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    La NASA ha allarmato per sbaglio un po’ di gente

    Caricamento playerA causa di un inconveniente tecnico la NASA ha trasmesso in diretta per circa otto minuti sul proprio canale ufficiale della Stazione Spaziale Internazionale (ISS) una simulazione su un’emergenza sanitaria a bordo, senza specificare che si trattasse di un test. Molte persone hanno quindi pensato che ci fosse un’effettiva emergenza e hanno segnalato il problema sui social network, generando una certa apprensione e obbligando la NASA a pubblicare un insolito messaggio per spiegare l’errore e rassicurare sulle condizioni di salute dell’equipaggio sulla ISS.
    La simulazione di emergenza era stata trasmessa intorno alle 00:30 (ora italiana) di giovedì, con la segnalazione di una malattia da decompressione che aveva coinvolto un astronauta a bordo della Stazione. Una persona dal centro di controllo di Hawthorne, in California, si era identificata come medica di bordo e aveva poi iniziato a fornire alcuni consigli sulle pratiche da seguire in orbita. Aveva suggerito di fare indossare all’astronauta una delle tute per le attività extraveicolari (quelle che vengono comunemente definite “passeggiate spaziali”), in modo da pressurizzarla e iniziare un trattamento con l’ossigeno per ridurre i sintomi dovuti alla decompressione.
    La medica aveva aggiunto che la prognosi per l’astronauta non era incoraggiante e che sarebbe stato necessario un suo rientro anticipato sulla Terra, in modo da poterlo sottoporre ad altri trattamenti in ospedale. La malattia da decompressione si verifica quando ci si sottopone a una rapida riduzione della pressione nell’ambiente, per esempio in seguito a un’emersione rapida da una certa profondità nell’acqua, tale da far sì che i gas normalmente disciolti nel sangue o nei tessuti formino piccole bolle all’interno dei vasi sanguigni che possono provocare danni importanti.
    La ISS è costantemente pressurizzata rispetto all’ambiente spaziale circostante e così lo sono le tute da indossare per le attività extraveicolari. Gli astronauti si sottopongono a lunghe ore di preparazione prima di una attività all’esterno della Stazione anche per acclimatarsi alle diverse condizioni di pressione. Perdite nella tuta o in alcuni ambienti della ISS potrebbero causare una malattia da decompressione e per questo si effettuano test e simulazioni per garantire la sicurezza degli equipaggi.
    Dopo otto minuti circa di trasmissione accidentale della simulazione senza avvertenze, la NASA ha diffuso un comunicato per smentire le notizie su un’emergenza a bordo e spiegare l’errore:
    Non è in corso alcuna situazione di emergenza a bordo della Stazione Spaziale Internazionale. Intorno alle 00:28 l’audio è stato trasmesso sul live streaming della NASA da un canale audio di simulazione a terra indicando che un membro dell’equipaggio stava sperimentando effetti legati alla malattia da decompressione (MDD). Questo audio è stato inavvertitamente deviato da una simulazione in corso in cui i membri dell’equipaggio e le squadre di terra si addestrano per vari scenari nello spazio e non è correlato a un’emergenza reale. In quel momento i membri dell’equipaggio della Stazione Spaziale Internazionale erano nel periodo di sonno.
    La simulazione era quindi avvenuta esclusivamente a terra e non aveva coinvolto in alcun modo l’equipaggio sulla ISS, che in quelle ore stava dormendo in vista di una attività extraveicolare programmata per giovedì. Attualmente a bordo della Stazione ci sono sei astronauti statunitensi e tre cosmonauti russi. LEGGI TUTTO

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    Le zanzare invasive sono sempre più diffuse in Europa

    Caricamento playerIl Centro europeo per la prevenzione e il controllo delle malattie (ECDC), l’agenzia indipendente dell’Unione Europea che si occupa principalmente di malattie infettive, ha pubblicato i dati riguardanti la diffusione nel 2023 di diversi tipi di zanzare e delle malattie che trasmettono. Come nell’anno precedente è cresciuta la diffusione di dengue e febbre West Nile, due malattie infettive di origine tropicale trasmesse dalle zanzare che provocano quasi sempre sintomi minimi o lievi, ma possono essere rischiose per le persone fragili. Sono aumentate anche le aree in cui è diffusa la zanzara tigre, una specie originaria dell’Asia ma ormai stabilmente diffusa in Europa meridionale, responsabile delle trasmissioni della dengue e di altre malattie.
    Le zanzare invasive come la zanzara tigre (il cui nome scientifico è Aedes albopictus) sono arrivate in Europa inizialmente attraverso i commerci internazionali: la loro diffusione è però stata favorita da certe pratiche di gestione del territorio ma anche dal cambiamento climatico. In diverse regioni europee oggi la stagione calda dura più a lungo e le giornate sono più calde e umide rispetto a qualche anno fa: sono tutte condizioni che favoriscono la diffusione delle zanzare invasive.
    Per quanto riguarda la dengue, una malattia di origine tropicale per cui non ci sono cure specifiche, ma che comunque risulta grave o letale solo raramente, nel 2023 i casi nell’Unione Europea sono stati 130: sono quasi raddoppiati dal 2022, quando furono 71. Per tutto il periodo dal 2010 al 2021 in tutti i paesi dell’Unione insieme a Islanda, Liechtenstein e Norvegia i casi furono 73.
    Anche i casi “importati”, cioè contratti in paesi extraeuropei da persone che sono poi ritornate in Europa, sono aumentati: nel 2023 sono stati più di 4.900, mentre nel 2022 furono 1.572. Quello del 2023 è il numero di casi importati più alto dall’inizio delle registrazioni a livello europeo, nel 2008. Nei primi mesi del 2024 in molti paesi europei i casi importati sono aumentati ulteriormente, cosa che potrebbe portare i numeri del 2024 a superare quelli dell’anno precedente. Quest’anno in Italia i casi di dengue sono stati 197, tutti importati, e non ci sono state morti associate alla malattia.
    Nel 2023 sono stati registrati 713 casi di febbre West Nile in nove paesi dell’Unione Europea, di cui 332 in Italia. Sono meno rispetto ai 1.133 casi europei del 2022 (che fu il secondo anno con il numero maggiore di casi, dopo il 2018), ma sono stati registrati in un numero più alto di regioni: 123, in 22 delle quali la West Nile è stata registrata per la prima volta.
    A differenza della dengue, quasi tutti i casi di febbre West Nile vengono contratti direttamente in Europa. Nella maggior parte delle persone infette la malattia non provoca sintomi; solo un quinto dei contagiati ne mostra qualcuno, solitamente lieve. In rari casi il virus può causare convulsioni, paralisi e coma, e in quelli più gravi, che riguardano generalmente persone anziane o debilitate per altre ragioni, può essere letale ed è bene prevenirne la diffusione anche perché come per la dengue non esiste una cura specifica.

    – Leggi anche: A cosa servono le zanzare?

    Questi dati non indicano che ci si debba allarmare per questi virus, ma le autorità sanitarie devono comunque tenere conto dei fattori che favoriscono l’aumento dei rischi e prevenirli, ad esempio con iniziative per il controllo delle popolazioni di zanzare e con l’informazione. Fra i metodi che anche i cittadini possono usare per limitare la diffusione delle zanzare c’è la rimozione dell’acqua stagnante da posti come giardini e sottovasi: le zanzare infatti depongono le proprie uova in luoghi umidi, come può essere il sottovaso di una pianta.
    Non tutte le specie di zanzare possono essere vettori di malattie, cioè contribuire alla loro trasmissione da persona a persona. Tra le specie autoctone europee, la zanzara comune (Culex pipiens) può fare da vettore al virus della febbre West Nile, mentre notoriamente le specie europee del genere Anopheles possono trasmettere la malaria se diffusa – l’Italia ne fu dichiarata libera dall’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) nel 1970 dopo diversi anni con assenza di casi. Invece la principale specie invasiva, la zanzara tigre, può fare da vettore per il virus della dengue, oltre che per quello della chikungunya, che ha caratteristiche simili alla dengue, e il virus Zika, che invece può avere conseguenze più gravi.

    – Leggi anche: Non bisogna allarmarsi per le zanzare che possono trasmettere la malaria trovate in Puglia

    La zanzara tigre, riconoscibile dalle visibili macchie bianche da cui prende il nome comune, è ben presente in Italia da più di trent’anni: originaria dell’Asia orientale, si è diffusa per via del trasporto accidentale delle sue uova dentro pneumatici usati e piante ornamentali commerciate tra continenti diversi. L’interno di uno pneumatico con un po’ d’acqua è un luogo ideale per le uova delle zanzare tigre, che possono resistere a temperature molto diverse e in assenza di acqua anche per mesi, e quindi nella stiva di una nave ad esempio.
    La diffusione della zanzara tigre in Europa: è ben presente nelle regioni indicate in rosso, assente da quelle indicate in verde, appena introdotta in quelle indicate in giallo (ECDC)
    In alcuni paesi europei la zanzara tigre non c’è ancora, ma sta pian piano espandendo il proprio areale, cioè la zona in cui prospera: negli ultimi dieci anni è arrivata in cinque nuovi paesi europei. Questo è dovuto in parte all’aumento delle temperature medie ma in parte anche alla capacità della zanzara di adattarsi a temperature più fredde.
    Ci sono poi altre tre specie di zanzare invasive che si sono stabilite in alcune regioni europee. Due sono arrivate anche in Italia, dove infatti sono state citate più volte sui giornali negli ultimi anni: la zanzara giapponese (Aedes japonicus) e la zanzara coreana (Aedes koreicus). Entrambe possono essere confuse con la zanzara tigre perché hanno a loro volta delle macchie bianche; per il momento sono presenti in diverse zone del Nord Italia (quella coreana un po’ più di quella giapponese).
    La zanzara giapponese è originaria di vari paesi dell’Asia orientale e non solo del Giappone. Sopporta bene anche le temperature che si registrano d’inverno nelle regioni temperate e può sopravvivere in assenza di acqua stagnante, a differenza della zanzara tigre. Grazie a queste caratteristiche si è stabilita negli Stati Uniti e nell’Europa centrale, dove è arrivata a partire dagli anni Novanta grazie ai commerci internazionali. Si sa che potrebbe a sua volta fare da vettore per i virus della febbre West Nile, della dengue e della chikungunya.
    La zanzara coreana, un po’ più presente in Italia ma meno in Europa rispetto a quella giapponese, ha cominciato a diffondersi più di recente ma sembra a sua volta più capace di sopportare temperature basse rispetto alla zanzara tigre. In alcune zone della Russia ha trasmesso un virus che causa l’encefalite che però non è presente in Europa. Come le altre specie del genere Aedes è attiva anche nelle ore diurne.
    La diffusione della zanzara coreana in Europa (ECDC)
    Una specie di zanzara più preoccupante per l’ECDC è la cosiddetta zanzara della febbre gialla (Aedes aegypti), che è originaria dell’Africa, ha a sua volta macchie bianche ed è ritenuta la più pericolosa per il trasporto dei virus; la malattia da cui prende il nome peraltro ha sintomi più gravi rispetto alla febbre West Nile e alla dengue. Da tempo la zanzara della febbre gialla si è espansa lungo le coste orientali del mar Nero, in alcune regioni della Russia, della Georgia e della Turchia, e recentemente anche a Cipro – l’isola del Mediterraneo orientale che è anche un paese membro dell’Unione Europea.
    Per questa come per le altre specie il fatto che sia presente non comporta necessariamente la trasmissione di malattie e in particolare la trasmissione della febbre gialla, il cui virus non è presente in Europa.

    – Leggi anche: Perché certe zanzare preferiscono pungere noi invece che altri animali LEGGI TUTTO

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    C’è un po’ troppa preoccupazione per il vermocane

    Caricamento playerDa alcuni mesi è stata segnalata nel Mediterraneo una maggiore presenza del vermocane, un piccolo animale marino descritto come vorace e in grado di causare punture particolarmente dolorose. Le notizie sui suoi frequenti avvistamenti, per lo più da parte dei pescatori, hanno suscitato una certa attenzione e qualche apprensione, complici titoli e articoli di giornale con toni alquanto allarmati in vista della stagione balneare, anche se in realtà le probabilità di incontro con i vermocani durante una nuotata sono basse, così come il rischio di essere urticati dalle loro setole.

    – Ascolta anche: La puntata di “Ci vuole una scienza” dedicata al vermocane

    I vermocani appartengono alla specie Hermodice carunculata, che a sua volta fa parte della grande classe dei policheti, comprendente circa 13mila specie diverse, ottomila delle quali sono presenti nel Mediterraneo. La loro presenza, in particolare lungo le coste del sud Italia, è attestata da almeno un paio di secoli e il loro nome può variare a seconda delle regioni e delle zone. Talvolta vengono chiamati “vermi di fuoco” o “vermi di mare”, per via della loro particolare forma e della loro colorazione rossastra.
    A prima vista un vermocane ricorda un millepiedi. Il suo corpo è infatti schiacciato e suddiviso in segmenti, il cui numero varia a seconda della lunghezza degli individui. Considerato che un vermocane adulto può raggiungere i 15-30 centimetri, i segmenti che lo costituiscono possono arrivare a 150. Ciascuno dei segmenti è dotato di “parapodi”, cioè delle piccole appendici muscolari che i vermocani utilizzano per muoversi sul fondale e per accennare qualche movimento quando una corrente li mantiene sospesi nell’acqua.
    (Wikimedia)
    Ogni segmento è inoltre ricoperto di setole minuscole che si ritiene contengano tossine urticanti, che questi animali utilizzano per difendersi dai predatori. I vermocani si muovono infatti molto lentamente sul fondale e in questo modo riescono a ridurre il rischio di essere cacciati da altri animali. Al tempo stesso, il sistema di difesa consente a questi animali di avvicinarsi alle prede, solitamente ricci di mare, molluschi, stelle di mare (echinodermi) e all’occorrenza pesci. I vermocani si muovono tra le alghe, i coralli e le rocce del fondale fino a 40 metri di profondità, anche se spesso possono essere osservati nelle acque più superficiali dove può avvenire qualche incontro con chi ha deciso di fare una nuotata.
    Le setole dei vermocani sono molto delicate e si spezzano facilmente quando entrano in contatto con qualcosa, compresa la pelle umana. Si conficcano negli strati più esterni della pelle e causano in poco tempo una forte irritazione, che viene di solito descritta come paragonabile a quella causata da alcune specie di meduse, anche se meno dolorosa. Nella zona interessata dal contatto si hanno una forte sensazione di bruciore e di prurito, talvolta accompagnata da un intorpidimento dove si sono conficcate le setole. Solo in casi rari possono esserci nausea e una sensazione di affanno, magari indotta dallo stress conseguente all’incontro imprevisto con un animale poco conosciuto e dall’aspetto poco incoraggiante.

    Non è ancora completamente chiaro se siano solamente le setole a causare l’irritazione o alcune sostanze al loro interno, probabilmente urticanti. Nel caso di un contatto viene comunque consigliato di provare a rimuovere le setole utilizzando del nastro adesivo, da applicare sulla parte e rimuovere nella direzione verso cui puntano le setole. L’uso di un panno caldo può aiutare a denaturare le eventuali sostanze urticanti, cioè a modificarne le caratteristiche fisiche in modo da ridurne l’effetto; viene anche suggerito l’uso di alcol sulla parte interessata per provare ad alleviare il dolore.
    I rischi derivanti da un contatto con vermocani sono stati esagerati su alcuni giornali, così come i racconti sull’effettiva probabilità di entrare in contatto con questi animali. I vermocani sono per lo più animali notturni e di giorno si nascondono sotto gli scogli, particolare che rende ulteriormente difficile un contatto diretto. L’aumento segnalato, e da verificare, della loro popolazione nel Mediterraneo da parte dei pescatori è invece valutato con attenzione perché potrebbe indicare qualche rischio per alcune specie ittiche, vista la voracità dei vermocani. La loro maggiore presenza è stata indicata già da un paio di anni da chi effettua la pesca lungo le coste di Sicilia, Calabria, Puglia e Campania.
    Per verificare la distribuzione e la popolazione di vermocani nel Mediterraneo, da qualche tempo l’Istituto nazionale di oceanografia e di geofisica sperimentale gestisce il progetto “Worms Out” in collaborazione con altre istituzioni ed enti di ricerca. L’iniziativa serve a raccogliere dati ecologici e biologici, sia attraverso le segnalazioni degli avvistamenti sia tramite l’utilizzo di trappole collocate in mare. Per le segnalazioni è possibile utilizzare l’applicazione per smartphone avvistAPP, già sviluppata per il tracciamento di specie ittiche nel Mediterraneo. È stato inoltre preparato un questionario per valutare il livello di conoscenza e la quantità di avvistamenti da parte della popolazione.
    La raccolta di dati sarà importante per stimare l’andamento della popolazione di vermocani nel tempo, approfondendo le possibili cause del loro aumento. Il principale indiziato è l’aumento della temperatura media del Mediterraneo dovuto al riscaldamento globale. Il Mediterraneo è tra i bacini che si stanno scaldando più velocemente sul pianeta e le maggiori temperature favoriscono la proliferazione di alcune specie, talvolta a scapito di altre. LEGGI TUTTO

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    Il ritorno dei cavalli selvatici in Asia centrale

    Caricamento playerSette cavalli di Przewalski, appartenenti a quella che si ritiene essere l’ultima varietà di cavalli selvatici ancora esistente, sono stati trasferiti dagli zoo di Berlino e Praga, in Europa, alle steppe del Kazakistan, un grosso paese dell’Asia centrale occupato in gran parte da deserti e pianure che probabilmente è il loro luogo di origine. Fino a pochi anni fa i cavalli di Przewalski vivevano solo in cattività, ma dai primi anni Duemila grazie a una serie di trasferimenti dagli zoo europei ora ne esiste una popolazione libera in Mongolia e in Cina: in Kazakistan vogliono fare lo stesso.
    Il viaggio dei cavalli è durato circa 25 ore: 18 in aereo fino in Kazakistan, e poi altre 7 di camion fino alla zona in cui vivranno per il prossimo anno. Per tutto quel tempo hanno dovuto rimanere in piedi: in teoria dovevano essere trasferiti otto cavalli, ma uno di loro è dovuto rimanere a Praga perché si era seduto prima di salire sull’aereo (rimanere seduti a lungo può causare problemi di circolazione nei cavalli). Ora per circa un anno saranno tenuti sotto osservazione in una riserva di 80 ettari, così da accertarsi che resistano al freddo e ai parassiti e che siano capaci di procurarsi autonomamente da mangiare anche sotto la spessa coltre di neve che cade in inverno da quelle parti.
    Il gruppo è composto da due giumente (cioè femmine adulte di cavallo) e uno stallone (un maschio) provenienti dallo zoo di Praga, e da quattro giumente dallo zoo di Berlino. Inizialmente queste ultime non potranno accoppiarsi con lo stallone, ma è prevista l’introduzione di altri maschi, così da aumentare la diversità genetica della popolazione.
    Cavalli di Przewalski reintrodotti in Russia, mentre vengono nutriti dal presidente russo Vladimir Putin (Alexei Druzhinin/Sputnik, Kremlin Pool Photo via AP)
    I cavalli di Przewalski (Equus ferus przewalskii) sono una specie o quantomeno una sottospecie distinta dal comune cavallo domesticato (Equus ferus caballus), cioè quello che tutti conosciamo, diffuso in tutto il mondo. Anche i cavalli comunemente chiamati “selvatici”, come i mustang degli Stati Uniti, sono in realtà inselvatichiti: discendono cioè da cavalli domestici fuggiti dai loro allevatori. Anche se ora vivono in libertà e non hanno contatti o quasi con gli umani fanno comunque parte della stessa specie, che nella classificazione scientifica è chiamata Equus ferus caballus.
    In realtà c’è chi dice che anche i cavalli di Przewalski siano inselvatichiti. Infatti anche se in tempi recenti non vivevano come animali di allevamento, le tracce archeologiche indicano che alcuni di loro lo furono, più di 5mila anni fa, da una popolazione umana dell’età del rame che viveva nell’attuale Kazakistan.
    Rispetto ai cavalli comuni, quelli di Przewalski sono un po’ più piccoli, hanno la criniera più ispida, e hanno anche due cromosomi in meno, ma sono comunque in grado di produrre prole fertile se si accoppiano con i cavalli comuni. C’è quindi qualche dubbio se classificarli scientificamente come una sottospecie di Equus ferus (come è il cavallo comune, Equus ferus caballus), o considerarla proprio una specie diversa, chiamata Equus przewalskii.

    – Leggi anche: Non siamo così d’accordo su cosa sia davvero una specie

    In realtà questi cavalli non sono mai stati osservati scientificamente in Kazakistan: da quando sono stati identificati scientificamente come una specie diversa dal cavallo domesticato sono stati visti solo nelle aree desertiche e montane della Mongolia e della Cina. È comunque ritenuto che il loro luogo di origine siano proprio le steppe, le grandi pianure semiaride che si estendono dall’Ucraina alla Mongolia passando anche dal Kazakistan, e che i cavalli selvatici si siano ritirati in aree più inospitali qualche secolo fa, in seguito ai conflitti con esseri umani e bestiame e ai cambiamenti del clima.
    La Mongolia è stata quindi la prima destinazione dei programmi di reintroduzione nel loro habitat originario. Altri programmi sono stati messi in atto nel nordovest della Cina, in Xinjiang, già da prima del 2000, e nella regione russa di Orenburg, al confine con il Kazakistan, nel 2016. Nel 2008 l’Unione Internazionale per la Conservazione della Natura (IUCN), l’ente internazionale riconosciuto dall’ONU che valuta quali specie animali e vegetali rischiano l’estinzione, ha modificato la classificazione dei cavalli di Przewalski da “estinto in natura” a “in pericolo critico”. Un ulteriore aggiornamento nel 2011 ha portato alla classificazione come “minacciati”.
    Pur essendosi estinti in natura, nel Novecento erano state create popolazioni piuttosto consistenti di cavalli di Przewalski anche in Europa, sia negli zoo che in aree protette più ampie. Ne esiste una nel sud della Francia, molto attiva nel fornire cavalli per i programmi di reintroduzione (una delle giumente mandate in Kazakistan dallo zoo di Berlino è originaria di qui), ma le più grandi sono in Ucraina.
    Una è quella di Askania Nova, nella regione di Kherson, nel sud del paese, la più grande d’Europa. L’altra si trova nella Zona di esclusione di Chernobyl, l’area attorno alla centrale nucleare rimasta disabitata dagli umani dopo il famoso incidente, e diventata nel tempo una sorta di riserva naturale.
    L’Ucraina e il sud della Russia sono peraltro l’ultimo posto in cui sopravvisse una varietà europea di cavallo selvatico: il tarpan, che si estinse alla fine dell’Ottocento. Anche in questo caso l’etichetta di “selvatico” è un po’ dibattuta: è probabile che discendessero da commistioni fra cavalli puramente selvatici e cavalli inselvatichiti. Secondo alcuni il cavallo comune discende proprio da dei tarpan domesticati diversi millenni fa.
    I programmi di reintroduzione dei cavalli di Przewalski avvengono anche all’interno dell’Europa, in habitat diversi da quelli originari dei cavalli. Nel 2023 un gruppo è stato portato dalla Francia agli altopiani della Spagna: l’idea è quella che i cavalli contribuiscano a limitare la diffusione di alcuni cespugli, che in certi casi possono aumentare il rischio di incendi. Prima lo facevano le pecore, che però sono diminuite con il depopolamento rurale e il declino della pastorizia.
    Anche nelle steppe la reintroduzione del cavallo selvatico dovrebbe portare diversi benefici ecologici. Filip Mašek, portavoce dello zoo di Praga, ha detto al Guardian che i cavalli disperdono i semi delle piante scavando con gli zoccoli il terreno per procurarsi da mangiare, e anche nella loro cacca. Il loro letame inoltre contribuisce a fertilizzare il terreno. Insomma per quanto la reintroduzione artificiale di specie estinte in una certa area abbia sempre il potenziale di creare squilibri in un ecosistema, la reintroduzione dei cavalli nella steppa kazaka potrebbe portare benefici più ampi di quelli riguardanti la singola specie.

    – Leggi anche: Cosa sappiamo del ritorno dei castori in Toscana LEGGI TUTTO

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    Il problema nello studiare gli psichedelici

    Martedì scorso la Food and Drug Administration (FDA), l’agenzia governativa di regolamentazione dei farmaci e del cibo negli Stati Uniti, ha giudicato insufficienti le prove presentate dall’azienda statunitense Lykos Therapeutics per sollecitare l’approvazione di una medicina a base di Mdma, la sostanza psicoattiva nota anche come ecstasy, per la cura del disturbo da stress post-traumatico (PTSD). La notizia ha sorpreso diversi osservatori, perché le prove esaminate erano due studi clinici rigorosi: nessuno dei due dimostra l’efficacia della terapia, secondo il comitato consultivo della FDA, perché i rischi supererebbero i benefici.Da diversi anni la cura di alcune malattie mentali come il PTSD e la depressione attraverso gli psichedelici è oggetto di studi incoraggianti e investimenti cospicui. Per la cura del PTSD, un disturbo che riguarda circa il 3,9 per cento della popolazione mondiale e circa 13 milioni di persone solo negli Stati Uniti, la terapia a base di Mdma è peraltro già disponibile in Australia. Ma il giudizio espresso dalla FDA, ha scritto il New York Times, ha attirato una certa attenzione verso un limite degli studi su queste sostanze: il fatto che difficilmente una persona può avere il ragionevole dubbio di aver preso un placebo anziché uno psichedelico.
    L’Mdma non è propriamente uno psichedelico, perché ha effetti soprattutto stimolanti, diversi da quelli di sostanze come l’Lsd o la psilocibina. Appartiene però a una classe farmacologica che include anche sostanze che alterano le capacità sensoriali, e condivide con gli psichedelici diversi aspetti socioculturali relativi all’uso. Gli studi esaminati dalla FDA, come tutti quelli solitamente più attendibili e citati, erano studi controllati randomizzati (randomized controlled trial, RCT), cioè il tipo di studio clinico più adatto a ridurre pregiudizi e distorsioni nella valutazione dei risultati della sperimentazione di una cura. In pratica le persone che partecipano agli studi di questo tipo vengono assegnate casualmente o a un gruppo che riceve il trattamento oggetto della sperimentazione, o a un gruppo che riceve un placebo. Se lo studio è “cieco”, le persone non sanno se sono state assegnate a un gruppo o a un altro (e se è “doppio cieco”, non lo sanno nemmeno gli sperimentatori).

    – Leggi anche: Le aziende che sviluppano farmaci a base di sostanze psichedeliche vanno forte in borsa

    Negli studi sottoposti all’attenzione del comitato consultivo della FDA il campione di partecipanti era formato da persone da tempo malate di PTSD. La sperimentazione prevedeva che tutte si sottoponessero a sessioni di terapia cognitivo-comportamentale intensiva, uno degli approcci di psicoterapia più diffusi, e che durante la terapia un gruppo di partecipanti assumesse il farmaco a base di Mdma e l’altro gruppo un placebo. I risultati mostrarono che le persone del primo gruppo avevano il doppio delle probabilità di guarire dal PTSD rispetto alle persone del secondo gruppo.
    Ma il problema degli studi controllati randomizzati nel caso degli psichedelici, come ha sintetizzato l’Atlantic, è che «praticamente nessuno può assumere una sostanza psichedelica e non saperlo». Secondo alcuni studiosi il fatto che non sia possibile condurre un RCT sugli psichedelici davvero in cieco rischia di indebolire le numerose prove dell’efficacia delle terapie che circolano ormai da anni. Perché impedisce ai ricercatori di sapere se quelle prove sono valide o sono condizionate dalle grandi aspettative delle persone riguardo alla potenza degli psichedelici. Altri sostengono che tutte le sostanze psicoattive – non soltanto gli psichedelici – siano un caso utile a mostrare i limiti degli RCT in generale, quando è necessario valutare cure che agiscono sulla mente.
    Fin dagli anni Sessanta gli studi controllati randomizzati sono considerati in ambito clinico il miglior metodo per escludere che alla base del miglioramento delle condizioni di persone a cui viene somministrato un certo farmaco ci siano ragioni non farmacologiche. Una delle ragioni più note è l’effetto placebo: la fiducia del paziente in sostanze e trattamenti presentati come risolutivi di un certo problema, indipendentemente dalla loro efficacia reale. Se il paziente ha aspettative altissime su un farmaco – come alcuni pensano succeda nel caso di molti studi sugli psichedelici – sapere di averlo ricevuto può indurre reazioni positive, e sapere che non lo ha ricevuto può indurre reazioni negative.
    Il problema è che negli studi clinici sulle medicine antitumorali, per dire, i partecipanti non percepiscono la differenza tra una flebo di soluzione salina e una di medicina. Ma le sostanze psichedeliche inducono alterazioni percettive come distorsioni visive (immagini caleidoscopiche e particolari pattern sulle superfici) e sensazione alterata del passare del tempo: tutte cose di cui è praticamente impossibile non accorgersi. Anche negli studi clinici sull’Mdma condotti da Lykos Therapeutics, sebbene gli effetti dell’Mdma siano diversi da quelli degli psichedelici, tutti i partecipanti hanno infatti indovinato in poco tempo a quale gruppo erano stati assegnati. «Credo sia ovvio che gli RCT non sono adatti allo studio delle sostanze psichedeliche», ha detto all’Atlantic Boris Heifets, neuroscienziato della Stanford University.

    – Leggi anche: Il fascino degli stupefacenti nella Silicon Valley

    Per provare ad aggirare il problema alcuni ricercatori stanno cercando di strutturare gli studi in modo diverso. Uno studio in cieco sulle possibili proprietà antidepressive della ketamina pubblicato nel 2023, per esempio, prevedeva di somministrare il farmaco (o un placebo) a pazienti depressi tenuti al buio e anestetizzati, durante un intervento chirurgico programmato. Altri studi sull’Mdma hanno utilizzato come placebo sostanze diverse da quella oggetto di studio. Ma altri studiosi sostengono che il tentativo di elaborare studi in cieco adatti alla sperimentazione degli psichedelici, per quanto ingegnoso, trascuri il fatto che queste sostanze non sono riducibili alla loro azione biochimica. E la loro efficacia dipende proprio da quel contesto che alcuni ricercatori si sforzano di separare dagli effetti.
    La maggior parte dei protocolli delle attuali terapie psichedeliche prevedono infatti diverse sessioni di psicoterapia, prima, durante e dopo il trattamento. E fin dalle prime ricerche sugli psichedelici condotte negli anni Sessanta è noto che sia il contesto in cui le persone li assumono sia le loro aspettative possono fortemente influenzare la loro esperienza, come dimostrano anche ricerche più recenti. Uno studio clinico uscito a gennaio, per quanto limitato nel campione, ha mostrato che in un gruppo di 22 pazienti con PTSD sottoposti a psicoterapia e Mdma l’efficacia del trattamento dipendeva strettamente dalla forza del legame che si instaurava tra il terapeuta e il paziente.
    È molto probabile che nella sperimentazione clinica gli studi controllati randomizzati continueranno a essere considerati il gold standard, per la valutazione delle sostanze psicoattive come di qualsiasi altra sostanza. Ma questo non significa che non sia possibile ricavare altre informazioni altrettanto utili da studi condotti con metodi diversi da quello degli RCT, ha detto all’Atlantic Matt Butler, neuroscienziato del King’s College di Londra. Diversi ricercatori stanno già conducendo, per esempio, studi descrittivi che misurano sia le aspettative che gli effetti dei trattamenti, in cui i partecipanti sanno chiaramente quale sostanza stanno assumendo. LEGGI TUTTO

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    Come fanno i pitoni a digerire corpi umani interi

    Venerdì scorso in Indonesia il corpo di una donna di 45 anni, scomparsa da un giorno, è stato trovato nello stomaco di un pitone lungo cinque metri. È successo vicino al villaggio di Kalempang, nella regione di Sulawesi Meridionale. È raro che i grandi serpenti che vivono in foreste tropicali attacchino le persone, ma negli ultimi anni ci sono stati altri casi, sempre sull’isola di Sulawesi. L’anno scorso un pitone di 8 metri era stato ucciso mentre stritolava un agricoltore. Nel 2018 un altro pitone, di 7 metri, aveva ingoiato una donna di 54 anni e l’anno precedente era successo a un 25enne con un serpente di 4 metri.Secondo David Penning, professore associato di Biologia della Missouri Southern State University che in passato aveva discusso di questi casi con il sito di divulgazione scientifica Live Science, «accade probabilmente più spesso che ci siano incidenti con pitoni e boa tra le persone che ne tengono in casa senza le misure di sicurezza necessarie», ma è possibile che con l’aumento della deforestazione e la conseguente riduzione dell’habitat naturale di questi animali gli attacchi letali aumentino. In Indonesia così come in altri paesi tropicali ci sono comunità di persone che vivono in zone rurali molto vicine alle foreste.
    È probabile che il pitone che ha ucciso la donna di Kalempang fosse un pitone reticolato (Malayopython reticulatus), la specie di serpenti che raggiunge le lunghezze maggiori nel mondo. Vivono in molti paesi del Sud-Est asiatico e non sono velenosi. Uccidono le proprie prede facendo loro degli agguati e poi avvolgendosi attorno al loro corpo: non le soffocano, ma stritolandole ne bloccano la circolazione del sangue causando un arresto cardiaco, e conseguentemente la morte. Gli individui più piccoli mangiano soprattutto roditori, ma anche pipistrelli, mentre i serpenti più grossi predano mammiferi di dimensioni maggiori, comprese scimmie, suini e cervi, oltre ad animali di allevamento o domestici.
    Riescono a ingoiare prede anche molto grosse rispetto alla propria massa corporea, che ingeriscono intere. Sono in grado di aprire moltissimo le proprie mascelle grazie a legamenti molto flessibili e di solito ingoiano le prede a partire dalla testa. I corpi umani sono particolarmente complessi da ingerire per via della forma delle spalle, più larghe della testa, ma se una persona non è molto alta, come si è visto a Sulawesi, i pitoni reticolati più grandi possono effettivamente riuscire a ingoiarla.
    La più stupefacente caratteristica dei pitoni reticolati e di altre specie di pitoni e serpenti è la capacità del loro stomaco di digerire le grosse prede ingoiate intere (vestiti inclusi, nel caso delle persone). Per farlo rimodellano il proprio apparato digestivo, ingrandendo sia lo stomaco che l’intestino, che durante i periodi di digiuno occupano pochissimo spazio nel loro corpo. Ma soprattutto producono una grande quantità di succhi gastrici molto acidi (quelli che anche negli umani servono a disgregare il pasto in sostanze più semplici) che permettono di scomporre una preda che non è stata masticata e che, in alcuni casi, può avere un peso simile a quello del serpente che l’ha ingerita. Per quanto riguarda l’intestino, le cellule sulle sue pareti si allungano fino a quattro volte, per assorbire zuccheri e altre sostanze nutritive dal cibo già passato dallo stomaco.
    Nel processo digestivo aumentano anche le dimensioni del cuore del serpente – la crescita può essere del 40 per cento – per pompare più sangue e aumentare così la circolazione di ossigeno nel corpo: complessivamente c’è un grosso aumento dell’attività metabolica. Crescono anche le dimensioni di altri organi, come il fegato e i reni. Questo grosso dispendio di energie, compensato dalla digestione della preda, è comunque raro nella vita dei pitoni: dopo aver digerito un grosso animale possono passare anche vari mesi senza mangiare, contando unicamente sull’energia ricavata dal pasto precedente.
    Il pitone che ha ucciso la donna di Kalempang è stato trovato dagli abitanti del villaggio poco lontano da dove la donna era stata vista l’ultima volta, intento a digerire. L’ingrossamento del suo corpo ha fatto intuire cosa fosse successo: il pitone è stato ucciso e tagliato per recuperare i resti della donna. LEGGI TUTTO

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    Weekly Beasts

    Ogni anno, a giugno, nel nord-ovest del Regno Unito si svolge la fiera dei cavalli di Appleby: in Cumbria, vicino al fiume Eden, si riuniscono migliaia di persone che fanno una vita nomade per comprare e vendere cavalli, incontrare amici o parenti e più in generale celebrare il loro stile di vita. Da lì viene la foto di questo cavallo davanti alle carovane, tra gli animali da fotografare in settimana insieme a un piccione che ha fatto incursione sul campo del Roland Garros, leoni al parco nazionale del Lago Nakuru in Kenya, una marmotta a Montréal, un lamantino a pancia all’aria in Florida e una lince che ha tentato una fuga in Germania. LEGGI TUTTO

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    Si fa presto a dire test di Turing

    Caricamento playerL’8 giugno di settant’anni fa Alan Turing fu trovato morto nella propria casa di Wilmslow, in Inghilterra, dalla sua governante. Le analisi sul suo corpo portarono alla conclusione che uno dei più brillanti pionieri dell’informatica fosse morto il giorno prima – il 7 giugno – a causa di un avvelenamento da cianuro. Vicino al suo corpo c’era una mela mangiata a metà: si ipotizzò che Turing l’avesse usata per mascherare il sapore del veleno, ma non fu mai analizzata per verificare se contenesse tracce di cianuro. Turing morì dopo un periodo di grandi difficoltà, definito dalle leggi dell’epoca un criminale per la propria omosessualità e sottoposto alla castrazione chimica, dopo aver dato un contributo fondamentale all’informatica e allo sviluppo del concetto di “intelligenza artificiale”.
    Solo nel 2009, a più di mezzo secolo dalla sua morte, il governo britannico espresse il proprio rammarico per il trattamento riservato a Turing, così come alle migliaia di altre persone condannate per la loro omosessualità. Furono poi necessari altri quattro anni prima che la regina Elisabetta II concedesse a Turing una grazia postuma, riconoscendo il suo importante contributo per il progresso e la pace, soprattutto in un periodo drammatico come quello della Seconda guerra mondiale.
    Turing fu infatti uno dei protagonisti delle decodifica dei messaggi realizzati con Enigma, la macchina sviluppata dai nazisti per comunicare in codice e organizzare gli attacchi soprattutto contro i sottomarini degli Alleati, come raccontato nel film The Imitation Game con Benedict Cumberbatch. Ma il contributo più grande di Turing fu nello studio e nelle riflessioni intorno al rapporto tra gli esseri umani e le macchine, in un periodo in cui l’informatica per come la intendiamo oggi era agli albori e gli scenari in cui i computer avrebbero risolto molti dei nostri problemi sembravano ancora da fantascienza.
    Prima della Seconda guerra mondiale e di Enigma, Turing immaginò nei suoi studi una macchina in grado di svolgere qualsiasi compito, prospettando caratteristiche e funzionamenti non molto lontani da quelli dei computer che usiamo ogni giorno, smartphone compresi. Turing riteneva che la sua ipotetica macchina sarebbe stata in grado di rispondere a specifiche esigenze, a patto di fornirle un programma adeguato per farlo.
    Ma Turing era soprattutto affascinato dalla possibilità che un giorno le macchine potessero diventare sofisticate al punto da sembrare umane. Illustrò l’idea in un articolo pubblicato nel 1950 sulla rivista accademica Mind, descrivendo un esperimento per mettere alla prova un sistema artificiale in una conversazione tra esseri umani.
    Fin dall’inizio dell’articolo Turing chiariva la difficoltà del problema: «Propongo di prendere in considerazione la seguente questione: “Le macchine possono pensare?”». La riflessione proseguiva segnalando come fosse difficile definire il concetto stesso di “pensare”, arrivando alla proposta di un gioco-test basato per lo più sul linguaggio da considerare come un’espressione di intelligenza.
    Una versione di Enigma (Getty Images)
    Nel corso del tempo sarebbero state elaborate varie versioni del test, oggi noto come “Test di Turing” dal nome del suo inventore, ma ci sono spesso elementi comuni. Nel test un valutatore deve essere in grado di distinguere veri interlocutori da un interlocutore artificiale, naturalmente senza poterli vedere e sapendo che uno di loro è una macchina. Il sistema artificiale supera la prova se il valutatore non riesce a distinguerlo dagli esseri umani.
    Nonostante fosse stato presentato in un articolo in parte speculativo e “minore” rispetto ad altre ricerche svolte da Turing – e non fosse definito esplicitamente come un modo per misurare l’intelligenza di un sistema – il test che porta il suo nome sarebbe diventato negli anni un importante punto di riferimento per chi si occupa di informatica e di sistemi di intelligenza artificiale. A oltre 70 anni dalla sua pubblicazione, si discute ancora oggi sulla possibilità che una macchina sviluppi una propria coscienza, tale da consentirle di articolare un pensiero e di averne consapevolezza.
    Nel corso del tempo il test di Turing avrebbe ricevuto diverse critiche per una certa ingenuità, dimostrata dal fatto che alcuni dei vincoli previsti possono essere facilmente aggirati per dare l’illusione al valutatore di avere effettivamente a che fare con un essere umano, anche se sta interagendo con una macchina fortemente limitata ma programmata per nascondere i propri limiti. Anche per questo motivo nacquero test alternativi, pur basati sugli assunti di Turing.
    ELIZA, un programma sviluppato negli anni Sessanta negli Stati Uniti, dava risposte all’apparenza “intelligenti” imitando uno psicologo. Il sistema suggeriva con una certa frequenza ai propri interlocutori umani di riflettere sulle loro affermazioni, proprio come avrebbe fatto un terapista, semplicemente componendo le proprie frasi in domande che contenevano parte delle risposte appena ricevute. Secondo alcuni parametri, ELIZA superava il test e in un recente studio ha anche battuto una delle versioni di GPT, il sistema di intelligenza artificiale che fa funzionare il famoso ChatGPT.
    Che un sistema concepito 60 anni fa, quando i computer avevano una frazione della capacità di calcolo di quelli attuali, ne abbia superato uno recentissimo e molto discusso proprio per le sue capacità si spiega col fatto che non esiste un’unica versione formalizzata del test. L’idea di base è quella che fu esposta da Alan Turing a metà Novecento, ma i modi in cui viene effettuato il test possono variare sensibilmente in base ai criteri scelti dai gruppi di ricerca che se ne occupano.
    Essendo il sistema più conosciuto e studiato degli ultimi anni, ChatGPT è finito al centro di molte sperimentazioni anche tese a verificare la sua capacità di produrre conversazioni così verosimili da poter essere scambiate per quelle prodotte da un essere umano.
    Nel luglio del 2023 un articolo pubblicato su Nature ha segnalato il superamento del test di Turing da parte di ChatGPT, pur evidenziando come rimangano irrisolti molti problemi legati al produrre sistemi che siano effettivamente in grado di ragionare. Alcuni particolari sistemi di AI come ChatGPT sono basati su modelli linguistici di grandi dimensioni (LLM) per la generazione di testi, che prevedono le parole da utilizzare man mano che scrivono una frase senza che abbiano una consapevolezza di ciò che stanno facendo (per alcuni esperti è un problema secondario, nel momento in cui una AI svolge comunque efficacemente il compito che le è stato assegnato).
    A inizio 2024 un altro studio, pubblicato su Proceedings of the National Academy of Sciences, ha segnalato come la versione all’epoca più recente di ChatGPT producesse conversazioni non distinguibili da quelle dei suoi interlocutori umani, rivelando le proprie origini artificiali solo nel caso di risposte orientate in modo più marcato alla cooperazione e all’altruismo. La sperimentazione era stata effettuata basandosi su una serie di test solitamente somministrati per verificare la personalità e le scelte in particolari scenari, di tipo etico ed economico. Secondo il gruppo di ricerca, lo studio dimostra uno dei primi casi in cui una intelligenza artificiale ha superato «un rigoroso test di Turing», ma per alcune delle risposte fornite «non avrebbe probabilmente guadagnato molti amici».
    L’esperimento non può comunque essere considerato definitivo, visto che la questione del test di Turing e più in generale della capacità delle macchine di pensare è ancora ampiamente discussa tra chi si occupa di filosofia, di informatica e di matematica. La proposta di Turing non era del resto orientata a dare risposte, ma a fare domande: non aveva pensato il proprio test come una prova di intelligenza e umanità, ma come un gioco, una gara di imitazione. Lo immaginò in un’epoca molto diversa dalla nostra, dove sarebbe stato già sorprendente di per sé avere un programma che risponde a delle domande ed è in grado di portare avanti una conversazione.
    Oggi sappiamo che quei sistemi esistono, sono ormai nella nostra vita di tutti i giorni, ma sappiamo anche che non hanno consapevolezza di sé e che non “pensano”. E quando arriviamo a quest’ultima conclusione, ci interroghiamo su che cosa significhi davvero “pensare”, un concetto per nulla banale e sul quale si ragiona e specula praticamente da sempre. Turing era consapevole dell’impossibilità di dare una risposta convincente alla definizione di quel concetto, ancor prima di applicarlo alle macchine.
    Una statua dedicata ad Alan Turing a Manchester, Regno Unito (Getty Images)
    Di certo Turing avrebbe osservato con interesse i progressi raggiunti nel campo delle AI negli ultimi anni, visto che già nel suo articolo del 1950 ammetteva che «Le macchine mi sorprendono con grande frequenza», aggiungendo poi:
    L’idea che le macchine non possano suscitare sorprese è dovuta, a mio avviso, a un errore a cui sono particolarmente soggetti filosofi e matematici. Deriva dal presupposto che non appena un fatto viene presentato a una mente, tutte le conseguenze di quel fatto affiorano nella mente simultaneamente con esso. È un presupposto molto utile in molte circostanze, ma si dimentica troppo facilmente che è falso. Una conseguenza naturale di ciò è che si presuppone che non vi sia alcuna virtù nel mero elaborare conseguenze partendo da dati e principi generali.
    Alan Turing morì a 41 anni in circostanze mai completamente chiarite e che ancora oggi lasciano aperte molte domande. Due anni prima della sua morte, la polizia stava indagando su un furto avvenuto nella sua casa e Turing ammise di avere avuto una relazione fisica con un uomo, che gli aveva riferito di conoscere l’identità di chi aveva commesso il furto e che sarebbe stato quindi utile alle indagini. Nel marzo del 1952 Turing fu accusato di «grave indecenza e perversione sessuale» e si dichiarò colpevole e fu condannato alla castrazione chimica attraverso l’assunzione di estrogeni. La condanna per omosessualità comportò la fine dell’accesso da parte di Turing ai documenti e alle attività governative secretate, per esempio legate alle attività di intelligence durante la Guerra Fredda, nonostante pochi anni prima avesse dato un contributo importante nel decifrare i messaggi di Enigma.
    Il corpo di Alan Turing fu cremato due giorni dopo la morte e le ceneri furono disperse nel giardino del crematorio, nel punto in cui anni prima erano state disperse le ceneri di suo padre.
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