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    Dopo due anni, quest’inverno non c’è stata carenza di neve in Italia

    Grazie alle nevicate di febbraio e marzo la quantità d’acqua che si è accumulata sulle montagne italiane sotto forma di neve nell’inverno appena concluso è superiore alla mediana degli ultimi 12 anni. Significa che dopo due inverni in cui c’era stata una grossa carenza di neve sulle montagne, che aveva molto contribuito alla grave siccità del Nord Italia durata dall’inizio del 2022 all’estate del 2023, attualmente ce n’è un surplus, che sarà un’importante fonte d’acqua per i mesi estivi. Tuttavia se il bilancio è positivo per le Alpi, non lo è per gli Appennini, dove c’è ancora una situazione di scarsità d’acqua.A dirlo è l’ultima analisi della Fondazione CIMA, Centro Internazionale in Monitoraggio Ambientale, un ente di ricerca nelle scienze ambientali che è stato fondato e collabora con il dipartimento di Protezione civile. Da quattro anni la Fondazione CIMA raccoglie dei dati sul territorio e dai satelliti per stimare un parametro chiamato snow water equivalent (in italiano “equivalente idrico nivale”) e indicato con la sigla “SWE”, che indica la quantità d’acqua contenuta nella neve.
    Il parametro SWE può essere calcolato a livello nazionale, ma anche per singoli bacini fluviali, perché le montagne del paese possono essere suddivise in base al fiume principale che riforniscono d’acqua quando tra la primavera e l’estate la neve si scioglie.

    L’attuale abbondanza di neve avrà un effetto positivo soprattutto per i fiumi del Nord Italia e in particolare il Po, il più lungo fiume italiano. La Fondazione CIMA ha stimato che secondo i dati aggiornati al primo aprile il bacino idrografico del Po può contare su una quantità d’acqua dovuta alla neve che è superiore del 29 per cento rispetto alla mediana (il valore centrale, non la media) del periodo 2011-2022. Per quanto riguarda l’Adige, un altro importante fiume del Nord Italia e il secondo più lungo del paese, il valore dello SWE è inferiore alla mediana (del 4 per cento) ma è comunque doppio rispetto a quello di inizio aprile dello scorso anno.
    La situazione è molto diversa per il Centro e il Sud Italia. Sugli Appennini si sono registrate temperature parecchio alte quest’inverno (a marzo anche superiori di 2,5 °C rispetto ai valori mediani dello scorso decennio) e per questo anche la neve che c’era si è fusa. Per quanto riguarda il bacino del Tevere, il terzo fiume italiano per lunghezza, che scorre in Toscana, Umbria e Lazio, la Fondazione CIMA ha stimato un deficit dell’80 per cento rispetto alla mediana di riferimento al primo aprile.
    Anche al Nord comunque ci sono dei rischi per le risorse d’acqua dei prossimi mesi, molto importanti sia per la produzione agricola che per le centrali elettriche. «Se e quanto l’acqua ora finalmente presente nel bacino del Po sotto forma di neve potrà sostenere i mesi primaverili ed estivi, però, dipende dalle temperature», ha spiegato Francesco Avanzi, idrologo di Fondazione CIMA: «Le temperature elevate possono ancora causare, anche sulle Alpi, fusioni precoci: perché sia davvero utile nei periodi in cui l’acqua ci è più necessaria, la neve deve restare tale ancora per alcune settimane».
    In ogni caso per questa stagione le nevicate dovrebbero essere finite. Generalmente in Italia il picco della quantità di neve sulle montagne si registra a marzo e da aprile inizia il periodo di fusione. LEGGI TUTTO

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    Dobbiamo decidere che ora è sulla Luna

    Una delle cose che bisogna fare per procedere con il programma spaziale Artemis, pensato per riportare gli esseri umani sulla Luna, è stabilire che ora è sul nostro satellite naturale. È una questione più complicata di quanto possa sembrare e la NASA, l’Agenzia spaziale europea (ESA) e altre agenzie spaziali internazionali ci stanno lavorando da tempo. Sui giornali se ne riparla in questi giorni perché il 2 aprile il governo statunitense ha diffuso una circolare che riassume le ragioni per cui serve decidere un orario lunare standard entro la fine del 2026, indirizzata alla NASA stessa e a tutte le altre agenzie federali coinvolte.Sulla Luna la forza di gravità è inferiore a quella della Terra perché la Luna ha una massa inferiore a quella del nostro pianeta. La Teoria generale della relatività, formulata da Albert Einstein nel 1915, mette in relazione gravità, spazio e tempo, e comporta che il tempo misurato da due orologi scorre diversamente se sperimentano una attrazione gravitazionale diversa come quella della Terra e della Luna. Per un osservatore sul nostro pianeta, un orologio lunare va più veloce per via della differenza di gravità.
    Più specificamente un orologio sulla Luna inizialmente sincronizzato con uno sulla Terra sarebbe avanti di circa 56 microsecondi (cioè di 56 milionesimi di secondo) dopo 24 ore, di 112 dopo 48 ore e così via. Per la vita quotidiana sulla Terra durate nell’ordine dei microsecondi sono piuttosto trascurabili, ma si tratta di differenze che possono dare problemi quando bisogna programmare lanci di astronavi, allunaggi e orbite satellitari tra agenzie spaziali di 36 paesi diversi e aziende private. Sono tutte attività che necessitano estrema precisione.
    Per le missioni Apollo, che portarono esseri umani sulla Luna tra il 1969 e il 1972, la NASA utilizzò come indicazione temporale il fuso orario centrale degli Stati Uniti, perché l’agenzia spaziale aveva il proprio centro di controllo a Houston, in Texas. Ma si servì contemporaneamente anche del tempo trascorso dal lancio (mission elapsed time, abbreviato con MET) per evitare fraintendimenti con gli astronauti.
    Il programma Artemis però ha ambizioni maggiori rispetto alle missioni Apollo, tra cui la realizzazione di Gateway, una piccola base orbitale che sarà assemblata intorno alla Luna, e quella di un’eventuale base sul suolo lunare, e, sul lungo periodo, le basi per future missioni verso Marte. La misura del tempo serve per trasmettere informazioni sulle localizzazioni di oggetti in movimento, che nel caso di Artemis coinvolgeranno altre agenzie spaziali e aziende oltre alla NASA, e per tutte queste ragioni è necessario fissare un orario lunare standard di cui si tenga conto nelle comunicazioni tra Terra, satelliti, basi lunari e astronauti.
    Per stabilire questo orario, il “tempo coordinato lunare” (LTC), ci sono vari aspetti da tenere in considerazione, menzionati anche nella circolare del governo statunitense.
    Uno è che l’orario lunare dovrà essere riconducibile al tempo coordinato universale (UTC), il fuso orario usato come riferimento globale per la Terra, quello che fa da punto di partenza per calcolare tutti gli altri – ad esempio attualmente in Italia siamo nel fuso orario formalmente indicato come UTC+2, due ore avanti rispetto allo UTC. A certificare l’ora esatta nello UTC è l’Unione internazionale delle telecomunicazioni (ITU), una delle agenzie specializzate delle Nazioni Unite, grazie a una rete di orologi atomici, dispositivi estremamente precisi che sfruttano i livelli di energia (orbitali) degli elettroni all’interno degli atomi per calcolare il tempo con un margine di errore molto basso.
    Per decidere il tempo coordinato lunare la NASA, l’ESA e le altre agenzie spaziali coinvolte nel programma Artemis stanno considerando l’ipotesi di installare degli orologi atomici in punti diversi della Luna. Ne servirebbero almeno tre per ottenere una misura del tempo precisa che tenga conto di tutti gli effetti relativistici, dovuti principalmente alla gravitazione.
    Attualmente l’ora esatta dello UTC viene periodicamente trasmessa dalla Terra ai satelliti e alle sonde nello Spazio, in modo che siano sincronizzati con il fuso orario di riferimento. Avere degli strumenti che misurino il tempo in maniera affidabile e in autonomia direttamente sulla Luna ridurrebbe sensibilmente la necessità di sincronizzare di continuo l’orario dalla Terra, un’attività che richiede antenne terrestri potenti e un costante lavoro di aggiornamento, dunque un grande dispendio di energia per la trasmissione dei dati.
    Secondo i piani della NASA più aggiornati il primo allunaggio umano di Artemis avverrà nel settembre del 2026, mentre nel settembre del 2025 partirà una missione che porterà in orbita attorno alla Luna e poi di nuovo sulla Terra senza mettere piede sul satellite quattro astronauti. Anche la Cina progetta di portare delle persone sulla Luna: entro il 2030. L’India vorrebbe farlo entro il 2040.
    Come dice la recente circolare del governo statunitense, per definire il tempo coordinato lunare serviranno degli accordi internazionali tra i paesi coinvolti all’interno di Artemis (la Cina, così come la Russia, non lo è), e gli enti che già oggi si occupano degli standard di misura.

    – Approfondisci: Che ora è sulla Luna? LEGGI TUTTO

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    Il caso di influenza aviaria in un umano contagiato da un bovino

    A inizio settimana negli Stati Uniti è stato segnalato il primo caso di influenza aviaria in un essere umano trasmessa da un bovino, che probabilmente era stato in precedenza contagiato da pollame infetto o da un uccello. Il contagio è avvenuto in Texas e la persona interessata non ha sviluppato particolari sintomi fatta eccezione per un lieve arrossamento degli occhi (congiuntivite), ma la notizia ha comunque portato ad alcuni titoli e articoli allarmati sulla vicenda che si inserisce nell’ampio filone delle notizie intorno all’epidemia da influenza aviaria in corso in molti paesi da quasi cinque anni.Il probabile doppio salto di specie conferma la capacità dei virus aviari di evolvere molto rapidamente, ma per ora non indica che ci siano maggiori rischi rispetto a quelli già indicati dalle autorità sanitarie negli Stati Uniti, nell’Unione Europea e in altre aree del mondo. I rischi per la popolazione generale legati all’influenza aviaria sono ancora molto bassi, per quanto ci sia grande attenzione sulla diffusione della malattia soprattutto negli allevamenti, dove un focolaio può causare gravi danni economici e qualche rischio di contagio in più tra chi ci lavora.
    Con “influenza aviaria” viene indicata una malattia che interessa principalmente gli uccelli e che viene causata da un’ampia varietà di virus, per quanto imparentati tra loro. Quello che suscita maggiore interesse da qualche anno è H5N1, un virus le cui prime versioni erano state identificate in Cina nella seconda metà degli anni Novanta. Più in generale, i virus aviari sono comuni e interessano da moltissimo tempo gli uccelli selvatici. Le versioni meno aggressive vengono definite LPAI (dall’inglese “low-pathogenic avian influenza”, cioè “influenza aviaria a bassa patogenicità”) e non sono solitamente rischiose per gli animali.
    In alcuni casi, però, un virus LPAI riesce a passare dagli uccelli selvatici agli allevamenti di pollame, finendo in un contesto in cui ci sono migliaia di animali che vivono a stretto contatto e dove sono molto più probabili i contagi. In poco tempo il virus si replica producendo nuove generazioni che contengono mutazioni, dovute per lo più a errori del tutto casuali nella trasmissione del suo materiale genetico, tali da renderlo più letale per gli animali. Questo passaggio fa sì che il virus diventi più contagioso e rischioso e per questo viene definito HPAI, per indicare una forma ad alta patogenicità.
    Gli HPAI possono causare in poco tempo grandi focolai negli allevamenti di pollame, rendendo necessario l’abbattimento di migliaia (in alcuni casi di milioni) di polli per evitare che il contagio prosegua e che generazione dopo generazione i virus coinvolti acquisiscano nuove capacità diventando per esempio ancora più contagiosi. L’attuale forma di aviaria è particolare e osservata con attenzione perché, oltre a causare molti contagi tra gli uccelli e il pollame, mostra una spiccata capacità di trasmettersi anche a specie molto diverse come alcuni mammiferi.
    In generale, il virus dell’influenza aviaria è imparentato con quello che causa l’influenza stagionale negli esseri umani, l’influenza equina e quella suina, ma le varianti e i sottotipi coinvolti sono alquanto differenti tra loro sia in termini di virulenza sia di contagiosità. Le relative somiglianze e altri fattori rendono comunque possibili i salti di specie, cioè il passaggio del virus da una specie a una completamente diversa. Con l’influenza accade spesso: ci sono casi di influenza umana nei maiali e più in generale si ritiene che l’influenza che stagionalmente ci riguarda sia emersa dagli uccelli.
    In questi due anni sono stati segnalati passaggi di H5N1 dagli uccelli selvatici a volpi, puzzole, lontre, procioni e orsi. Nell’autunno del 2022 era inoltre emerso un grande focolaio tra i visoni di un allevamento intensivo in Spagna, che aveva poi reso necessario l’abbattimento degli animali per ridurre il rischio di ulteriori contagi all’esterno della struttura.
    Il 2022 era stato un anno particolarmente complesso soprattutto per gli allevamenti di pollame negli Stati Uniti, dove vengono allevate insieme grandi quantità di polli a stretto contatto e di conseguenza con un alto rischio di contagi. Si era reso necessario l’abbattimento di decine di milioni di tacchini e galline da uova, con conseguenze sulla disponibilità e i prezzi di queste ultime in molte aree degli Stati Uniti. La situazione era migliorata nel corso del 2023 negli allevamenti, ma i virus aviari avevano continuato comunque a diffondersi non solo tra gli uccelli, ma anche tra i mammiferi.
    (Jamie McDonald/Getty Images)
    Nell’ultimo anno sono stati confermati casi di aviaria nel bestiame e in particolare negli allevamenti di bovini in Kansas, Michigan, New Mexico, Idaho e Texas. È probabile che i bovini abbiano contratto il virus da specie selvatiche di uccelli o dal pollame allevato nelle loro vicinanze, ma al momento non ci sono molti elementi concreti per avere qualche certezza in più. Le autorità di controllo negli Stati Uniti non escludono inoltre che i contagi nel bestiame siano molto più diffusi di quanto emerso finora, ma che i casi passino inosservati perché raramente gli animali si ammalano.
    È in questo contesto che è avvenuto il contagio in Texas da bovino a essere umano. Stando alle informazioni fornite dai Centri per la prevenzione e il controllo delle malattie (CDC) degli Stati Uniti, la persona sarebbe stata contagiata mentre lavorava in un allevamento per la produzione del latte e di prodotti caseari (il latte pastorizzato può essere consumato senza correre rischi). Era risultato positivo all’aviaria dopo alcuni controlli dovuti alla congiuntivite che aveva sviluppato, unico sintomo evidente della malattia. Oltre a essere stato messo sotto controllo, il paziente ha iniziato una terapia con farmaci antivirali per ridurre la capacità del virus di continuare a replicarsi nell’organismo, in modo da favorire la guarigione.
    È il primo caso di un passaggio da bovino a essere umano a essere segnalato negli Stati Uniti, ma in precedenza c’era già stato un caso di contagio che aveva invece riguardato un passaggio dal pollame a un operatore che lavorava in un allevamento. Anche in quella circostanza la persona interessata non aveva sviluppato particolari sintomi e si era ripresa dopo qualche giorno.
    Nel corso dell’attuale epidemia alcune decine di persone, in particolare in Asia, sono risultate positive ai virus aviari più diffusi dopo essere state a stretto contatto con animali che avevano l’infezione. Nella maggior parte dei casi non sono stati segnalati sintomi preoccupanti, ma ci possono essere casi in cui si sviluppano complicazioni che in rari casi portano alla morte.
    Un’infezione virale da un certo tipo di H5N1 in una persona non implica comunque che questa sia contagiosa, anzi: è altamente improbabile che in un singolo passaggio il virus acquisisca la capacità di diventare contagioso tra esseri umani. È inoltre probabile che i casi pollame-umani si siano verificati in seguito all’esposizione ad alte quantità del virus nell’ambiente in cui lavoravano. Alcuni virus hanno comunque mostrato una certa capacità nell’effettuare sporadicamente salti di specie e non è un particolare da trascurare.
    I virus influenzali mutano velocemente e spesso in modi poco prevedibili, per esempio se nell’organismo che infettano incontrano altre tipologie di virus dai quali possono prendere in prestito parti di materiale genetico. Un virus che passa da un uccello a un mammifero, come un bovino, potrebbe in questo modo sviluppare la capacità di replicarsi più facilmente nel nuovo ospite e di diventare anche più contagioso. Mutazioni del tutto casuali potrebbero poi far sì che qualcosa di analogo avvenga nel caso di contagio in un essere umano, portando infine a un virus che riesce a circolare con maggiore facilità nella nostra specie.
    Il rischio che ciò avvenga è attualmente considerato basso, ma ci sono studi e ricerche in corso sulle caratteristiche degli HPAI e sui fattori che potrebbero renderli più pericolosi. Il contenimento delle infezioni, per esempio con l’abbattimento del pollame infetto, serve proprio a evitare che ci siano ulteriori contagi che potrebbero fare aumentare la probabilità di nuove mutazioni e salti di specie. Più si riducono i casi di passaggio da specie aviarie a mammiferi, minori sono i rischi anche per gli esseri umani.
    Nel suo ultimo rapporto sull’influenza aviaria, il Centro europeo per la prevenzione e il controllo delle malattie (ECDC) ha segnalato che tra dicembre 2023 e marzo 2024 i casi di HPAI rilevati negli uccelli sono stati inferiori rispetto ai periodi precedenti. In Europa non sono stati inoltre segnalati finora casi di passaggio dei virus coinvolti negli esseri umani, anche grazie alle pratiche di contenimento effettuate negli allevamenti. Le principali cause di contagio del pollame derivano comunque dal passaggio di uccelli selvatici contagiosi, che entrando in contatto con gli animali negli allevamenti causano poi la diffusione dei virus. Per l’ECDC anche in Europa «il rischio di infezione rimane basso per la popolazione in generale». LEGGI TUTTO

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    Dilettante, scienziata, attivista, simbolo

    Caricamento playerJane Goodall, una delle scienziate più conosciute al mondo, ha compiuto oggi 90 anni. Ne sono da poco passati sessanta da quando su Nature uscì il suo articolo che fece sapere al mondo che gli scimpanzé sono capaci di usare strumenti, un’abilità che fino a quel momento era considerata una prerogativa umana. La scoperta ottenne una grande attenzione anche oltre la comunità scientifica grazie alla rivista divulgativa National Geographic, che nel 1965 pubblicò in copertina una fotografia di Goodall insieme a un gruppo di scimpanzé. La celebrità iniziata con quell’immagine è stata poi sfruttata da Goodall per proseguire i suoi studi e, dal 1986 in poi, per finanziare numerose forme di attivismo per la salvaguardia degli ambienti naturali e il benessere dei primati.

    La carriera di Goodall è stata piuttosto straordinaria e irripetibile per varie ragioni. Fino alla seconda metà del Novecento le grandi scimmie antropomorfe non umane, come appunto gli scimpanzé, non erano ancora state studiate nel loro ambiente naturale e Goodall fu una delle prime a farlo. Fu anche una delle prime donne a portare avanti questo tipo di ricerche sul campo, cominciando in un periodo in cui le scienziate erano ancora pochissime in generale – lei stessa iniziò da dilettante, si può dire, senza aver fatto studi universitari di biologia o materie affini. Anche per questo negli ultimi decenni Goodall è diventata una specie di simbolo, sia per le donne che si occupano di scienza, sia per chiunque si impegni per la difesa degli ambienti naturali.
    Goodall è inglese ed è cresciuta a Bournemouth, una città affacciata sul canale della Manica, che tuttora frequenta nonostante i suoi numerosissimi impegni in giro per il mondo. Ha più volte raccontato che il suo interesse per l’Africa e i suoi animali si sviluppò quando era ancora bambina, leggendo Il dottor Dolittle di Hugh Lofting e i romanzi della saga di Tarzan di Edgar Rice Burroughs. Finite le scuole superiori nel 1952, non poté studiare all’università per ragioni economiche e seguì un corso formativo per lavorare come segretaria, un mestiere all’epoca molto comune per le giovani donne.
    Nel 1956, quando Goodall aveva 22 anni, le capitò l’occasione che successivamente le avrebbe cambiato la vita: una ex compagna di scuola la invitò ad andarla a trovare in Kenya, dove la sua famiglia aveva una fattoria. Goodall risparmiò per cinque mesi per permettersi il viaggio e poi partì insieme a sua madre, Myfanwe Joseph.
    A quei tempi il Kenya era una colonia britannica (il paese sarebbe diventato indipendente nel 1963) ma la comunità bianca di Nairobi era relativamente poco numerosa e così Goodall ebbe l’occasione di conoscere Louis e Mary Leakey, una coppia di paleoantropologi che in quegli anni stavano cercando, trovando e studiando resti fossili di specie progenitrici di quella umana. Louis Leakey offrì a Goodall un lavoro nel museo di Storia naturale locale, di cui era curatore, e la coinvolse nelle operazioni di scavo archeologico, dove servivano persone disposte a passare molte ore a rimuovere pezzi di roccia e pulirne altri dalla terra.
    Tra le altre cose Leakey voleva provare a dimostrare un’ipotesi enunciata il secolo precedente da Charles Darwin, e cioè che gli umani e gli scimpanzé discendevano da antenati comuni (è effettivamente così). Per questo voleva organizzare una missione di ricerca sulla vita degli scimpanzé, il cui comportamento all’epoca era stato osservato solo in cattività, mai nelle foreste in cui vivevano: riteneva che comprendendo meglio questi animali si sarebbe potuto scoprire qualcosa anche sugli antenati comuni.
    Dopo qualche anno che la conosceva, Leakey propose a Goodall di svolgere lei questi studi, e di farlo in una foresta sulla riva orientale del lago Tanganica, nell’attuale Tanzania. Lei accettò e arrivò nel luglio del 1960 in quello che oggi è il Gombe Stream National Park. Leakey poi avrebbe fatto qualcosa di analogo con Dian Fossey, la primatologa nota per lo studio dei gorilla, e Birute Galdikas, che invece si dedicò agli oranghi: le tre donne sono state soprannominate “Trimates”, un gioco di parole tra “trio” e “primati”, o “Leakey’s Angels”.
    Uno scimpanzé del Gombe Stream National Park, in Tanzania, il 26 agosto 2022 (Sandra Weller / Anzenberger)
    Nei primi mesi nella foresta Goodall non riuscì ad avvicinare più di tanto gli scimpanzé, ma a un certo punto riuscì a far tollerare la propria presenza a un maschio dominante, che lei chiamò David Greybeard: gli altri scimpanzé che vivevano con lui di conseguenza la “accettarono” a loro volta.
    Già quattro mesi dopo il suo arrivo a Gombe, Goodall aveva assistito all’uso di uno strumento da parte di David Greybeard: la prima volta lo vide usare un lungo filo d’erba per estrarre delle termiti da un nido nel terreno. Questo e altri comportamenti simili furono poi descritti da Goodall nel suo importante articolo del 1964. Già nell’Ottocento si sapeva che gli scimpanzé sapevano usare delle pietre per rompere il guscio di alcuni frutti, ma fino a quel momento tale informazione (per quanto menzionata pure da Darwin) era stata ignorata dalla comunità scientifica. Successivamente Goodall avrebbe scoperto altre cose sugli scimpanzé che prima non si sapevano: che cacciano e mangiano carne, oltre a frutta e altri vegetali, che possono scontrarsi con grande violenza tra gruppi rivali per un territorio, e che hanno complessi rapporti sociali tra loro.

    – Leggi anche: Dian Fossey, e i suoi gorilla

    Intanto Leakey si preoccupò di far ottenere a Goodall un titolo di studio che le permettesse di essere riconosciuta come studiosa dalla comunità scientifica internazionale, e nel 1962 la mandò all’Università di Cambridge, in Inghilterra. Garantì per lei in modo che potesse fare un dottorato pur senza essere laureata. L’iniziativa non fu presa benissimo dagli studenti e dai professori di Cambridge, in particolare dopo che nel 1969 la National Geographic Society (che finanziava sia le ricerche di Leakey che quelle sugli scimpanzé) pubblicò il primo libro di Goodall, My Friends the Wild Chimpanzees: il professore con cui stava facendo il dottorato si indignò perché era un libro divulgativo e per poco non le tolse la borsa di studio.
    La situazione e la reputazione di Goodall nel contesto accademico, all’epoca prevalentemente maschile, risentivano del fatto che avesse cominciato i propri studi da dilettante e in un certo senso da autodidatta, ma anche semplicemente che fosse una donna, peraltro giovane e di bell’aspetto – caratteristiche che anche a suo dire contribuirono all’attenzione mediatica ricevuta dal suo lavoro.
    Tra le altre cose Goodall fu anche accusata di aver “antropomorfizzato” gli scimpanzé, cioè di aver interpretato il loro comportamento con criteri umani, una pratica considerata antiscientifica. Tale accusa era dovuta al fatto che Goodall aveva dato dei nomi agli animali che studiava (invece di identificarli con dei numeri) e che ne descriveva i comportamenti e le relazioni usando parole che indicano emozioni e sentimenti umani.
    Ancora oggi gli etologi devono impegnarsi a non “antropomorfizzare” gli animali non umani che studiano, ma nel tempo parte degli approcci di Goodall, una delle prime scienziate a fare studi sul campo, è stata adottata anche da altri esperti. E le sue osservazioni e intuizioni sulle strutture sociali degli scimpanzé sono considerate non solo corrette, ma un riferimento anche per lo studio di altre specie. Approfondendo i suoi studi comunque Goodall rivide alcune delle sue scelte iniziali, come quella di dare da mangiare agli scimpanzé che studiava, per non influenzarne il comportamento.
    Jane Goodall e Hugo van Lawick, un fotografo del National Geographic che poi sarebbe diventato suo marito, nel gennaio del 1974 (AP Photo)
    Anche grazie agli studi condotti a Cambridge, Goodall ottenne vari finanziamenti per continuare le sue ricerche, non solo dalla National Geographic Society ma anche dall’Università di Stanford, negli Stati Uniti. Grazie a questi fondi aprì un proprio centro di ricerca a Gombe. Nel 1967 fu dimostrato che gli scimpanzé e i bonobo sono le specie animali viventi più vicine a quella umana e nel 1970 Goodall fondò il Jane Goodall Institute, la sua ong che si occupa di salvaguardia ambientale e della difesa dei primati, e che ha anche una divisione italiana.
    Intanto la sua fama di divulgatrice continuava a crescere nel mondo: fu una dei primi scienziati a dimostrarsi efficaci comunicatori per un pubblico vasto, e ispirò molte persone, comprese tante donne, a studiare gli animali.
    Negli anni Settanta e nella prima metà degli anni Ottanta Goodall continuò a lavorare come scienziata, ma poi divenne sempre di più un’attivista. Nel 1986, durante un convegno di primatologi a Chicago, si rese conto che ogni nuova ricerca presentata segnalava una riduzione degli habitat dei primati a causa della deforestazione. La stessa cosa stava succedendo anche agli scimpanzé di Gombe perché sempre più villaggi si stavano sviluppando nella zona, di fatto spezzettando la foresta.
    Dagli anni Novanta Goodall di fatto lasciò la ricerca scientifica per promuovere attività di sensibilizzazione di vario genere, contro la deforestazione e in favore di uno sviluppo sostenibile per le popolazioni dei paesi poveri in cui si trovano foreste tropicali, con l’idea che solo con la collaborazione e il consenso delle comunità umane locali si possano mantenere. Anche per questo suo grande impegno, tuttora in corso a 90 anni di età, Goodall è diventata una specie di simbolo tanto che un paio di anni fa Mattel ha addirittura prodotto una bambola Barbie con le sue fattezze.

    Attualmente Goodall è impegnata in una serie di incontri in giro per il mondo organizzati dal Jane Goodall Institute proprio in occasione del suo 90esimo compleanno, per raccogliere fondi e finanziare attività di vario genere per la difesa delle foreste e dei primati. LEGGI TUTTO

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    Mangiamo sempre la stessa banana

    Caricamento playerNella prima metà di marzo delegati da tutto il mondo si sono riuniti a Roma per parlare di banane, uno dei frutti più consumati e con un impatto importante sull’alimentazione di miliardi di persone. Rappresentanti del settore, responsabili delle principali aziende produttrici e agronomi hanno partecipato ai numerosi incontri del World Banana Forum dell’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura (FAO), arrivando in più sessioni alla medesima conclusione: il mercato delle banane è esposto a grandi rischi derivanti quasi tutti dall’avere impostato l’intero commercio mondiale praticamente su una sola varietà di banana, nonostante ne esistano diverse centinaia se non addirittura un migliaio.
    Il problema è noto da tempo ed è una costante fonte di preoccupazione per chi lavora con il frutto esotico più esportato in assoluto, con un fatturato annuo intorno ai 10 miliardi di euro. Coltivare e trasportare le banane dai paesi per lo più tropicali in cui crescono in mezzo mondo richiede un grande impegno logistico, soprattutto nella gestione dei tempi per assicurarsi che i frutti siano messi in vendita al giusto punto di maturazione. Più si impiegano standard e sistemi condivisi, più si riescono a ottimizzare i processi di produzione e distribuzione ed è per questo che in Occidente e altre parti del mondo mangiamo tutti le stesse identiche banane.
    La varietà più coltivata è diffusa è la Cavendish, che produce frutti relativamente lunghi e dalla polpa compatta fino agli ultimi stadi di maturazione, quando diventa invece molto morbida e più dolciastra. La Cavendish è uno dei tanti ibridi ottenuti nel tempo dall’incrocio delle specie Musa acuminata e Musa babisiana per ottenere frutti con quantità sufficienti di polpa. Gli incroci resero infatti possibile la coltivazione di specie senza semi, che nelle banane selvatiche occupano un grande spazio all’interno del frutto.
    Banana selvatica tagliata a metà: è evidente la differenza della polpa rispetto alle banane abitualmente consumate (Wikimedia)
    Nel farlo si ottennero però varietà che non possono essere riprodotte utilizzando i loro semi, ma semplicemente tramite propagazione: da una pianta si ottengono altre piante, che sono di fatto cloni della pianta di partenza. Le Cavendish, come molte altre varietà di banane, non hanno quindi la capacità di evolversi attraverso incroci con piante con materiale genetico diverso. Sono di conseguenza più esposte a malattie e parassiti, perché ci sono meno mutazioni casuali che attraverso la selezione potrebbero favorire la loro sopravvivenza a particolari agenti esterni. Le conseguenze di queste monocolture possono essere devastanti, come dimostra la storia delle banane.
    Quando nella seconda metà dell’Ottocento furono avviate le esportazioni su grande scala, si affermò la varietà Gros Michel: una banana resistente e con tempi di maturazione tali da potere essere trasportata per lunghi viaggi senza il rischio che andasse velocemente a male. Nel secondo dopoguerra la Gros Michel aveva permesso ai produttori di espandere enormemente il mercato delle banane, ma in pochi anni un imprevisto decimò le coltivazioni: un fungo aveva attaccato le piante, che essendo pressoché tutte identiche non avevano difese contro l’infezione. L’epidemia fu definita “malattia di Panama” e interessò tutte le principali piantagioni nell’America Centrale e in Sudamerica.
    Da risorsa stabile e resistente, in poco tempo la Gros Michel era diventata fragile e inaffidabile, poco adatta per fare affari. I produttori si diedero quindi da fare per trovare un’altra varietà e scoprirono che la Cavendish, nota già da tempo ma meno coltivata, aveva il pregio di resistere al fungo e di conseguenza convertirono le loro piantagioni. Ciò permise di evitare il collasso del settore, anche se le Cavendish erano meno saporite delle Gros Michel. Furono adottate le medesime strategie di coltivazione senza prevedere una maggiore differenziazione per evitare che in futuro la nuova varietà potesse avere i problemi che avevano decimato la precedente.
    Ancora oggi le Cavendish sono le banane più diffuse al mondo, ma proprio come era accaduto con le Gros Michel iniziano a essere esposte ad alcune forme della malattia di Panama. I primi indizi risalgono a una quindicina di anni fa, quando in Malaysia e a Sumatra furono segnalati i primi casi di infezione. La causa fu in seguito ricondotta a uno specifico tipo di fungo (Fusarium tropical race 4 – TR4), che attacca i banani sottraendone le energie e privandoli della capacità di crescere e sopravvivere.
    Grandi coltivazioni di piante pressoché identiche rendono più difficile l’isolamento di quelle infette: il fungo si diffonde con facilità e non esistono trattamenti efficaci per ridurne gli effetti. Le Cavendish sono inoltre esposte ad altri rischi legati a malattie virali che possono sviluppare i banani, che portano alla morte delle piante e a importanti danni economici per i raccolti.
    (Jack Taylor/Getty Images)
    Durante il World Banana Forum di Roma, il direttore generale della FAO Qu Dongyu ha ricordato che si stima ci siano circa mille varietà di banane (le stime variano molto) eppure in quasi tutto il mondo se ne consuma una sola, la Cavendish. Diversificare la produzione potrebbe avere grandi benefici per ridurre i rischi legati alla coltivazione di un’unica varietà, ma c’è storicamente una certa resistenza da parte dei produttori sia per motivi logistici, sia per la percezione da parte dei consumatori in particolare in Occidente.
    Per la maggior parte delle persone che acquistano banane al mercato o al supermercato, la Cavendish è la banana per antonomasia. Ogni frutto ha pressoché lo stesso sapore, il medesimo aspetto e gli stessi tempi di maturazione. Questi ultimi sono essenziali per gli esportatori, che hanno necessità di consegnare miliardi di banane ancora acerbe e di lasciare che maturino poi nelle fasi di distribuzione al dettaglio.
    La Gros Michel secondo molti esperti era in questo la banana perfetta, molto meno delicata della Cavendish che deve essere trasportata con maggiori cautele e richiede spesso di essere refrigerata per rallentarne la maturazione. Il passaggio fu inevitabile, ma pochi produttori sembrano essere interessati a differenziare il loro mercato sia per le molte variabili in più che si aggiungerebbero sia per la percezione da parte dei consumatori, che in ultima istanza sono abituati a un solo tipo di banana.
    Nonostante se ne discuta da anni, al momento non sembrano esserci grandi soluzioni praticabili. Le notizie sulle infezioni fungine sono ormai una costante e riguardano le monocolture in Asia, Africa, Australia e da qualche tempo nell’America centrale e in Sudamerica. La diffusione della malattia di Panama tra i principali produttori nell’America Latina e nei Caraibi potrebbe avere un forte impatto sul mercato, considerato che la maggior parte delle banane consumate nei paesi economicamente più sviluppati arriva da quelle zone.
    Come contromisura alcuni gruppi di ricerca stanno lavorando allo sviluppo di piante geneticamente modificate in modo da essere resistenti al TR4. Interventi di questo tipo potrebbero introdurre una maggiore diversità genetica, che non viene ormai raggiunta a causa di generazioni e generazioni di banani originati dalle stesse piante di partenza. Non in tutti i paesi è però consentito il commercio di organismi geneticamente modificati, di conseguenza per ora i produttori sono restii a introdurre frutti OGM. Le cose potrebbero cambiare nei prossimi anni grazie alle nuove tecniche di modifica del DNA, come Crispr/CAS9, che permettono di cambiare parte del materiale genetico di un organismo senza introdurne di nuovo proveniente da altri organismi.
    Una diversificazione nella coltivazione di banane viene comunque auspicata da esperti e organizzazioni per la conservazione dell’ambiente, in particolare per favorire la biodiversità, cioè la varietà di specie che vivono in una certa zona. Piante tutte uguali tra loro (non necessariamente cloni come nel caso delle banane) riducono la possibilità per altri organismi di vivere e prosperare, portando a un impoverimento degli habitat.
    I benefici ambientali sarebbero importanti, ma trovare varietà di banane adatte al commercio globale potrebbe rivelarsi difficile, soprattutto nel mantenimento dei costi. Nonostante sia un frutto che deve di solito attraversare mezzo mondo per arrivare sulle nostre tavole, una banana costa spesso meno di 50 centesimi di euro, meno di molti altri frutti nostrani. I prezzi più alti legati alla diversificazione potrebbero influire sulla domanda, con forti implicazioni per un settore che si basa quasi esclusivamente sulle esportazioni.
    Tra le tante varietà di banane, diffuse per lo più localmente o comunque disponibili in pochi paesi ci sono le banane rosse, le banane Latundan, le Pisang Raja, le banane thailandesi, le banane “mille dita” e le banane Blue Java. Nella maggior parte dei casi si tratta di banane dalle dimensioni più contenute rispetto alla classica Cavendish e con sapori e consistenze lievemente diversi, legati alla maggiore o minore concentrazione di zuccheri e al loro svilupparsi dall’amido nella fase di maturazione. Impongono spesso tempi di consumo più stretti o comunque diversi da quelli delle banane cui siamo abituati e anche per questo c’è una certa ritrosia alla produzione da parte dei grandi esportatori.
    Il mercato delle banane è controllato da alcune grandi aziende che determinano di fatto i successi delle varietà in circolazione, e che sono molto affezionate alle Cavendish, le più richieste dai loro clienti. L’Unione Europea è il principale importatore di banane e si stima che nel 2023 ne abbia importati circa 5 milioni di tonnellate, pari al 27 per cento delle importazioni totali seguita da Stati Uniti (22 per cento) e Cina (10 per cento). LEGGI TUTTO

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    Davvero ci servono tutte queste proteine?

    Caricamento playerYogurt ad alto contenuto proteico, succo di frutta con proteine, passato di verdura proteico, cracker con aggiunta di proteine, gelato e dessert proteici, merendine e cereali per la colazione con proteine e perfino acqua proteica. Negli ultimi anni è aumentata enormemente la quantità di prodotti alimentari promossi per il loro contenuto di proteine, spesso con scritte molto evidenti sulle confezioni. Il messaggio che provano a trasmettere è che gli alimenti con maggiori quantità di proteine facciano bene alla salute, anche se in realtà con una normale dieta equilibrata si assumono già le giuste dosi di questi nutrienti. È una comunicazione prettamente di marketing che nel tempo è riuscita a cogliere e ad accrescere un certo interesse verso le proteine, magari contrapposte ad altri nutrienti meno apprezzati come i carboidrati e i grassi.
    Successo commercialeIl mercato dei prodotti proteici è del resto molto fiorente negli Stati Uniti e in altri paesi occidentali, compresa l’Italia. Un’indagine di mercato ha rilevato che tra giugno 2022 e giugno 2023 le indicazioni a scopo promozionale sulla presenza delle proteine erano stampate sulle confezioni di oltre 3.200 prodotti alimentari. Nello stesso periodo le vendite erano aumentate del 4,5 per cento rispetto all’anno precedente, con un valore di mercato intorno agli 1,7 miliardi di euro. La domanda era quindi in aumento, nonostante i problemi legati all’inflazione e il fatto che in media i prodotti proteici – o che si vendono come tali – siano più costosi e talvolta senza che ce ne sia veramente motivo.
    A causa di alcune diete di moda, della pubblicità e delle indicazioni promozionali praticamente su qualsiasi prodotto, le proteine sono sempre più viste come qualcosa di sano o per lo meno innocuo rispetto ad altre sostanze nutrienti. C’è in molte persone la percezione che possano essere consumate senza problemi e soprattutto che possano sostituire altri nutrienti, oppure che siano fondamentali per avere più energie o aumentare la massa muscolare, soprattutto tra chi fa sport. Mediche ed esperti osservano con preoccupazione questa nuova mania per il proteico, che potrebbe avere conseguenze sulla salute delle persone.
    Le proteine, da capoLe proteine furono descritte scientificamente in modo esteso per la prima volta alla fine degli anni Trenta dell’Ottocento dal chimico olandese Gerardus Johannes Mulder e da un suo collega, il chimico svedese Jöns Jacob Berzelius, che decise di chiamarle così dalla parola greca πρώτειος (proteios), che significa “primario”. E in effetti le proteine hanno un ruolo fondamentale nella nostra esistenza e in generale in quella degli esseri viventi.
    Fanno praticamente qualsiasi cosa: costituiscono l’impalcatura degli organismi, rendono possibile l’attività cellulare e l’esistenza degli organi e sono anche in buona parte responsabili delle loro funzioni. Dopo l’acqua, le proteine sono i costituenti biologici più abbondanti negli organismi e sono presenti in tutte le cellule, tanto da formarne il 50 per cento del peso (una volta tolta l’acqua). Ne esiste una sterminata varietà e ciascun tipo ha una funzione particolare in base alla sua forma: è sufficiente una minima differenza nel modo in cui è disposta nello spazio perché la sua funzione cambi enormemente.
    Le proteine sono formate da catene di amminoacidi, una grande famiglia di molecole organiche quindi comprendenti carbonio, azoto, ossigeno e idrogeno. Le catene si avvolgono su loro stesse in modi diversi e insieme danno una forma e di conseguenza una funzione alle proteine. Esistono centinaia di amminoacidi che combinati tra loro formano varie proteine, ma quelli necessari per far funzionare il corpo umano sono una ventina e si dividono tra:
    • non essenziali, che il nostro organismo può produrre da sé;• condizionatamente essenziali, che un organismo poco in salute ha più difficoltà a produrre;• essenziali, che non possono essere prodotti dall’organismo e devono essere quindi assunti con l’alimentazione.
    Gli amminoacidi essenziali sono nove e sono presenti in moltissimi alimenti, ma naturalmente nella forma più complessa di proteine. Con il passaggio nello stomaco e nella sezione subito successiva, il duodeno, i succhi gastrici e gli enzimi provvedono a scomporre le proteine che abbiamo assunto mangiando qualcosa e a ridurle nei loro componenti elementari, gli amminoacidi appunto. Alcuni di questi rimangono in zona per rendere possibile la produzione di nuovi enzimi che procederanno alla scomposizione delle proteine in arrivo col prossimo pasto, altri invece finiranno attraverso l’intestino nella circolazione sanguigna e saranno trasportati in altre parti dell’organismo.
    Gli amminoacidi servono infatti alle cellule per produrre nuove proteine. Le istruzioni per farlo sono contenute nel DNA: a seconda dell’ordine e degli amminoacidi, saranno prodotte proteine specifiche necessarie per assolvere ad alcune funzioni per esempio per il trasporto dell’ossigeno attraverso il sangue, oppure per svolgere compiti strutturali e di sostegno come nel caso della produzione del collagene.
    Fai-da-teIl collagene è la proteina più abbondante nei mammiferi e, oltre a costituire circa il 6 per cento del peso corporeo di una persona, è il classico esempio di come si faccia spesso fatica a capire come funzionano le proteine. Molti integratori a base di collagene fanno intendere, in modo più o meno esplicito, che assumendoli si possa aumentare le quantità di questa proteina che fa per esempio da impalcatura della pelle, migliorandone l’aspetto e riducendo gli effetti del suo invecchiamento come rughe e segni di espressione.
    Mangiare un “integratore al collagene” (ammesso che contenga veramente collagene) implica che la sostanza venga scomposta negli amminoacidi, che saranno poi utilizzati dall’organismo per produrre le proteine di cui ha bisogno e non necessariamente più collagene del solito. Gli amminoacidi che costituiscono il collagene sono inoltre presenti in molti alimenti e di conseguenza con una normale dieta si assumono già le proteine necessarie per produrlo. Senza contare che le fiale e le bottigliette di questi integratori contengono millilitri e talvolta centilitri di prodotto, un apporto limitato se consideriamo che una persona di 75 chilogrammi ha circa 4,5 chilogrammi di collagene.
    Integratori e quantitàLa stessa cosa vale per gli integratori che promettono di favorire la crescita muscolare perché contengono specifiche proteine, riconducibili in qualche modo a quelle che costituiscono i nostri muscoli e che li fanno funzionare. Negli anni sono state prodotte molte ricerche sull’effetto degli integratori proteici come barrette e polveri, senza però trovare prove convincenti per definire con esattezza gli eventuali benefici portati dalla loro assunzione.
    Più in generale, una persona in salute che segua una dieta equilibrata (nella maggior parte dei casi si riduce a mangiare un po’ di tutto con moderazione ) non ha necessità di assumere più proteine di quante già ne introduca attraverso l’alimentazione. L’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) consiglia di assumere quotidianamente 0,8 grammi di proteine per ogni chilogrammo di peso corporeo. Una persona che pesa 75 chilogrammi dovrebbe quindi assumerne circa 60 grammi al giorno. La quantità può variare in base all’età e ad altri fattori legati per esempio a quanta attività fisica si conduce (l’assunzione in questo caso tende ad aumentare per buona parte dei nutrienti, quindi anche per carboidrati e grassi).
    Gli effetti di un’assunzione eccessiva di proteine non sono ancora completamente chiari, anche se ci sono indizi per ritenere che non costituisca un particolare pericolo per le persone in salute e che sia più che altro uno spreco. A differenza dei carboidrati e dei grassi, che sotto varie forme vengono accumulati dal nostro organismo per essere utilizzati gradualmente nel tempo, gli amminoacidi in eccesso e che non vengono quindi utilizzati sono smaltiti dall’organismo. Lo smaltimento avviene per lo più attraverso l’attività del fegato e dei reni e per questo alcune ricerche si sono concentrate sul lavoro, molto intenso, che devono effettuare per indagare eventuali effetti per la salute.
    Per queste ragioni un’assunzione oltre il necessario di proteine è uno spreco, sia dal punto di vista metabolico (cioè di come funziona l’organismo e gestisce le proprie energie) sia economico nel caso in cui si utilizzino prodotti più cari che promuovono il loro alto contenuto in proteine.
    “Più proteine”Fino a qualche tempo fa l’indicazione sulle confezioni riguardava spesso prodotti specifici per gli sportivi, come barrette e polveri ad alto contenuto proteico, mentre ora le indicazioni sono presenti su moltissimi prodotti di largo consumo come latticini, minestre e legumi.
    Le aziende che realizzano molti di questi prodotti in realtà non hanno nemmeno cambiato gli ingredienti rispetto a un tempo (cioè quando non mettevano la scritta “più proteine” in bella vista sulle confezioni), ma hanno semplicemente scelto di dare maggiore evidenza alla presenza di proteine nei loro prodotti. Per accorgersene è spesso sufficiente consultare la tabella nutrizionale, che indica i valori per 100 grammi di prodotto, e confrontarla con quella di prodotti analoghi che non riportano indicazioni promozionali sulle proteine: quasi sempre la percentuale di proteine è la medesima.
    Come si nota osservando gli scaffali nei supermercati, negli ultimi anni c’è stato inoltre un certo passaggio dalle indicazioni sulla presenza di proteine in prodotti facilmente associabili a questi nutrienti, come quelli a base di carne, ad altri come appunto i legumi e i derivati del latte. Intorno al consumo di carne inizia a esserci una maggiore sensibilità, sia per questioni di salute sia legate all’impatto ambientale della sua produzione, di conseguenza i produttori hanno preferito spostare l’attenzione verso prodotti percepiti come meno controversi. Nel farlo hanno però quasi sempre scelto di mettere in evidenza il concetto di “proteine in più” rispetto a quello della possibilità di alimentarsi in modo diverso, riducendo o eliminando del tutto il consumo di carne.
    I nove amminoacidi essenziali sono disponibili in quantità sufficienti nelle proteine derivate dagli animali, come carne di vario tipo, latticini e uova. La soia, molto utilizzata nelle preparazioni vegetariane e vegane, contiene tutti questi amminoacidi, mentre molti altri alimenti vegetali ne contengono alcuni in alte quantità e altri in basse dosi a seconda dei casi. Il loro consumo in combinata permette di solito di ottenere tutti gli amminoacidi necessari, anche se per alcuni vegetali è necessario un consumo lievemente più alto rispetto a quello dei prodotti derivanti in qualche modo dagli animali. Un pacco di edamame (i fagioli acerbi della soia) che mette in bella evidenza la scritta “proteine” sta comunque promuovendo qualcosa di ovvio e naturale, difficilmente un tipo di edamame più proteico di quello dei concorrenti.
    Un più alto consumo di proteine, in alcuni casi molto al di sopra delle linee guida, può rendersi necessario nel caso di particolari problemi di salute. Ci sono per esempio persone che hanno problemi di assorbimento dei nutrienti e devono quindi aumentare alcune dosi per compensare.
    Il maggior successo dei prodotti che promuovono le proteine viene osservato con attenzione dagli esperti e dalle istituzioni sanitarie, visto che come tutte le mode legate al cibo potrebbe avere conseguenze sul modo in cui si nutre una parte importante della popolazione soprattutto nei paesi più ricchi. In questi anni ci si è anche interrogati sul successo delle proteine dal punto di vista commerciale. L’ipotesi più condivisa è che fossero le candidate ideali per avere successo nella ristretta famiglia dei macronutrienti, che oltre alle proteine comprendono i grassi e i carboidrati,
    Il nostro organismo non può fare a meno di queste sostanze, ma dopo avere demonizzato prima i grassi e poi i carboidrati, indicati come i principali responsabili del sovrappeso e dell’obesità, le proteine sono diventate il macronutriente ideale da promuovere come qualcosa di sano e desiderabile per sentirsi meglio. E tutto questo nonostante negli alimenti non ci siano solamente le proteine, ma anche i carboidrati e i grassi in proporzioni diverse a seconda dei casi, come è evidente dalle schede nutrizionali sul retro delle confezioni che promettono un mondo bellissimo fatto di proteine. LEGGI TUTTO

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    Weekly Beasts

    Allo zoo di Londra ha aperto una nuova sezione dedicata a rettili e anfibi, che è stata l’occasione per fotografare due tipi di rane: le rane artigliate del lago Oku e una rana dal colore blu elettrico conosciuta come indio di okopipi. Allo zoo di Miami invece è stato fotografato il primo esemplare di podargo strigoide che è nato nella struttura un mese fa: è un uccello simile alle civette con le quali viene spesso confuso. Come era prevedibile poi, in vista di Pasqua, alcuni zoo si sono attrezzati con uova pasquali da offrire agli animali, come nel caso del macaco che se ne porta via due e della mangusta che ne studia un’altra. Poi cani e uccelli addestrati, un capricorno del Giappone e un grande artibeo, un pipistrello. LEGGI TUTTO

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    La polvere del Sahara fa molte cose in giro per il mondo

    Caricamento playerTra mercoledì e giovedì in molte zone del Sud Italia il cielo è stato offuscato dal venti che hanno portato verso l’Italia grandi quantità di polvere dal deserto del Sahara, in Nord Africa. È un fenomeno tutt’altro che raro: nei deserti ci sono grandi quantità di sedimenti leggeri e secchi, polveri appunto, che possono essere sollevate dal vento fino a migliaia di metri d’altezza e poi trasportate oltre mari e oceani.
    Dal solo Sahara, che è il deserto più grande del mondo, proviene più di metà della polvere presente nell’atmosfera della Terra. A seconda delle stagioni dell’anno, che influenzano le direzioni dei venti, le sue polveri sono trasportate in diverse direzioni: l’inizio della primavera è il periodo in cui succede più spesso che arrivino in Europa. Ma l’offuscamento dei cieli (e le eventuali conseguenze sulla qualità dell’aria) è solo uno degli effetti della polvere sahariana, che forse contribuisce alla crescita della vegetazione in Amazzonia ma anche alla fusione dei ghiacciai delle Alpi. Si pensa inoltre che influenzi il clima in vari modi, forse contrastando la formazione di tempeste tropicali nell’Atlantico, anche se gli studi sull’argomento sono ancora in corso.
    Quando si parla di polvere proveniente dal Sahara non bisogna immaginare la sabbia delle dune che solitamente associamo a questo deserto: i granelli di sabbia sono troppo pesanti per essere sollevati all’altezza delle correnti atmosferiche. La polvere è fatta di particelle molto più piccole che si accumulano nelle zone pianeggianti dei deserti, dove magari anticamente si trovavano dei laghi, come la depressione Bodélé, nel nord del Ciad.
    Polvere sahariana diretta verso l’Italia fotografata dal satellite Sentinel-3 il 28 marzo 2024 (Unione Europea, Copernicus Sentinel-3)
    L’effetto forse più stupefacente del trasporto di questa polvere attraverso l’atmosfera è la concimazione del fitoplancton dell’Atlantico, cioè dei microrganismi vegetali che vivono negli strati superficiali delle acque marine. Infatti le polveri sahariane contengono sostanze importanti per la crescita delle piante, come il fosforo, il ferro e l’azoto. Uno studio pubblicato l’anno scorso sulla rivista Science ha trovato una corrispondenza tra l’arrivo di polveri dal deserto e i periodi di grande crescita del fitoplancton, che si possono osservare dalle fotografie satellitari grazie al colore verde della clorofilla prodotta da questi organismi.
    Questo significa che il Sahara contribuisce alla vita negli oceani, perché il fitoplancton è alla base della catena alimentare marina, oltre ad assorbire anidride carbonica (la CO2, il principale gas serra) dall’atmosfera.
    C’è poi un dibattito tuttora aperto all’interno della comunità scientifica sul ruolo di concime che le polveri sahariane potrebbe svolgere in un altro contesto, cioè la foresta pluviale dell’Amazzonia. È uno degli ambienti della Terra in cui crescono più piante e più specie di piante diverse, tuttavia ha un suolo molto povero di sostanze nutritive: le piante quindi ricavano ciò di cui hanno bisogno per crescere dai resti di piante morte, che però vengono in parte portati via dalla pioggia e dai corsi d’acqua. Per questo da decenni si ritiene che la mancanza di nutrienti debba essere compensata anche da ciò che arriva attraverso l’atmosfera.
    Almeno per una parte dell’Amazzonia questo nutrimento arriverebbe proprio dalle polveri sahariane, secondo alcuni studi: nel 2015, usando dei dati satellitari, un gruppo di scienziati della NASA aveva stimato che in media ogni anno 22mila tonnellate di fosforo proveniente dal Sahara arrivino nell’Amazzonia.
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    La polvere sahariana che raggiunge le coste americane ci arriva con il cosiddetto “strato d’aria sahariana”, una massa d’aria calda e secca che tra la fine della primavera e l’inizio dell’autunno è periodicamente sospinta dal Sahara verso ovest. Si ritiene che quest’aria contribuisca alle condizioni meteorologiche dell’Atlantico e delle regioni che lo circondano, sebbene non sia ancora del tutto chiaro in quali modi.
    Prima di tutto si pensa che la polvere sospesa nell’atmosfera schermi la luce solare. Facendo ombra la polvere causa probabilmente un abbassamento della temperatura, ma al tempo stesso l’assorbimento della radiazione solare da parte delle particelle di polvere potrebbe anche provocare un riscaldamento localizzato nella porzione dell’atmosfera in cui si trovano. Non si sa ancora se il bilancio netto di questi effetti sia un riscaldamento o un raffreddamento.
    Allo stesso tempo non si sa bene in che modo la polvere sahariana influenzi la formazione di tempeste tropicali nell’Atlantico (ed eventualmente uragani, le tempeste tropicali più intense). In teoria la presenza di polvere nell’atmosfera dovrebbe favorire la formazione di nubi, perché le piccole quantità di acqua liquida che le formano hanno bisogno di particelle solide nell’aria attorno a cui condensare. Al tempo stesso però la temperatura relativamente alta dello strato d’aria sahariana e la sua bassa umidità potrebbero moderare lo sviluppo delle tempeste, legate allo spostamento di masse d’aria molto umida.
    Polvere sahariana sulla neve dei Pirenei francesi, il 16 marzo 2022 (Borja Delgado/Dersu.uz/via ZUMA Press, ANSA)
    Si sa invece che la polvere sahariana può accelerare i processi di fusione, cioè di scioglimento, delle nevi e dei ghiacci dei Pirenei e delle Alpi, le principali catene montuose europee. Posandosi sulla neve e sul ghiaccio infatti la polvere riduce l’albedo, cioè la quantità di radiazione solare riflessa nell’atmosfera: significa che una maggiore quantità di energia viene assorbita dalla neve e dal ghiaccio, che così fondono.
    Secondo uno studio del 2019, pubblicato sulla rivista The Cryosphere e realizzato da un gruppo di ricerca internazionale di cui fanno parte alcuni scienziati dell’Università Bicocca di Milano, le polveri sahariane riducono il periodo dell’anno in cui le Alpi sono coperte da nevi e per questo possono avere degli effetti sugli equilibri idrogeologici della regione e, tra le altre cose, rendere il Nord Italia più vulnerabile alle siccità estive.
    La neve di una pista da sci di fondo di La Fouly, in Val Ferret, Svizzera, vicino al confine con l’Italia, colorata dalle polveri sahariane, il 6 febbraio 2021 (EPA/SALVATORE DI NOLFI, ANSA)
    Un altro effetto negativo della polvere del Sahara è l’abbassamento della qualità dell’aria per la salute umana che può provocare se si trova relativamente a bassa quota nell’atmosfera. È un problema che può riguardare soprattutto i paesi del Mediterraneo meridionale come la Spagna e l’Italia. Le polveri sahariane infatti hanno le dimensioni del particolato, le particelle solide e liquide che rappresentano una delle forme di inquinamento dell’aria e possono causare danni all’apparato respiratorio umano se inalate in quantità abbondanti.
    Per questo nelle regioni più colpite dall’arrivo delle polveri sahariane, come le isole Canarie, che si trovano nell’Atlantico al largo dell’Africa nord-occidentale, vengono diffuse allerte meteorologiche apposite per segnalare la loro presenza: in quei giorni le persone sono invitate dalle autorità a stare il più possibile al chiuso. Alle Canarie i venti che trasportano le polveri hanno anche un nome specifico: calima.
    Proprio in Spagna la polvere sahariana e i suoi effetti sono particolarmente studiati. A febbraio un gruppo di ricerca spagnolo ha pubblicato sulla rivista Science of The Total Environment uno studio secondo cui tra il 1940 e il 2021 la frequenza degli eventi atmosferici che portano polveri sahariane in Spagna è aumentata. Si ipotizza che tale aumento – particolarmente osservato negli ultimi anni, anche nell’inverno appena concluso – sia legato ad alcuni cambiamenti nella circolazione atmosferica avvenuti negli ultimi decenni. Potrebbero entrarci l’aumento della temperatura del mar Mediterraneo, che è legata al più generale riscaldamento globale, e le siccità nel Nord Africa.
    Il cielo di Monaco di Baviera reso giallo dalle polveri sahariane, il 15 marzo 2022 (Sven Hoppe/dpa, ANSA) LEGGI TUTTO