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    Siamo scarsi a comprendere le persone che non la pensano come noi

    La polarizzazione del dibattito pubblico, uno dei temi più raccontati e discussi degli ultimi anni, ha portato a una sovraesposizione mediatica di opinioni politiche contrapposte e spesso rappresentate senza sfumature. L’accresciuta familiarità delle persone con quelle rappresentazioni potrebbe anche indurle a credere di conoscere abbastanza bene il modo di pensare di chi ha un punto di vista opposto rispetto al loro. Ma quelle supposizioni sono il più delle volte sbagliate, contrariamente alle aspettative di chi le fa, come sostiene uno studio pubblicato ad agosto sulla rivista Scientific Reports.Lo studio è stato condotto da Bryony Payne e Caroline Catmur, ricercatrici in psicologia cognitiva al King’s College di Londra, e Geoff Bird, ricercatore e professore di neuroscienze cognitive all’Università di Oxford. Il loro obiettivo era studiare il tipo di processi cognitivi che inducono le persone a trarre conclusioni sbagliate sulle opinioni di altre persone. Per farlo hanno reclutato 256 statunitensi, equamente divisi tra persone con idee politiche di sinistra e persone con idee di destra, e hanno misurato quanto fossero capaci di prevedere le convinzioni politiche degli individui del loro stesso gruppo e quelle degli individui dell’altro gruppo.
    «Volevamo capire se le persone fossero meno portate a comprendere quelle con cui non erano d’accordo politicamente, e se ne fossero a conoscenza», ha detto al sito Nautilus Payne, che insieme alla sua collega Catmur lavora all’Institute of Psychiatry, Psychology & Neuroscience del King’s College, uno dei più importanti centri di ricerca d’Europa sulla salute mentale e sulle neuroscienze.
    Per suddividere i partecipanti in due gruppi, Payne, Catmur e Bird hanno sottoposto a ciascuno una serie di 24 affermazioni sui loro valori familiari, etici, religiosi e di altro tipo, e hanno chiesto di esprimere quanto le condividessero su una scala da 1 (molto in disaccordo) a 5 (molto d’accordo). Tra le altre c’erano affermazioni come “l’aborto dovrebbe essere proibito”, “il capitalismo avvantaggia tutte le classi sociali”, “le politiche di welfare hanno un effetto negativo sulla società”, “i poveri sono poveri a causa di cattivi comportamenti”, “sono contrario/a alla pena di morte”, “i matrimoni tra persone dello stesso sesso dovrebbero essere ammessi”.
    Per ogni affermazione, a ciascun individuo veniva subito presentata la risposta anonima data da un altro individuo. Se i due avevano un’opinione simile, venivano considerati parte dello stesso gruppo, altrimenti finivano in due gruppi diversi. A ogni partecipante veniva quindi chiesto di immaginare la risposta data dall’altra persona a una seconda affermazione, e di esprimere il livello di attendibilità che attribuiva alla propria ipotesi sulla risposta dell’altra persona, in una scala da «per niente» a «estremamente» sicuro/a.
    Per farsi un’idea migliore prima di confermare l’ipotesi iniziale, i partecipanti potevano anche scegliere di ricevere ulteriori risposte che quell’altra persona aveva dato ad altre affermazioni, fino a un massimo di cinque. Dopodiché potevano eventualmente aggiornare la loro previsione iniziale e riformulare anche il giudizio sull’attendibilità della previsione. Ciascun partecipante ha completato questo esercizio per 24 persone diverse.

    – Leggi anche: Quanto siamo prevedibili

    I risultati dello studio hanno mostrato che i partecipanti erano inclini a cercare più informazioni sulle persone con cui non erano d’accordo, come prevedibile, ma nonostante questo le loro previsioni erano comunque errate nella maggior parte dei casi. In media ci prendevano poco più del 50 per cento delle volte quando l’altra persona era del loro stesso gruppo. L’accuratezza scendeva al 39 per cento quando l’altra persona apparteneva all’altro gruppo, nonostante questo tipo di ipotesi fosse più “informata” rispetto a quelle formulate per le risposte di persone del proprio gruppo.
    In generale i partecipanti tendevano a dirsi abbastanza sicuri della loro capacità di indovinare correttamente le risposte altrui. In media si attribuivano un’attendibilità del 74 per cento, per le supposizioni che riguardavano persone del loro gruppo, e del 72 per cento, per quelle relative a persone dell’altro gruppo. «Le persone proprio non hanno consapevolezza di quanto siano scarse in questa cosa», ha detto Payne.
    Uno degli aspetti più preoccupanti emersi dallo studio, secondo le autrici e l’autore, è che i risultati confermano quelli di altre ricerche sull’influenza degli stereotipi nelle nostre valutazioni quotidiane. Quando immaginiamo le opinioni di persone che consideriamo appartenenti a gruppi diversi dal nostro, che sia per convinzioni politiche, per origine etnica o per provenienza geografica, tendiamo a pensare che le loro menti siano relativamente semplici, ha detto Payne. Utilizziamo quindi gli stereotipi come scorciatoie cognitive, per dedurre principi e valori condivisi da quelle persone.
    Lo studio mostra peraltro che questi pregiudizi influenzano la ricerca stessa di informazioni sulle persone di cui non condividiamo le opinioni, in questo caso disincentivandola. L’esperimento permetteva infatti di richiedere al massimo cinque risposte aggiuntive date dall’altra persona, per conoscerla meglio. Ma generalmente i partecipanti ne chiedevano meno di cinque, limitandosi alla quantità di informazioni che consideravano sufficiente per fare una valutazione più accurata. In altre parole, smettevano di chiedere informazioni aggiuntive prima di avere il quadro più completo possibile delle opinioni dell’altra persona.
    Secondo Catmur, Payne e Bird la conclusione più significativa che è possibile trarre dello studio è che gli errori nella valutazione delle opinioni altrui non derivano da una ridotta propensione a considerare le menti delle persone estranee al gruppo (i partecipanti chiedevano in effetti più informazioni su quelle persone che su quelle del loro gruppo), ma da una peggiore rappresentazione di quelle menti. «Più siamo sicuri di poterle capire, più è probabile che ci sbagliamo», ha detto Payne.
    La scarsa capacità di comprendere come la pensano le persone diverse da noi potrebbe essere in parte il risultato della polarizzazione stessa, che porta ad avere meno interazioni con i membri del gruppo opposto. Questo porta a sua volta ad avere meno esperienza nella rappresentazione delle loro menti e a una ridotta comprensione di come potrebbero variare. I risultati dello studio, ha aggiunto Catmur, suggeriscono che le persone sono tuttavia disposte a riconsiderare le loro valutazioni, una volta informate dei loro errori.
    Conversare con persone con convinzioni diverse dalle nostre potrebbe servire a mettere in discussione le nostre ipotesi reciprocamente sbagliate. «Sebbene non esistano soluzioni rapide in un contesto reale, se tutte le persone interagissero con un gruppo di persone più eterogeneo, parlassero direttamente con loro e imparassero a conoscerle, è probabile che ci capiremmo meglio», ha concluso Catmur.

    – Leggi anche: Dovremmo essere meno d’accordo con noi stessi LEGGI TUTTO

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    C’è anche l’effetto nocebo

    Caricamento playerTra gli spazi delle parole che state leggendo in questo momento sono stati inseriti particolari simboli non osservabili direttamente, ma che per come sono organizzati stimolano una specifica area del cervello causando progressivamente un forte senso di nausea. L’effetto inizia a essere percepito dopo una trentina di spazi, quindi dovreste iniziare a sentire un po’ di nausea, oppure avete letto con attenzione il titolo e il sommario di questo articolo e non ci siete cascati. Tra le parole non ci sono strani simboli invisibili e tanto meno ne esistono in grado di causare la nausea, ma a volte la suggestione di un possibile effetto negativo è più che sufficiente per indurre una reazione e avere esperienza di quello che viene definito “effetto nocebo”.
    Come suggerisce il nome, questo effetto è l’esatto contrario del più conosciuto effetto placebo, che porta invece a pensare di avere benefici in seguito all’utilizzo di una particolare sostanza, anche se questa in realtà non fa nulla. È un fenomeno noto e studiato da tempo, diventato per esempio molto importante per valutare l’efficacia di un nuovo farmaco nella sua fase sperimentale, mentre l’effetto nocebo ha ricevuto meno attenzioni anche a causa dei problemi etici che pone la creazione di condizioni in cui si possa manifestare.
    Luigi XVI è famoso soprattutto per la fine che fece sulla ghigliottina qualche anno dopo la Rivoluzione francese a fine Settecento, ma quando era ancora re fu involontariamente protagonista dei primi esperimenti che portarono alla scoperta dell’effetto placebo e nocebo. Si era infatti fatto incuriosire dal “mesmerismo”, la pratica ideata dal medico di origini tedesche Franz Mesmer che sosteneva di poter alleviare i sintomi di varie malattie utilizzando dei magneti, in modo da condizionare il passaggio dei fluidi nell’organismo.
    Il mesmerismo oggi ci appare come ciarlataneria, ma con le ancora scarse conoscenze della fisiologia umana nel Settecento non suonava più implausibile di altre tecniche, come per esempio i salassi con le sanguisughe. Luigi XVI non era comunque convinto e, visto che la pratica spopolava a Parigi, istituì una commissione per mettere alla prova il mesmerismo. A capo della commissione fu messo Benjamin Franklin, scienziato e politico statunitense, che all’epoca era ambasciatore degli Stati Uniti in Francia.
    Insieme al resto della commissione, Franklin organizzò una serie di esperimenti per provare a distinguere gli effetti sull’immaginazione di quelle particolari pratiche dagli eventuali effetti fisici. In uno degli esperimenti ai partecipanti veniva detto di essere sottoposti a trattamenti magnetici, anche se in realtà non lo erano. Il trattamento previsto da Mesmer non veniva quindi effettuato, eppure alcuni partecipanti mostravano lo stesso alcuni degli effetti indesiderati che venivano solitamente segnalati durante i trattamenti con i magneti.
    Il mesmerismo pratico a Parigi, in una stampa d’epoca settecentesca (Wikimedia)
    Nel documento finale, la commissione aveva quindi segnalato al re che i risultati solitamente attribuiti al mesmerismo erano in realtà semplicemente dovuti all’immaginazione dei pazienti, che si suggestionavano al punto da percepire alcuni degli effetti collaterali del trattamento. Gli esperimenti avevano quindi permesso di scoprire l’effetto nocebo, anche se all’epoca il termine non era ancora utilizzato. Il lavoro di Franklin e colleghi aveva poi mostrato come sia gli effetti negativi sia quelli positivi, cioè l’effetto placebo, potessero emergere in contemporanea in base alle aspettative dei pazienti. In altre parole, i pazienti si aspettavano di dover affrontare qualche effetto avverso nel corso del trattamento per arrivare agli effetti positivi, comunque frutto della loro immaginazione.
    Gli studi sull’effetto placebo si fecero via via più rigorosi nel corso dell’Ottocento, ma fu necessario attendere gli anni Trenta prima che emergessero elementi più chiari sul nocebo. Il medico statunitense Harold Diehl aveva notato che alcune persone segnalavano di avere degli effetti collaterali anche dopo l’assunzione di una sostanza che credevano servisse a qualcosa, anche se in realtà non faceva nulla. Mentre studiava il raffreddore comune, notò che alcune persone segnalavano di avere effetti aversi anche dopo l’assunzione di pillole a base di zucchero o di un finto vaccino.
    Negli anni dopo la Seconda guerra mondiale agli studi di Diehl si aggiunsero ricerche più articolate, nate spesso dall’osservazione dei pazienti che partecipavano ai test per verificare l’efficacia di farmaci e trattamenti. I volontari venivano di solito divisi in gruppi che ricevevano il vero farmaco o una sostanza che non faceva nulla, in modo da verificare gli eventuali benefici del farmaco rispetto a nessuna terapia. Oltre alla quota di chi segnalava di sentirsi meglio dopo l’assunzione del finto farmaco (effetto placebo), c’era quasi sempre qualcuno che diceva di avere patito gli effetti collaterali (effetto nocebo), dei quali magari aveva sentito parlare mentre veniva informato prima di accedere alla sperimentazione.
    Nel 1955 il medico statunitense Henry Beecher dedicò parte dei propri studi a quelli che definì i “placebo tossici”, elencando gli effetti indesiderati segnalati più di frequente dalle persone che avevano assunto un placebo. La lista comprendeva mal di testa, nausea e secchezza delle fauci e indusse altri gruppi di ricerca a occuparsi della questione.
    All’inizio degli anni Sessanta il ricercatore statunitense Walter Kennedy utilizzò per la prima volta la parola “nocebo”, dal verbo latino “noceo” (“nuocere”) in contrapposizione alla già utilizzata parola placebo, in questo caso dal verbo latino “placeo” (“dare piacere, sollievo”). Kennedy scrisse che nocebo deve essere inteso come la risposta soggettiva di un individuo, come qualità propria del paziente e non della sostanza che ha assunto. La definizione avrebbe ricevuto diverse modifiche e interpretazioni nel corso del tempo e ancora oggi è dibattuta, vista la difficoltà nel valutare cause e meccanismi dell’insorgere di effetti negativi non indotti direttamente da qualcosa.
    Le attuali conoscenze sui rapporti causa/effetto e sulle correlazioni nell’assunzione di farmaci, per esempio, suggeriscono che un placebo non contiene di per sé nessuna sostanza che possa causare un peggioramento dei sintomi di chi la assume o l’insorgenza di ulteriori malesseri. Di conseguenza, si tende a interpretare quell’insorgenza come il frutto di una reazione soggettiva dovuta alle aspettative da parte di chi ha assunto il placebo.
    Comprendere confini e caratteristiche dell’effetto nocebo non è comunque semplice. Alcune ricerche hanno segnalato che non ci sono elementi per ritenere che alcune persone siano soggette più di altre al fenomeno, così come non sono emersi elementi anticipatori tali da poter prevedere chi sia più soggetto all’effetto nocebo. Si è però notato che fornire molte informazioni ai partecipanti alle sperimentazioni sugli effetti avversi, per esempio nel caso dei test su un nuovo farmaco, può contribuire a fare emergere una maggiore incidenza del fenomeno. Ridurre l’effetto nocebo fornendo meno informazioni sarebbe però impensabile ed eticamente discutibile, considerato che chi si sottopone a una sperimentazione deve sottoscrivere un consenso informato.
    La recente pandemia da coronavirus ha comunque offerto un’opportunità per effettuare test clinici su grande scala, tali da rendere poi possibili alcuni studi e analisi statistiche sui loro risultati. È emerso per esempio che il 72 per cento degli effetti avversi segnalati in seguito alla somministrazione di una prima dose fasulla del vaccino contro il coronavirus era riconducibile all’effetto nocebo.
    A differenza di un virus, l’effetto nocebo sembra abbia comunque qualche capacità di trasmettersi da una persona all’altra semplicemente per via mentale. Nel 1998 in una scuola superiore del Tennessee, un’insegnante segnalò di sentire uno strano odore in classe e dopo un po’ di tempo iniziò ad accusare mal di testa, nausea e difficoltà a respirare. Alcuni degli studenti nella classe iniziarono ad avere gli stessi sintomi, così come altre persone che frequentavano la scuola.
    Circa duecento persone furono portate in ospedale per accertamenti, ma dagli esami non emerse nulla di strano, né fu trovata alcuna sostanza nociva nella scuola tale da causare quei sintomi. L’insegnante si era convinta che ci fosse qualcosa di strano nell’aria e aveva trasmesso ad altri studenti quella convinzione. Questi ultimi, a loro volta, avevano “contagiato” altri compagni semplicemente sentendo di avere i medesimi sintomi. Era un caso di malattia psicogena di massa, condizione che secondo certi ricercatori può essere ricondotta ai meccanismi che si verificano con l’effetto nocebo.
    I casi di malattia psicogena di massa (quella che un tempo veniva anche definita “isteria di massa”) riguardano spesso particolari rituali e per questo alcuni antropologi utilizzano i concetti di placebo e nocebo per spiegare alcuni comportamenti. I riti che vengono per esempio eseguiti per “curare” o portare qualche tipo di benefici vengono indicati come “rituali placebo”, contrapposti ai “rituali nocebo” dove invece si effettuano rituali per procurare qualche danno per esempio nel caso di particolari rituali di “magia nera”. Razionalmente, la difesa migliore in questi casi è semplicemente non crederci, ma non è sempre semplice. LEGGI TUTTO

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    Quelli che non hanno una voce interiore

    Caricamento playerPer molte persone parlare tra sé e sé nel corso della giornata, articolando le frasi senza pronunciarle, è un fatto del tutto normale. C’è chi lo fa per esercitarsi prima di parlare in pubblico, per esempio, e chi lo fa per abitudine mentre fa altro, senza nemmeno farci caso. Per quanto apparentemente comune, l’utilizzo del monologo interiore non è però frequente allo stesso modo tra tutte le persone. E ce ne sono alcune che dicono di non avere affatto una voce interiore.
    In un articolo uscito a maggio sulla rivista Psychological Science la scienziata cognitiva danese Johanne S. K. Nedergaard, dell’università di Copenhagen, e lo psicologo Gary Lupyan, della University of Wisconsin–Madison, hanno proposto di definire «anendofasia» l’esperienza di chi non ha esperienza della propria voce interiore. La definizione deriva dalle due parole greche éndon, “dentro”, e fásis, “voce”. È una condizione non patologica, difficile da rilevare e misurare con precisione, ma riferita da una percentuale della popolazione adulta stimata tra il 5 e il 10 per cento.
    Per la loro ricerca Nedergaard e Lupyan si sono basati sulle risposte dei partecipanti a un questionario, e hanno scoperto tra le altre cose che l’anendofasia è associata a risultati peggiori in determinati compiti cognitivi che richiedono una buona memoria di lavoro verbale. Nella terminologia della psicologia cognitiva è la parte della memoria responsabile della conservazione temporanea di informazioni che possono essere verbalizzate, come lettere, parole, numeri e nomi. Nei test che misurano questo tipo di memoria, secondo i risultati della ricerca, le persone anendofasiche se la cavano meno bene delle altre.

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    Tra le persone che dicono di non avere una voce interiore ce ne sono alcune che la descrivono come una condizione dispendiosa in termini di tempo e fatica, perché richiede loro l’impegno di tradurre i pensieri in parole nel momento in cui hanno effettivamente bisogno di dire qualcosa. «Altre descrivono il loro cervello come un computer che funziona normalmente, solo che non elabora i pensieri verbalmente, e ha un diverso collegamento con l’altoparlante e il microfono rispetto a quello di altre persone», ha detto Nedergaard in un comunicato stampa pubblicato dall’università di Copenhagen. Le persone che invece hanno una voce interiore, indipendentemente da quanto spesso la usano, la descrivono tipicamente come una voce fatta di «parole senza suono».
    La ricerca di Nedergaard e Lupyan ha confermato in parte alcune teorie già proposte in passato da vari studiosi, in particolare dall’influente psicologo russo Lev Vygotskij, che attribuiscono al linguaggio interiore una funzione fondamentale per lo svolgimento di diversi compiti cognitivamente impegnativi, tra cui la pianificazione e l’inibizione dei comportamenti. Nedergaard e Lupyan hanno selezionato i partecipanti da un campione più ampio di persone che in precedenza avevano risposto a un questionario sulle proprie rappresentazioni interiori, utilizzato anche per altre ricerche.
    Per cercare di misurare la familiarità dei partecipanti con la loro voce interiore il questionario chiedeva di indicare il livello di accordo con affermazioni del tipo «ripenso nella mia testa ai problemi sotto forma di conversazione con me stesso». Nedergaard e Lupyan hanno studiato 46 persone tra quelle meno d’accordo con queste affermazioni, e quindi prive o quasi prive di una voce interiore, e 47 che erano invece all’estremità opposta dello spettro, e cioè avevano un monologo interiore quasi costante. Per capire se e quanto questa differenza potesse riflettersi sul comportamento hanno quindi sottoposto tutti i partecipanti a diversi esperimenti, chiedendo loro di svolgere alcuni compiti.

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    In un esperimento hanno mostrato loro una serie di immagini di coppie di oggetti, e il compito era dire per ogni coppia se i nomi dei due oggetti formavano una rima o no. Le persone hanno risposto più o meno negli stessi tempi, in generale, ma quelle del gruppo senza o con poca voce interiore hanno ottenuto punteggi più bassi. In un altro esperimento i partecipanti dovevano ripetere una serie di cinque parole che avevano letto in precedenza, fonologicamente o ortograficamente simili tra loro (per esempio rough, cough, through, dough, bough). Anche in questo caso il gruppo degli anendofasici ha ottenuto risultati notevolmente peggiori rispetto all’altro, confermando l’ipotesi iniziale degli sperimentatori.
    Dopo i due esperimenti ai partecipanti è stato chiesto se avessero parlato ad alta voce durante l’esecuzione dei compiti richiesti: lo aveva fatto una percentuale simile di persone in entrambi i gruppi, e confrontando soltanto questi due sottogruppi la differenza nei punteggi ai due test cognitivi scompariva. Nedergaard e Lupyan hanno interpretato questo risultato come una prova del fatto che parlare ad alta voce durante l’esecuzione di un compito – una strategia utilizzata da molte persone, con o senza l’anendofasia – può eventualmente compensare i limiti cognitivi associati alla mancanza di voce interiore.
    Altri due esperimenti condotti da Nedergaard e Lupyan hanno analizzato la capacità dei partecipanti di passare rapidamente da un compito a un altro (dalle addizioni alle sottrazioni di numeri), e di distinguere tra sagome di animali di una stessa specie e di animali di una specie diversa (la sagoma di un gatto da quella di un altro gatto e da quella di un cane). In questo caso l’anendofasia non è risultata un fattore influente, dato che non sono emerse differenze nei punteggi tra i due gruppi.

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    Oltre che rilevante per le scienze cognitive, la scoperta di Nedergaard e Lupyan potrebbe avere implicazioni significative anche in ambito medico e in psicologia clinica. È possibile che chi utilizza molto la propria voce interiore faccia più affidamento sul linguaggio nel modo in cui pensa, ha detto Lupyan a Scientific American. E questo, secondo lui, suggerisce l’ipotesi che eventuali disturbi del linguaggio causati da ictus o altre lesioni potrebbero avere effetti più gravi in questo tipo di pazienti che in quelli anendofasici, e richiedere terapie differenti.
    Nelle intenzioni di Nedergaard e Lupyan, dare all’assenza di voce interiore la definizione specifica di anendofasia dovrebbe semplificare e favorire ulteriori ricerche, come successo in anni recenti per altre condizioni non patologiche come la sinestesia (l’insorgenza di una sensazione indotta da uno stimolo diretto a un altro senso) e l’afantasia (l’incapacità di visualizzare immagini mentali).

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    La ricerca è stata accolta positivamente da diversi scienziati per la capacità di descrivere in nuovi modi la varietà e la diversità delle esperienze mentali umane. Ma allo stesso tempo proprio la soggettività di quelle esperienze pone una serie di limiti alle possibilità di valutare e misurare l’anendofasia in modo attendibile, perché non c’è modo di sapere con certezza se ciò che le persone dicono della propria mente sia ciò che realmente accade nella loro mente. «È molto difficile riflettere sulle proprie esperienze interiori, e la maggior parte delle persone all’inizio non è molto brava a farlo», ha detto a Scientific American Charles Fernyhough, psicologo della Durham University, in Inghilterra.
    Esiste inoltre il rischio che la scelta di attribuire un nome specifico all’assenza di voce interiore contribuisca a interpretarla come una condizione piuttosto che come un’esperienza come tante altre. Lo stesso questionario utilizzato da Nedergaard e Lupyan non serve peraltro a definire l’anendofasia come una condizione o assente o presente, ma semmai a definire l’esperienza soggettiva lungo determinate scale. «Preferirei promuovere il messaggio che la diversità nell’esperienza interiore debba essere il nostro punto di partenza» e che «non esistono due menti uguali», ha detto Fernyhough. LEGGI TUTTO

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    Il mese di nascita influenza i risultati nella vita?

    Caricamento playerLa correlazione tra il mese di nascita e il successo negli sport è un fenomeno studiato da diversi decenni e noto come “effetto dell’età relativa” (Relative Age Effect, RAE). Fa riferimento a una distribuzione sbilanciata delle date di nascita dei giovani atleti selezionati dalle squadre di club nel professionismo, tra cui i nati nel primo semestre di ogni anno, e in particolare a gennaio e febbraio, sono spesso nettamente di più rispetto ai nati nel secondo semestre.
    Una delle più condivise spiegazioni di questo fenomeno è che selezionatori e talent scout tendono in molti casi a interpretare le buone prestazioni dei giovani atleti come un segno di abilità particolari anche quando quelle prestazioni sono banalmente l’effetto di uno sviluppo fisico più avanzato. Di conseguenza privilegiano nella selezione, anche senza volerlo, gli atleti nati prima all’interno di una stessa classe d’età. Effetti simili a quello dell’età relativa – che riguardano anche lo sviluppo psicologico e cognitivo, oltre a quello fisico – sono presenti in ambito scolastico, dove nei primi anni di formazione sono stati osservati risultati migliori tra i bambini nati prima o molto prima dei loro coetanei.
    La legge che regola le iscrizioni scolastiche, in Italia come in diversi altri paesi, prevede che siano iscritti alla scuola primaria i bambini e le bambine che compiono il sesto anno di età entro il 31 dicembre dell’anno di riferimento. Nella pratica significa che in una stessa classe di prima elementare possono capitare bambini che compiono sei anni a gennaio e altri che li compiono undici mesi dopo, a dicembre. Diversi studi mostrano come gli scolari più giovani, cioè nati alla fine dell’anno, abbiano maggiori probabilità di essere ripetenti e di avere risultati scolastici peggiori in più fasi della formazione scolastica (quarto, ottavo e decimo anno) rispetto ai compagni di classe più grandi.
    Gli effetti dell’età relativa tendono poi a dissiparsi man mano che emergono quelli più ampi della scolarizzazione e di altri fattori, che riducono gli svantaggi presenti nelle fasi iniziali. Gli svantaggi si riducono nel tempo anche perché le capacità fisiche e cognitive negli esseri umani aumentano molto rapidamente nei primi anni di vita, e sempre meno dopo: vale a dire che la differenza tra bambini di cinque e sei anni è generalmente molto maggiore di quella tra persone di 25 e 26 anni.
    Se non correttamente soppesate, le differenze iniziali di maturità e sviluppo possono tuttavia riflettersi in effetti residui a lungo termine sul rendimento scolastico. Gli alunni più giovani ottengono punteggi inferiori del 4-12 per cento rispetto ai più anziani al quarto anno di scuola, e del 2-9 per cento all’ottavo anno, secondo uno studio condotto in diversi paesi dell’OCSE (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico), inclusa l’Italia, e pubblicato nel 2006 sul Quarterly Journal of Economics, una rivista della casa editrice dell’università di Oxford.
    Tre giocatori delle giovanili della squadra Auckland Rugby Union a Auckland, in Nuova Zelanda, il 5 agosto 2017 (Phil Walter/Getty Images)
    Durante la fase della pubertà gli effetti dell’età relativa possono combinarsi con quelli dovuti allo sviluppo biologico sfasato. A parità di classe d’età, un ragazzo nato prima può mostrare prima rispetto ai suoi coetanei più giovani gli effetti dell’incremento della produzione di testosterone e della conseguente accelerazione della crescita fisica e dello sviluppo della massa muscolare. Secondo una ricerca della Scuola universitaria federale dello sport di Macolin, in Svizzera, la differenza relativa nei maschi raggiunge l’apice poco prima dei 14 anni: dopodiché le differenze si riducono, perché i ragazzi dallo sviluppo tardivo iniziano a recuperare lo svantaggio. E a 20 anni la differenza nell’età biologica tra i ragazzi dallo sviluppo precoce e quelli dallo sviluppo tardivo è praticamente scomparsa.

    – Leggi anche: Per valutare il successo bisogna considerare il “pregiudizio di sopravvivenza”

    Stabilire con precisione l’influenza degli effetti dell’età relativa sui risultati ottenuti nel corso della vita è complicato, perché diventa via via più difficile all’aumentare dell’età del campione di popolazione studiato. Gli effetti tendono infatti a sovrapporsi ad altri complessi fattori biologici, psicologici, sociali e culturali, generalmente trascurati negli studi che mostrano una correlazione tra il successo e le nascite nei primi mesi dell’anno (o nei primi mesi del periodo di selezione pertinente). E in alcuni casi la correlazione scompare del tutto, per via di quei fattori, o addirittura diventa una correlazione inversa: i più giovani vanno meglio dei coetanei più anziani.
    Una ricerca del 2017 dell’università di Sydney su oltre 6mila nuotatrici e nuotatori professionisti, che avevano partecipato ai campionati nazionali dal 2000 al 2014, concluse che nelle classi comprese tra i 12 e i 14 anni diversi atleti mostravano vantaggi significativi associati all’età relativa. Vantaggi che però si dissipavano entro i 15-16 anni, con poche eccezioni. E verso i 17-18 anni emergevano anzi effetti inversi dell’età relativa: a ottenere risultati migliori rispetto ai coetanei erano cioè nuotatrici e nuotatori relativamente più giovani.
    In altri casi, in ambito sportivo ma non solo, la correlazione tra i risultati positivi e le nascite nei primi mesi dell’anno – almeno in parte spiegabile con gli effetti dell’età relativa – prosegue invece anche dopo la pubertà. La distribuzione anomala delle date di nascita nei primi mesi dell’anno tra i calciatori professionisti negli Stati Uniti, per esempio, è un fatto noto. Fu descritto in particolare da un libro divulgativo di grande successo, uscito nel 2005: Freakonomics, scritto dall’economista Steven Levitt e dal giornalista Stephen Dubner. Ma diverse ricerche in altri paesi del mondo hanno riscontrato nel tempo dati simili a quelli statunitensi.
    Un’analisi condotta nel 2015 dai ricercatori in statistica e studi economici Luca Fumarco e Giambattista Rossi mostrò una presenza anomala di nati a gennaio in un gruppo rappresentativo di calciatori di Serie A in attività nelle sette stagioni consecutive tra il 2007-2008 e il 2013-2014. Erano circa il 70 per cento in più di quanto ci si sarebbe potuto attendere sulla base dei normali livelli di nascita mensili italiani. E rispetto a quegli stessi livelli i calciatori nati a dicembre erano invece circa il 50 per cento in meno. L’analisi mostrò anche che i salari dei calciatori nati negli ultimi tre mesi dell’anno erano in media più bassi rispetto a quelli dei loro coetanei nati nei primi tre mesi dell’anno.
    Un gruppo di calciatori delle giovanili della squadra australiana Pendle Hill assistono a un allenamento al Wanderers Football Park a Sydney, in Australia, il 13 maggio 2022 (Mark Evans/Getty Images)
    La presenza degli effetti dell’età relativa anche in età adulta può dipendere da prassi e meccanismi di selezione – spesso contestati – che in età giovanile anziché ridurli amplificano quegli effetti, in contesti in cui esiste una competizione tra i bambini. Può capitare che gli studenti considerati più bravi dai loro insegnanti, per esempio, siano selezionati per partecipare a progetti o programmi che permettono loro di acquisire ulteriori conoscenze rispetto ai coetanei, come scritto da Fumarco e Rossi sul sito lavoce.info. E può capitare che a causa di questi meccanismi si attivino circoli viziosi dall’altra parte, per cui bambini con risultati peggiori si sentono demotivati e sono portati a impegnarsi di meno.

    – Leggi anche: Perché il concetto di meritocrazia è controverso

    Gli effetti dell’età relativa sono stati utilizzati per spiegare distribuzioni anomale delle date di nascita anche in altri campioni molto specifici della popolazione adulta. Uno studio uscito nel 2016 su una delle riviste scientifiche pubblicate dalla Royal Statistical Society, uno dei più antichi e importanti istituti di statistica al mondo, mostrò che rispetto alla popolazione statunitense generale i senatori e i deputati hanno il 50 per cento in più di probabilità di essere tra le persone relativamente più giovani nelle loro rispettive classi di età. L’entità dell’effetto dell’età relativa era persino maggiore di quella riscontrata in altri studi, ma in generale coerente con i dati che emergono dalla ricerca nello sport professionistico.
    Gli autori dello studio, i ricercatori Daniel Muller e Lionel Page, cercarono di capire anche se l’età relativa fosse correlata alla qualità dei politici eletti al Congresso. Pur premettendo che «tutte le misure sono imperfette» e che «in definitiva la qualità di un politico rimane non osservabile», utilizzarono come indicatori pertinenti il livello di istruzione e l’età in cui ciascun politico era entrato in carica. Ma tra la qualità definita in questi termini e l’età relativa non trovarono correlazioni: i politici relativamente meno giovani non erano migliori dei loro colleghi.
    Una possibile spiegazione proposta nello studio riguardo all’effetto dell’età relativa sul successo in politica è che essere relativamente più anziani tra coetanei durante la giovinezza può aiutare a sviluppare capacità di leadership e spirito di intraprendenza. A piccole differenze presenti in quella fase della formazione potrebbero man mano aggiungersene altre, perché le persone che prendono l’iniziativa tra coetanei potrebbero acquisire più fiducia nelle loro capacità. Muller e Page conclusero che l’effetto dell’età relativa è probabilmente troppo piccolo per essere influente nella popolazione adulta generale, ma può essere evidente «in contesti competitivi in cui piccoli vantaggi iniziali possono avere effetti critici a lungo termine».
    Un bambino e due bambine ucraine in una scuola elementare a Berlino, in Germania, il 28 aprile 2022 (Maja Hitij/Getty Images)
    Un’altra ricerca di Page e delle due economiste comportamentali Dipanwita Sarkar e Juliana Silva-Goncalves, condotta nel 2019 su oltre mille adulti australiani di età compresa tra 24 e 60 anni, mostrò che in compiti che richiedevano semplici calcoli matematici le persone relativamente più anziane nelle loro rispettive classi d’età avevano più fiducia nelle proprie capacità rispetto a quelle relativamente più giovani. Erano inoltre più disposte a partecipare a qualche forma di competizione, e affermavano di essere più inclini a correre rischi in una serie di ambiti della loro vita.

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    La consapevolezza dell’effetto dell’età relativa è piuttosto condivisa negli Stati Uniti, dove nel tempo è emersa – soprattutto tra le classi sociali benestanti – una tendenza dei genitori a cercare di compensare preventivamente lo svantaggio che i loro figli potrebbero avere nelle rispettive classi, nei casi in cui siano molti mesi più giovani dei loro coetanei. Uno dei “rimedi” più comuni è una prassi che è il contrario della primina, chiamata redshirting (dal nome di una prassi equivalente diffusa negli sport universitari): consiste nell’attendere un anno in più prima dell’iscrizione alla scuola materna. In questo modo, nelle classi di età subito successive alla loro età anagrafica, i bambini “redshirt” risultano essere non i più giovani ma i più anziani.
    Gli effetti della pratica del redshirting sono però molto dibattuti. La discussione in ambito scientifico riflette peraltro un’incertezza che riguarda in generale gli studi sull’età relativa quando si concentrano non sugli effetti immediati ma su quelli a lungo termine, e sugli ambiti diversi da quello sportivo. Da una parte i risultati di molte ricerche hanno rafforzato nel corso del tempo l’idea che essere da piccoli più grandi dei propri coetanei – quindi in molti casi più veloci, più intelligenti e più forti fisicamente – produca una serie di vantaggi iniziali. Ma dall’altra parte ricerche dello stesso tipo che si concentrano su fasi della formazione successive indicano che dopo una certa età le disparità si attenuano, e che in alcuni casi sono anzi gli studenti relativamente più giovani a ottenere risultati migliori in ambito universitario.
    Da uno studio del 2011 su un campione di studenti dell’Università Bocconi a Milano, condotto dall’economista Michele Pellizzari e dallo statistico Francesco Billari, emerse che gli studenti relativamente più giovani andavano meglio rispetto ai loro coetanei più grandi, in particolare nelle materie tecniche. Una delle ipotesi formulate da alcuni psicologi, tra cui la statunitense Angela Duckworth, per spiegare perché la correlazione tra età relativa e risultati può diventare inversa nel corso del tempo è che gli svantaggi iniziali possono stimolare, tra le persone del sottogruppo inizialmente svantaggiato, una maggiore grinta e una costante predisposizione a cercare di superare i propri limiti.
    L’idea condivisa da Duckworth e da altri è che i bambini imparino a competere in alcuni ambiti, tra cui la scuola, in cui possono avere successo indipendentemente da fattori che invece li limitano in altri ambiti, per esempio lo sport. Di conseguenza acquisiscono rispetto ai loro coetanei più grandi una maggiore consapevolezza del fatto che, laddove non possono contare su un vantaggio iniziale assoluto, possono provare a raggiungere gli obiettivi tramite le motivazioni, la perseveranza e la dedizione.
    Altre ricerche suggeriscono in generale come gli effetti dell’età relativa non siano sufficienti a influenzare la vita delle persone sul lungo termine, e di come quegli effetti iniziali siano mitigati nel corso dello sviluppo da fattori ambientali e genetici che finiscono per essere molto più influenti dell’essere leggermente più giovani o meno giovani dei propri coetanei. Un gruppo di ricercatrici e ricercatori finlandesi, per esempio, condusse nel 2017 una ricerca sui politici nazionali molto simile allo studio di Muller e Page sui senatori e sui deputati statunitensi, ma riscontrò un fattore significativo. Scoprì che l’effetto dell’età relativa era presente anche nel parlamento finlandese, in cui molti politici erano effettivamente nati nei primi mesi dell’anno, ma valeva soltanto per gli uomini e non per le donne. LEGGI TUTTO

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    Il senso comune non è poi così comune

    Il concetto di “senso comune” o “buon senso” è utilizzato con grande frequenza in molti contesti diversi, dalle conversazioni quotidiane ai dibattiti politici ai consigli sulla salute. È però un concetto abbastanza ambiguo e difficile da definire, perché in generale non esiste accordo tra le persone su quali conoscenze siano parte del senso comune e quali no. Non è noto nemmeno quanto sia concretamente condiviso il senso comune, che pur chiamandosi così non è appunto chiaro esattamente quanto lo sia.In un articolo pubblicato a gennaio sulla rivista scientifica Proceedings of the National Academy of Sciences (PNAS) Mark Whiting e Duncan Watts, due ricercatori in scienze dell’informazione della University of Pennsylvania, hanno misurato il grado di condivisione del senso comune all’interno di un gruppo di 2.046 persone. Per cercare di comprendere come i partecipanti intendessero questo concetto, hanno chiesto loro di valutare oltre 4mila affermazioni secondo una scala di buon senso, e hanno scoperto che non esistevano valutazioni universalmente condivise all’interno del gruppo.
    Soltanto affermazioni molto generiche relative a conoscenze empiriche, come «i triangoli hanno tre lati» e «una batteria non può fornire energia per sempre», erano considerate di senso comune da un numero ampio di persone. Su altre come «evitare contatti ravvicinati con persone malate», «tutti gli esseri umani sono creati uguali» o «tutte le persone devono avere le stesse opportunità di accesso all’istruzione» c’erano invece grandi divergenze di opinione riguardo al fatto se fossero o meno un esempio di affermazione di buon senso. Uno degli aspetti che hanno attirato maggiormente l’attenzione dei ricercatori è che variabili demografiche come l’età, il genere o il reddito delle persone non erano rilevanti sulla valutazione di cosa fosse per loro il senso comune.
    I partecipanti dovevano esprimere sia quanto ciascuna affermazione fosse di senso comune secondo loro, sia quanto pensavano che lo fosse per le altre persone. In molti casi le valutazioni andavano di pari passo e le convinzioni personali erano molto influenti su cosa le persone pensavano che fosse il senso comune. Per esempio, se un partecipante non condivideva l’affermazione secondo cui «tutti gli esseri umani sono creati uguali», la sua inclinazione a giudicarla di buon senso in termini collettivi diminuiva (e, viceversa, aumentava quando era d’accordo con l’affermazione).

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    La condivisione delle opinioni all’interno del gruppo tende tuttavia a diminuire man mano che aumenta il numero di persone prese in considerazione. «I nostri risultati suggeriscono che tende a esserci una ragionevole quantità di convinzioni in comune tra due persone, ma come società manca un senso comune a tutti», ha detto Whiting. In generale, secondo lui, le persone tendono a essere d’accordo su cosa sia il buon senso se sono persone che interagiscono regolarmente, ma non si rendono conto che esistono poche cose su cui tutte le persone sono universalmente d’accordo.
    Una delle possibili obiezioni rispetto alle conclusioni dello studio pubblicato su PNAS è che il modo in cui le persone intendono il senso comune ha più a che fare con le loro azioni quotidiane che con le loro opinioni, come ha detto al quotidiano El País Javier Vilanova, professore di logica e filosofia del linguaggio all’università Complutense di Madrid. «Il luogo in cui il buon senso si vede davvero e si sviluppa è nella vita di tutti i giorni», ha detto Vilanova, e ha fatto l’esempio del denaro come di qualcosa che esiste perché esiste una convinzione condivisa sul valore che ha.
    Altre ricerche hanno descritto negli ultimi anni, in un modo simile a quello dello studio di Whiting e Watts, quanto sia problematico il concetto di senso comune. Ha alcuni aspetti in comune con il concetto di moderazione, che è quello che i ricercatori definiscono uno «standard ambiguo», scrisse nel 2020 la psicologa Michelle vanDellen, professoressa di scienze comportamentali alla University of Georgia e coautrice di uno studio pubblicato nel 2016 sulla rivista Appetite e intitolato Come le persone definiscono la moderazione?.

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    Per uno degli esperimenti dello studio, vanDellen e altre due ricercatrici coinvolsero un gruppo di 89 persone. A ciascun partecipante, seduto a un tavolo davanti a un piatto di 24 biscotti al cioccolato appena sfornati, chiesero di indicare la quantità di biscotti che avrebbe «dovuto» mangiare, quella che considerava un consumo «moderato» e quella che considerava un consumo «autoindulgente». I risultati mostrarono che la quantità moderata di biscotti indicata dai partecipanti era mediamente molto meno della quantità autoindulgente, ma anche una volta e mezzo la quantità di biscotti ammessa dalle linee guida per un’alimentazione equilibrata: che è una differenza significativa sia statisticamente che praticamente, secondo vanDellen.
    «Se le persone prendessero una sola decisione alimentare al giorno come fecero nel nostro laboratorio di ricerca, se mangiassero cioè con “moderazione” anziché quanto dovrebbero per un solo pasto o spuntino una volta al giorno, consumerebbero circa 25mila calorie extra in un anno», scrisse vanDellen. Lei e le altre ricercatrici scoprirono inoltre che le definizioni cambiavano a seconda dei gusti personali: le persone a cui piacevano molto determinati alimenti tendevano a essere più generose nella definizione della moderazione, ma solo relativamente agli alimenti che apprezzavano.
    Secondo vanDellen il concetto di senso comune, così come quello di moderazione, «non è affatto comune»: perché nessuno è d’accordo su cosa sia, e le differenze dipendono da molte variabili contestuali e individuali. Il buon senso in una città sarà diverso da quello in un piccolo paese, per esempio. Ma in altri casi le differenze possono essere più problematiche, perché è probabile che le persone siano influenzate dalle loro intenzioni: più le persone vogliono fare una certa cosa, più penseranno che farla sia un’azione di buon senso.

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    L’impazienza aumenta quando l’attesa è quasi finita

    L’impazienza è uno stato d’animo che può manifestarsi in circostanze molto varie e creare, in alcuni casi, anche qualche disagio. Può accrescere il nervosismo prima dell’inizio di una gara, per esempio, o rendere insopportabile l’attesa di un mezzo pubblico.Una ricerca condotta da una coppia di ricercatrici della University of Texas e della University of Chicago ha analizzato come l’esperienza dell’impazienza evolva nel tempo prima di determinati eventi, notando che il disagio aumenta man mano che la fine reale o presunta dell’attesa si avvicina, indipendentemente dalla durata dell’attesa.
    Pubblicata a dicembre sulla rivista Social Psychological and Personality Science, la ricerca ha utilizzato tre studi longitudinali (quelli che effettuano ripetute osservazioni dello stesso fenomeno in un lungo periodo di tempo) basati su sondaggi rivolti a diversi campioni di popolazione statunitense, che descrivono la variazione dei livelli di impazienza riferiti dalle persone intervistate. Uno fu condotto nei tre giorni prima di conoscere i risultati delle elezioni presidenziali americane del 2020. Un altro nei mesi trascorsi tra l’annuncio del successo della sperimentazione del primo vaccino per il Covid-19 e la comunicazione della disponibilità del vaccino per la popolazione. Un terzo studio misurò infine un’impazienza di tipo completamente diverso: quella provata da diversi gruppi di pendolari in attesa di salire su un autobus a una fermata.
    Ai partecipanti degli studi sulle elezioni e sul vaccino fu chiesto in più momenti durante l’attesa di valutare quanto si sentissero impazienti. I risultati mostrarono che mediamente l’impazienza aumentava a ridosso del momento in cui era prevista la fine dell’attesa: l’annuncio dei risultati dell’elezione e la comunicazione della data prevista per ricevere il vaccino.
    Il terzo studio suggerì che l’impazienza aveva più a che fare con un senso di frustrazione tipico di quella fase dell’attesa, la fine, che non con la quantità di tempo atteso nel complesso. Le persone più impazienti erano infatti quelle che aspettavano l’arrivo dell’autobus da un momento all’altro, non necessariamente quelle che attendevano da molto tempo. I risultati del terzo studio, secondo le ricercatrici, potrebbero spiegare perché l’impazienza per la fine della pandemia misurata nel secondo studio è rimasta costante nel tempo ed è aumentata soltanto dopo che le persone, una volta appresa la data della disponibilità del vaccino, hanno intravisto concretamente la fine dell’attesa.
    In generale l’impazienza è un fenomeno molto studiato nella psicologia del marketing, l’insieme di ricerche che si occupano dell’analisi dei comportamenti dei consumatori. Questa ricerca è stata condotta da Ayelet Fishbach, professoressa di scienze comportamentali e marketing alla Booth School of Business della University of Chicago, e Annabelle Roberts, professoressa di marketing alla McCombs School of Business della University of Texas a Austin. Secondo entrambe uno dei fattori che contribuiscono ad accrescere l’impazienza man mano che ci avviciniamo alla fine dell’attesa è il nostro desiderio di concludere un’attività: il desiderio «di cancellarla dalla lista di cose da fare», ha detto Roberts alla rivista Psyche.

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    I risultati della ricerca sono in parte coerenti con l’“effetto gradiente della meta”, una teoria nota del comportamentismo (lo studio scientifico degli aspetti direttamente osservabili e misurabili del comportamento) formulata nel 1932 dallo psicologo statunitense Clark Hull. In base a questa ipotesi le persone investono più risorse nel raggiungere i propri obiettivi, e cioè sono più motivate, quanto più sono vicine a una ricompensa o a un qualche tipo di traguardo, e la loro velocità tende ad aumentare man mano che l’obiettivo è vicino.
    In un’altra ricerca condotta con Alex Imas, anche lui professore di scienze comportamentali della University of Chicago, Fishbach e Roberts hanno analizzato come il desiderio della conclusione influenzi anche i processi decisionali, condizionando per esempio la scelta di completare un’attività subito anziché in seguito.
    In una serie di esperimenti hanno scoperto che, a parità di ricompensa economica, le persone preferivano lavorare un po’ di più (il 15 per cento in più) ma prima, anziché lavorare un po’ di meno ma più tardi. Erano anche tendenzialmente disposte a rinunciare a una parte minima di profitto economico pur di completare in tempi più rapidi un’attività la cui mancata conclusione sarebbe altrimenti rimasta nei loro pensieri. E preferivano fare un’ora di straordinario non retribuito pur di finire un lavoro prima delle ferie, anziché essere pagati per finirlo dopo.

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    Da questo punto di vista, secondo Roberts, l’impazienza può essere descritta come la frustrazione che proviamo in una circostanza in cui saremmo tendenzialmente portati a investire più risorse nel raggiungere un traguardo, ma non possiamo farlo perché raggiungerlo non dipende dai nostri sforzi. È possibile di solito avere un’idea approssimativa del tempo che è necessario attendere prima che arrivi l’autobus che stiamo aspettando, o che si liberi un tavolo al ristorante, per esempio. Ma non c’è niente che possiamo fare in questi casi per raggiungere l’obiettivo più velocemente.
    La ricerca di Fishbach e Roberts fornisce indicazioni potenzialmente utili anche a chi nel marketing si occupa di gestione delle esperienze di attesa. In una serie di studi supplementari l’impazienza riferita dai partecipanti che immaginavano di ricevere un pacco entro un certo numero di giorni (6) era più alta nel giorno previsto per la ricezione del pacco che nei giorni precedenti. L’impazienza riferita tendeva inoltre a variare anche in relazione alla distanza fisica dall’oggetto atteso: era maggiore quanto più il pacco era vicino.
    Sulla base dei risultati della ricerca, secondo le ricercatrici, sovrastimare i tempi di attesa al momento dell’invio di un pacco può essere utile a ridurre l’impazienza della persona destinataria. Ma può essere utile anche in altre circostanze, come per esempio quando serve far sapere a una persona che dobbiamo incontrare quanto tempo manca all’incontro.
    Sapere che l’impazienza è massima nel momento in cui presumiamo che una certa attesa debba finire può essere di aiuto anche nella gestione delle esperienze in cui prevediamo che l’impazienza possa crearci un eventuale disagio. Negli ultimi minuti prima di un certo evento su cui non abbiamo alcun controllo – la partenza di un treno, per esempio – può essere una buona idea, secondo Roberts, distrarsi con un’attività che non c’entra niente con l’evento: ascoltare un podcast, per esempio, anziché controllare compulsivamente l’orologio in attesa dell’orario di partenza.

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    Perché ci si può sentire alticci anche con le bevande analcoliche

    Da diversi anni una più diffusa e profonda consapevolezza degli effetti dell’alcol sulla salute ha fatto crescere la domanda di versioni analcoliche di note bevande alcoliche: principalmente birra e vino, ma anche distillati come rum e gin. A sostenere la domanda è il desiderio di continuare a gustare queste bevande ma senza subire gli effetti provocati dalle versioni tradizionali. Alcune persone, dopo aver bevuto bibite analcoliche, riferiscono tuttavia di sentirsi più rilassate, o persino leggermente alticce: un effetto tipicamente provocato dall’alcol, che quindi sembra inspiegabile.Sebbene sia un fenomeno ancora poco studiato in modo specifico e approfondito, si ritiene che la sensazione di rilassatezza, appagamento o persino lieve ebbrezza che le bevande analcoliche possono talvolta indurre in alcune persone abbia principalmente a che fare con condizionamenti psicologici e abitudini personali. Sul piano neurobiologico, questa reazione potrebbe derivare dagli stessi meccanismi del cervello che controllano il sistema di ricompensa (quello che ci fa sentire appagati in varie circostanze) e da cui deriva in parte anche la reazione al consumo di bevande alcoliche. Lo suggeriscono indirettamente diversi esperimenti di psicologia condotti fin dagli anni Settanta sugli effetti delle bevande placebo, e direttamente alcuni studi più recenti sull’attività del cervello in risposta al consumo di bevande alcoliche e analcoliche.
    Per uno studio pubblicato nel 2023 sulla rivista Behavioural Brain Research un gruppo di ricerca della University of Texas a Austin esaminò il cervello di 22 giovani adulti dopo che avevano bevuto una bevanda analcolica pensando di berne una alcolica. Le risonanze magnetiche funzionali (fMRI) mostrarono un aumento significativo dell’attività cerebrale in due delle aree del cervello maggiormente coinvolte nei processi cognitivi della ricompensa. L’aumento era maggiore di quello determinato dall’assunzione di una bevanda “di controllo” dichiaratamente analcolica (un integratore di sali minerali). Il gruppo di ricerca riscontrò inoltre una correlazione tra l’aumento di quella particolare attività cerebrale e la sensazione dei partecipanti di essere brilli, suggerendo che l’aspettativa di consumare una bevanda alcolica può influenzare in parte l’esperienza stessa del bere, indipendentemente dal contenuto di alcol ingerito.

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    Negli studi sulle bevande alcoliche il coinvolgimento del sistema di ricompensa – un fattore alla base di molte forme di dipendenza – è noto da tempo. In uno studio pubblicato nel 2013 un gruppo di ricercatori della scuola di medicina della Indiana University eseguì una serie di scansioni del cervello (in questo caso PET, tomografie a emissione di positroni) su 49 bevitori abituali di birra a cui erano stati serviti 15 ml di birra. Nonostante i partecipanti avessero ingerito una quantità troppo piccola per sentire gli effetti dell’alcol (più o meno l’equivalente di un cucchiaio da tavola), le scansioni mostrarono che quel semplice assaggio era bastato a determinare un aumento dei livelli di dopamina – il neurotrasmettitore che regola le sensazioni di piacere – nelle aree del cervello associate all’aspettativa di una ricompensa.
    Il fatto che le bevande alcoliche e quelle analcoliche attivino in parte le stesse risposte neurobiologiche è anche una delle ragioni per cui molte persone che si occupano di dipendenze sconsigliano le bevande analcoliche ad alcuni soggetti a rischio. Secondo una revisione di dieci studi pubblicata nel 2022 sulla rivista Nutrients le persone con problemi di dipendenza dall’alcol o anche solo problemi di consumo eccessivo sperimentano un aumento del desiderio di alcol quando consumano bevande analcoliche. Mostrano anche alcune risposte fisiologiche simili a quelle che si verificano quando assumono alcol, tra cui un aumento della sudorazione e della frequenza cardiaca.
    Un cocktail analcolico servito durante un evento organizzato dalla rivista Teen Vogue a New York, il 2 giugno 2018 (Cindy Ord/Getty Images)
    In base alle leggi italiane è considerata alcolica qualsiasi bevanda con una gradazione superiore a 1,2 gradi: è una birra analcolica, per esempio, qualsiasi birra con una gradazione alcolica uguale a o minore di 1,2 gradi. Alcune birre analcoliche sono infatti minimamente alcoliche, perché hanno una gradazione maggiore di 0 gradi (in questo caso sono infatti presenti sull’etichetta i simboli che indicano il divieto di assunzione per le donne in gravidanza e per chi deve guidare).
    In Australia, negli Stati Uniti e in altri paesi la soglia stabilita dalle leggi per definire analcolica una bevanda è di 0,5 gradi. È una quantità di alcol paragonabile a quella che si sviluppa durante i processi di fermentazione nelle banane mature o nel succo d’arancia: troppo esigua per considerarla la ragione dell’apparente ebbrezza sperimentata da alcune persone dopo aver bevuto bevande analcoliche.
    Alcune persone attribuiscono peraltro lo stesso effetto a bevande esplicitamente descritte sull’etichetta come bevande “0,0%”. In questo caso i produttori assicurano che la bevanda sia completamente priva di alcol, a differenza delle analcoliche, il cui eventuale contenuto di alcol può appunto variare tra 0 e 1,2 gradi (ma di solito, per renderle esportabili come analcoliche in più paesi, non supera 0,5). Dagli studiosi che se ne sono occupati le ragioni del rilassamento e delle altre particolari sensazioni associate da alcune persone al consumo di bevande analcoliche sono ricondotte perlopiù a fattori psicologici.

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    Molti dati provenienti da esperimenti condotti fin dagli anni Settanta sugli effetti delle “finte” bevande alcoliche e analcoliche indicano che le persone sono generalmente in grado di riconoscere la presenza di alcol in bevande descritte come analcoliche e in cui è stato aggiunto dell’alcol a loro insaputa. Sono invece molto meno abili nel caso opposto: quando devono riconoscere l’assenza di alcol in bevande presentate come alcoliche. Lo mostrano, tra gli altri, i risultati di un esperimento condotto su 720 persone, pubblicati nel 2012 in un ampio studio su Psychological Science.
    Ad alcuni partecipanti riuniti in gruppi di tre persone fu servito un cocktail preparato versando della vodka da una bottiglia di vodka Smirnoff e del succo di mirtillo rosso: solo che la bottiglia, a insaputa dei partecipanti, conteneva in realtà acqua tonica. Tutti i partecipanti tranne uno, pur non mostrando segni di ebrezza, affermarono di aver bevuto un cocktail alcolico. A farglielo credere, oltre all’osservazione delle fasi di preparazione e alle indicazioni degli sperimentatori, contribuirono altri fattori tra cui la temperatura bassa della bevanda. Uno studio più recente condotto su quegli stessi dati indicò inoltre che il consumo di gruppo di finte bevande alcoliche generava reazioni simili a quelle riscontrate in altri esperimenti in cui i partecipanti bevevano finte bevande alcoliche da soli: il fatto che il consumo avvenisse in gruppo era quindi ininfluente rispetto alla convinzione delle persone di aver bevuto un cocktail alcolico.
    Il professore di psicologia Denis M. McCarthy, direttore del centro di ricerca sulle dipendenze della University of Missouri, ha detto a Slate che in questo tipo di esperimenti i partecipanti non solo credono di aver assunto alcol, ma spesso mostrano anche alcuni cambiamenti nel loro comportamento in base a quella convinzione. E quei cambiamenti tendono a riflettere le passate esperienze delle persone quando bevono alcolici, caso per caso: alcune diventano meno ansiose, altre più loquaci e allegre. In generale si aspettano di sentirsi come si sentono dopo aver bevuto, anche se su un piano farmacologico non è cambiato niente nel loro corpo.

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    Esistono tuttavia dei limiti a questo tipo di reazione alle finte bevande alcoliche. In generale, indipendentemente da come si comportano, le persone non arrivano a ubriacarsi: tendono a non accorgersi dell’assenza di alcol finché bevono due o tre drink, ma dopo quattro o cinque cominciano a scoprire la manipolazione. Inoltre non mostrano nel loro comportamento le difficoltà e le alterazioni tipiche del comportamento delle persone ubriache. In alcuni casi, dopo aver bevuto bevande analcoliche credendo di assumere alcol, le persone ottengono in alcuni test cognitivi risultati persino migliori rispetto alle persone che non hanno bevuto: probabilmente perché prestano maggiore attenzione a ciò che stanno facendo, pensando di dover compensare un deficit da loro attribuito al presunto effetto dell’alcol.
    Il limite delle osservazioni basate sui risultati dei molti studi esistenti sugli effetti placebo delle finte bevande alcoliche è che nella maggior parte di quegli esperimenti le persone sono intenzionalmente tratte in inganno. I risultati forniscono informazioni utili, ma fino a un certo punto: nel caso delle sensazioni di rilassatezza comunemente attribuite da alcune persone alle bevande analcoliche, quelle persone sanno di non aver assunto alcol. E gli effetti delle bevande sul loro comportamento sono verosimilmente meno forti rispetto a quelli sperimentati dai partecipanti degli studi sugli effetti placebo. Quello che servirebbe, ha detto a Slate la neuroscienziata Dylan Kirsch, è una maggior quantità di studi sugli effetti del consumo consapevole di una bevanda senza alcol esplicitamente progettata per imitare aspetto e sapore di una corrispondente bevanda alcolica.
    Una bottiglia di birra senza alcol, servita durante una conferenza stampa di presentazione di un accordo pubblicitario tra il Comitato Olimpico Internazionale e la società Anheuser-Busch InBev, a Londra, il 12 gennaio 2024 (AP Photo/Kin Cheung)
    È possibile che una parte dei condizionamenti psicologici derivi dalle somiglianze tra bevande alcoliche e analcoliche, che spesso condividono la stessa bottiglia o la stessa lattina, sia per dimensioni che per colore. «Una delle cose che sappiamo essere fondamentali per potenziare gli effetti placebo sono i simboli che li circondano», ha detto a Slate Kathryn T. Hall, professoressa della Harvard Medical School e autrice del libro Placebos, pubblicato nel 2022. Un certo tipo di lattina o di bottiglia associata al bere una birra, alla sensazione di freddo nella mano che la regge, ai simboli presenti sull’etichetta o anche soltanto a un certo rituale, come bere una birra davanti alla TV, secondo Hall, «stimolerà tutti quei percorsi che erano stati condizionati in precedenza dalle tue abitudini nel bere».

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    Diverse ricerche nel campo delle neuroscienze suggeriscono che, a determinate condizioni, le aspettative possono avere un impatto molto significativo sulla reazione a sostanze di qualsiasi tipo, non soltanto l’alcol. Secondo uno studio pubblicato nel 2023 sulla rivista Frontiers in Behavioral Neuroscience la caffeina, per esempio, non è l’unica molecola responsabile dell’impatto del caffè sui nostri livelli di attenzione. Le ricercatrici e i ricercatori riscontrarono in un gruppo di partecipanti che avevano bevuto caffè un aumento di attività cerebrale nelle regioni associate al controllo cognitivo, alla memoria di lavoro e al comportamento orientato agli obiettivi. Non riscontrarono però gli stessi effetti neurobiologici quando i partecipanti assumevano la stessa quantità di caffeina attraverso un’altra bevanda diversa dal caffè.
    Gli studi sull’impatto dei condizionamenti psicologici e degli effetti placebo tendono a suscitare una certa sorpresa nelle persone, ma secondo Hall non dovrebbero. Ogni giorno e per tutto il giorno, ha detto a Slate, le cose che pensiamo cambiano come ci sentiamo e il modo in cui funziona il nostro corpo. Se qualcuno entrasse in ufficio gridando che c’è un incendio e che bisogno uscire di corsa, la nostra frequenza cardiaca aumenterebbe, per esempio, e si verificherebbero altre reazioni: «tutta la nostra fisiologia cambierebbe in risposta a un’informazione che può essere vera o meno». LEGGI TUTTO

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    L’annosa questione di chi si alza appena l’aereo atterra

    Sia in aeroporto che a bordo di un aereo, al momento di salirci sopra o prima di uscirne alla fine del volo, trovarsi in una fila è una delle esperienze più comuni. Il desiderio condiviso di ridurre il rischio di trovarsi in questa condizione e dover affrontare possibili disagi è la causa di comportamenti competitivi che paradossalmente finiscono spesso per generare anziché evitare ritardi e rallentamenti. Molte delle cose che facciamo quando prendiamo un aereo, in generale, riguardano fenomeni studiati nelle scienze del comportamento, l’insieme di varie discipline – tra cui psicologia, economia e scienze cognitive – che analizzano il comportamento umano e l’impatto che ha sul gruppo nel suo insieme.È abbastanza frequente notare alcuni passeggeri che subito dopo l’atterraggio si alzano in piedi e si affrettano a prendere il loro bagaglio dalla cappelliera, nonostante l’invito dell’equipaggio a tenere le cinture di sicurezza allacciate finché l’aereo non si ferma. Ed è altrettanto comune vedere persone in piedi affollare i gate in aeroporto e formare una fila prima ancora che comincino le operazioni di imbarco. Altre scelgono invece di attendere sedute che la fila si accorci, per rimanere meno tempo possibile in piedi ed essere tra le ultime persone a salire a bordo.
    Alla base di questi comportamenti possono esserci ragioni diverse da caso a caso, a volte anche urgenze particolari. Come ha detto al Washington Post Drake Castañeda, responsabile delle comunicazioni aziendali della compagnia Delta Air Lines ed ex operatore responsabile degli imbarchi, alcune persone possono essere semplicemente molto emozionate e impazienti all’idea del viaggio. O magari preferiscono sgranchirsi le gambe prima dell’imbarco e rimanere in piedi prima di un viaggio in cui resteranno presumibilmente sedute per molto tempo, soprattutto nei voli più lunghi. Ma indipendentemente dalle loro intenzioni, ha aggiunto Castañeda, i passeggeri che si mettono in fila troppo presto rischiano di rendere i tempi di attesa più lunghi per tutti.

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    In generale l’affollamento è una conseguenza del desiderio di ottenere un vantaggio competitivo sulle altre persone in un contesto in cui tutte devono fare la stessa cosa, senza un ordine prestabilito: salire su un aereo e poi scendere. I passeggeri che si alzano prima degli altri all’atterraggio e prendono il bagaglio per dirigersi verso una delle uscite dell’aereo contano di anticipare altri passeggeri – sia quelli seduti nelle file davanti che quelli seduti dietro – che stanno per fare o stanno già facendo la stessa cosa, in un modo più o meno veloce.

    pic.twitter.com/ypJcD5jkPO
    — Jeremy Danner (@Jeremy_Danner) December 2, 2022

    Un discorso simile ma con ulteriori variabili in gioco vale per le persone che si accalcano nei gate intasando l’area dell’imbarco (a volte chiamate in inglese gate lice, “pidocchi del gate”). Come quelle che scattano in piedi subito dopo l’atterraggio, attirano spesso l’antipatia sia di altri passeggeri che del personale responsabile dell’imbarco.
    Nella maggior parte dei casi la ragione per cui cercano di precedere altre persone è perché contano in questo modo di avere più spazio a bordo per muoversi e per riporre i bagagli a mano nelle cappelliere, rispetto alle persone che si imbarcano dopo. In alcuni casi, a seconda della compagnia aerea e della quantità di passeggeri già imbarcati, ai passeggeri che salgono per ultimi può tra l’altro essere chiesto di consegnare il bagaglio a mano affinché sia caricato in stiva (gratuitamente), se lo spazio a bordo per i bagagli è già esaurito. E per le persone che viaggiano soltanto con quello significa aggiungere al tempo di viaggio previsto un tempo imprevisto di attesa nell’aeroporto di destinazione per recuperare il bagaglio, o anche considerare il rischio di smarrire un bagaglio che contavano di avere sempre a portata di mano e che per questo può magari contenere oggetti di valore.
    La conseguenza spiacevole di questa competizione è che provoca spesso rallentamenti per tutti i passeggeri, come spiegato a Business Insider da Rich Henderson, assistente di volo da oltre dieci anni e coautore del sito Two Guys on a Plane. L’affollamento nell’area dell’imbarco ostacola il passaggio di gruppi di passeggeri che hanno priorità sugli altri, e può provocare confusione e ritardi se un passeggero su una sedia a rotelle, per esempio, per imbarcarsi deve attendere che le persone ammassate nell’area dell’imbarco si facciano da parte e siano ricacciate in coda alla fila.

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    I due principali fattori alla base del comportamento delle persone in situazioni come l’imbarco e lo sbarco dall’aereo sono il conformismo e la concorrenza, ha detto al Washington Post la psicologa Shira Gabriel, professoressa alla University at Buffalo. «Le persone usano altre persone come fonti di informazioni sia riguardo a cosa stanno facendo, sia riguardo a quale sia la cosa giusta da fare», ha detto Gabriel.
    La prima persona che si alza dal proprio posto, in altre parole, fornisce a tutte le altre informazioni su come possono e forse dovrebbero comportarsi, il che porta un maggior numero di passeggeri ad alzarsi e unirsi al primo che si è alzato, in un circolo di informazioni che passano di persona in persona. «Se vedi che le persone si mettono in fila, che si preparano, pensi che ci sia un vantaggio competitivo nel farlo», ha detto Gabriel, aggiungendo che le persone «fanno qualsiasi cosa bizzarra, se pensano che sia quello il modo di comportarsi». Questa attitudine è incentivata in parte anche dalle politiche stesse delle compagnie, che come nel caso dei bagagli a mano imprevedibilmente caricati in stiva al momento dell’imbarco possono determinare uno svantaggio concreto per le persone che arrivano dopo le altre.
    «La conseguenza di questi problemi strutturali [delle compagnie aeree] è che creano incertezza e competizione», ha detto al Washington Post lo psicologo sociale Stephen Reicher, professore alla University of St. Andrews, in Scozia. Questa situazione di incertezza motiva le persone a mettersi in fila anche a scapito di altre, perché comportarsi come se non ci fosse competizione quando la competizione c’è è da loro percepito come svantaggioso rispetto a comportarsi come se ci fosse competizione quando la competizione non c’è. Nel primo caso rischiano di perdere una coincidenza all’atterraggio, mentre nel secondo rimangono in piedi per qualche minuto senza una buona ragione, ha detto Reicher. Senza considerare il rischio dei costi sociali – fare la figura del «fesso» – nell’essere l’ultima persona in fila e per questo motivo non poter portare il bagaglio a bordo.
    Il momento dello sbarco è un altro momento del viaggio che tende a irritare molte persone, perché alcune si alzano spesso dal proprio posto prima che l’atterraggio sia concluso, e cioè prima che il segnale delle cinture allacciate venga spento, e questo comporta un rischio in termini di sicurezza. In molti casi genera anche un rallentamento delle operazioni di sbarco, spiegò al Washington Post nel 2019 l’assistente di volo newyorkese Jennifer Johnson, perché rende necessario avvisare il pilota e dirgli che un passeggero si è alzato, intasando le comunicazioni a bordo.
    Il comportamento più appropriato una volta concluso l’atterraggio, scrisse il Washington Post condividendo alcune indicazioni utili su come lasciare l’aereo in modo ordinato e rispettoso verso gli altri passeggeri, è attendere seduti il turno della propria fila prima di spostarsi nel corridoio e prendere i bagagli dalla cappelliera. Il proprio turno può variare in determinate situazioni, ma nella maggior parte dei casi è quando i passeggeri nelle file davanti alla propria hanno già preso il bagaglio e stanno uscendo dall’aereo.
    Un altro consiglio condiviso da un’assistente di volo consultata dal Washington Post, rivolto alle persone preoccupate di perdere una coincidenza, è di non aspettare lo sbarco per mettere l’equipaggio al corrente di quella particolare urgenza. Informare gli assistenti di volo già durante il viaggio, riguardo a un’eventuale coincidenza da prendere in tempi molto ristretti, può permettere loro di fornire aggiornamenti sul volo da prendere e, se possibile e utile, scambiare di posto alcuni passeggeri spostando nella parte anteriore quelli con particolare urgenza di scendere subito dopo l’atterraggio. LEGGI TUTTO