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    Il caso di influenza aviaria in un umano contagiato da un bovino

    A inizio settimana negli Stati Uniti è stato segnalato il primo caso di influenza aviaria in un essere umano trasmessa da un bovino, che probabilmente era stato in precedenza contagiato da pollame infetto o da un uccello. Il contagio è avvenuto in Texas e la persona interessata non ha sviluppato particolari sintomi fatta eccezione per un lieve arrossamento degli occhi (congiuntivite), ma la notizia ha comunque portato ad alcuni titoli e articoli allarmati sulla vicenda che si inserisce nell’ampio filone delle notizie intorno all’epidemia da influenza aviaria in corso in molti paesi da quasi cinque anni.Il probabile doppio salto di specie conferma la capacità dei virus aviari di evolvere molto rapidamente, ma per ora non indica che ci siano maggiori rischi rispetto a quelli già indicati dalle autorità sanitarie negli Stati Uniti, nell’Unione Europea e in altre aree del mondo. I rischi per la popolazione generale legati all’influenza aviaria sono ancora molto bassi, per quanto ci sia grande attenzione sulla diffusione della malattia soprattutto negli allevamenti, dove un focolaio può causare gravi danni economici e qualche rischio di contagio in più tra chi ci lavora.
    Con “influenza aviaria” viene indicata una malattia che interessa principalmente gli uccelli e che viene causata da un’ampia varietà di virus, per quanto imparentati tra loro. Quello che suscita maggiore interesse da qualche anno è H5N1, un virus le cui prime versioni erano state identificate in Cina nella seconda metà degli anni Novanta. Più in generale, i virus aviari sono comuni e interessano da moltissimo tempo gli uccelli selvatici. Le versioni meno aggressive vengono definite LPAI (dall’inglese “low-pathogenic avian influenza”, cioè “influenza aviaria a bassa patogenicità”) e non sono solitamente rischiose per gli animali.
    In alcuni casi, però, un virus LPAI riesce a passare dagli uccelli selvatici agli allevamenti di pollame, finendo in un contesto in cui ci sono migliaia di animali che vivono a stretto contatto e dove sono molto più probabili i contagi. In poco tempo il virus si replica producendo nuove generazioni che contengono mutazioni, dovute per lo più a errori del tutto casuali nella trasmissione del suo materiale genetico, tali da renderlo più letale per gli animali. Questo passaggio fa sì che il virus diventi più contagioso e rischioso e per questo viene definito HPAI, per indicare una forma ad alta patogenicità.
    Gli HPAI possono causare in poco tempo grandi focolai negli allevamenti di pollame, rendendo necessario l’abbattimento di migliaia (in alcuni casi di milioni) di polli per evitare che il contagio prosegua e che generazione dopo generazione i virus coinvolti acquisiscano nuove capacità diventando per esempio ancora più contagiosi. L’attuale forma di aviaria è particolare e osservata con attenzione perché, oltre a causare molti contagi tra gli uccelli e il pollame, mostra una spiccata capacità di trasmettersi anche a specie molto diverse come alcuni mammiferi.
    In generale, il virus dell’influenza aviaria è imparentato con quello che causa l’influenza stagionale negli esseri umani, l’influenza equina e quella suina, ma le varianti e i sottotipi coinvolti sono alquanto differenti tra loro sia in termini di virulenza sia di contagiosità. Le relative somiglianze e altri fattori rendono comunque possibili i salti di specie, cioè il passaggio del virus da una specie a una completamente diversa. Con l’influenza accade spesso: ci sono casi di influenza umana nei maiali e più in generale si ritiene che l’influenza che stagionalmente ci riguarda sia emersa dagli uccelli.
    In questi due anni sono stati segnalati passaggi di H5N1 dagli uccelli selvatici a volpi, puzzole, lontre, procioni e orsi. Nell’autunno del 2022 era inoltre emerso un grande focolaio tra i visoni di un allevamento intensivo in Spagna, che aveva poi reso necessario l’abbattimento degli animali per ridurre il rischio di ulteriori contagi all’esterno della struttura.
    Il 2022 era stato un anno particolarmente complesso soprattutto per gli allevamenti di pollame negli Stati Uniti, dove vengono allevate insieme grandi quantità di polli a stretto contatto e di conseguenza con un alto rischio di contagi. Si era reso necessario l’abbattimento di decine di milioni di tacchini e galline da uova, con conseguenze sulla disponibilità e i prezzi di queste ultime in molte aree degli Stati Uniti. La situazione era migliorata nel corso del 2023 negli allevamenti, ma i virus aviari avevano continuato comunque a diffondersi non solo tra gli uccelli, ma anche tra i mammiferi.
    (Jamie McDonald/Getty Images)
    Nell’ultimo anno sono stati confermati casi di aviaria nel bestiame e in particolare negli allevamenti di bovini in Kansas, Michigan, New Mexico, Idaho e Texas. È probabile che i bovini abbiano contratto il virus da specie selvatiche di uccelli o dal pollame allevato nelle loro vicinanze, ma al momento non ci sono molti elementi concreti per avere qualche certezza in più. Le autorità di controllo negli Stati Uniti non escludono inoltre che i contagi nel bestiame siano molto più diffusi di quanto emerso finora, ma che i casi passino inosservati perché raramente gli animali si ammalano.
    È in questo contesto che è avvenuto il contagio in Texas da bovino a essere umano. Stando alle informazioni fornite dai Centri per la prevenzione e il controllo delle malattie (CDC) degli Stati Uniti, la persona sarebbe stata contagiata mentre lavorava in un allevamento per la produzione del latte e di prodotti caseari (il latte pastorizzato può essere consumato senza correre rischi). Era risultato positivo all’aviaria dopo alcuni controlli dovuti alla congiuntivite che aveva sviluppato, unico sintomo evidente della malattia. Oltre a essere stato messo sotto controllo, il paziente ha iniziato una terapia con farmaci antivirali per ridurre la capacità del virus di continuare a replicarsi nell’organismo, in modo da favorire la guarigione.
    È il primo caso di un passaggio da bovino a essere umano a essere segnalato negli Stati Uniti, ma in precedenza c’era già stato un caso di contagio che aveva invece riguardato un passaggio dal pollame a un operatore che lavorava in un allevamento. Anche in quella circostanza la persona interessata non aveva sviluppato particolari sintomi e si era ripresa dopo qualche giorno.
    Nel corso dell’attuale epidemia alcune decine di persone, in particolare in Asia, sono risultate positive ai virus aviari più diffusi dopo essere state a stretto contatto con animali che avevano l’infezione. Nella maggior parte dei casi non sono stati segnalati sintomi preoccupanti, ma ci possono essere casi in cui si sviluppano complicazioni che in rari casi portano alla morte.
    Un’infezione virale da un certo tipo di H5N1 in una persona non implica comunque che questa sia contagiosa, anzi: è altamente improbabile che in un singolo passaggio il virus acquisisca la capacità di diventare contagioso tra esseri umani. È inoltre probabile che i casi pollame-umani si siano verificati in seguito all’esposizione ad alte quantità del virus nell’ambiente in cui lavoravano. Alcuni virus hanno comunque mostrato una certa capacità nell’effettuare sporadicamente salti di specie e non è un particolare da trascurare.
    I virus influenzali mutano velocemente e spesso in modi poco prevedibili, per esempio se nell’organismo che infettano incontrano altre tipologie di virus dai quali possono prendere in prestito parti di materiale genetico. Un virus che passa da un uccello a un mammifero, come un bovino, potrebbe in questo modo sviluppare la capacità di replicarsi più facilmente nel nuovo ospite e di diventare anche più contagioso. Mutazioni del tutto casuali potrebbero poi far sì che qualcosa di analogo avvenga nel caso di contagio in un essere umano, portando infine a un virus che riesce a circolare con maggiore facilità nella nostra specie.
    Il rischio che ciò avvenga è attualmente considerato basso, ma ci sono studi e ricerche in corso sulle caratteristiche degli HPAI e sui fattori che potrebbero renderli più pericolosi. Il contenimento delle infezioni, per esempio con l’abbattimento del pollame infetto, serve proprio a evitare che ci siano ulteriori contagi che potrebbero fare aumentare la probabilità di nuove mutazioni e salti di specie. Più si riducono i casi di passaggio da specie aviarie a mammiferi, minori sono i rischi anche per gli esseri umani.
    Nel suo ultimo rapporto sull’influenza aviaria, il Centro europeo per la prevenzione e il controllo delle malattie (ECDC) ha segnalato che tra dicembre 2023 e marzo 2024 i casi di HPAI rilevati negli uccelli sono stati inferiori rispetto ai periodi precedenti. In Europa non sono stati inoltre segnalati finora casi di passaggio dei virus coinvolti negli esseri umani, anche grazie alle pratiche di contenimento effettuate negli allevamenti. Le principali cause di contagio del pollame derivano comunque dal passaggio di uccelli selvatici contagiosi, che entrando in contatto con gli animali negli allevamenti causano poi la diffusione dei virus. Per l’ECDC anche in Europa «il rischio di infezione rimane basso per la popolazione in generale». LEGGI TUTTO

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    Questa non è una coscia di pollo

    Ci sono casi in cui un pollo arrosto può essere divisivo: petto o coscia? C’è chi preferisce il primo, più semplice da mangiare e privo di ossa, e chi la seconda, di solito meno asciutta e con uno strato di pelle più spesso intorno. Chi appartiene a questa seconda categoria è quasi sempre convinto di avere nel piatto una vera coscia, del resto la chiamano tutti così, ma sta in realtà mangiando un “polpaccio”.La confusione deriva dalla poca familiarità con l’anatomia degli uccelli, dal fatto che tutti – persino i macellai – chiamano spesso “coscia” una parte dell’animale che non lo è, e dalla diffusa convinzione che polli e simili abbiano l’articolazione del ginocchio al contrario rispetto alla nostra e in generale a quella dei mammiferi.Gli arti inferiori degli uccelli variano molto a seconda delle specie, ma mantengono comunque tratti comuni che si ritrovano anche nei polli (Gallus gallus domesticus). Sono animali digitigradi: utilizzano come unico punto di appoggio le loro falangi, cioè le ossa che formano le loro dita (lo sono anche cani, gatti e altri animali). Si distinguono quindi dai plantigradi: gli animali che camminano poggiando tutta la pianta del piede, come fanno gli esseri umani e gli orsi per esempio.Quando camminiamo sulle punte dei piedi in un certo senso imitiamo l’andamento dei digitigradi e manteniamo sollevato il metatarso e il tarso, l’insieme delle ossa che si trovano tra le falangi e la caviglia. I polli camminano costantemente in questo modo e non hanno propriamente un tarso, perché questo nel corso della loro evoluzione si è fuso con il metatarso formando un osso unico e relativamente allungato che spesso viene erroneamente identificato come l’equivalente del nostro polpaccio (tibia e perone). In realtà è più corretto immaginarlo come un prolungamento del piede, che rimane sempre sollevato per via del modo in cui camminano gli uccelli.Arto inferiore di un uccello a confronto con un piede umanoProseguendo dalla zampa verso l’alto, al termine del tarsometatarso c’è l’articolazione della caviglia, anatomicamente diversa dalla nostra, ma orientata allo stesso modo: si flette proprio come avviene quando pieghiamo i piedi verso l’alto. La caviglia è l’articolazione più evidente degli arti inferiori degli uccelli, perché non è coperta dalle piume, e visto che la conformazione del tarsometatarso induce in inganno, molti sono convinti di osservare il ginocchio degli uccelli e da questo derivano la conclusione (errata) che questi animali abbiano l’articolazione al contrario rispetto a noi. Ma, appunto, quella è una caviglia, non un ginocchio, ed è quindi orientata nel verso normale.La confusione tra caviglia e ginocchio degli uccelli ha conseguenze sul resto della comprensione dell’anatomia degli arti inferiori di questi animali e ci porta alla convinzione errata per molti da cui eravamo partiti: la coscia che non è una coscia. Ciò che comunemente chiamiamo in questo modo è in realtà l’equivalente del “polpaccio” in altri animali, prova ne sia il fatto che l’osso che lo costituisce non è il femore, ma il tibiotarso, cioè la fusione di parte del tarso (quindi ancora una parte dell’osso della zampa) con la tibia. Questa parte non è in alcun modo una coscia, che si trova invece nel segmento successivo proseguendo sempre dal basso verso l’alto.La parte del tibiotarso termina con il ginocchio vero e proprio, quasi sempre nascosto dalle piume e meno evidente al punto da non essere molto preso in considerazione quando pensiamo a come è fatto un pollo. Oltre il ginocchio c’è poi il femore dove troviamo infine la vera coscia con la muscolatura tipica di quella parte anatomica.(Saikiran Kesari su Unsplash)A causare talvolta qualche confusione aggiuntiva c’è l’abitudine di distinguere tra “sovracoscia” e “fuso”: la prima indica la parte del femore, mentre la seconda quella dove si trova il tibiotarso. Se da un lato in questo modo non si chiama quest’ultima con il nome di un’altra parte anatomica, la parola “sovracoscia” può trarre in inganno, perché sembra implicare che ci sia un altro pezzo di coscia, mentre in realtà è quel pezzo stesso a essere la coscia. Una ricerca sul dizionario potrebbe portare a ulteriore confusione, come dimostra la definizione che dà di sovracoscia il Nuovo De Mauro: «Taglio di carne di pollo, tacchino e sim. che comprende la parte superiore della coscia».Non aiutano nemmeno gli emoji a schiarirsi le idee, almeno su diversi sistemi operativi come quello degli iPhone.(Apple)Come spesso accade, l’anatomia degli uccelli ci appare particolare perché è diversa dalla nostra, che usiamo spesso come modello e con la quale tendiamo a definire cosa è “normale” e cosa no. La loro evoluzione è iniziata nel giurassico partendo dai dinosauri, quando ancora nessuno si poneva il problema tra petto o coscia. LEGGI TUTTO

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    L’uccello a rischio di estinzione alle Hawaii

    Oltre ad aver provocato la morte di oltre 110 persone e danni a centinaia di edifici, i recenti incendi boschivi a Maui, nell’arcipelago statunitense delle Hawaii, hanno complicato le attività per la salvaguardia di una specie di uccelli a grave rischio di estinzione: gli ʻakikiki.Al momento in natura ne esistono solo cinque, sulla vicina isola di Kauai, mentre alcuni delle poche decine allevate in cattività hanno rischiato di morire quando un albero è caduto nella riserva di Maui, in cui vivono, proprio a causa di un incendio. A prescindere dagli incendi comunque gli ultimi esemplari esistenti in natura potrebbero avere pochi mesi di vita, e per salvare la specie si sta cercando di eliminare la causa principale della decimazione della sua popolazione: le zanzare.L’ʻakikiki (Oreomystis bairdi), detto anche rampichino di Kauai, è un uccello passeriforme autoctono dell’isola, che si trova nella parte nord-ovest dell’arcipelago, nell’oceano Pacifico. È lungo circa 13 centimetri, pesa più o meno 15 grammi e ha un piumaggio grigio scuro su testa, dorso e fianchi, e più chiaro nella parte inferiore. Negli ultimi anni la sua popolazione si è ridotta così tanto e così velocemente che secondo il dipartimento del Territorio e delle Risorse naturali dello stato le possibilità che la specie riesca a sopravvivere in natura sono «scarse».Alle Hawaii ci sono numerosissime specie di uccelli che sono sopravvissute per milioni di anni sia grazie alla posizione isolata dell’arcipelago, sia perché i loro predatori erano relativamente pochi. Con l’arrivo dei popoli polinesiani prima e di quelli europei dopo, sulle isole furono introdotte nuove specie di animali, tra cui bovini e ovini, che contribuirono a cambiare gli equilibri dell’ecosistema. Il problema più grosso per gli ʻakikiki però è molto più recente, e riguarda anche altre specie di uccelli.Come ha spiegato David Smith, amministratore della divisione di Scienze forestali e Fauna selvatica del dipartimento, il progressivo aumento delle temperature dovuto al riscaldamento globale ha favorito la proliferazione delle zanzare, che hanno facilitato la diffusione della malaria tra gli uccelli. Inizialmente il problema non riguardava gli ʻakikiki, che vivevano a quote più elevate nelle foreste pluviali di Kauai, e fino a una ventina di anni fa gli ornitologi si dicevano «cautamente ottimisti» sulle possibilità di sopravvivenza della specie, visto che quell’ambiente non era adatto alle zanzare. Poi però le cose sono cambiate. Nel 2012 gli ʻakikiki in natura erano meno di 500 e nel 2018 poche centinaia. All’inizio del 2023 alcune decine e a inizio luglio solo 5.Smith ha detto che al momento alle Hawaii ci sono tre specie di uccelli «sul punto di estinguersi», per cui la situazione è «semplicemente critica»: gli ʻakikiki e gli ‘akeke’e a Kauai e i kiwikiu, che vivono a Maui.Il fatto che 500 delle circa 1.700 specie di piante e animali considerate a rischio dall’Endangered Species Act (una delle leggi statunitensi che stabiliscono come proteggere la fauna e la flora) si trovi proprio alle Hawaii ha fatto sì che tra gli scienziati l’arcipelago abbia cominciato a essere conosciuto come «la capitale mondiale delle specie a rischio di estinzione», ha notato in un recente articolo il Washington Post.Il biologo Justin Hite ha spiegato che il programma per cercare di portare in salvo i cinque ʻakikiki che vivono in natura è stato sospeso perché l’operazione li sottoporrebbe a uno stress che probabilmente li porterebbe comunque alla morte. Raccogliere le uova non ancora schiuse e provare a favorire la loro riproduzione altrove è «l’ultimo tentativo per salvare la specie», ha aggiunto Jennifer Pribble, che segue il programma per la loro conservazione nella riserva gestita dallo zoo di San Diego a Maui, dove al momento ne vivono 34. L’altra riserva si trova sull’isola di Hawaii e invece ne ospita 17.Gli esemplari cresciuti in cattività vivono in gabbie dotate di zanzariere, in modo da non essere punti. Al contempo gli addetti provano a facilitare la loro riproduzione, sia simulando le condizioni ambientali e meteorologiche di Kauai con foglie di felce, muschio e un sistema di acqua a spruzzo, sia incoraggiando lo stesso tipo di relazioni che si creerebbero in natura. Dal momento che gli ‘akikiki sono monogami, gli scienziati cercano di far scegliere a una femmina il maschio preferito in modo da aumentare le probabilità che le uova vengano deposte, ha spiegato sempre Hite.C’è poi un intervento molto più strutturato, che come anticipato punta alla causa del problema: è un progetto proposto da un insieme di stati federali, agenzie statali e organizzazioni non profit che prevede per così dire di sterilizzare le zanzare.– Ascolta anche: Vicini e Lontani: “Nemico pubblico”I maschi di zanzara che vivono alle Hawaii sono portatori di un parassita appartenente al genere chiamato Wolbachia e si riproducono con femmine che hanno il medesimo tipo di parassita. Gli scienziati stanno quindi infettando i maschi con un diverso tipo di Wolbachia incompatibile con le femmine, in modo da impedire la riproduzione. In base al progetto le prime zanzare dovrebbero essere rilasciate entro la fine di quest’anno o l’inizio dell’anno prossimo attraverso droni, prima a Maui e poi a Kauai.Smith ha osservato che le zanzare non sono native delle Hawaii e «non hanno un ruolo ecologico fondamentale», pertanto a suo dire eliminandole ci sarebbero «enormi vantaggi ambientali e quasi nessuno svantaggio». Non tutti però sono convinti del progetto, che come ha notato il Washington Post è già costato decine di milioni di dollari e potrebbe richiedere anni prima di funzionare. Un gruppo ambientalista, Hawaii Unites, ha chiesto di bloccare il progetto sostenendo che non siano stati fatti studi ambientali adeguati e che la presenza di altre zanzare potrebbe avere effetti indesiderati per altri animali.Hite ha detto che gli ʻakikiki non sono una specie particolarmente conosciuta dalle persone anche perché non hanno piume molto colorate né melodie elaborate o riconoscibili. A suo dire comunque non intervenire per la loro salvaguardia oggi potrebbe significare perdere uccelli «molto molto belli e colorati» più avanti.– Leggi anche: Gli incendi a Maui c’entrano con le piante portate dalla colonizzazione statunitense LEGGI TUTTO

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    Quanto dobbiamo preoccuparci di questa influenza aviaria

    Caricamento playerDa circa due anni è in corso una grande epidemia di influenza aviaria, che ha causato la morte di milioni di uccelli e in misura minore alcuni contagi tra mammiferi, compresi alcuni esseri umani. La situazione è tenuta sotto controllo dalle principali organizzazioni sanitarie internazionali e negli ultimi mesi sono state pubblicate analisi per valutare i fattori di rischio, importanti per comprendere quanto preoccuparsi per l’epidemia. Dopo tre anni di pandemia da coronavirus l’attenzione è piuttosto alta, ma al momento la situazione sembra essere relativamente sotto controllo almeno per quanto riguarda la salute degli esseri umani.Bassa e altaEsistono numerosi tipi e varianti di virus che causano l’influenza aviaria. Circolano di continuo tra gli uccelli selvatici e solitamente non causano particolari malattie, al punto che gli esemplari infetti non manifestano sintomi e la loro infezione passa inosservata. Questi virus poco aggressivi sono legati a una particolare forma di influenza aviaria a bassa patogenicità (LPAI, dalla sigla inglese che la identifica).Altri virus aviari sono invece più aggressivi e comportano una forma di influenza aviaria ad alta patogenicità (HPAI), che può comportare gravi conseguenze per gli animali che li contraggono e una diffusione ampia della malattia. È il caso del principale virus responsabile dell’attuale epidemia, che ha decimato intere popolazioni di uccelli selvatici e del pollame in molti allevamenti in giro per il mondo, in particolare in Europa e in seguito negli Stati Uniti.H5N1Oltre alla catalogazione in base alle forme di influenza che possono causare, i virus aviari sono classificati in base al tipo e alle loro varianti di appartenenza. Quello che da circa due anni suscita il maggiore interesse è H5N1, un virus le cui prime versioni erano state identificate in Cina nella seconda metà degli anni Novanta del secolo scorso. Le segnalazioni alle autorità sanitarie all’epoca furono spesso tardive, in un contesto di allevamenti industriali molto grandi, una circostanza che aveva reso più difficile il tracciamento del virus.– Ascolta anche: L’influenza aviaria, senza allarmismiAlcune versioni di H5N1 iniziarono a essere rilevate con crescente frequenza negli uccelli selvatici e in particolare in varie specie di uccelli acquatici migratori, che sviluppavano sintomi lievi, tali da non compromettere i loro spostamenti di migliaia di chilometri effettuati stagionalmente. Le loro migrazioni furono, e sono ancora oggi, una delle cause della periodica diffusione di virus aviari che avrebbero poi raggiunto gli allevamenti.La variante di H5N1 responsabile della maggior parte dei contagi in questa fase dell’epidemia era emersa tra il 2020 e il 2021, con focolai importanti in Asia e in Europa. Inizialmente gli Stati Uniti sembravano essere stato risparmiati, ma i primi casi nel Nord America erano poi emersi alla fine del 2021, con nuovi contagi sia negli allevamenti sia tra gli uccelli selvatici. Alla fine dello scorso anno furono poi rilevati i primi casi in Sudamerica, con grandi epidemie tra gli uccelli selvatici e alcuni casi di passaggio del virus verso i mammiferi, poi riscontrati anche in altre aree del mondo.Diffusione di H5N1 nel mondo fino ad aprile 2023: in rosso i paesi con uccelli selvatici e pollame interessati dall’epidemia, in rosso scuro i paesi anche con casi di contagio verso gli esseri umani (Wikimedia)SaltiCiò che rende particolare questa epidemia di influenza aviaria rispetto alle precedenti è che sta proseguendo ormai da un paio di anni, senza seguire una stagionalità come avveniva di solito in passato. Le misure di controllo, che comprendono l’abbattimento degli stormi infetti di uccelli selvatici e il loro successivo ripopolamento si stanno rivelando meno efficaci, proprio perché il virus continua a circolare e a causare nuovi contagi.In generale, il virus dell’influenza aviaria è imparentato con quello che causa l’influenza stagionale negli esseri umani, l’influenza equina e quella suina, ma le varianti e i sottotipi coinvolti sono alquanto differenti tra loro sia in termini di virulenza sia di contagiosità. Le relative somiglianze e altri fattori rendono comunque possibili i salti di specie, cioè il passaggio del virus da una specie a una completamente diversa. Con l’influenza accade spesso: ci sono casi di influenza umana nei maiali e più in generale si ritiene che l’influenza che stagionalmente ci riguarda sia emersa dagli uccelli.L’eventualità dei salti di specie spiega perché l’attuale epidemia sia tenuta sotto stretto controllo da parte delle autorità sanitarie. In questi due anni sono emersi passaggi di H5N1 dagli uccelli selvatici a volpi, puzzole, lontre, procioni e orsi. Nell’autunno dello scorso anno era poi emerso un grande focolaio tra i visoni di un allevamento intensivo in Spagna, che aveva poi reso necessario l’abbattimento degli animali per ridurre il rischio di ulteriori contagi all’esterno della struttura.(David Silverman/Getty Images)ControlloUn virus che riesce a passare da una specie a un’altra suscita sempre attenzione da parte delle autorità sanitarie, perché attraverso le sue mutazioni casuali potrebbe diventare pericoloso per gli esseri umani, come si ipotizza sia del resto avvenuto con SARS-CoV-2, il coronavirus con cui facciamo i conti da tre anni. Al momento i rari passaggi rilevati sembrano essere avvenuti per lo più da uccelli a esseri umani, mentre non sono stati identificati con certezza casi di successivi contagi da umano a umano, condizione che potrebbe rivelarsi molto più pericolosa.Le persone entrate in contatto con uccelli e altri animali contagiati, per esempio il personale degli allevamenti, vengono tenute sotto controllo non solo per rilevare la comparsa di eventuali sintomi, ma anche per ridurre il rischio che contagino altri individui. Le attuali varianti di H5N1 non sembrano costituire un particolare rischio per la nostra salute, ma i virus mutano di continuo e potrebbe emergere una versione più pericolosa. In Cambogia, a inizio anno una bambina di 12 anni è morta a causa della malattia, anche se il virus che l’aveva causata è diverso da quello più diffuso e che suscita le maggiori preoccupazioni.Nel suo ultimo rapporto, il Centro europeo per la prevenzione e il controllo delle malattie (ECDC) ha segnalato che: «Il rischio di infezione con gli attuali virus aviari H5 in circolazione e appartenenti al gruppo 2.3.4.4b in Europa rimane basso per la popolazione in generale e basso/moderato per le persone che sono più a diretto contatto per ragioni lavorative o altro» con uccelli selvatici e pollame. Anche per le autorità sanitarie degli Stati Uniti il rischio continua a essere relativamente basso, seppure in un contesto di alta diffusione del virus tra i volatili.Martedì 23 maggio il Brasile ha dichiarato una emergenza sanitaria per gli animali che durerà almeno 180 giorni, dopo avere riscontrato i primi casi di influenza aviaria in alcuni uccelli selvatici. Il Brasile è il più grande esportatore di pollame: solo nel 2022 ha prodotto esportazioni per quasi 10 miliardi di euro. Una rapida e ampia diffusione del virus potrebbe avere conseguenze molto gravi sul settore economico. Le infezioni da H5N1 non determinano sospensioni delle attività commerciali, ma un focolaio in un allevamento può comunque causare l’abbattimento di grandi quantità di esemplari e potrebbe inoltre spingere i paesi importatori a sospendere gli ordini.Oltre agli aspetti sanitari, la protratta epidemia di influenza aviaria sta avendo importanti ripercussioni sulle attività commerciali in molti paesi. Negli Stati Uniti l’abbattimento di milioni di esemplari negli allevamenti di pollame ha avuto ripercussioni specialmente sul prezzo delle uova e sulla disponibilità di altre materie prime.Quindi?A oggi le principali autorità sanitarie non segnalano rischi immediati per gli esseri umani, ma invitano comunque a tenere sotto controllo la situazione e a ridurre il più possibile la diffusione del virus, per esempio negli allevamenti. È normale che ci sia una certa preoccupazione, nel senso di concentrare l’attenzione sul problema senza ansie per fare prevenzione ed evitare che diventi più grave e difficile da gestire. LEGGI TUTTO