato aumento della temperatura in quella zona del Pacifico. Se confermata, si tratterebbe della più grande moria di uccelli appartenenti alla stessa specie nella storia moderna.
“The Blob”, la grande massa d’acqua insolitamente più calda, fu rilevata per la prima volta intorno al 2013 e continuò a diffondersi nei due anni seguenti, stabilizzandosi poi per diverso tempo lungo la costa occidentale del Nordamerica. Portò a un aumento di 2 °C della temperatura media dell’acqua marina, rispetto ai dati storici, mettendo sotto forte stress numerosi ecosistemi marini. Le popolazioni di alcune specie di pesci si dimezzarono, migliaia di megattere scomparvero da quella zona del Pacifico e ci furono forti conseguenze anche per la pesca, soprattutto a causa della minore disponibilità di merluzzo. Mancando i pesci, ci furono conseguenze anche per diverse specie di uccelli marini che se ne nutrono.
L’uria comune ha bisogno di grandi quantità di energia per sostenersi, riprodursi e provvedere alla prole. Sbattendo forsennatamente le piccole ali per mantenersi in volo, questi uccelli riescono a raggiungere una velocità massima di 80 chilometri orari, importante per rincorrere le prede che avvistano sotto la superficie marina. Quando si tuffano per pescare, possono spingersi fino a 200 metri di profondità, andando alla ricerca di pesci più piccoli e facili da ingerire. La grande attività fisica comporta un notevole dispendio di energia e per questo devono assumere ogni giorno cibo equivalente a circa la metà del loro peso. Il consumo di energia è più marcato nei lunghi mesi trascorsi lontano dalle coste.
Con l’arrivo di “The Blob” i ricercatori marini intuirono che potessero esserci serie conseguenze per varie specie. E fu proprio l’avvistamento di decine di migliaia di urie comuni morte lungo la costa dell’Alaska a dare le prime conferme sugli effetti del riscaldamento anomalo dell’acqua. Per gli oltre 60mila individui morti censiti lungo le coste, c’erano probabilmente altre centinaia di migliaia di uccelli morti in mare, ma calcolare quanti non era semplice.
Per lo studio da poco pubblicato su Science, sono stati utilizzati i censimenti effettuati negli anni su alcune delle principali colonie di urie comuni nel golfo dell’Alaska e nel mare di Bering, dove gli uccelli si raccolgono per riprodursi. L’analisi ha tenuto in considerazione molti anni, per evitare di sovrastimare la scomparsa degli uccelli, magari semplicemente denutriti e quindi non in grado di compiere il lungo viaggio stagionale verso le isole. Confrontando la quantità di urie negli anni è emerso che molte colonie si sono più che dimezzate durante “The Blob”. I dati sono stati poi utilizzati per stimare la moria nel suo complesso, arrivando a 4 milioni, cioè circa la metà dell’intera popolazione di questi uccelli che frequentava di solito le coste dell’Alaska.
Al momento non è chiaro se la popolazione di urie comuni tornerà a crescere anche in seguito alla fine del periodo di riscaldamento delle acque marine. Merluzzi e altre specie di pesci hanno iniziato ad aumentare in quantità, quindi il cibo è meno scarso per le urie, ma non ci sono segni di una marcata ripresa della loro popolazione. L’ipotesi è che le colonie più piccole fatichino a proteggere uova e nuovi nati lungo le coste, perché non sono in numero sufficiente per contrastare i predatori. C’è quindi l’eventualità che un intero ecosistema sia cambiato per sempre e che possa subire ulteriori conseguenze nel caso in cui si presentino nuove ondate di calore.
Negli ultimi dieci anni il Pacifico settentrionale si è più velocemente rispetto agli altri bacini oceanici, con due ondate di calore in appena cinque anni che hanno avuto effetti su molti animali. L’aumento dei gas serra nell’atmosfera, derivanti soprattutto dalle attività umane, è ritenuto la principale causa del riscaldamento globale che si riflette fortemente sugli oceani, che assorbono buona parte del calore.