More stories

  • in

    Lo scorso aprile è stato il più caldo mai registrato

    Secondo il Climate Change Service di Copernicus, il programma di collaborazione scientifica dell’Unione Europea che si occupa di osservazione della Terra, lo scorso mese di aprile è stato il più caldo mai registrato sulla Terra.La temperatura media globale è stata di 15,03 °C, cioè 0,14 °C più alta del precedente mese di aprile più caldo mai registrato, quello del 2016. L’aprile del 2024 è stato inoltre l’undicesimo mese consecutivo considerato il più caldo mai registrato a livello globale. Le stime di Copernicus sono realizzate usando diversi tipi di dati, tra cui le misurazioni dirette della temperatura fatte da reti di termometri presenti sulla terra e in mare e le stime dei satelliti. LEGGI TUTTO

  • in

    Forse con la sordità di Beethoven c’entrava il vino

    Caricamento playerIl 7 maggio di 200 anni fa Ludwig van Beethoven, uno dei più grandi compositori nella storia della musica, salì sul palco del Kärntnertortheater di Vienna per condurre la sua Sinfonia n. 9 che aveva da poco terminato di comporre. Tra il pubblico c’erano grande curiosità e attesa. Beethoven non appariva su un palco da dodici anni e le sue precarie condizioni di salute erano note da tempo: era completamente sordo, beveva molto ed era sempre più debole. Sarebbe morto tre anni dopo quell’esibizione, cinquantaseienne, senza che fossero mai chiarite le cause della sua sordità emersa quando aveva meno di trent’anni. Ora alcuni sviluppi su una ricerca in corso da anni sembrano suggerire una intossicazione da piombo.
    Oltre a ricordare e celebrare le composizioni di Beethoven – come la Sinfonia n. 9, il cui “Inno alla gioia” è l’inno ufficiale dell’Unione Europea – da quasi due secoli storici, medici e semplici appassionati di musica classica si chiedono da sempre che cosa determinò la sordità del compositore, diventata un elemento centrale anche della sua esperienza creativa. Beethoven compose infatti alcune delle proprie opere più famose quando non riusciva più a percepire i suoni, potendoli immaginare solo nella propria mente.
    Negli anni sono circolate molte ipotesi su ciò che causò la sordità e gli altri problemi di salute di Beethoven. Oltre ad avere perso l’udito, Beethoven aveva spesso forti crampi addominali, accompagnati da flatulenze e diarrea che lo lasciavano molto debilitato e periodicamente privo di energie. È stato ipotizzato che avesse la sindrome del colon irritabile, oppure che avesse avuto la sifilide o una forte insufficienza renale forse accompagnata da una forma di diabete. La causa della sordità sarebbe potuta derivare da una malattia degenerativa come l’osteite deformante, che porta a una formazione eccessiva e anomala di materiale osseo, incidendo in alcuni casi anche sull’udito (l’orecchio interno è formato da piccole ossa).
    Le ipotesi derivano per lo più dalle testimonianze dell’epoca di chi aveva vissuto con Beethoven e lo aveva assistito soprattutto negli ultimi anni della malattia, ma i resoconti variano molto e talvolta possono essere fuorvianti. Per questo motivo da diverso tempo alcuni gruppi di ricerca seguono un approccio diverso: analizzare alcuni campioni prelevati dal suo corpo. Le analisi si sono concentrate in particolare su alcune ciocche di capelli, prelevate in varie epoche compreso il periodo intorno al momento della morte di Beethoven da alcuni amici e conoscenti.
    Ci sono diversi musei e collezionisti in giro per il mondo che sostengono di possedere alcune ciocche di Beethoven, ma verificarne l’autenticità non è semplice. I campioni devono essere confrontati con altri certamente appartenuti al compositore, attraverso esami del DNA e di particolari composti eventualmente presenti nei capelli. Lo scorso anno, per esempio, erano emersi dubbi intorno all’autenticità di alcune ciocche proprio in seguito agli esami condotti confrontando capelli in alcune collezioni.
    Grazie alla collaborazione dei collezionisti, un gruppo di ricerca della Mayo Clinic negli Stati Uniti ha di recente ottenuto alcune ciocche autentiche di Beethoven e le ha esaminate per cercare eventuali accumuli di metalli pesanti, che avrebbero potuto spiegare alcuni dei problemi di salute riscontrati dal compositore compresa la sua sordità. Come spiegano in una lettera pubblicata lunedì sulla rivista scientifica Clinical Chemistry, i ricercatori hanno rilevato una concentrazione di 258 microgrammi di piombo per grammo in una ciocca di capelli e 380 microgrammi per grammo in un’altra. Normalmente, la concentrazione è di meno di 4 microgrammi per grammo.
    Secondo il gruppo di ricerca, Beethoven fu esposto con ogni probabilità ad alte concentrazioni di piombo, un metallo che ha importanti effetti tossici per l’organismo. Analisi condotte in precedenza non avevano portato a rilevare livelli così alti di piombo, ma la nuova ricerca più approfondita e portata avanti con altre tecniche ha permesso di calcolare con maggior precisione la concentrazione di piombo e di altri elementi come mercurio e arsenico, rispettivamente 13 e 4 volte superiori ai valori solitamente rilevati.
    Il piombo in alte concentrazioni può avere vari effetti dannosi sul sistema nervoso e potrebbe avere causato, o peggiorato, la sordità di Beethoven. È invece più difficile stabilire se l’intossicazione da piombo fosse tale da rivelarsi mortale, come era stato ipotizzato in passato. È più probabile che Beethoven avesse rimediato l’intossicazione da una delle sue più grandi passioni dopo la musica: il vino.
    Tra la fine del Settecento e i primi dell’Ottocento non era insolito che al vino, come ad altri alimenti, venisse aggiunto del sale di piombo (dietanoato di piombo), impiegato come dolcificante per migliorare il sapore del vino di bassa qualità. Inoltre, diversi altri strumenti impiegati per la vinificazione contenevano piombo compresi i turaccioli, che venivano trattati in alcuni casi con il sale di piombo per migliorare la loro tenuta come chiusura delle bottiglie.
    Dai resoconti e dai racconti dell’epoca, sappiamo che Beethoven aveva sviluppato nel tempo una certa dipendenza dal vino e che beveva più di una bottiglia al giorno. Era convinto che lo aiutasse a stare meglio e fino agli ultimi giorni della propria vita continuò a bere, sorbendo piccole quantità con un cucchiaino quando ormai non aveva più le forze e le sue capacità digestive erano compromesse.
    L’intossicazione da piombo potrebbe non essere stata comunque l’unica causa della sua sordità. Beethoven iniziò ad accorgersi di sentire sempre meno quando non aveva ancora trent’anni e attraversò periodi psicologicamente molto difficili, con la preoccupazione di non potersi più dedicare alla composizione. Anche per questo motivo consultò decine di medici per provare a trovare un rimedio contro la sordità progressiva, ma senza ottenere benefici dalle terapie che gli venivano prescritte. Molti dei preparati realizzati all’epoca contenevano a loro volta piombo, che avrebbero potuto contribuire a un ulteriore peggioramento delle sue condizioni.
    Nonostante le difficoltà e i problemi di salute il 7 maggio del 1824 a Vienna, 200 anni fa, Beethoven volle partecipare personalmente alla conduzione della prima della sua Sinfonia n. 9. Lo fece insieme a Michael Umlauf, compositore e direttore d’orchestra austriaco che aveva la responsabilità della musica nel teatro (“maestro di cappella”) e che diede istruzioni all’orchestra e ai cantanti di ignorare il più possibile le indicazioni di Beethoven, viste le difficoltà che avrebbe incontrato nel dirigere senza poter sentire la musica.

    Beethoven teneva il tempo e dirigeva come poteva l’orchestra, anche se diverse testimonianze raccontano che fosse più il compositore a seguire l’orchestra che viceversa. Si racconta che durante lo scherzo alla fine del secondo movimento – uno dei più movimentati, creativi e iconici della sinfonia – l’orchestra fu interrotta da un lungo applauso tributato a Beethoven, che però dando le spalle al pubblico non si era accorto di nulla. Beethoven continuò quindi a dare indicazioni all’orchestra anche se ormai fuori tempo, fino a quando intervenne la contralto Caroline Unger che fece girare verso il pubblico Beethoven, che in quel momento vide la grande manifestazione di affetto e apprezzamento per il suo lavoro. LEGGI TUTTO

  • in

    Boeing ci riprova con Starliner

    Caricamento playerAggiornamento del 7 maggio 2024A causa di un problema tecnico legato al razzo Atlas V, il lancio di Starliner è stato rinviato a non prima di venerdì 10 maggio. Il rinvio consentirà ai tecnici di effettuare alcune verifiche su una valvola di regolazione della pressione sul serbatoio di ossigeno liquido dello stadio superiore del razzo, i tempi potrebbero allungarsi nel caso in cui si renda necessaria una sostituzione della valvola.
    ***
    Il 20 dicembre 2019 i tecnici di Boeing osservarono con un certo imbarazzo il mezzo fallimento della prima missione di test senza equipaggio di Starliner, la loro nuova capsula spaziale in ritardo di anni sulla consegna e costata alla NASA miliardi di dollari. A causa di un problema tecnico, Starliner aveva mancato la Stazione Spaziale Internazionale (ISS) e sarebbe quindi rientrata sulla Terra senza possibilità di verificare i propri sistemi di attracco. Fu necessario un anno e mezzo di lavoro per risolvere i problemi riscontrati con la prima missione e infine raggiungere la ISS con un nuovo volo sperimentale, ancora una volta senza astronauti a bordo e con altri problemi tecnici. Dopo altri due anni passati a risolverli, Starliner è infine pronta per portare i primi astronauti in orbita: è una delle missioni spaziali più importanti e attese del 2024, un anno estremamente difficile per Boeing.
    L’azienda, una delle più importanti e storiche degli Stati Uniti con numerosi contratti pubblici nel settore aerospaziale, è stata per mesi al centro dell’attenzione delle autorità di controllo e dei media in seguito al distacco in volo di una porta di emergenza da un proprio aeroplano, un Boeing 737 MAX 9, il 5 gennaio scorso. L’aereo aveva effettuato un atterraggio di emergenza e tre delle 177 persone a bordo erano state lievemente ferite. L’incidente aveva portato a nuove critiche e dubbi sugli standard di sicurezza seguiti da Boeing nella produzione dei propri aerei, dopo che tra il 2018 e il 2019 due 737 MAX erano precipitati per evidenti responsabilità dell’azienda.
    Da diversi anni Boeing è quindi in difficoltà con la propria immagine e ha rischiato di perdere importanti contratti con alcune compagnie aeree a favore di Airbus, l’unica altra grande società produttrice di aerei civili al mondo. Starliner è realizzata da una divisione completamente diversa rispetto a quella che si occupa degli aeroplani, ma il marchio è comunque Boeing e i problemi riscontrati con la capsula negli anni scorsi fanno sì che la grande attesa che precede sempre i primi lanci con equipaggio sia un po’ diversa dal solito, con qualche elemento di attenzione in più soprattutto da parte dei media statunitensi.
    Salvo rinvii, il primo lancio con equipaggio di Starliner avverrà quando in Italia saranno le 4:34 del mattino di martedì 7 maggio da Cape Canaveral, il principale centro di lancio spaziale della NASA. La capsula, a forma di tronco di cono e che ricorda altri veicoli spaziali come quelli impiegati un tempo per le missioni lunari Apollo, è stata collocata in cima a un razzo Atlas V di United Launch Alliance: i motori del razzo avranno il compito di spingere la capsula oltre l’atmosfera e sulla giusta traiettoria per incrociare la Stazione Spaziale Internazionale, in orbita a circa 400 chilometri di altitudine a una velocità di 27.500 chilometri orari.
    Starliner sulla rampa di lancio a Cape Canaveral, Florida, Stati Uniti (AP Photo/Terry Renna)
    A bordo di Starliner ci saranno due astronauti di esperienza della NASA: Barry E. Wilmore, che ha 61 anni ed è al proprio terzo lancio, e Sunita L. Williams che di anni ne ha 58 ed è alla terza esperienza nello Spazio. Raggiunta la ISS, i due astronauti rimarranno a bordo per una settimana circa, in compagnia dell’equipaggio che svolge missioni di lunga permanenza sulla Stazione, poi torneranno su Starliner per raggiungere nuovamente la Terra. Il test servirà quindi per verificare i sistemi di lancio della capsula, quelli di attracco e quelli di atterraggio, in modo da ricevere le certificazioni finali da parte della NASA per diventare ufficialmente uno dei veicoli da impiegare per trasportare persone e materiale verso e dalla Stazione Spaziale Internazionale.
    Attualmente per queste attività la NASA può fare affidamento solamente su SpaceX, la società spaziale privata di Elon Musk, e sui sistemi di lancio Soyuz dell’Agenzia spaziale russa (Roscosmos), che mette a disposizione a pagamento alcuni posti nell’ambito dei programmi di collaborazione internazionale per il mantenimento della ISS. Fino al 2011 la NASA raggiungeva la Stazione grazie agli Space Shuttle, le grandi astronavi che partivano in verticale e tornavano sulla Terra planando come un aeroplano.
    Gli Shuttle furono però ritirati nel 2011 a causa degli alti costi di mantenimento e nel 2014 la NASA decise di affidare il compito di trasportare gli equipaggi nell’orbita bassa della Terra alle aziende private. SpaceX e Boeing vinsero gli appalti per costruire due sistemi alternativi di trasporto, ottenendo rispettivamente un finanziamento da 2,6 miliardi di dollari e da 4,2 miliardi di dollari. Nel 2020 SpaceX effettuò il primo volo con astronauti della sua capsula Crew Dragon e da allora ha trasportato 11 equipaggi verso la ISS, a differenza di Boeing che ha accumulato grandi ritardi e ha dovuto investire molto più denaro per superare imprevisti e problemi tecnici.
    La prima missione di prova nel 2019 si concluse senza raggiungere la Stazione Spaziale Internazionale: a causa di un’anomalia nel sistema per calcolare il tempo trascorso dal momento del lancio, la capsula non aveva raggiunto il livello orbitale necessario per attraccare alla ISS. La capsula tornò sulla Terra normalmente e il test permise comunque alla NASA di rilevare decine di problemi e cose da sistemare in vista di un secondo tentativo, sempre senza equipaggio a bordo.
    Il lancio di Starliner il 20 dicembre 2019 da Cape Canaveral, Florida, Stati Uniti (AP Photo/Terry Renna)
    In seguito alcuni responsabili della NASA ammisero di non avere seguito Boeing con le stesse cautele con cui avevano seguito lo sviluppo di Crew Dragon da parte di SpaceX, semplicemente perché l’agenzia aveva una collaborazione di lunga data con Boeing sia in termini di personale sia di sistemi impiegati. Quella familiarità secondo alcuni osservatori sarebbe diventata anche una delle cause dei lenti e costosi progressi dello Space Launch System, il grande razzo sviluppato dalla NASA con migliaia di aziende in appalto per raggiungere l’orbita lunare nell’ambito del progetto Artemis.
    Alle difficoltà tecniche e di sviluppo, negli anni dopo l’insuccesso del 2019 si aggiunse la pandemia da coronavirus, che rallentò sensibilmente i lavori per correggere i problemi riscontrati su Starliner e per preparare una nuova capsula per una missione sperimentale. Il secondo lancio di test fu infine effettuato nel maggio del 2022 e per la prima volta la capsula spaziale riuscì ad attraccare regolarmente alla ISS, con il sollievo di molti tra i responsabili dell’azienda e della NASA.
    Non andò comunque tutto liscio nemmeno con il secondo test. Dopo il rientro al suolo della capsula, e la sua analisi, furono scoperti due problemi non secondari. I tecnici notarono che alcuni degli ancoraggi del sistema di paracadute, che si aprono una volta che la capsula è rientrata nell’atmosfera, avrebbero potuto cedere in caso di sollecitazioni maggiori rispetto a quelle normalmente attese, di conseguenza si resero necessarie alcune modifiche strutturali. Un’ispezione dei chilometri di cavi del sistema elettrico e di trasmissione dei dati fece inoltre emergere un problema legato al nastro isolante impiegato per assicurare i cavi: sopra una certa temperatura, prendeva facilmente fuoco. Fu quindi necessario sostituire circa un chilometro e mezzo di nastro isolante per sostituirlo con un’altra soluzione.
    La sistemazione di questi e altri problemi rese necessario un nuovo slittamento del primo test con equipaggio, inizialmente programmato per il mese di luglio del 2023. In mancanza del nuovo sistema di trasporto, la NASA fu costretta a rivedere parte del proprio calendario, spostando alcuni astronauti da Starliner a Crew Dragon per mantenere le normali rotazioni degli equipaggi che trascorrono circa sei mesi sulla Stazione Spaziale Internazionale.
    I rinvii e i problemi riscontrati in questi anni hanno contribuito a fare aumentare l’attesa per il primo test con astronauti di Starliner. La NASA ha ribadito in più occasioni che la sicurezza dei propri equipaggi è da sempre la priorità, che i sistemi della capsula spaziale sono stati verificati e sperimentati più volte e che avere un secondo fornitore di trasporti verso la ISS oltre a SpaceX offrirà maggiori opportunità e alternative in caso di problemi tecnici.
    Wilmore e Williams occuperanno due dei cinque-sette posti a disposizione (la quantità varia a seconda della configurazione) nella capsula a tronco di cono che ha un diametro di 4,6 metri e un’altezza di cinque metri, comprensiva di un cilindro alla base – il Modulo di servizio – che viene impiegato per il trasporto di materiale e per altre strumentazioni. Dopo circa 4 minuti dal lancio, la parte (stadio) più grande del razzo Atlas V si separerà e ricadrà sulla Terra (non è previsto il suo recupero), mentre Starliner proseguirà il proprio viaggio spinto dal secondo stadio del razzo che si separerà una decina di minuti dopo. La capsula effettuerà poi l’ingresso nell’orbita necessaria per raggiungere la ISS e attraccarvi, consentendo all’equipaggio di salire a bordo della Stazione.
    Fase di preparazione di Starliner (Boeing)
    Se tutto procederà come previsto, dopo una settimana Wilmore e Williams saliranno nuovamente su Starliner che si separerà dalla ISS. Il suo scudo termico proteggerà il resto della capsula dall’alta temperatura che si sviluppa nelle turbolente fasi di rientro nell’atmosfera e infine si apriranno i paracadute per rallentare la discesa della capsula prima del suo arrivo al suolo negli Stati Uniti sud-occidentali.
    Starliner dopo il suo arrivo nell’area di White Sands, New Mexico, nel dicembre del 2020 (Bill Ingalls/NASA via AP)
    A differenza di Crew Dragon che si tuffa nell’oceano dove viene poi recuperata, Starliner è stata progettata per atterrare sulla terraferma, come fanno le Soyuz russe. Il rientro può essere in alcuni casi un poco più traumatico di un ammaraggio, ma semplifica di molto le attività delle squadre di recupero che non devono fare i conti con le condizioni del mare.
    Il ritorno sulla Terra segnerà la conclusione del test e renderà infine totalmente operativa Starliner, che nelle intenzioni di Boeing sarà una capsula riutilizzabile per una decina di viaggi prima di dover essere sostituita (la società ne realizzerà più di una). Starliner-1, la prima missione vera e propria, sarà effettuata all’inizio del 2025 e consentirà di trasportare sulla ISS due astronauti statunitensi, un astronauta canadese e uno giapponese. Come Crew Dragon, anche Starliner sarà utilizzata dalle altre agenzie spaziali che collaborano alla ISS, compresa l’Agenzia spaziale europea. LEGGI TUTTO

  • in

    Weekly Beasts

    Tra le foto di animali che vale la pena vedere questa settimana c’è questa che mostra un orango prima e dopo essersi medicato da solo una ferita, utilizzando alcune parti masticate di una pianta: secondo i ricercatori la scoperta si aggiunge alle osservazioni effettuate in precedenza in diverse altre specie note per utilizzare piante e altri rimedi per medicarsi, ma nella maggior parte dei casi ingerendole. Tra gli animali che si potevano trovare negli archivi delle agenzie fotografiche invece ci sono cani, coyote e sciacalli, i denti di un alligatore, l’occhio di un fenicottero e la coda di un pavone. Ma anche tigri e ippopotami ancora piccoli e gatti famosi o randagi. LEGGI TUTTO

  • in

    La Cina fa sul serio con la Luna

    Caricamento playerAlle 11:30 di venerdì (ora italiana) un razzo Lunga Marcia 5 lanciato dal centro spaziale di Wenchang ha portato oltre l’atmosfera terrestre la missione Chang’e 6, con l’obiettivo di raggiungere la faccia nascosta della Luna per prelevare alcuni campioni di terreno e roccia da portare sulla Terra. È una delle missioni senza equipaggio più complesse e ambiziose dell’Agenzia spaziale cinese (CNSA) e conferma il grande interesse del governo cinese per la Luna e la possibilità di esplorarla entro pochi anni con gli esseri umani, con progetti alternativi a quelli avviati dalla NASA e da altre agenzie spaziali con il programma lunare Artemis.
    Come suggerisce la cifra dopo il nome, Chang’e 6 è la sesta missione del Programma cinese per l’esplorazione lunare iniziato nel 2007 con Chang’e 1, la prima iniziativa per raggiungere l’orbita lunare. Chang’e è il nome della dea della Luna in diverse mitologie cinesi e, missione dopo missione, l’iniziativa ha permesso alla Cina di compiere grandi progressi nelle complicate attività per raggiungere il suolo lunare. L’obiettivo fu raggiunto una prima volta da Chang’e 3 nel 2013, rendendo la Cina il terzo paese nella storia a compiere un allunaggio controllato dopo gli Stati Uniti e la Russia ai tempi dell’Unione Sovietica.
    Nel 2020 la Cina era anche entrata nel ristretto gruppo di paesi ad avere raccolto campioni lunari e ad averli portati sulla Terra grazie alla missione Chang’e 5, che aveva compiuto un allunaggio nell’emisfero nord della Luna. Chang’e 6, la missione partita venerdì, farà qualcosa di analogo, ma prelevando campioni dall’emisfero sud lunare e in una zona che non è mai osservabile direttamente dalla Terra. La Luna ci mostra infatti sempre la stessa faccia, indipendentemente da dove la osserviamo, a causa della rotazione sincrona, cioè il coincidere del periodo di rotazione con quello di rivoluzione. L’osservazione e l’esplorazione dell’emisfero lunare nascosto è molto difficile: se ci si trova sulla faccia nascosta, per esempio, la Luna stessa diventa un ostacolo per comunicare con la Terra.

    La Cina era stato il primo paese a riuscire a effettuare un allunaggio controllato sulla faccia nascosta della Luna con la missione Chang’e 4 nel 2019. Molte delle conoscenze maturate con quell’esperienza saranno ora impiegate per tentare la stessa cosa con Chang’e 6, che raggiungerà un’area della superficie lunare che fa parte del bacino Polo Sud-Aitken (SPA), un gigantesco cratere creato dall’impatto di una meteora nelle vicinanze del polo sud lunare. La raccolta di campioni potrebbe consentire di portare sulla Terra frammenti del mantello, uno degli strati interni della Luna, che furono proiettati verso l’esterno al momento dell’impatto. Il loro studio potrebbe consentire di approfondire le conoscenze sulla storia geologica del nostro satellite naturale, sul quale sappiamo ancora relativamente poco.
    La faccia nascosta della Luna: la grande macchia scura nell’emisfero meridionale è il bacino Polo Sud-Aitken (NASA/Goddard Space Flight Center)
    Dopo avere raggiunto la Luna, un lander (cioè un robot sviluppato per compiere un atterraggio) si staccherà da una sonda che rimarrà in orbita intorno al pianeta e inizierà la propria discesa verso il suolo lunare, effettuando buona parte delle manovre con sistemi di controllo automatici. Raggiunta la superficie, utilizzerà un braccio robotico e una piccola trivella per raggiungere i due metri di profondità, dove preleverà alcuni campioni che saranno poi inseriti in una capsula. Questa sarà inserita in un modulo di risalita, che utilizzerà il resto del lander come una sorta di mini rampa di lancio per tornare in orbita e ricollegarsi alla sonda dalla quale si era staccato in precedenza. La capsula sarà poi trasferita in un modulo di servizio che inizierà un viaggio verso la Terra, che terminerà nelle pianure della Mongolia Interna, la regione autonoma nella parte settentrionale della Cina.

    Salvo cambiamenti di programma la missione durerà 53 giorni e consentirà di portare sul nostro pianeta fino a 2 chilogrammi di rocce lunari. I responsabili dell’Agenzia spaziale cinese si sono impegnati a condividere i campioni con il resto della comunità scientifica, come del resto avevano già fatto con le rocce prelevate da Chang’e 4, ma alcuni paesi come gli Stati Uniti mantengono molte cautele e hanno qualche dubbio sulle effettive intenzioni della Cina per quanto riguarda la Luna.
    All’inizio dello scorso anno l’amministratore delegato della NASA, Bill Nelson, aveva detto che con le nuove missioni lunari della Cina era di fatto iniziata una nuova “corsa allo Spazio”, dopo quella tra Stati Uniti e Unione Sovietica durante la Guerra Fredda. Nelson aveva anche espresso la necessità di non riporre troppa fiducia nelle dichiarazioni del governo cinese: «Ed è vero che è meglio stare attenti che [la Cina] non raggiunga un posto sulla Luna con il pretesto della ricerca scientifica. Non è impensabile che poi dicano: “State lontani, siamo qui, questo è il nostro territorio”».
    Parte della diffidenza deriva anche dall’iniziativa avviata da CNSA e Roscosmos, cioè l’agenzia spaziale russa, per costruire in futuro una “Stazione di ricerca lunare internazionale” (ILRS) con missioni di lunga permanenza da parte dei cosmonauti russi e dei taikonauti cinesi. Cina e Russia hanno detto in più occasioni che il progetto è aperto a tutti i paesi interessati, ma per ora le adesioni hanno riguardato per lo più paesi della loro area di influenza come Azerbaigian e Bielorussia, o paesi che raramente collaborano con le agenzie spaziali occidentali come Venezuela, Thailandia, Turchia, Egitto e Pakistan.
    I piani non sono ancora completamente chiari e la Cina sembra avere maggiore interesse, e soprattutto maggiori risorse, rispetto alla Russia. La prima fase di perlustrazione è comunque già in corso con le missioni come Chang’e 6, mentre sarà necessario attendere un paio di anni prima che inizino a essere sperimentati moduli e sistemi in vista della costruzione di una base orbitale o sulla superficie della Luna. Il governo cinese vorrebbe comunque raggiungere la Luna con un proprio equipaggio entro il 2030, anche se diversi osservatori ritengono l’obiettivo troppo vicino nel tempo. L’Agenzia spaziale cinese ha fatto comunque grandi progressi in pochi anni, per esempio costruendo una propria stazione spaziale in orbita intorno alla Terra, occupata in modo continuativo da equipaggi di tre persone.

    I successi delle missioni spaziali sono sfruttati dalla propaganda per promuovere i progressi tecnologici raggiunti dalla ricerca e dall’industria cinese, oltre che per mostrare i risultati ottenuti dal presidente Xi Jinping. Negli ultimi anni il settore aerospaziale cinese si è ampliato in modo significativo, con l’emergere di numerose aziende private che ricevono grandi finanziamenti da parte del governo, che mantiene uno stretto controllo sulle loro attività.
    Dei 211 lanci orbitali di successo effettuati nel 2023, 109 sono stati effettuati dagli Stati Uniti, che mantengono un alto ritmo soprattutto grazie a SpaceX nel pieno dell’espansione del proprio servizio Starlink per Internet via satellite, e 66 dalla Cina, il secondo paese ad avere effettuato più missioni spaziali. In meno di cinque anni la Cina ha raddoppiato la quantità di lanci orbitali e ha aumentato sensibilmente le attività oltre l’orbita bassa terrestre, con le missioni verso la Luna.
    Nei prossimi anni la competizione tra Cina e Stati Uniti in ambito spaziale diventerà più serrata e una parte importante del confronto si svolgerà proprio intorno alla Luna. La NASA progetta di effettuare un allunaggio con astronaute e astronauti non prima di settembre 2026 nell’ambito del programma Artemis, dopo avere rivisto sensibilmente le proprie previsioni iniziali che a causa dei ritardi accumulati si erano rivelate troppo ottimistiche. I rinvii di Artemis potrebbero favorire le intenzioni lunari della Cina, interessata non solo ai progressi scientifici derivanti da un’impresa di quel tipo, ma anche a quelli commerciali e politici per dimostrare le proprie capacità tecnologiche che potrebbero anche essere sfruttate a scopi militari. LEGGI TUTTO

  • in

    Questo orango si è medicato da solo una ferita

    Caricamento playerIn una riserva naturale dell’Indonesia, un gruppo di ricerca ha osservato per la prima volta un orango mentre si medicava una ferita al viso utilizzando alcune parti masticate di una pianta. Secondo gli autori, la scoperta si aggiunge alle osservazioni effettuate in precedenza in diverse altre specie note per utilizzare piante e altri rimedi per medicarsi, ma nella maggior parte dei casi ingerendole.
    Il particolare comportamento è stato osservato su un maschio di orango di Sumatra (Pongo abelii) di 35 anni chiamato Rakus, che vive nel Parco nazionale di Gunung Leuser, una grande area naturale protetta nella parte settentrionale di Sumatra. La riserva ospita migliaia di specie vegetali e centinaia tra specie di uccelli e mammiferi, compresi gli oranghi che vengono sorvegliati e seguiti per anni dai gruppi di ricerca per poterli studiare.
    Un gruppo ha da poco pubblicato sulla rivista scientifica Scientific Reports uno studio che racconta il modo in cui Rakus si è medicato da solo una brutta ferita che aveva rimediato al viso alla fine di giugno del 2022. Nei giorni seguenti, Rakus aveva iniziato a masticare una pianta che viene chiamata “akar kuning” in parte dell’Indonesia e il cui nome scientifico è Fibraurea tinctoria. La pianta viene utilizzata da tempo nella medicina tradizionale indonesiana ed è nota per avere qualità antinfiammatorie e antibatteriche.
    L’akar kuning non ha un sapore particolarmente gradevole ed è raro che gli oranghi se ne nutrano, per questo quando il gruppo di ricerca ha notato che Rakus aveva iniziato a masticarla si è incuriosito. Oltre a ingerire la pianta, l’orango utilizzava parte della poltiglia ottenuta tramite la masticazione per coprire la propria ferita al viso. Cinque giorni dopo la prima osservazione, la ferita aveva iniziato a rimarginarsi e meno di un mese dopo era scomparsa, senza lasciare segni o infezioni che si sarebbero potute facilmente verificare considerata l’estensione e l’irregolarità del taglio.
    Rakus mentre mastica foglie di Fibraurea tinctoria (Scientific Reports)
    La storia di Rakus ha attirato l’attenzione di molti esperti perché sembra essere senza precedenti. In passato altri primati non umani erano stati osservati mentre applicavano insetti masticati su alcune ferite, ma non erano mai stati trovati primati che lo facessero con le piante. In precedenza era stato osservato un gruppo di oranghi del Borneo (Pongo pygmaeus) mentre si strofinava sulle braccia e sulle gambe le foglie masticate di alcune piante, apparentemente per avere un po’ di sollievo dalle infiammazioni e non per trattare ferite.
    Molti animali sono noti per ingerire piante quando hanno parassiti o infezioni all’apparato digerente, ma finora non erano stati osservati casi di trattamenti di ferite esterne seguendo un principio simile. Non è chiaro come Rakus sia arrivato a trattarsi da solo con l’akar kuning e negli studi di questo tipo è molto importante evitare l’immedesimazione, trasferendo o vedendo comportamenti umani in altre specie. Le ricerche sugli oranghi effettuate negli ultimi decenni hanno comunque evidenziato le grandi capacità di questi animali sia nel risolvere problemi relativamente complessi, sia nel relazionarsi tra loro in modi socialmente elaborati. LEGGI TUTTO

  • in

    Questa è una roccia?

    Caricamento playerLe Hawaii sono famose per i vulcani e i grandi resort visitati ogni anno da milioni di turisti, alla ricerca di spiagge incontaminate affacciate sull’oceano Pacifico. Kamilo Beach, nella parte sud-orientale dell’isola più estesa dell’arcipelago, non rientra propriamente nella categoria: è famosa per i frequenti accumuli di plastica portati dall’oceano e provenienti dalla “grande chiazza di immondizia del Pacifico”. Non è una spiaggia sempre ideale per prendere il sole e fare il bagno, in compenso è il luogo in cui è stata scoperta una particolare sostanza. Per alcuni è un nuovo tipo di roccia e la dimostrazione dell’impatto delle attività umane nella geologia terrestre, per altri è semplicemente il frutto dell’inquinamento e non ha nulla di paragonabile alle rocce.
    Charles Moore, un oceanografo statunitense, aveva osservato per la prima volta la strana sostanza nel 2006 mentre stava effettuando alcune analisi e rilevazioni proprio a Kamilo Beach. Moore aveva notato uno strano oggetto solido formato da alcuni frammenti organici, come conchiglie e legno, tenuti insieme da del materiale plastico. Ipotizzò che si fosse formato a causa dell’accensione di un falò sulla spiaggia, che aveva portato alcuni detriti di plastica provenienti dal mare a fondersi e a inglobare al loro interno sabbia, piccole rocce e altri detriti. Qualche tempo dopo lo spegnimento del falò, la plastica si era solidificata creando un nuovo strato di sedimenti diverso da ciò che c’era prima sulla spiaggia.
    Materiale plastico fuso in un falò (1) si deposita e infiltra (2) in frammenti di roccia portando alla formazione di nuovi strati sedimentari (3) rilevabili nelle stratificazioni (4) e un indizio, secondo alcuni geologici, dell’Antropocene (Wikimedia)
    Moore aveva raccolto alcuni campioni che erano stati analizzati negli anni seguenti insieme ad altri reperti in particolare da Patricia Corcoran, dell’Università dell’Ontario occidentale (Canada). In una ricerca realizzata nel 2013, Corcoran e il suo gruppo di ricerca avevano segnalato che la sostanza di Kamilo Beach era costituita da frammenti di reti da pesca e per circa metà da piccoli pezzi di plastica, che si erano probabilmente separati da pezzi più grandi nel processo di degradazione del materiale a causa del moto ondoso e degli effetti della luce solare. Lo studio confermava inoltre l’ipotesi di Moore sulla probabile origine derivante da un fuoco acceso sulla spiaggia, ritenendo meno probabile un’origine derivante da una colata lavica.
    Il lavoro di Corcoran si fece soprattutto notare per la sua scelta di chiamare “plastiglomerato” la sostanza osservata alle Hawaii, dal materiale plastico che la compone insieme agli altri detriti che formano un materiale incoerente, un agglomerato appunto. Da alcuni geologi il plastiglomerato viene considerato una roccia sedimentaria clastica, cioè una roccia formata dall’accumulo di frammenti di materiali rocciosi e di altro tipo trasportati dal mare, dal vento o da altri agenti esterni.
    La classificazione del plastiglomerato e lo stesso nome sono però ancora molto discussi. Nel corso del tempo ne sono state trovate versioni in almeno una decina di posti diversi dalle Hawaii, con alcune caratteristiche in comune tali da ipotizzare che possano durare molto a lungo nel tempo, come gli altri strati geologici.
    Tra i principali sostenitori di questa ipotesi c’è Jan Zalasiewicz, un geologo che lavora all’Università di Leicester (Regno Unito) e che negli ultimi anni ha fatto parte del Gruppo di lavoro sull’Antropocene, dedicato a chiedere il riconoscimento di una nuova era geologica fortemente influenzata dalle attività umane e per questo chiamata “Antropocene” (dalle parole greche ἄνθρωπος,“umano”, e καινός, “tempo”). A fine marzo l’Unione internazionale di scienze geologiche (IUGS) ha confermato che l’Antropocene non sarà aggiunto alla lista delle epoche geologiche in cui è suddivisa la storia della Terra. È una decisione che potrà essere rivista in futuro e per questo molti ricercatori – come Zalasiewicz – sono al lavoro sugli indizi che secondo loro indicano una profonda modificazione, anche a livello geologico, portata dalla nostra specie.
    Zalasiewicz ha detto di recente a Slate che l’idea che le rocce debbano risalire a moltissimo tempo fa per essere considerate tali è una «leggenda metropolitana». Alcune rocce si formano praticamente in tempo reale durante le eruzioni vulcaniche, spiega, quando le colate laviche si raffreddano e si solidificano.
    Diversi geologi la pensano come Zalasiewicz e ritengono che la plastica debba essere ormai considerata come un materiale sedimentario. Quella dispersa nell’ambiente si disgrega col tempo, soprattutto a causa dell’azione dei raggi solari che la rendono friabile e meno elastica. I frammenti si infiltrano nel suolo e diventano una delle materie prime per la formazione delle rocce, in processi molto lunghi, ma che ormai avvengono da quasi un secolo se si considerano i primi materiali plastici del Novecento. Questo strato distinguibile dagli altri sarebbe uno dei principali indizi dell’esistenza dell’Antropocene.
    “Plastica” è naturalmente una parola ombrello usata per indicare prodotti con caratteristiche chimiche molto diverse tra loro: esistono plastiche di ogni tipo e la loro durata anche a livello molecolare può variare molto. Ed è proprio sulla durata che si sta concentrando il confronto tra gli esperti.
    I più scettici ritengono che sia ancora troppo presto per determinare se alcuni tipi di plastica abbiano effettivamente una durata compatibile con i processi geologici, che si estendono per migliaia, milioni e miliardi di anni a seconda dei casi. Nei processi geologici che avvengono in profondità nella crosta terrestre, per esempio, alcune plastiche potrebbero cambiare caratteristiche, tanto da non diventare sostanze di lunga durata come avviene con altre sostanze fossili. Non è nemmeno escluso che, dopo un certo periodo di tempo, i frammenti di plastica nei sedimenti si trasformino in petrolio, la sostanza da cui erano stati prodotti.
    Al di là dei nomi e della classificazione, i plastiglomerati sono comunque un ulteriore indizio dell’enorme impatto che le attività umane hanno avuto e continuano ad avere sul nostro pianeta. L’inquinamento derivante dalla plastica è una delle più importanti emergenze ambientali del nostro tempo, ma concordare le strategie per affrontarlo globalmente non è semplice. A fine aprile a Ottawa, in Canada, si è tenuta una nuova serie di negoziati per formalizzare un trattato internazionale vincolante per ridurre l’inquinamento che deriva dalla plastica. L’iniziativa è coordinata da un comitato intergovernativo delle Nazioni Unite, che ha il difficile compito di mettere d’accordo oltre 175 paesi che negli scorsi anni si erano impegnati per trovare una soluzione comune. Tra ritardi e rinvii, non si prevede di avere un trattato definitivo prima del 2025. LEGGI TUTTO

  • in

    Forse diamo troppa importanza alla “buona postura”

    Caricamento player“Stai dritto con la schiena” è probabilmente una delle raccomandazioni che si sono sentite dire molte persone da piccole, con toni affettuosi o marziali a seconda dei casi e dei contesti. Come per molto di ciò che ci viene detto da bambini, il concetto di tenere la schiena dritta e in generale mantenere una “buona postura” (qualsiasi cosa voglia dire) si è radicato nel nostro immaginario al punto da ricordarlo periodicamente a noi stessi, magari quando ci sediamo scomposti, e naturalmente al prossimo. Eppure, per quanto la raccomandazione di stare dritti sia diffusa, non ci sono molti elementi sulla sua effettiva utilità per vivere meglio o senza dolori come il mal di schiena, al punto da far ipotizzare ad alcuni specialisti che la postura non sia poi così importante se non si hanno particolari problemi di salute.
    Anche in seguito a cosa si sentono dire da giovani, molte persone tendono ad associare una buona postura a una migliore forma fisica, e di conseguenza a migliori condizioni di salute. In realtà la parte fondamentale della schiena, cioè la colonna vertebrale, non è dritta nel senso stretto del termine. Appare allineata se la si osserva frontalmente in una radiografia, ma è sufficiente osservarla lateralmente per accorgersi che ha una forma sinuosa che ricorda quella delle “S”. La parte cervicale è convessa verso la parte frontale del torso, quella toracica verso la parte posteriore, quella lombare nuovamente in avanti e quella del sacro-coccige verso il posteriore.
    (Wikimedia)
    La schiena non è quindi fisiologicamente dritta e per buoni motivi: se lo fosse, buona parte del peso graverebbe sulle vertebre e sui muscoli della fascia lombare, soprattutto nella parte che raggiunge l’osso sacro, sottoponendola a forze eccessive tali da renderla meno mobile. La forma a “S” permette di scaricare le forze più uniformemente, anche se inevitabilmente le maggiori sollecitazioni riguardano quasi sempre le vertebre lombari: è il prezzo da pagare per avere guadagnato una postura completamente eretta nel corso dell’evoluzione.
    L’idea della schiena perfettamente dritta deriva quindi più da questioni culturali che prettamente anatomiche. Già nell’antica Grecia veniva valorizzata la postura che prevedeva di mantenere le spalle indietro, il petto protruso in avanti e di conseguenza la schiena il più possibile in linea. Le statue prodotte nel periodo, la cui estetica avrebbe fortemente influenzato l’arte di altre culture, dimostrano come nella ricerca della perfezione del corpo venisse attribuita una grande importanza allo stare in piedi in un certo modo.
    Una postura di quel tipo non era comunque un’esclusiva della Grecia antica e si trovano illustrazioni di persone in pose simili in diverse altre culture. Mantenere la schiena dritta, e di conseguenza la testa lievemente rivolta verso l’alto, dà del resto l’impressione di una maggiore imponenza, un modo di apparire che poteva tornare utile nei contesti in cui molti problemi si risolvevano con l’uso della forza. Ancora oggi associamo una buona postura a una certa idea di prestanza fisica, tanto da essere portata ai suoi estremi in ambito militare.
    (Kevin Frayer/Getty Images)
    Se però si abbandonano le abitudini culturali e si assume un punto di vista medico, i presunti benefici per la salute nel mantenere schiena dritta, spalle indietro e mento rivolto verso l’alto vacillano. Nella letteratura scientifica non si trovano molti elementi a sostegno dell’importanza della buona postura o di una sua diretta relazione con minori dolori di schiena, al collo o agli arti. Una revisione sistematica di revisioni sistematiche (in pratica uno studio di studi) pubblicata nel 2020 non aveva per esempio rilevato indizi su nessi di causalità tra postura e lombalgia, una delle forme più diffuse di mal di schiena. In alcuni studi era emersa la presenza di entrambi i fattori, ma i dati non avevano comunque permesso di trovare un nesso causale.
    Nel 2021 un’altra revisione effettuata su oltre 650 ricerche si era occupata in particolare della postura spesso poco naturale che si assume alla guida, quando ci si appoggia al volante o si tende comunque a mantenere la schiena inarcata in avanti. Anche in quel caso non era stato possibile determinare un nesso con il dolore lombare.
    Uno studio pubblicato nel 2017 era invece consistito nell’analisi delle abitudini posturali di due gruppi di persone con o senza male alle spalle. Dalla ricerca non erano emerse particolari differenze nelle pose tenute dai partecipanti, ma lo studio aveva riguardato poco meno di 150 persone, quindi non era molto rappresentativo. In un altro studio pubblicato nel 2021 un gruppo di ricerca aveva invece raccontato di avere selezionato cento persone in salute chiedendo loro come valutassero la loro postura abituale. Da seduta, la maggior parte dei partecipanti aveva nei fatti una postura rilassata e lievemente inclinata in avanti, ma se veniva chiesto loro di adottarne una che ritenessero ottimale allora si sedevano con la schiena molto più dritta. Secondo il gruppo di ricerca, il diverso comportamento dimostrava come ci sia una forte differenza nella percezione di una buona postura e il modo in cui molte persone stanno normalmente sedute.
    Nel 2021 fu invece pubblicato uno studio che fece abbastanza discutere tra gli esperti, perché aveva tra gli obiettivi una valutazione nel lungo termine della postura. Ricercatrici e ricercatori avevano selezionato quasi 700 diciassettenni, suddividendoli in gruppi a seconda del modo in cui tenevano il collo da seduti: dritto come il resto del busto, inclinato in avanti con il busto dritto o inclinato, inclinato lievemente come il resto del busto. La posizione veniva rilevata da una serie di sensori applicati ai partecipanti in modo da non modificare le loro abitudini attraverso domande o altri tipi di misurazione.
    Dopo cinque anni, il gruppo di ricerca aveva contattato i partecipanti e aveva chiesto loro se nell’anno precedente avessero avuto problemi al collo per un periodo superiore a tre mesi. Emerse che per i maschi partecipanti la postura assunta a 17 anni non costituiva un fattore di rischio per problemi di cervicale a 22 anni. Tra le femmine emerse invece che quelle abituate a mantenere collo e busto dritto a 17 anni erano più a rischio di avere problemi di cervicale nell’età adulta, rispetto alle diciassettenni abituate ad assumere una posizione più rilassata. Il gruppo di ricerca ipotizzò che una delle cause derivasse dal maggiore impegno dei muscoli della cervicale per mantenere la postura dritta, tale da incidere nel lungo periodo sulla flessibilità e sulla mobilità del collo.
    Non tutti furono convinti dallo studio e la difficoltà di replicarlo, come spesso avviene con le ricerche che riguardano salute e abitudini, spiega perché ancora oggi la questione della postura dritta sia discussa. Rispetto a un tempo, tra chi si occupa di queste cose per professione – come i fisioterapisti – c’è comunque una maggiore tendenza a consigliare il mantenimento di una postura che sia bilanciata, quindi confortevole e tale da non sottoporre a maggiore stress una metà del corpo rispetto all’altra.
    Il consiglio vale per le persone in salute e senza particolari problemi ortopedici, muscolari e di mobilità: chi ha una postura fortemente asimmetrica, magari derivante da specifici problemi di salute come la scoliosi, deve sottoporsi a terapie e ginnastica correttiva per migliorare le cose e ridurre il rischio di avere ulteriori problemi con la crescita e l’invecchiamento. E non preoccuparsi troppo della postura non significa nemmeno ignorare le posizioni che si assumono sul posto di lavoro, in particolare per professioni che richiedono un forte sforzo fisico o il mantenimento per diverse ore di una medesima posizione. Imparare a fare i giusti movimenti è importante per fare prevenzione e anche per questo rientra nella sicurezza sul lavoro.
    Secondo gli esperti i rischi maggiori derivano dai lavori che richiedono di mantenere per molte ore al giorno la stessa posizione. È il motivo per cui una persona che suona il piano di professione, trascorrendo ore alla tastiera, rischia di sviluppare col tempo una marcata cifosi, cioè la curvatura della parte alta della colonna vertebrale in avanti, quella che volgarmente viene chiamata “gobba”. Per ridurre questo rischio nei posti di lavoro dove è possibile si organizzano turni su postazioni diverse, in modo che chi lavora possa cambiare posizione e movimenti per un certo numero di volte al giorno.
    In alcune professioni, come quelle che richiedono di lavorare per molte ore al computer, difficilmente c’è la possibilità di spostarsi visto che la posizione di lavoro è sempre alla scrivania. In questo caso è quindi previsto l’uso di schermi, tastiere, mouse, sedie e altri dispositivi per mantenere una postura adeguata e ridurre il rischio di cifosi. L’effetto che si vuole ottenere non è quello di mantenere una postura completamente dritta, la preferita da alcuni zelanti insegnanti a scuola, ma una posizione confortevole e con meno vincoli di movimento rispetto per esempio all’utilizzo di un computer portatile.
    Cambiare posizione più volte nel corso della giornata, così come alzarsi dalla scrivania e fare qualche passo a intervalli regolari, è ritenuto più importante del mantenimento di una postura “corretta”, anche perché non ce n’è una che vale per tutti allo stesso modo: siamo tutti diversi, anche nella schiena. Fare regolarmente esercizio fisico aiuta a non rinunciare alle proprie posizioni laocoontiche preferite: possono essere sufficienti una passeggiata a passo veloce e un po’ di allungamento. LEGGI TUTTO