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    Weekly Beasts

    Quella appena trascorsa è stata una settimana piena di cani, complice la storica mostra cinofila statunitense del Westminster Kennel Club Dog Show: più di duemila cani sono stati valutati da una giuria che ha espresso giudizi sulla loro bellezza in relazione agli standard delle razze cui appartengono e alle prestazioni nelle varie categorie in cui hanno gareggiato, e i fotografi hanno coperto estesamente l’evento con decine e decine di foto. A contribuire nella raccolta di chi valesse fotografare c’è anche Messi, il cane che compare nel film Anatomia di una caduta, al festival di Cannes, e per bilanciare un po’ la rappresentazione della specie si finisce con cani “normali” che sonnecchiano con un gatto. Poi una femmina di tordo che imbocca i suoi pulcini, una mamma cinghiale che guida in acqua i suoi cuccioli, e una foto che mostra quanto è lunga la lingua di una giraffa. LEGGI TUTTO

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    Tokyo ha un problema di procioni

    Caricamento playerNell’ultimo decennio il numero di procioni catturati a Tokyo è aumentato di quattro volte. Nel 2012, secondo i dati dell’amministrazione della città, ne erano stati catturati 259: nel 2022 invece 1.282. È un problema perché questi animali sono una specie aliena invasiva che può fare grossi danni, e si pensa che i dati sulle catture indichino che il numero totale di procioni in circolazione sia cresciuto a sua volta – e non che le operazioni di cattura siano semplicemente diventate più efficaci.
    È stato stimato che nelle campagne giapponesi nel 2022 i procioni abbiano fatto danni alle coltivazioni per 450 milioni di yen, l’equivalente di 2,7 milioni di euro. Secondo alcune segnalazioni sembra anche che abbiano cacciato e ucciso salamandre a rischio di estinzione.
    I procioni sono originari del Nord America, ma negli ultimi decenni si sono diffusi anche in aree urbane di altri paesi del mondo dove erano stati portati come animali da compagnia o come attrazioni all’interno di zoo privati. Sono animali con grandi capacità di adattamento agli ambienti nuovi e sono rapidi a riprodursi per cui si trovano bene nelle città, dove mangiano dalle ciotole degli animali domestici e dai bidoni della spazzatura e fanno vari danni. In alcuni casi diventano aggressivi con le persone e possono diffondere malattie.
    Anche in Giappone i procioni si sono diffusi non intenzionalmente dopo che molte persone se ne procurarono come animali da compagnia, forse influenzate dalla popolare serie televisiva animata del 1977 Rascal, il mio amico orsetto. Il ministero dell’Ambiente giapponese ritiene che le attuali popolazioni di procioni presenti nel paese derivino da procioni da compagnia fuggiti o abbandonati. A Tokyo sono presenti soprattutto nelle zone collinari della parte occidentale dell’area metropolitana – che complessivamente ha quasi 14 milioni di abitanti umani. I procioni sono stati inseriti da tempo nella lista delle 156 specie aliene invasive presenti in Giappone.

    In molte zone del Giappone esistono piani per la cattura e l’uccisione dei procioni, a Tokyo in particolare dal 2013. Nel comune di Ome, una città che fa parte dell’area urbana di Tokyo, i residenti possono usare delle trappole per catturarli; a Fuchu invece chi subisce danni alle coltivazioni è invitato a segnalarli alle autorità. Finora tuttavia queste iniziative non hanno fermato lo sviluppo delle popolazioni di procioni, di cui non si conosce l’esatta estensione.

    Dal 2016 i procioni sono anche nell’elenco delle specie esotiche invasive di cui i paesi membri dell’Unione Europea devono cercare di evitare la diffusione per ragioni ecologiche, oltre che sanitarie. In Europa ci sono popolazioni di procioni in almeno 16 paesi e il gruppo più grande si trova in Germania. L’Italia è uno dei paesi dove sono presenti: c’è una popolazione tra Emilia-Romagna e Toscana. Dal 1996 sono considerati una specie che può «costituire pericolo per la salute e l’incolumità pubblica» nel nostro paese e da allora ne è proibita la detenzione a meno che non si abbia una specifica autorizzazione. LEGGI TUTTO

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    Forse è stato risolto il mistero dell’origine dei baobab

    Caricamento playerDopo anni di studio, un gruppo di ricerca ha ricostruito la storia evolutiva dei baobab e dice di avere risolto il mistero sulla loro particolare distribuzione sulla Terra. Questi grandi alberi, famosi per il loro tronco molto spesso rispetto a fronde in proporzione piccole e corte, avrebbero avuto origine nel Madagascar e non nell’Africa continentale come si pensava inizialmente. Alcune sue specie si sarebbero diffuse in seguito sul continente africano e in Australia grazie alla diffusione dei loro semi attraverso l’oceano Indiano.
    L’origine dei baobab (Adansonia) è discussa da tempo proprio per la particolare distribuzione geografica delle loro specie. Ne esistono otto in tutto il mondo: sei sono presenti in Madagascar, una nell’Africa continentale e una nell’Australia nord-occidentale. Per diverso tempo vari gruppi di ricerca avevano ipotizzato che la pianta avesse avuto origine nel continente africano e che da lì si fosse poi diffusa altrove, con l’evoluzione di nuove specie. Non era però chiaro come fosse avvenuta la diffusione e non c’erano nemmeno grandi elementi per sostenere che la specie originaria fosse quella ancora oggi esistente in Africa.
    Insieme al suo gruppo di ricerca, il botanico Tao Wan del Giardino botanico di Wuhan dell’Accademia cinese delle scienze ha effettuato un’analisi genetica di tutte le otto specie conosciute di baobab e ha poi incrociato i dati ottenuti, ricostruendo la storia nel corso di milioni di anni di questi alberi. Lo studio, pubblicato sulla rivista scientifica Nature, dice che l’antenato comune degli odierni baobab ebbe origine in Madagascar circa 21 milioni di anni fa, differenziandosi poi nel corso del tempo nelle diverse altre specie presenti sull’isola anche a causa di fattori ambientali, come variazioni della temperatura media, attività vulcaniche e diffusione a varie altitudini delle piante.
    Secondo il gruppo di ricerca, alcune mutazioni casuali nel materiale genetico favorirono gli alberi i cui fiori erano facilmente raggiungibili da alcune specie di grandi impollinatori, come i pipistrelli della frutta e alcuni piccoli primati. Questo portò a una loro maggiore diffusione e alla successiva differenziazione delle piante nelle specie che osserviamo oggi.
    Lo studio ipotizza che circa 12 milioni di anni fa due specie di baobab tipiche del Madagascar raggiunsero l’Africa continentale e l’Australia, dove si evolsero poi diventando le specie che possiamo osservare oggi e con caratteristiche specifiche che le distinguono da quelle del Madagascar. L’ipotesi è che i loro semi furono trasportati insieme a frammenti della vegetazione dalla corrente che nell’oceano Indiano circola in senso antiorario tra Australia, Asia meridionale e costa orientale dell’Africa.
    L’analisi genetica ha inoltre permesso di rilevare una bassa diversità genetica in due specie di baobab tipiche del Madagascar, tale da mettere a rischio la loro sopravvivenza; una terza specie è considerata a rischio per i numerosi incroci con un’altra più diffusa e che potrebbe soppiantarla. Le tre specie erano già note per essere in pericolo e sono considerate a rischio di estinzione come del resto molte altre, sia vegetali sia animali, in Madagascar a causa delle attività umane. LEGGI TUTTO

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    La ricerca di una migliore rianimazione

    Caricamento player«Libera!», l’operatore applica le due piastre del defibrillatore al torso del paziente che viene sottoposto a una forte scarica elettrica, ma il cuore non ha ripreso a battere. Un altro operatore effettua per alcuni secondi il massaggio cardiaco, poi è nuovamente il turno del defibrillatore e questa volta il cuore torna a battere. Il paziente apre gli occhi, sorride e per quanto affaticato ringrazia chi gli ha salvato la vita, mentre la musica di sottofondo da ansiogena diventa calma e rilassante.
    È una scena vista in decine di film e serie televisive, che segue più o meno sempre la stessa sequenza di eventi e che in molti casi ha contribuito a trasmettere una percezione sbagliata di come funzioni la rianimazione cardiopolmonare (CPR), la procedura di emergenza per trattare una persona in arresto cardiaco. L’idea che sia sufficiente massaggiare energicamente per qualche tempo il torace, intervenendo poi con una scarica elettrica, se necessario, per rianimare una persona è tanto diffusa quanto lontana dalla realtà. Rianimare qualcuno è estremamente difficile e non sempre le pratiche previste dalla CPR sono sufficienti.
    Per questo da tempo si valutano approcci diversi o, per meglio dire, integrazioni ai protocolli solitamente impiegati per rimediare a un arresto cardiaco. La tecnica più promettente, e già impiegata in numerosi paesi compresa l’Italia, prevede di affiancare alle normali tecniche per la CPR sistemi per la “circolazione extracorporea” in modo da far assolvere temporaneamente a una macchina le funzioni solitamente svolte dal cuore e dai polmoni, facendo guadagnare tempo ai medici per intervenire sul problema che ha causato l’arresto cardiaco in primo luogo.
    Nel parlato comune spesso infarto e arresto cardiaco vengono utilizzati per definire la stessa cosa, ma in realtà sono due condizioni differenti anche per gli esiti che possono avere. Con infarto si definisce un danno improvviso che subisce una parte del cuore a causa del blocco (occlusione) di una delle coronarie, cioè delle grandi arterie che portano il sangue al tessuto muscolare del cuore stesso. L’occlusione fa sì che il tessuto non riceva sangue a sufficienza e di conseguenza l’ossigeno che questo trasporta, una condizione che in poco tempo porta alla morte delle cellule coinvolte. In molte circostanze, il cuore funziona meno bene di come dovrebbe, ma continua comunque a battere.
    Un arresto cardiaco è invece l’interruzione improvvisa e completa dell’attività cardiaca, non solo di una sua parte come nell’infarto; può avere cause diverse e una di queste può anche essere l’infarto. In caso di arresto, il cuore non è più in condizione di far circolare il sangue, di conseguenza si interrompe l’afflusso di ossigeno agli organi e in poco tempo inizia il processo di morte cellulare, perché le cellule dell’organismo non riescono a proseguire nelle loro attività. Tra i tessuti più a rischio e che degenerano più velocemente ci sono quelli cerebrali. Per questo nel caso di un arresto cardiaco è importante intervenire il prima possibile, in modo da ripristinare l’afflusso di ossigeno al cervello e la rimozione, sempre attraverso la circolazione sanguigna, dell’anidride carbonica prodotta dalle cellule con il loro metabolismo.
    Si stima che l’arresto cardiaco sia la causa del 20 per cento circa dei decessi in Europa, con possibilità di sopravvivenza estremamente basse nella maggior parte dei casi (le stime più pessimistiche calcolano il 2 per cento, ma i dati variano molto; la maggior parte delle persone interessate ha altri problemi di salute o subisce un arresto per cause traumatiche). L’incidenza annuale dei casi fuori dagli ospedali è tra i 67 e i 170 casi ogni 100mila abitanti: in circa metà delle volte la CPR viene effettuata da personale specializzato con una percentuale di sopravvivenza, dopo il ricovero in ospedale, dell’8 per cento. In ospedale l’arresto cardiaco improvviso ha invece un’incidenza di 1,5-2,8 casi ogni mille ricoveri con una percentuale di sopravvivenza stimata tra il 15 e il 34 per cento.
    In caso di arresto cardiaco la persona interessata è priva di coscienza e non reagisce, non si muove e non respira normalmente o non respira del tutto. Per provare a rianimarla, o per lo meno provare a rallentare il processo di morte dovuto all’interruzione della circolazione sanguigna, si praticano alcune manovre che favoriscono un minimo di circolazione e preservano il cervello. La classica manovra, quella che si vede spesso nei film e nelle serie tv, consiste nel comprimere il centro del torace tenendo una mano intrecciata sull’altra sulla metà inferiore dello sterno, in modo da provare a far muovere il cuore e far circolare il sangue. È una pratica che non si può improvvisare più di tanto e per questo si viene guidati da soccorritori esperti, per esempio al telefono mentre si attende l’arrivo di un’ambulanza.

    La compressione può essere tale da provocare una frattura dello sterno o delle costole, con eventuali danni al cuore o ai polmoni, ma è un rischio che in alcuni casi deve essere corso per provare ugualmente a mantenere un minimo di circolazione e ossigenazione del sangue. Alle compressioni può essere accompagnata a intervalli regolari la ventilazione, spingendo aria nella bocca del paziente, pratica che di preferenza viene svolta solo dal personale di soccorso. Possono anche essere impiegati particolari farmaci per provare a indurre una migliore reazione muscolare e favorire il ritorno del ritmo cardiaco.
    È improbabile che con la sola CPR si riesca a ripristinare l’attività elettrica nel cuore, cioè il giusto alternarsi degli impulsi che fanno avvenire le contrazioni muscolari e quindi il battito cardiaco. Per provare a ripristinare il ritmo cardiaco si effettua una defibrillazione attraverso un apposito strumento (defibrillatore) che somministra una scarica elettrica verso il cuore. Questa procedura non può però essere sempre risolutiva, perché è efficace solamente per alcuni tipi di anomalie e non per altre. La CPR in alcuni casi può indurre un ritmo cardiaco che sia poi defibrillabile, ma non è detto che ciò avvenga, soprattutto se non si può identificare e intervenire su ciò che ha causato in primo luogo l’arresto cardiaco.
    Un defibrillatore automatico esterno (DEA) guida l’operatore nella procedura per effettuare una defibrillazione, determinando se questa sia utile e necessaria (Wikimedia)
    Chi presta soccorso in casi come questi si trova quindi in una situazione di estrema emergenza, con poco tempo per fare le proprie valutazioni e decidere che cosa fare per provare a salvare il paziente. Il rischio di danni cerebrali è concreto e pressante: il cervello è tra gli organi che più richiedono energia e per produrla ha bisogno tra le altre cose di ossigeno, perché in sua assenza i neuroni deperiscono con grande rapidità.
    Per guadagnare tempo e preservare le funzioni cerebrali dei pazienti, da alcuni anni si sta sperimentando, spesso con esiti positivi, la rianimazione cardiopolmonare extracorporea (ECPR), sfruttando un sistema per il supporto vitale che esiste da tempo negli ospedali e di cui si era parlato molto nei periodi più difficili della pandemia da coronavirus: l’ECMO (ossigenazione extracorporea a membrana).
    Una ECMO consiste nell’utilizzare uno speciale macchinario che si sostituisce nell’attività solitamente svolta dai polmoni e/o dal cuore. Nel primo caso viene effettuata una ECMO veno-venosa, nella quale il sangue viene prelevato dal paziente, ossigenato e poi rimesso in circolo, senza intervenire sull’attività del cuore. Nei malati gravi di COVID-19, per esempio, questa tecnica veniva utilizzata per mantenere un corretto livello di ossigenazione del sangue anche nella fase in cui i polmoni molto infiammati non funzionavano pienamente a causa di una eccessiva reazione del sistema immunitario, impegnato a contrastare il coronavirus.
    Nel caso in cui il problema riguardi anche il cuore viene invece effettuata una ECMO veno-arteriosa (VA-ECMO), dove il sangue prelevato e poi ossigenato viene pompato con una certa pressione all’interno dell’organismo, in modo da rendere possibile la circolazione sanguigna altrimenti ferma a causa dell’arresto cardiaco. La VA-ECMO viene effettuata con un intervento di solito la zona dell’inguine, usata come punto di accesso all’arteria e alla vena femorale. Vengono inserite due sonde che attraverso questi vasi sanguigni, tra i più grandi dell’organismo, raggiungono il cuore e che saranno poi impiegate come guide per far passare i due tubi che saranno collegati al macchinario esterno.
    Al termine dell’intervento, che richiede pochi minuti per essere effettuato, il sangue viene fatto fluire all’esterno del paziente e attraverso una particolare membrana, che lascia passare le sostanze in forma gassosa, ma non i liquidi. In questo modo il sangue viene ripulito dall’anidride carbonica e viene arricchito di ossigeno, mantenendolo intanto alla giusta temperatura per essere poi immesso nell’organismo a livello del cuore (dell’aorta discendente). In questo modo il sangue può continuare a fluire nell’organismo, ossigenando i tessuti degli organi e in particolare del cervello, riducendo il rischio di danni per il paziente.
    Rappresentazione schematica di una VA-ECMO (EMC – Tecniche Chirurgiche Torace)
    La VA-ECMO viene tradizionalmente usata per affrontare alcuni problemi cardiaci come la miocardite acuta (una forte infiammazione dei tessuti cardiaci) o per alcuni tipi di infarto, ma il suo impiego è sempre più consigliato anche per i casi di emergenza legati all’arresto cardiaco refrattario, cioè ai casi in cui nessuna altra tecnica di rianimazione abbia funzionato dopo 10 minuti con più di due defibrillazioni. La rianimazione cardiopolmonare extracorporea (ECPR) in queste condizioni si è dimostrata utile nel favorire la sopravvivenza dei pazienti e nell’avere esiti neurologici migliori rispetto alla classica rianimazione.
    Effettuare una ECPR, soprattutto se non ci si trova in prossimità di un ospedale dotato di ECMO, non è però semplice e a oggi non esistono indicazioni e protocolli condivisi a livello internazionale. I macchinari per l’ECMO sono costosi e sono una risorsa limitata, di conseguenza devono essere seguiti dei criteri di selezione per decidere l’eventuale accesso al trattamento (soprattutto in medicina d’urgenza si lavora spesso con risorse scarse, dovendo bilanciare costi e benefici contemporaneamente per più pazienti).
    Idealmente, una persona da sottoporre a una ECPR dovrebbe avere subìto una totale interruzione della circolazione sanguigna per non più di cinque minuti, trovandosi in una condizione di parziale afflusso di sangue grazie a una CPR che consenta di raggiungere una struttura dove si pratica l’ECMO entro al massimo un’ora. Dovrebbe essere inoltre di un’età inferiore ai 70 anni, non avere altri problemi di salute e avere una o più cause scatenanti che possano essere trattate per superare l’arresto cardiaco.
    L’ECPR da sola non è infatti in alcun modo una cura: serve soprattutto a guadagnare tempo per provare a risolvere ciò che ha causato l’interruzione del ritmo cardiaco. Nel caso in cui ciò non sia possibile, la sua utilità può essere invece quella di preservare gli organi della persona, in modo da poterli espiantare e trapiantare su altre persone.
    Uno studio effettuato negli Stati Uniti e pubblicato nel 2020 sulla rivista medica Lancet aveva riguardato pazienti che corrispondevano ai criteri di selezione più diffusi e sottoposti casualmente a ECPR o ai normali trattamenti di rianimazione. Lo studio era stato interrotto prematuramente perché il tasso di sopravvivenza tra i pazienti sottoposti a ECPR era decisamente più alto e tale da non rendere etico proseguire. A sei mesi di distanza, il 43 per cento dei 14 pazienti sottoposti a ECPR era vivo e manteneva buone condizioni cerebrali, rispetto a zero nel gruppo di controllo.
    Il successo dello studio pubblicato su Lancet aveva portato a un rinnovato interesse verso l’ECPR, in un periodo fortemente condizionato dalla pandemia da coronavirus. Anche grazie a quella ricerca nel Maryland (Stati Uniti) era stata avviata la sperimentazione di una prima unità mobile ECMO per il trattamento sul posto delle persone con arresto cardiaco. È un grande camion che contiene al suo interno i macchinari che servono per intervenire sui pazienti, in pratica una piccola sala operatoria su ruote. Al momento, per motivi di sicurezza e burocratici, l’unità mobile può essere impiegata solamente all’esterno di un ospedale, ma i suoi ideatori confidano che in futuro possa essere usata per raggiungere e trattare i pazienti in arresto cardiaco il più velocemente possibile, specialmente in aree distanti da ospedali attrezzati per le ECMO.
    L’unità mobile per l’ECMO attrezzata nel Maryland, Stati Uniti (Helmsley Trust)
    Iniziative di questo tipo sono al momento molto costose, così come lo è in generale l’applicazione dell’ECPR, che richiede squadre appositamente formate di anestesisti, cardiologi, cardiochirurghi e infermieri. L’ECMO può inoltre comportare serie complicanze come emorragie dovute alle terapie anticoagulanti, che vengono somministrate ai pazienti per mantenere più fluido il sangue, sviluppo di infezioni e gravi problemi di circolazione agli arti superiori e inferiori. La valutazione dei costi e dei benefici sta avendo quindi un certo impatto sul dibattito intorno alla questione, anche perché per ora i riferimenti nella letteratura scientifica non sono molti e presentano a volta conclusioni in contraddizione tra loro.
    Una ricerca pubblicata nel 2023 ha per esempio preso in considerazione 160 persone, 70 delle quali erano state sottoposte a una ECPR e 64 a metodi convenzionali di rianimazione (26 partecipanti erano stati esclusi per via dei criteri di selezione). A trenta giorni dagli interventi, il 20 per cento dei pazienti nel primo gruppo era sopravvissuto con buone condizioni cerebrali, contro il 16 per cento del secondo gruppo. La differenza non era significativa e non aveva quindi portato a identificare particolari vantaggi di un approccio sull’altro.
    Una meta-analisi, cioè una statistica dei risultati ottenuti da vari studi su un certo tema, pubblicata nel 2022 ha segnalato invece come poco meno dell’8 per cento dei pazienti sopravviva con buone condizioni cerebrali nel caso in cui sia trattato con metodi convenzionali, rispetto al 14 per cento tra chi viene sottoposto a ECPR.
    Nel complesso la qualità nel processo di selezione dei pazienti è l’aspetto più importante per effettuare ECPR con maggiori probabilità di successo, e questo probabilmente incide sui dati di alcune ricerche (si trattano i pazienti che teoricamente hanno maggiori possibilità di superare l’arresto cardiaco). La formazione del personale di soccorso e dei medici negli ospedali è importante quindi anche per rispondere meglio nelle emergenze di questo tipo.
    In Italia alcuni ospedali partecipano alla Extracorporeal Life Support Organization (ELSO), un consorzio senza scopo di lucro che si occupa di promuovere lo sviluppo e le esperienze cliniche sulla ECPR, raccogliendo e mettendo in condivisione i dati tra i vari centri medici che se ne occupano. Tra gli ospedali italiani partecipanti ci sono il Policlinico e la clinica Mangiagalli di Milano, l’ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo, il Policlinico Umberto I di Roma e l’Istituto mediterraneo per i trapianti di Palermo.
    Un’altra importante iniziativa nell’ambito della fornitura in generale dei servizi ECMO è la rete ECMONet, che dal 2009 facilita il coordinamento dei 14 centri che offrono servizi di ECMO e delle terapie intensive in Italia, in modo da ridurre i tempi di accesso per i pazienti. È stata anche sviluppata una rete di gruppi ECMO con ambulanze attrezzate e di aerei, gestiti dall’Aeronautica militare, per il trasporto su maggiori distanze dei pazienti che hanno necessità urgente di assistenza. LEGGI TUTTO

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    Melinda French Gates lascerà la nota fondazione di cui è presidente insieme al suo ex marito Bill Gates

    Melinda French Gates, una delle imprenditrici e filantrope più famose al mondo, ha annunciato che dal 7 giugno lascerà la celebre fondazione di cui è presidente insieme al suo ex marito Bill Gates, la Bill & Melinda Gates Foundation.La fondazione era stata creata dai due nel 2000, quando erano ancora sposati, e oggi è considerata la più ricca e influente al mondo tra quelle private. Voci e ipotesi di un minore coinvolgimento di Melinda French Gates nella gestione della fondazione circolavano dal 2021, da quando la coppia si separò (in quell’occasione Melinda French Gates riprese a usare il cognome che aveva da nubile, cioè French).
    French Gates non ha spiegato le ragioni della sua decisione, ma ha precisato che continuerà a lavorare nel settore della beneficenza: gli accordi presi col suo ex marito Bill Gates prevedono infatti che per finanziare i suoi progetti personali French Gates abbia a disposizione 12,5 miliardi di dollari (circa 11,5 miliardi di euro) dal patrimonio condiviso che avevano accumulato durante il matrimonio. LEGGI TUTTO

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    È morto l’uomo statunitense a cui a marzo era stato trapiantato un rene da un suino geneticamente modificato

    È morto negli Stati Uniti Richard Slayman, l’uomo a cui lo scorso 16 marzo era stato trapiantato con successo un rene da un maiale geneticamente modificato. L’intervento era stato svolto al Massachusetts General Hospital di Boston con una tecnica che un giorno potrebbe consentire a centinaia di migliaia di persone con gravi malattie renali di migliorare le loro condizioni di salute: in un comunicato, lo staff dell’ospedale ha fatto sapere di essere «profondamente rattristato» dalla notizia della sua morte, precisando che «non ci sono elementi» per ritenere che sia legata al trapianto.Slayman aveva 62 anni, era afroamericano e soffriva da tempo di diabete e ipertensione, due condizioni che avevano contribuito al peggioramento dei suoi reni fino alla perdita di funzionalità. Era stata la prima persona a subire un intervento di questo tipo (uno simile era stato svolto in un ospedale di New York nel 2021, ma in quel caso il rene proveniente da un maiale geneticamente modificato era stato impiantato in un uomo cerebralmente morto). Secondo i medici che lo avevano seguito, dopo l’operazione Slayman camminava da solo e stava relativamente bene.
    I trapianti di organi provenienti da altre specie da impiantare negli esseri umani sono definiti xenotrapianti. È un approccio ritenuto promettente perché dà la possibilità di non dipendere esclusivamente dai donatori di organi umani per effettuare i trapianti. Per dare l’idea, negli Stati Uniti le persone che hanno una malattia renale cronica terminale sono circa 800mila e quelle in lista d’attesa per il trapianto di un rene 90mila.

    – Leggi anche: Il trapianto di Richard Slayman LEGGI TUTTO

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    Weekly Beasts

    Nell’ultima settimana al Pier 39, una famosa attrazione turistica di San Francisco, sono stati avvistati più di mille esemplari di leoni marini, il gruppo più numeroso degli ultimi quindici anni: si trovavano lì attratti dalla presenza nelle acque della baia di grandi banchi di acciughe, di cui si cibano. Tra gli altri animali fotografati nei giorni scorsi ci sono un’anatra e i suoi anatroccoli su un tappeto rosso, un cinghiale che corre nei prati, maiali in discarica e pesci tra i coralli. LEGGI TUTTO

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    Inseparabili nella vita, letteralmente

    Caricamento playerQuando nacquero il 18 settembre del 1961 a West Reading in Pennsylvania (Stati Uniti), il loro medico disse che non sarebbero vissuti più di un anno. Lori e George Schappell vissero invece 62 anni, diventando una delle coppie di gemelli congiunti più longeve mai registrate. Dopo avere trascorso una vita costantemente insieme i gemelli Schappell sono morti il 7 aprile scorso in un ospedale di Philadelphia. Alternando periodi di grande riservatezza ad altri di presenza sui media, contribuirono a modo loro a far sviluppare una maggiore consapevolezza su alcune forme di disabilità e a ridurre certi casi di emarginazione.
    Il fenomeno dei gemelli che durante lo sviluppo nell’utero rimangono collegati tra loro è estremamente raro e ha un’incidenza di un caso ogni 200mila nascite (le stime variano molto anche a seconda delle aree geografiche). Circa la metà dei gemelli congiunti non sopravvive alla nascita e il restante 30 per cento muore solitamente entro le prime 24 ore, a causa di diverse complicanze. Per chi sopravvive, l’aspettativa di vita è generalmente bassa a causa delle difficoltà che insorgono nella fase dello sviluppo. Sulla durata della vita incide spesso il punto in cui un gemello è collegato all’altro: torace, addome o cranio, come nel caso degli Schappell.
    I gemelli congiunti vengono spesso chiamati “gemelli siamesi” dal caso di Chang ed Eng Bunker, due fratelli originari del Siam (il territorio che oggi chiamiamo Thailandia) che nell’Ottocento girarono il mondo diventando un’attrazione e una curiosità per chi li andava a vedere. Ebbero un notevole successo ed essendo originari del Siam divennero conosciuti come i “gemelli siamesi”, modo di dire che si applicò poi in generale a tutte le persone con la loro condizione. Oggi si tende a preferire definizioni più neutre e senza una connotazione geografica, anche perché in ambito medico la classificazione dei tipi più comuni di gemelli congiunti utilizza una nomenclatura specifica.
    Lori e George Schappell appartenevano al tipo Craniopagus: i loro teschi erano fusi insieme, mentre il resto dei loro corpi era separato. Dopo che erano sopravvissuti al primo anno di vita, il loro medico cambiò previsione e disse che non sarebbero arrivati a compiere due anni, come raccontò Lori Schappell in un’intervista nel 2002: «Disse che non avremmo vissuto oltre i due anni o che non avremmo superato i tre. Ogni anno aveva torto. Se solo ci potesse vedere oggi».
    I loro genitori avevano altri sei figli e decisero di mettere i gemelli in un istituto per persone con problemi mentali, anche se in realtà le loro funzionalità cognitive erano nella norma. Man mano che crescevano, gli venivano affidati vari compiti come aiutanti del personale dell’istituto, per esempio per rifare i letti o imboccare gli ospiti che non erano autonomi.
    Gli Schappell avevano trascorso circa vent’anni in istituto quando incontrarono Ginny Thornburgh, la moglie del governatore della Pennsylvania per buona parte degli anni Ottanta. Thornburgh aveva dedicato una parte importante della propria vita ai diritti e all’emancipazione delle persone con disabilità, aiutata dal marito che da governatore aveva provveduto a far chiudere alcune strutture nelle quali venivano spesso lasciati i bambini con problemi dello sviluppo, privandoli della possibilità di vivere e integrarsi nella società.
    Thornburgh facilitò l’uscita degli Schappell dall’istituto e la loro sistemazione in altri tipi di strutture, dove potevano vivere più liberamente. Lori ottenne un lavoro in ospedale al quale partecipava naturalmente anche George, che non poteva muoversi autonomamente a causa della spina bifida, una malformazione delle vertebre che aveva condizionato il suo sviluppo. George non poteva camminare da solo ed era molto più basso di Lori: viveva assicurato a uno sgabello con le ruote, in modo da non obbligare la sorella e rimanere chinata tutto il tempo ed era lei a portarlo in giro con sé.
    In un breve documentario realizzato nel 1997, Lori aveva detto di pensarsi come una persona completamente distinta dal fratello: «Siamo esseri umani venuti al mondo collegati in una parte del corpo. È una condizione che si verifica nel processo di nascita e le persone devono capirlo». All’epoca George si faceva chiamare Reba, dal nome della cantante country Reba McEntire che aveva scelto per sostituire quello comunque femminile che aveva ricevuto alla nascita, ma in seguito aveva intrapreso un processo di transizione perché non si sentiva a proprio agio nel genere corrispondente al proprio sesso biologico.

    Nel periodo in cui si faceva chiamare Reba, George intraprese una carriera da cantante country, vincendo alcune competizioni canore e cantando una canzone per la colonna sonora del film Fratelli per la pelle del 2003, che raccontava la storia di due gemelli congiunti interpretati da Matt Damon e Greg Kinnear. Gli Schappell avevano fatto da consulenti al film e quando i produttori avevano scoperto che Reba cantava, le proposero di inserire una delle sue canzoni nel film.
    Il film non riscosse particolare successo, ma contribuì a mostrare sotto un’ottica diversa i gemelli congiunti. I tempi erano del resto cambiati rispetto ai primi anni Sessanta e soprattutto si stava superando una fase di un certo interventismo da parte di alcuni medici, molto inclini a intervenire chirurgicamente e separare i neonati con quella condizione. In particolare tra gli anni Ottanta e i primi anni Novanta, alcuni casi di gemelli congiunti negli Stati Uniti avevano attirato grandi attenzioni in seguito alle operazioni svolte per separarli. Gli interventi erano sperimentali e dalle conseguenze incerte: molti gemelli congiunti non potevano essere separati facilmente, per esempio perché avevano alcuni arti o organi in comune, oppure non erano completamente chiari rischi ed esiti di un intervento.
    Come ricorda S. I. Rosenbaum sull’Atlantic, un intervento condotto nel 1987 su una coppia di gemelli congiunti di sei mesi lasciò importanti conseguenze neurologiche ai pazienti, che non svilupparono mai la capacità della parola. Altri casi controversi riguardarono la separazione di gemelli nella quale solo uno dei due sarebbe potuto sopravvivere, con le difficoltà etiche e morali connesse a quella scelta. In almeno un caso un gemello fu sacrificato per dare più opportunità all’altro, che però morì poco tempo dopo senza avere mai lasciato l’ospedale.
    George e Lori Schappell dissero in più occasioni di non avere mai pensato a un’operazione per essere separati, o di avere sperato di essere nati separati. Erano convinti che non ci fosse una “vita normale”, ma che ognuno abbia la propria, vissuta con vantaggi, scocciature, difficoltà da superare e momenti di felicità. Per quanto possibile, cercavano di mantenere un po’ di privacy, per esempio usando una tenda per fare la doccia separatamente e non necessariamente nello stesso momento. George aveva l’hobby della musica country, mentre a Lori piaceva molto giocare a bowling e avere più contatti sociali. Talvolta il fatto di vivere così uniti portava a qualche strana interazione col prossimo.
    Lori raccontò che una volta un barman in un locale si rifiutò di servire da bere a George, sostenendo che sembrava troppo giovane per avere l’età minima per consumare alcolici. Paradossalmente, lo stesso barman non si fece invece problemi a servire da bere a Lori, convinto che fosse invece grande a sufficienza per poterlo fare.
    Quando Reba cantava sul palco, Lori si copriva con un telo in modo da ridurre le distrazioni per il pubblico. Lori ebbe alcune relazioni amorose e quindi ci furono occasioni in cui ebbe momenti di intimità con altre persone. Aveva raccontato che in quei momenti riusciva a dimenticarsi di essere attaccata alla testa di un’altra persona: «Per quanto riguarda qualsiasi cosa oltre a coccolarsi e darsi dei baci, non andrò oltre. Mi concederò solo la notte del mio matrimonio». Lori non si sposò mai.
    I gemelli Schappell nel 2002 (AP Photo/Brad C. Bower, File)
    Negli anni Novanta i gemelli Schappell parteciparono ad alcuni talk show trash molto famosi negli Stati Uniti come quelli di Howard Stern e di Jerry Springer. Divennero piuttosto conosciuti dal pubblico e raccontati da numerosi articoli di giornale, che utilizzavano spesso toni sensazionalistici o carichi di retorica e di pietà nei loro confronti. Cose che gli Schappell non cercavano necessariamente, visto che cercavano di far passare il messaggio di vivere una loro normalità. Anche per questo non si impegnarono mai direttamente nelle iniziative per far aumentare sensibilità e consapevolezza nei confronti delle persone con disabilità, ma secondo diversi osservatori la loro presenza in televisione contribuì comunque al dibattito e al confronto sull’opportunità di cambiare approcci, terapie e percorsi di cura e assistenza.
    Lori e George Schappell sono morti a inizio aprile; le cause non sono state comunicate dalla famiglia. A seconda del punto in cui sono uniti, i gemelli congiunti condividono organi o specifiche funzionalità, di conseguenza la morte di uno dei due determina anche la morte dell’altro. Rispondendo a una domanda sulla possibilità di essere separati chirurgicamente in un’intervista del 1997, Lori aveva detto: «Il nostro punto di vista è no, decisamente no. Perché mai vorresti farlo? Per tutti i soldi del mondo, perché mai? Rovineresti due vite nel farlo. E sentiremmo orribilmente la mancanza se uno dei due dovesse morire». LEGGI TUTTO