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    La prima storica “passeggiata spaziale” privata

    Per la prima volta nella storia due astronauti non professionisti hanno effettuato una “passeggiata spaziale” (attività extraveicolare o EVA) gestita da una società privata.L’iniziativa è stata organizzata nell’ambito della missione Polaris Dawn iniziata martedì 10 settembre, con il lancio da Cape Canaveral in Florida della capsula spaziale Crew Dragon di SpaceX. A bordo della navicella ci sono quattro persone compreso il miliardario Jared Isaacman, che ha finanziato buona parte del viaggio.
    Attualmente Crew Dragon si trova in un’orbita ellittica che porta la capsula ad avere una distanza minima dalla Terra di circa 190 chilometri e ad allontanarsi dal nostro pianeta fino a una distanza di 700 chilometri. Nelle prime fasi della missione, Crew Dragon si era spinta fino a 1.400 chilometri, il punto più distante nello Spazio mai raggiunto da un equipaggio in più di 50 anni, cioè dalla fine del programma spaziale Apollo della NASA per raggiungere la Luna (che si trova a quasi 400mila chilometri dalla Terra).
    L’EVA è stata effettuata da Isaacman e da Sarah Gillis, un’ingegnera di SpaceX, mentre all’interno della capsula sono rimasti i loro due compagni di viaggio: Scott Poteet, un ex pilota di aerei militari, e Anna Menon, un’altra ingegnera di SpaceX. Per la loro escursione all’esterno della capsula, Isaacman e Gillis hanno indossato tute sperimentali progettate da SpaceX per resistere all’ambiente spaziale. Sono state sviluppate partendo dalle tute solitamente utilizzate dagli astronauti che grazie a Crew Dragon possono raggiungere la Stazione Spaziale Internazionale, nell’ambito degli accordi commerciali tra SpaceX e la NASA.
    Le tute non hanno sistemi autonomi di erogazione dell’ossigeno e di mantenimento della pressione, per compensare il vuoto pressoché totale dell’ambiente spaziale. Sono collegate alla capsula attraverso tubi e cavi che permettono il trasferimento dell’ossigeno e dell’azoto, nonché dell’energia necessaria per far funzionare le altre strumentazioni. Dopo circa 40 minuti di preparazione, Isaacman e Gillis sono usciti a turno da un portellone sulla sommità di Crew Dragon e sono rimasti all’esterno della capsula per 15-20 minuti ciascuno. Oltre a essere un’importante prima volta per una missione privata, l’EVA ha lo scopo di verificare la tenuta e l’affidabilità delle tute di SpaceX in vista delle prossime missioni.
    Di solito le EVA richiedono tempi lunghi di preparazione proprio perché gli astronauti devono abituarsi a condizioni di pressione diverse da quelle tipicamente presenti all’interno dei veicoli spaziali (nella tuta la pressione è inferiore per evitare che questa sia troppo rigida, al punto da ostacolare i movimenti). Sulla ISS chi deve compiere l’attività extraveicolare, per esempio, passa attraverso una camera d’equilibrio (airlock) in modo che ci sia un ambiente intermedio tra la Stazione e lo Spazio. L’astronauta si chiude alle spalle il portellone della ISS e apre un secondo portellone verso l’esterno, in modo che la Stazione continui a essere isolata dall’ambiente spaziale (altrimenti perderebbe ossigeno e pressurizzazione con esiti catastrofici per gli altri occupanti).
    Jared Isaacman poco dopo la sua uscita dalla capsula Crew Dragon (SpaceX)
    Su Crew Dragon non c’è un airlock, quindi tutti i quattro membri di Polaris Dawn hanno indossato le tute per rimanere isolati dall’esterno. Al termine del test e dopo la chiusura del portellone impiegato per l’EVA, la pressione all’interno di Crew Dragon è stata ripristinata insieme alla giusta concentrazione di ossigeno per permettere ai suoi occupanti di togliere le tute e proseguire la missione. Fin dall’inizio della missione le condizioni di pressione e la percentuale di azoto erano state progressivamente ridotte, per quanto in modo lieve, per favorire l’acclimatamento in vista dell’EVA, riducendo il rischio di problemi di compensazione per l’equipaggio.
    Le attività extraveicolari sono relativamente sicure e gli astronauti delle principali agenzie spaziali ne hanno effettuate centinaia in quasi 70 anni di storia dell’esplorazione dello Spazio. I rischi naturalmente non mancano e riguardano soprattutto la tenuta delle tute e la possibilità di chi le indossa di muoversi senza troppi impedimenti, soprattutto in una situazione di emergenza.
    L’attività di oggi ha un importante valore storico perché segna l’inizio di una nuova fase delle esplorazioni spaziali da parte dei privati, finora limitate. L’esito del test non era scontato considerato che le tute di SpaceX non erano mai state sperimentate prima nell’ambiente spaziale, né Crew Dragon in una condizione in cui il suo interno viene esposto all’ambiente spaziale per diversi minuti.
    La vista dal casco di Jared Isaacman durante l’EVA (SpaceX)
    Per Isaacman non è la prima volta nello Spazio. Nel settembre del 2021 aveva già raggiunto l’orbita con la missione Inspiration4, sempre gestita da SpaceX e in compagnia di altre tre persone, nessuna delle quali faceva l’astronauta di professione per conto dei governi e di istituzioni pubbliche, come è quasi sempre avvenuto dagli albori delle esplorazioni spaziali oltre 60 anni fa. Come era accaduto con Inspiration4, anche per Polaris Dawn né Isaacman né SpaceX hanno fatto sapere i costi dell’iniziativa, comunque nell’ordine di decine di milioni di dollari, senza contare i costi per lo sviluppo di alcune nuove tecnologie da parte di SpaceX.
    Fino a oggi solamente alcuni astronauti della NASA, dell’Agenzia spaziale europea (ESA) e di quelle del Canada, della Russia e della Cina avevano effettuato un’EVA, per esempio per la costruzione e la manutenzione delle stazioni orbitali costruite nel tempo intorno alla Terra, superando grandi difficoltà tecniche e gestendo i molti rischi che derivano dal trovarsi nel vuoto pressoché totale dello Spazio. Le tute per farlo sono in sostanza delle piccole astronavi da indossare, ce ne sono poche e sono estremamente costose, ma SpaceX come altre aziende private vuole cambiare le cose.
    Polaris Dawn ha una durata di cinque giorni con una quarantina di esperimenti da effettuare a bordo, molti dei quali orientati a valutare gli effetti della permanenza nello Spazio sull’organismo – come si fa da anni sulla ISS – e a sperimentare nuove tecnologie che potrebbero essere impiegate in futuro nelle missioni di lunga durata verso la Luna e forse un giorno Marte. Al termine della missione, Crew Dragon si tufferà al largo della costa della Florida, dove una squadra di recupero si occuperà di riportare sulla terraferma la capsula e i suoi quattro occupanti. Isaacman e SpaceX hanno in programma almeno altre due missioni, ma non hanno ancora fornito informazioni sulle modalità e sui tempi, che in parte dipenderanno dai risultati ottenuti con questa missione. LEGGI TUTTO

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    Ci servirebbe una macchina che annusa

    Gli odori hanno un ruolo centrale nella nostra percezione del mondo, eppure buona parte del funzionamento dell’olfatto rimane un mistero. Sappiamo che microscopiche strutture (i recettori) nel naso rilevano le sostanze in sospensione nell’aria che respiriamo e inviano un segnale al cervello, che elabora quell’informazione dandoci la consapevolezza di avere appena percepito un odore, ma non comprendiamo ancora perfettamente come. Osmo, una società statunitense con grandi finanziatori come Google, dice di avere fatto importanti progressi per risolvere il mistero insegnando alle macchine a riconoscere gli odori, naturalmente usando sistemi di intelligenza artificiale.Il capo di Osmo è Alex Wiltschko, un neurobiologo originario del Texas che ha fatto fortuna in California lavorando diversi anni a Google, prima che da una delle divisioni di ricerca della società nascesse la sua start-up. Fin da ragazzino Wiltschko era ossessionato dai profumi, al punto da averne una piccola collezione ed essere incuriosito dal modo in cui ciascuno di noi li percepisce, con una certa componente di soggettività. Fu quella curiosità a spingerlo a studiare neurobiologia e a conseguire un dottorato, che però non riuscì a mettere a frutto in ambito accademico, dove non sembrava esserci molto interesse per la biologia dell’olfatto.
    Wiltschko lasciò l’università, lavorò in varie società e infine trovò impiego a Google Research, dedicata alla ricerca di prodotti innovativi, dove divenne il responsabile di un gruppo di lavoro che si occupava di “olfatto digitale”. La sua idea, che avrebbe poi continuato a sviluppare con Osmo, era di creare un sistema per mappare gli odori, sviluppando sensori e sistemi informatici per la loro identificazione e in prospettiva per lo sviluppo di nuove molecole. Le applicazioni potrebbero essere molteplici, dalla produzione di profumi alla ricerca di deterrenti più efficaci contro gli insetti, passando per sensori in grado di diagnosticare malattie in base all’odore prodotto dai pazienti.
    Per lungo tempo l’olfatto ha ricevuto meno attenzioni rispetto ad altri sensi come la vista e l’udito, forse anche a causa della sua enorme e talvolta sfuggente complessità. I nostri occhi vedono una certa porzione della luce, definibile e misurabile, così come le nostre orecchie percepiscono i suoni con una frequenza compresa in un certo intervallo, anche in questo caso misurabile e analizzabile. Per l’olfatto è tutto più complicato: le sostanze che stimolano la nostra percezione sono potenzialmente miliardi e ciò che rende possibile identificarle, i recettori, sono strutture minuscole con una grande varietà di forme e funzioni. Si stima che siano almeno 400, contro i due tipi di recettori che rendono possibile la visione.
    Secondo Wiltschko, l’unico modo per padroneggiare una tale complessità è costruire una mappa, come del resto abbiamo fatto per definire la varietà di colori che possono vedere i nostri occhi o i suoni che possiamo percepire con le orecchie. Le mappe sono una delle invenzioni più efficaci per ridurre la complessità, o per lo meno per costruirne più livelli via via più articolati e dettagliati. La semplificazione che offre una cartina di un quartiere cittadino è ideale per essere gestita con le nostre conoscenze e capacità mentali, ma più una mappa diventa articolata più è difficile navigarla e per questo Osmo lavora con sistemi di intelligenza artificiale in grado di produrre la mappa stessa e di orientarsi al suo interno.
    (James Glossop/WPA Pool/Getty Images)
    I cartografi degli odori sono partiti da alcuni cataloghi di profumi realizzati negli anni, che descrivono sia la struttura delle molecole che producono determinati odori sia le loro caratteristiche quando vengono inalati: fruttato, legnoso, affumicato e così via. I cataloghi più grandi comprendono migliaia di molecole, ma non è sempre semplice trovare relazioni tra loro in modo da poterli organizzare in una mappa, che per esempio comprenda un’isola di odori che evocano la sensazione del fresco e un’altra dello stantio. Due composti chimici estremamente simili tra loro possono produrre due odori completamente diversi, mentre due molecole con strutture molto diverse tra loro possono produrre odori simili.
    Osmo ha quindi fatto allenare un sistema di intelligenza artificiale in modo che da quei cataloghi organizzasse gli odori in una mappa con circa 5mila punti, collegati tra loro su più livelli e da utilizzare per provare a prevedere le caratteristiche di altri odori non compresi nei cataloghi stessi partendo unicamente dalle caratteristiche della loro molecola. Una volta realizzato, il modello è stato messo alla prova confrontando le sue previsioni con le valutazioni di un gruppo di volontari.
    A 15 persone sono state proposte alcune centinaia di aromi, con la richiesta di odorarli e di descriverli scegliendo da un elenco di cinquanta parole come “tropicale” e “affumicato”. La percezione degli odori è soggettiva, ma nel complesso nelle valutazioni c’era la prevalenza di determinate parole. Il gruppo di ricerca ha poi confrontato le descrizioni fornite dai volontari con quelle prodotte dal sistema di intelligenza artificiale, che si basavano esclusivamente sull’interpretazione della struttura delle molecole di quegli aromi. Lo studio scientifico in cui è raccontato l’esperimento ha segnalato che l’AI riesce a fare un lavoro di identificazione e mappatura migliore di quello che riesce a fare una persona addestrata per catalogare gli odori.
    Il modello sviluppato da Osmo ha ricevuto grandi attenzioni, ma la società è distante da un uso commerciale. Nella percezione degli odori sono coinvolti molti altri fattori legati al funzionamento dei recettori e degli enzimi che intervengono sui composti che inaliamo con l’aria. La grande varietà di recettori implica che ci possano essere interazioni tra loro di tipo diverso a seconda delle sostanze, con esiti che variano da persona a persona. È il motivo per cui alcuni percepiscono come più intensi alcuni profumi, al punto da trovarli fastidiosi rispetto ad altri. Districarsi in queste sfumature è difficile, ma Wiltschko ritiene che la capacità di una AI di navigare e organizzare la complessità possa essere la risposta. Un tipo di risposta molto conveniente.
    Le valutazioni variano molto, ma si stima che il mercato dei profumi abbia un valore annuo intorno ai 30 miliardi di dollari. È un settore particolarmente remunerativo soprattutto per i produttori di cosmetici e profumi, con alti ricarichi resi possibili soprattutto dalle collaborazioni delle società che li sviluppano con i grandi marchi di moda. Trovare le giuste combinazioni di aromi sta però diventando sempre più difficile perché si faticano a trovare nuove molecole.
    (Justin Sullivan/Getty Images)
    Le società che se ne occupano investono ingenti quantità di denaro per sintetizzarne di nuove, ma poche si rivelano poi adatte per essere impiegate in un profumo. Alcune non sono persistenti a sufficienza dopo l’applicazione sulla pelle, altre sono poco stabili o si disgregano troppo facilmente quando sono miscelate con altri composti. Una nuova molecola di sintesi deve essere inoltre testata per verificarne la sicurezza, con regole che variano a seconda dei paesi. Può quindi accadere che un composto che sembrava molto promettente debba essere accantonato dopo anni di sviluppo, rendendo fallimentare l’investimento iniziale.
    In futuro i sistemi sviluppati da Osmo, e da altre società che seguono approcci simili, potrebbero essere impiegati per sviluppare velocemente nuove molecole usando le loro articolate mappe degli odori. L’idea è che si possa chiedere al sistema un aroma di cedro maturato al Sole nell’aria salmastra del Mediterraneo d’estate, ottenendo come risposta la formula chimica delle sostanze per realizzarla. In ultima istanza, potrebbe essere il sistema stesso a provvedere alla sua sintesi, uno scenario che per i più scettici è da fantascienza allo stato attuale delle conoscenze e delle tecnologie.
    I modelli basati sulle AI potrebbero rivelarsi utili anche per sviluppare nuovi sistemi per l’analisi e la rivelazione degli odori. Macchinari di questo tipo esistono già da tempo, ma di solito sono altamente specializzati nel riconoscere determinate sostanze. I cosiddetti “nasi elettronici” sono impiegati per esempio per rilevare gli inquinanti presenti nell’aria come il diossido di azoto o il monossido di carbonio, o per valutare l’impatto olfattivo di impianti industriali nelle prossimità dei centri abitati. Non esistono però nasi elettronici versatili e con capacità paragonabili a quelle del nostro olfatto, e soprattutto non forniscono descrizioni delle sensazioni che evocano le sostanze odorose.
    Oltre ai recettori che abbiamo nel naso, la nostra esperienza con gli aromi è fortemente legata all’attività cerebrale. Il nostro cervello è estremamente abile nell’interpretare i segnali che riceve quando odoriamo qualcosa e alcune persone hanno capacità più spiccate di altre. L’”ipersomia” è una condizione che determina questa capacità e può portare a esiti sorprendenti, come la capacità di distinguere l’odore di una malattia degenerativa, prima che questa diventi evidente in chi ne è affetto. Imitando questa capacità si potrebbero quindi realizzare nasi elettronici per aiutare i medici nella diagnosi precoce di alcune malattie, intervenendo con le terapie prima ancora della comparsa di alcuni sintomi.
    Un naso elettronico basato sull’intelligenza artificiale come quello cui sta lavorando Osmo potrebbe rivelarsi utile anche per un altro tipo di prevenzione. Ogni anno in tutto il mondo ci sono circa 250 milioni di casi di malaria trasmessa dalle zanzare, con oltre 600mila morti annue per la malattia. Intervenire sulle popolazioni di zanzare e sui metodi per prevenire il loro morso è essenziale per ridurre i contagi e di conseguenza i decessi, ma fare prevenzione è costoso e richiede grandi sforzi organizzativi, non sempre praticabili nelle aree più povere del mondo. Un migliore repellente contro le zanzare potrebbe fare la differenza.
    Reti per ridurre il rischio di contagi da malaria dovuti alle zanzare in una capanna in Cambogia nel 2010 (Paula Bronstein/Getty Images)
    Per questo la Bill & Melinda Gates Foundation, che finanzia da anni progetti per contrastare la diffusione della malaria, ha investito 3,5 milioni di dollari in Osmo scommettendo sulle capacità dei suoi sistemi per sviluppare in futuro repellenti di nuova generazione contro le zanzare. Questi insetti trovano le loro prede, per lo più gli esseri umani, grazie a recettori estremamente sensibili all’anidride carbonica e ad altre sostanze volatili che produciamo con la traspirazione.
    I repellenti le mascherano in modo da risultare meno appetibili alle zanzare, ma contengono sostanze da utilizzare con cautela e c’è il sospetto che generazione dopo generazione le zanzare abbiano iniziato ad adattarsi e a non trovarle più repellenti come un tempo. Conoscendo il funzionamento dei recettori delle zanzare, i sistemi di Osmo e quelli sviluppati da altre società potrebbero essere impiegati per sviluppare sostanze per eluderli e che al tempo stesso richiedano meno precauzioni per il loro utilizzo rispetto ai repellenti attuali.
    Wiltschko aveva iniziato a lavorare con i sistemi di intelligenza artificiale ben prima che iniziasse l’euforia degli ultimi anni, spinta soprattutto dai successi di ChatGPT di OpenAI. Il maggiore interesse verso queste tecnologie ha comunque favorito gli investimenti anche nel settore in cui è attiva Osmo, che dovrà quindi confrontarsi con altre aziende e start-up interessate a risolvere il mistero dell’olfatto, o almeno a provarci. LEGGI TUTTO

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    È cominciata la missione Polaris Dawn di SpaceX, che dovrebbe rendere possibile la prima “passeggiata spaziale” per un equipaggio privato

    Martedì mattina una capsula di SpaceX che trasporta quattro privati cittadini è decollata dal Kennedy Space Center della NASA, in Florida: sono partiti per una missione di cinque giorni nota come Polaris Dawn, e se tutto andrà secondo i piani saranno i primi non astronauti a fare una “passeggiata spaziale” (EVA, come vengono chiamate informalmente le attività extraveicolari nello spazio): l’equipaggio è composto dall’imprenditore miliardiario quarantunenne Jared Isaacman, che ha finanziato personalmente gran parte della missione, da Scott “Kidd” Poteet, un tenente colonnello dell’aeronautica in pensione, e dalle ingegnere di SpaceX Sarah Gillis e Anna Menon.A oggi solamente alcuni astronauti della NASA, dell’Agenzia spaziale europea e di quelle del Canada, della Russia e della Cina hanno effettuato un’EVA, per esempio per la costruzione e la manutenzione delle stazioni spaziali costruite nel tempo intorno alla Terra. Oltre a questo Polaris Dawn dovrebbe essere la prima missione con un equipaggio ad allontanarsi così tanto dalla Terra dai tempi di Apollo 17, l’ultima missione del programma lunare statunitense che raggiunse la Luna nel 1972: arriverà a quasi 1.400 chilometri dalla Terra.

    Inizialmente Polaris Dawn doveva partire a fine agosto, ma il lancio è stato posticipato prima perché era stata rilevata una perdita di elio sulla rampa di lancio, e poi per via del maltempo al largo della costa della Florida, dove è previsto che la capsula atterrerà alla fine della spedizione. La “passeggiata spaziale” è prevista per il terzo giorno della missione. LEGGI TUTTO

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    I gatti odiano davvero l’acqua?

    Caricamento playerTra i luoghi comuni associati ai gatti c’è la loro grande avversione per l’acqua. È del resto raro osservare un gatto tuffarsi volentieri in una pozzanghera, in un fiume o in una vasca da bagno nei contesti più domestici. Intorno alla presunta paura dell’acqua dei gatti ci sono racconti, cartoni animati e perfino proverbi, eppure in molti casi questi animali non mostrano affatto di avere timore di immergersi.
    Alcuni veterinari hanno spiegato di recente alla rivista Scientific American che pensare che tutti i gatti odino l’acqua è un errore e porta a generalizzazioni eccessive. Come per molte altre cose, è una questione soggettiva e di gusti: ci sono gatti che preferiscono stare alla larga dall’acqua e altri che sono più propensi a immergersi. Lo stesso vale per i cani, con alcuni individui che sono più intimoriti o infastiditi di altri.
    In natura i grandi felini come tigri e leoni mostrano di non avere particolari problemi con l’acqua, talvolta anzi non disdegnano un bagno per rinfrescarsi oppure per raggiungere prede altrimenti inavvicinabili. La savana o le foreste tropicali non sono naturalmente la stessa cosa degli appartamenti in cui vive la maggior parte dei gatti domestici, e questo può aiutare a spiegare come sia nato il luogo comune e magari a trovare qualche elemento di verità intorno allo stereotipo.
    (Getty Images)
    Rispetto a un cane, un gatto domestico tende a passare buona parte della propria esistenza al chiuso, dove ci sono meno occasioni di entrare in contatto con l’acqua al di fuori di quella nella ciotola per bere. I cani inoltre devono essere lavati, a differenza dei gatti che si puliscono quasi sempre da soli lisciandosi il pelo con la lingua, e anche questo fa sì che un gatto sia molto meno esposto all’acqua e quindi poco abituato a bagnarsi. Poi, appunto, ogni gatto è un mondo a sé e ce ne sono di più propensi a sperimentare di tanto in tanto un bagno.
    Nel corso del tempo sono state comunque formulate alcune ipotesi sulla scarsa frequentazione dell’acqua da parte dei gatti. La loro pelliccia è fitta e spessa e di conseguenza impiega molto tempo ad asciugarsi, soprattutto negli ambienti domestici dove non circola molto l’aria. La pelliccia dei felini è inoltre molto importante per percepire ciò che hanno intorno ed eventuali stimoli dall’esterno, ma se si bagna troppo diventa meno sensibile.
    Un gatto appesantito dalla pelliccia bagnata è meno agile e questo può avere degli svantaggi nel caso di dover fuggire da un predatore. Difficilmente c’è qualche pericolo in casa che renda necessaria una fuga, ma secondo alcuni studiosi del comportamento animale i gatti mantengono ancora qualche istinto legato a un antico passato in cui dovevano guardarsi da predatori più grandi di loro. Sempre legata al loro passato, c’è l’ipotesi che i gatti non siano molto interessati all’acqua – eccetto per bere – perché si sono evoluti principalmente in luoghi con climi aridi e pochi fiumi e laghi.
    Anche se non si immergono, molti gatti si divertono comunque a giocare con l’acqua, per esempio quella che scorre da un rubinetto o che gocciola in un recipiente. Questi animali sono spesso incuriositi dagli oggetti in movimento e che producono particolari rumori, indizi di potenziali prede da cacciare. Questi giochi con l’acqua riguardano quasi sempre le sole zampe, ma nel caso di qualche spruzzo su altre parti del corpo è raro che un gatto si scomponga.
    Un gatto Turco Van (Wikimedia)
    Oltre alla soggettività è stata comunque osservata una maggiore propensione a bagnarsi tra alcune razze feline, come il Maine Coon (letteralmente “procione del Maine”), il Bengala e il Turco Van. I gatti appartenenti a queste razze hanno una pelliccia che si asciuga velocemente grazie alla sua particolare struttura.
    I gatti della razza Turco Van sono famosi tra gli appassionati per avere una certa affezione per l’acqua, al punto da essere al centro di alcune leggende. Una di queste dice che quando finì il diluvio universale, due gatti fuggirono dall’Arca costruita da Noè e si lanciarono in acqua per raggiungere il prima possibile la terra ferma. La leggenda, che prova poi a spiegare la convivenza tra gatti ed esseri umani, nacque probabilmente proprio dall’osservazione del comportamento dei gatti che a differenza di quelli di altre razze entravano più spesso a contatto con l’acqua.
    Al di là delle leggende, per i gatti domestici l’acqua è comunque importante per mantenersi idratati, soprattutto se la loro dieta è principalmente a base di cibo secco come le crocchette. I gatti non sono domesticati da molto e per questioni evolutive conservano alcune abitudini, come quella di ottenere buona parte dell’acqua di cui hanno bisogno dalle loro prede. Ciò si riflette in una minore propensione a bere tra i gatti domestici, che talvolta deve essere compensata. Il consiglio è di posizionare più di una ciotola per bere a distanza da quella in cui il gatto mangia, in modo che non associ troppo le due attività.
    In alcuni casi l’avversione mostrata per l’acqua può anche derivare dal modo in cui è stato cresciuto il gatto, per esempio se si è utilizzata una bottiglietta spray per spruzzare dell’acqua sul suo muso nel tentativo di disincentivare comportamenti scorretti. La sanzione è quasi sempre ritardata rispetto al comportamento che si vorrebbe correggere, quindi non è utile per evitare che venga ripetuto in futuro. La pratica può inoltre essere traumatica per alcuni gatti e può suscitare una certa diffidenza nei confronti dei loro conviventi umani. LEGGI TUTTO

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    Perché i pomodori sanno di poco

    Caricamento playerI pomodori sono tra gli ortaggi più consumati e apprezzati in Italia, eppure c’è la convinzione piuttosto diffusa che il loro sapore non sia più “quello di una volta” e che col tempo la loro qualità sia peggiorata: la polpa è più dura, la buccia è più spessa e il profumo è meno invitante. È un’opinione condivisa da molte persone e deriva in parte da un certo effetto nostalgia, che riguarda molti altri alimenti che si ritiene fossero più gustosi nei tempi passati, ma c’è probabilmente qualche elemento di verità.
    Negli ultimi anni alcuni studi scientifici hanno indicato come le varietà moderne più diffuse di pomodoro, selezionate per essere più adatte alla produzione industriale, siano un po’ meno saporite e con meno aroma rispetto a prima. La maggiore domanda, soprattutto a partire dal secondo dopoguerra, spinse i produttori di pomodori a privilegiare la coltivazione e la selezione di varietà che fossero più resistenti per proteggere meglio i singoli frutti (i pomodori sono bacche) nel momento della raccolta, del trasporto e della vendita al consumatore finale.
    Si può ottenere un pomodoro più resistente intervenendo su diversi fattori, attraverso la selezione e l’incrocio delle piante che danno frutti corrispondenti agli effetti desiderati. Le cellule dei pomodori più acquosi, per esempio, sono più gonfie e tese (hanno un maggior turgore) e questo favorisce la capacità del frutto di mantenere la forma e di assorbire meglio i colpi. La maggiore quantità di acqua in alcune varietà può determinare una diluizione delle sostanze che danno sapore e aroma ai pomodori, che risultano quindi meno gustosi.
    La buccia è un altro elemento importante per rendere più resistenti i pomodori e anche in questo caso nel tempo ci si è orientati e si sono selezionate varietà con una buccia più spessa. Questo spiega la grande offerta di pomodori di piccolo calibro, come le varie tipologie di ciliegino, soprattutto nei supermercati, dove le esigenze legate alla resistenza sono ancora maggiori. La buccia ha tendenzialmente un sapore più aspro e influisce sulla percezione della consistenza del pomodoro quando lo si mangia, contribuendo a far percepire un gusto diverso o più blando.
    (Getty Images)
    Sul sapore, l’aroma e la consistenza dei pomodori influiscono naturalmente anche le modalità di raccolta. Nella maggior parte dei casi consumiamo pomodori che vengono raccolti quando sono ancora acerbi, in modo che raggiungano il giusto stato di maturazione nei tempi necessari per lo smistamento, il trasporto e la loro messa in vendita. Come molti altri frutti, infatti, i pomodori sono climaterici, sono cioè in grado di maturare anche dopo essere stati separati dalla pianta. Il processo di maturazione avviene senza possibilità di scambi con quest’ultima e ciò può influire sulle sostanze che contribuiranno a dare sapore e aroma al frutto. Raccogliere i pomodori quando sono ormai pienamente maturi sarebbe però molto difficile per molte varietà, perché non resisterebbero fino alla loro messa in vendita o avrebbero comunque una breve durata sugli scaffali.
    I pomodori diventano più saporiti nell’ultima fase della maturazione, quando si sviluppano maggiori quantità di zuccheri e acidi, che percepiamo con il gusto, e di aromi volatili che invece percepiamo con l’olfatto (da cui deriva la gradevole sensazione di “pomodoro appena tagliato”). Se mantenuto tra i 13 e i 22 °C nelle sue ultime fasi di maturazione, un pomodoro sviluppa al meglio quelle sostanze e soprattutto si riesce a conservarlo meglio. L’ideale sarebbe quindi tenere i pomodori fuori dal frigorifero, ma non è sempre possibile farlo considerato che l’intervallo di temperatura non è molto compatibile con le temperature domestiche soprattutto d’estate, proprio quando per noi è la stagione dei pomodori.
    Le celle frigorifere dei grossisti, cioè di chi acquista grandi quantità di pomodori e poi li vende alla grande distribuzione o sui mercati, sono di solito impostate intorno ai 10 °C, mentre i frigoriferi di casa mantengono i 4 °C. A queste temperature la quantità di zuccheri e di acidi non varia in modo significativo rispetto ai pomodori tenuti a 20 °C, mentre ci sono differenze per quanto riguarda l’aroma sufficienti a farci percepire più blando un pomodoro (olfatto e gusto sono strettamente legati).
    Nel suo libro La scienza delle verdure il chimico e divulgatore Dario Bressanini si sofferma a lungo sui pomodori segnalando che sull’aroma del pomodoro intervengono centinaia di diverse molecole e che: «Quando rompiamo un pomodoro, tagliandolo o masticandolo, si producono altre molecole determinanti: dalle cellule danneggiate si liberano enzimi, il più importante dei quali è la lipossigenasi. Gli enzimi prodotti ossidano gli acidi grassi polinsaturi presenti – l’acido linoleico e l’acido linolenico – trasformandoli in varie molecole odorose». A 4 °C la produzione di quegli enzimi avviene più lentamente e può essere una delle cause di un pomodoro maturo che sa comunque di poco quando viene tolto dal frigorifero e consumato.
    Si è però scoperto che non tutto è perduto e che sull’aroma incidono comunque i giorni di frigorifero: fino a tre non cambia molto per l’aroma, ma è importante tenere il pomodoro a temperatura ambiente per circa 24 ore prima di consumarlo. Una maggiore quantità di giorni in frigorifero comporta la perdita di buona parte delle componenti aromatiche e a quel punto non funziona più nemmeno lo stratagemma di toglierlo dal frigo il giorno prima di consumarlo.
    (Ben Pruchnie/Getty Images)
    Nel caso dei prodotti acquistati al supermercato è più probabile che ci sia stato un periodo di refrigerazione, quindi le precauzioni per preservare l’aroma potrebbero non essere necessarie perché ormai si è persa buona parte dei composti. Riportare il pomodoro a temperatura ambiente prima di consumarlo potrebbe comunque renderlo più gustoso, anche perché tendiamo a percepire meno i sapori dei cibi molto freddi.
    Per quanto riguarda il sapore, ciò che percepiamo di più mentre mangiamo un pomodoro è il contrasto tra gli zuccheri e gli acidi, questi ultimi presenti soprattutto in quella sostanza gelatinosa che si trova al centro del frutto insieme ai semi e che spesso viene scartata. Come ricorda Bressanini: «Quel gel, che alcuni gettano via, ha la più alta concentrazione di acidi del pomodoro ed è quindi un errore eliminarlo: la vitamina C, che è un acido, è in gran parte concentrata in questa zona. Sono poi presenti anche vari amminoacidi liberi, in particolare l’acido glutaminico, che contribuiscono notevolmente al gusto del pomodoro».
    Le esigenze di produzione, trasporto e conservazione hanno fatto sì che venissero privilegiate la selezione e la coltivazione di varietà che non hanno grandi cavità al loro interno in cui si raccoglie la sostanza gelatinosa. Pomodori più compatti e meno cavi sono più resistenti, ma anche in questo caso si sacrifica un poco il sapore.
    Le lamentele sui pomodori meno gustosi rispetto a un tempo hanno quindi una base di verità, anche se probabilmente sono un poco esagerate come avviene spesso quando si mitizza il passato. In generale i pomodori odierni sono più resistenti e durano più a lungo, cosa che contribuisce a ridurre gli sprechi alimentari, senza contare che possono essere consumati praticamente in qualsiasi periodo dell’anno.
    Alcuni gruppi di ricerca hanno messo a confronto le varietà nelle loro versioni tradizionali con quelle più recenti, notando effettivamente la perdita o la modifica di alcuni geni coinvolti nel sapore e nell’aroma. Le differenze per alcune varietà sono minime, mentre per altre possono essere più marcate. La buona notizia è che l’identificazione dei geni che rendono gustosi i pomodori potrà consentire di avere in futuro pomodori non solo più resistenti, ma anche più saporiti, ricorrendo alle tecniche di evoluzione assistita (qui sono spiegate estesamente).
    Per chi non può permettersi un orto in cui coltivare le varietà più saporite e raccoglierle solo quando sono mature, consumandole immediatamente, il consiglio che viene generalmente dato è di non conservare i pomodori in frigorifero. Quelli acquistati già maturi andrebbero consumati il prima possibile, mentre quelli ancora acerbi possono essere tenuti a temperatura ambiente fino al grado di maturazione desiderato. Una volta maturi, se non possono essere consumati subito, è meglio riporli in frigorifero evitando però di tenerli al freddo per più di tre giorni. Consumarli a temperatura ambiente permette di percepirne meglio il sapore e l’aroma. Sperimentare con le numerose varietà di pomodoro disponibili potrebbe inoltre farvi scoprire un pomodoro per voi più saporito di altri. I gusti sono gusti, del resto. LEGGI TUTTO

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    In Brasile si indaga sulla moria di almeno 209 delfini di fiume

    Caricamento playerTra il 13 e il 23 agosto, nell’Amazzonia brasiliana, un gruppo di biologi, veterinari e pescatori ha catturato e poi liberato alcuni delfini di fiume per indagare sulle loro condizioni di salute e capire meglio come mai tra il settembre e il novembre del 2023 ci fu una moria di questi animali: ne furono trovati morti 209 tra il lago Tefé e il lago Coari, lungo il corso di due fiumi affluenti del Rio delle Amazzoni.
    In quei due mesi l’Amazzonia, la regione sudamericana in cui si trova la più grande foresta pluviale del mondo, fu interessata da una grave ed eccezionale siccità ricondotta a “El Niño”, l’insieme di periodici fenomeni atmosferici nell’oceano Pacifico che influenza il clima in gran parte del pianeta. Il livello dell’acqua nel Rio delle Amazzoni e negli altri fiumi della regione calò parecchio e ci furono numerosi incendi. Una conseguenza della scarsità d’acqua nei fiumi fu un inusuale riscaldamento di quella dei laghi: nel Coari si registrò una massima di 34 °C, nel Tefé furono misurati anche 40,9 °C, circa 10 gradi in più della media per quel periodo dell’anno. Si ritiene che siano state proprio queste alte temperature a causare la morte dei delfini – e di molti pesci.
    I delfini dell’Amazzonia appartengono a due diverse specie: ci sono le inia (Inia geoffrensis), che possono raggiungere 2 metri e mezzo di lunghezza e sono i più grandi delfini di fiume del mondo, e i tucuxi (Sotalia fluviatilis), che somigliano ai tursiopi di mare ma sono più piccoli, lunghi al massimo un metro e mezzo. Entrambe le specie sono considerate a rischio di estinzione come tutte le altre specie di delfini di fiume del mondo, danneggiate dall’inquinamento e dallo sfruttamento dei corsi d’acqua. La moria dell’anno scorso riguardò soprattutto le inie.
    Un delfino di fiume morto esaminato da alcuni ricercatori dell’Istituto Mamirauá sulla riva del lago Tefé, il 3 ottobre 2023 (REUTERS/Bruno Kelly)
    Le inie si distinguono anche per il loro colore rosa, comune anche tra altre specie di delfini di fiume del mondo, come i Sousa chinensis di Hong Kong. Quando nascono hanno la pelle grigia, come la maggior parte dei delfini, ma con l’avanzare dell’età si sbiancano sempre di più: in realtà la loro pelle è bianca ma i vasi sanguigni la fanno apparire rosa (infatti gli individui morti sono bianchi). Si pensa che il colore di questi animali sia dovuto alla torbidità delle acque dei fiumi in cui vivono: restando perlopiù schermati dalla luce del sole, col tempo perderebbero la pigmentazione iniziale.
    L’esame di un delfino, il 19 agosto 2024 (REUTERS/Bruno Kelly)
    Durante le indagini svolte nelle ultime settimane alcuni delfini sono stati temporaneamente catturati per fare dei prelievi di sangue, un’ecografia e altri esami. Non è ancora stato escluso che nella moria dei delfini sia stata coinvolta una qualche sostanza inquinante. Agli individui coinvolti sono anche stati attaccati dei microchip e una specie di marchio di riconoscimento sulle pinne dorsali per permettere future identificazioni, in caso di ricatture o ritrovamento di animali morti.
    Nel corso della spedizione sono anche stati conteggiati gli avvistamenti di delfini per provare ad avere delle stime aggiornate del loro numero. Per il momento si ritiene che la moria del 2023 abbia ridotto la popolazione delle inie del 15 per cento.
    L’occhio di un delfino catturato, il 19 agosto 2024 (REUTERS/Bruno Kelly)
    Miriam Marmontel dell’Istituto Mamirauá per lo sviluppo sostenibile, l’ente di ricerca brasiliano che ha condotto la ricerca, ha spiegato a Reuters che si spera le informazioni ricavate dalle analisi sui delfini forniscano qualche informazione utile per cercare di evitare nuove morie. L’obiettivo dei ricercatori è stabilire un protocollo di azioni da seguire da parte di chi si occupa della conservazione delle due specie per aiutare le popolazioni di delfini in caso di grosse siccità.
    In Amazzonia sta per cominciare la stagione più secca dell’anno, le temperature stanno aumentando e si teme una nuova siccità. Attualmente l’acqua del lago Tefé ha delle temperature attorno ai 30 °C secondo le misurazioni dell’Istituto Mamirauá, ma il livello dell’acqua si sta abbassando.
    Due delfini di fiume che nuotano nel lago Tefé fotografati da un drone, il 17 agosto 2024 (REUTERS/Bruno Kelly)

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    Le tartarughe del Mediterraneo nidificano sempre più a nord e a ovest

    Tra il 27 e il 30 agosto sulla spiaggia di Laigueglia, in Liguria, sono nate 92 tartarughe marine della specie Caretta caretta, la più diffusa nel mar Mediterraneo, da una buca nella sabbia scavata alla fine di giugno. In questi mesi il nido era stato osservato con grande attenzione da un gruppo di studiosi e volontari, non solo per proteggere lo sviluppo delle uova, ma anche per l’eccezionalità del luogo in cui erano state deposte. Infatti finora ci sono stati solo cinque casi noti di nidificazioni di tartarughe Caretta caretta in Liguria: uno nel 2021, uno nel 2022 e tre quest’estate. Secondo vari studiosi l’aumento delle temperature sta spingendo le tartarughe del Mediterraneo a spostarsi verso nord e verso ovest per nidificare, per cui nei prossimi anni i nidi nella regione, e in Italia in generale, potrebbero aumentare.Storicamente le Caretta caretta sono le uniche tartarughe marine che nidificano in Italia. Gli animali adulti si trovano un po’ in tutto il Mediterraneo, ma la deposizione delle uova – tra la fine di maggio e l’inizio di agosto – avviene generalmente nella regione più orientale del bacino e principalmente in Grecia e in Turchia. Il requisito indispensabile delle spiagge affinché una tartaruga ci possa deporre le uova è che siano sabbiose: le femmine adulte devono poter scavare una buca e deporvi in sicurezza le uova. La temperatura della sabbia, che si scalda molto durante il giorno, permette poi l’incubazione delle uova.
    Anche le spiagge sabbiose italiane sono frequentate dalle Caretta caretta, ma fino a poco tempo fa i nidi si trovavano soprattutto in Sicilia, Calabria, Campania e Puglia, non più a nord. Dal 2013 però sono osservati nidi in Toscana, lungo le coste del Tirreno, e più di recente in Liguria e, sull’Adriatico, ancora più a nord, in provincia di Rovigo e di Venezia. E anche nelle regioni in cui i nidi erano fatti da tempo, le nidificazioni osservate sono aumentate. Da maggio al 20 agosto di quest’anno ce ne sono state almeno 531, secondo i dati raccolti da Tartapedia, un’associazione di esperti e appassionati di tartarughe che portano avanti un monitoraggio nazionale. Negli ultimi vent’anni inoltre sono stati trovati sempre più spesso dei nidi anche sulle coste spagnole, ben più a ovest.

    L’attenzione alle tartarughe marine, anche da parte di chi lavora sulle spiagge o le frequenta per fare il bagno, «è sicuramente cresciuta», spiega la biologa Chiara Mancino, ricercatrice dell’Università La Sapienza di Roma che studia questi animali, ma anche escludendo gli effetti di tale sensibilizzazione sulle segnalazioni di nidi si osserva un aumento del loro numero verso l’ovest del Mediterraneo.
    Mancino lo ha verificato insieme ad alcuni colleghi con uno studio pubblicato nel 2022: negli anni Sessanta il centro della distribuzione spaziale dei nidi di Caretta caretta era a sud-est dell’isola di Creta, nel mar Egeo, stando alle osservazioni scientifiche; già negli anni Settanta questo punto ideale si era spostato verso ovest, nel mar Ionio, e nell’ultimo decennio è arrivato vicino alla Sicilia. Le zone con maggior densità di nidi sono tuttora nel Mediterraneo orientale ma, è sicuramente in corso un ampliamento della regione di nidificazione verso nord e verso ovest.
    «È una conoscenza comune che le tartarughe depongono le uova dove sono nate», aggiunge Mancino, «e per questo molte volte mi è stato chiesto se il fatto che oggi ci siano nidi in Liguria non significhi che c’erano anche anni fa: in realtà non è detto, è stato dimostrato che la “filopatria”, la tendenza a tornare nel luogo di nascita, è influenzata anche dai cambiamenti ambientali».
    Secondo vari biologi che studiano le Caretta caretta infatti l’ampliamento dell’areale di riproduzione delle tartarughe è probabilmente dovuto al cambiamento climatico. In tutto il mondo i suoi effetti hanno già varie ripercussioni sulla vita delle tartarughe marine, così come altri effetti delle attività umane. Ad esempio l’innalzamento del livello del mare riduce le spiagge sabbiose adatte per la deposizione delle uova, che già spesso sono diventate inospitali per le tartarughe a causa degli stabilimenti balneari e dell’illuminazione notturna, che le disturba. Gli eventi meteorologici estremi inoltre contribuiscono ad aumentare l’erosione delle spiagge.
    Ci sono poi dei problemi legati alla temperatura media della sabbia, che sta aumentando insieme a quella dell’atmosfera e dell’acqua del mare. Nei rettili la temperatura in cui si sviluppano gli embrioni nelle uova influenza il sesso dei nascituri, e più è alta più femmine nascono: questo potrebbe creare degli squilibri demografici nelle popolazioni di tartarughe e potenzialmente causare una riduzione del loro numero a lungo andare. E se le temperature aumentano troppo può anche succedere che le uova non si schiudano proprio.
    Lo studio di Mancino del 2022 ha trovato un legame tra l’ampliamento della regione in cui le Caretta caretta nidificano e l’aumento della temperatura media dell’acqua del Mediterraneo. Le spiagge più adatte per la deposizione delle uova, stando ai dati di cui disponiamo, sono quelle dove la temperatura superficiale dell’acqua del mare è di 25 °C. Le spiagge sabbiose dell’est del bacino mediterraneo continuano a essere adatte per i nidi, e quelle disponibili sono praticamente tutte usate; l’aumento delle temperature intanto sta rendendo più accoglienti le spiagge italiane e spagnole. Mancino continua a spiegare: «Può darsi che la popolazione delle tartarughe sia aumentata al punto da non trovare più spazio nel bacino orientale e si stia espandendo verso ovest dato che le condizioni attuali lo consentono. Ma questa ipotesi dobbiamo ancora verificarla».
    Le Caretta caretta non sono le uniche tartarughe del Mediterraneo di cui sono stati osservati dei nidi in località nuove negli ultimi anni. Proprio nel luglio del 2024 un gruppo di volontari del WWF di Vibo Valentia ha visto una tartaruga verde tentare di nidificare su una spiaggia della costa ionica della Calabria. Le tartarughe verdi (secondo la nomenclatura scientifica Chelonia mydas) sono l’altra specie di tartarughe marine presenti e nidificanti nel Mediterraneo, ma nidificano sulle spiagge più orientali, in particolare di Turchia, Siria, Libano, Israele ed Egitto: finora mai in Italia.
    Secondo un altro studio a cui ha lavorato Mancino, pubblicato a dicembre su Scientific Reports di Nature, ulteriori aumenti delle temperature dovuti al riscaldamento globale renderanno altre regioni del Mediterraneo più accoglienti dal punto di vista climatico anche per i nidi delle tartarughe verdi. Si tratta però di aree più antropizzate, cioè sfruttate e frequentate dalle persone, dunque potenzialmente insidiose per i nidi e le tartarughe appena nate.
    Inoltre anche se l’ampliamento dell’area di riproduzione potrebbe facilitare un aumento del numero di tartarughe marine nel Mediterraneo, e quindi in un certo senso si può dire che il cambiamento climatico le stia favorendo, le temperature più alte nell’est del bacino potrebbero avere l’effetto opposto. In Turchia è stato osservato che tra le nuove nate le femmine sono più numerose dei maschi e quando le temperature aumentano eccessivamente le uova non si sviluppano correttamente e non nasce nessuna tartaruga.
    «Poi bisogna vedere se le nuove spiagge trovate dalle tartarughe sono davvero idonee», aggiunge Mancino: «Può darsi che il successo di schiusa sia bassissimo, è quello che sto studiando ora».
    Per chi si occupa di studiare le tartarughe marine e difenderle dalle minacce alla loro sopravvivenza dovute alle attività umane l’ampliamento del loro territorio di nidificazione rappresenta una sfida, perché richiede di mettere a conoscenza delle buone abitudini per non danneggiare i nidi nuove comunità di persone. Nel caso dei nidi di Laigueglia, Arma di Taggia e Alassio, le tre località liguri dove sono state osservate le nidificazioni di quest’anno, gli scienziati dell’Acquario di Genova e dell’Agenzia regionale per la protezione dell’ambiente ligure (ARPAL) hanno collaborato coi gestori degli stabilimenti balneari dove sono stati trovati i nidi, isolando una porzione della spiaggia. Se in futuro i nidi aumenteranno «bisognerà fare tanta sensibilizzazione», conclude Mancino. LEGGI TUTTO

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    Produrre cibo dalla plastica, o almeno provarci

    Ogni anno vengono prodotti oltre 400 milioni di tonnellate di rifiuti derivanti dall’impiego dei vari tipi di plastica usati per gli imballaggi, i contenitori, gli abiti sintetici e molti altri prodotti. Una percentuale crescente di questi rifiuti viene riciclata, ma l’impatto della plastica è ancora oggi una delle principali preoccupazioni legate alla contaminazione degli ecosistemi e alla tutela della nostra salute. Mentre si fatica a concordare nuovi trattati internazionali per ridurre la produzione e gli sprechi di plastica c’è chi sta sperimentando una via alternativa un po’ più creativa: renderla commestibile.L’idea non è completamente nuova, ma negli ultimi anni ha avuto qualche maggiore attenzione in seguito a una iniziativa della Defense Advanced Research Projects Agency (DARPA), l’agenzia del dipartimento della Difesa degli Stati Uniti che si occupa dello sviluppo di nuove tecnologie da utilizzare in ambito militare. Nel 2019, la DARPA invitò i gruppi di ricerca interessati a proporre nuovi sistemi per ridurre la quantità di rifiuti prodotti dai soldati quando sono in guerra o lavorano per dare sostegno alla popolazione in seguito a emergenze e disastri naturali. L’agenzia era interessata a trovare sistemi per convertire gli imballaggi in nuovi prodotti, possibilmente sul posto, in modo da ridurre la produzione di rifiuti e rendere meno onerosa la loro gestione.
    La richiesta portò alla presentazione di progetti da vari centri di ricerca e al finanziamento da parte della DARPA di alcuni di quelli più promettenti. Uno di questi è gestito dalla Michigan Technological University (MTU) e consiste nell’impiegare sostanze e microorganismi per degradare la plastica e trasformarla in qualcos’altro. Il sistema per ora è dedicato a ricavare materiale organico che sia commestibile, mentre solo in un secondo momento si penserà ai modi in cui utilizzarlo.
    La plastica viene triturata e successivamente inserita in un reattore dove viene aggiunto l’idrossido di ammonio (il composto chimico che in soluzione acquosa chiamiamo ammoniaca) ad alta temperatura. Non tutta la plastica è uguale, la parola stessa è un termine ombrello che usiamo per riferirci a materiali molto diversi tra loro, di conseguenza non tutto ciò che viene sottoposto al trattamento reagisce allo stesso modo.

    Alcuni tipi di plastica come il polietilene tereftalato (PET), il materiale con cui sono solitamente fatte le bottiglie, si disgrega dopo questo primo passaggio, mentre altre plastiche hanno necessità di ulteriori trattamenti ad alte temperature e in assenza di ossigeno, che vengono effettuati in un reattore a parte. Le plastiche di questo tipo possono essere convertite in carburante oppure in sostanze lubrificanti, entrambe utili in un ipotetico scenario in cui il processo possa essere eseguito direttamente sul campo dai soldati come richiesto dalla DARPA.
    Ciò che si è ottenuto dal PET con il passaggio nel reattore viene invece dato in pasto a colonie di batteri, in grado di nutrirsi della plastica, che ha tra i propri componenti anche composti organici. Come ha raccontato al sito Undark, il gruppo di ricerca della MTU inizialmente riteneva che trovare i batteri più adatti per nutrirsi della plastica processata avrebbe richiesto molto tempo, ma le cose sono andate diversamente. In breve tempo, il gruppo di ricerca ha infatti notato che i batteri che normalmente degradano il compost (fatto per lo più di rifiuti e scarti alimentari) si adattano facilmente alla plastica trattata nel reattore. L’ipotesi è che la struttura a livello molecolare di alcuni composti delle piante abbia alcune caratteristiche in comune con ciò che viene processato con l’idrossido di ammonio, favorendo il banchetto dei batteri.
    Dopo che i batteri hanno consumato e trasformato la plastica, la poltiglia che si ottiene viene fatta essiccare fino a ottenere una polvere che contiene i principali macronutrienti: proteine, carboidrati e grassi. Il gruppo di ricerca ne ha elencato le caratteristiche in uno studio pubblicato lo scorso anno sulla rivista Trends in Biotechnology, ma il passaggio dal bidone della plastica alle razioni dei soldati o dei piatti in qualche ristorante non sarà così immediata.
    Da tempo si discute sull’opportunità di utilizzare particolari batteri e altri microrganismi come fonte di proteine e di altre sostanze nutrienti. La loro coltivazione richiede meno risorse e acqua rispetto a ciò che viene coltivato nei campi e per questo c’è chi sostiene che potrebbero affiancare la produzione di cibo più tradizionale riducendo l’impatto ambientale dell’intera catena alimentare. Le stime variano sensibilmente, ma si ritiene che circa un terzo di tutte le emissioni di gas serra sia prodotto dal settore alimentare.
    La polvere ottenuta dal processo messo a punto dalla MTU è stata testata senza trovare per ora sostanze note per essere tossiche. Il preparato è stato dato in pasto ad alcuni nematodi (vermi cilindrici) senza conseguenze e sono stati avviati test sui ratti, per effettuare osservazioni in periodi di tempo più lunghi rispetto alle settimane di vita dei nematodi. I risultati dai test sui ratti saranno essenziali per procedere con una prima richiesta alla Food and Drug Administration (FDA), l’agenzia governativa statunitense che tra le altre cose si occupa di sicurezza alimentare, per dichiarare il consumo della plastica trasformata in cibo sicuro per gli esseri umani.
    Non è comunque ancora detto che la sperimentazione porti a qualche risultato concreto, come del resto spesso avviene con i progetti finanziati dalla DARPA. L’agenzia è nota per promuovere iniziative di ricerca molto ambiziose se non impossibili da realizzare, confidando che almeno alcune delle sperimentazioni avviate portino da qualche parte. Il cibo dalla plastica potrebbe rivelarsi molto utile per migliorare la gestione della logistica, considerato che il trasferimento di cibo e rifornimenti è uno degli aspetti più onerosi per gli eserciti soprattutto se attivi in territori lontani dal loro paese, come avviene quasi sempre nel caso degli Stati Uniti.
    Se dovesse rivelarsi sicuro e affidabile, il sistema per convertire alcuni tipi di plastica in cibo potrebbe essere adottato in futuro per scopi civili, ma lo stesso gruppo di ricerca della MTU ha qualche dubbio in proposito. Stephen Techtmann, uno dei responsabili del progetto, ha detto sempre a Undark che potrebbe essere molto difficile convincere le persone a mangiare qualcosa che è stato ottenuto mettendo all’ingrasso dei batteri con la plastica, mentre ci potrebbero essere maggiori opportunità in particolari circostanze legate a strette necessità di sopravvivenza nelle emergenze: «Penso ci possa essere qualche preoccupazione in meno sul fattore disgusto nel caso in cui si tratti di un: “Questo mi terrà in vita per un altro paio di giorni”».
    I batteri sono comunque strettamente legati alla nostra alimentazione, come alcuni tipi di funghi e altri microrganismi. Li ingeriamo quando mangiamo un vasetto di yogurt, assaggiamo un formaggio o proviamo del kimchi e altri cibi fermentati. Oltre a rendere più semplici e sicuri da conservare alcuni elementi, contribuiscono alla salute del microbiota, cioè l’insieme dei microrganismi che vivono nel nostro intestino e che ci aiutano a digerire gli alimenti e a regolare numerose altre attività dell’organismo. Naturalmente non tutti i batteri sono commestibili (alcuni possono causare gravi danni) e per questo sono necessarie verifiche sulla sicurezza alimentare.
    I batteri impiegati da millenni per la produzione dello yogurt partono dal latte, quindi da una sostanza che sappiamo essere commestibile e l’idea di usarli fa sicuramente un effetto diverso rispetto alla trasformazione in alimenti della plastica, di cui sono noti gli effetti inquinanti e tossici. Ma in chimica una sostanza può sparire nel corso di una reazione, semplicemente perché si trasforma in qualcosa di diverso, che in questo caso secondo il gruppo di ricerca potrebbe aiutare almeno in parte a sfamare il mondo. LEGGI TUTTO