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    Produrre cibo dalla plastica, o almeno provarci

    Ogni anno vengono prodotti oltre 400 milioni di tonnellate di rifiuti derivanti dall’impiego dei vari tipi di plastica usati per gli imballaggi, i contenitori, gli abiti sintetici e molti altri prodotti. Una percentuale crescente di questi rifiuti viene riciclata, ma l’impatto della plastica è ancora oggi una delle principali preoccupazioni legate alla contaminazione degli ecosistemi e alla tutela della nostra salute. Mentre si fatica a concordare nuovi trattati internazionali per ridurre la produzione e gli sprechi di plastica c’è chi sta sperimentando una via alternativa un po’ più creativa: renderla commestibile.L’idea non è completamente nuova, ma negli ultimi anni ha avuto qualche maggiore attenzione in seguito a una iniziativa della Defense Advanced Research Projects Agency (DARPA), l’agenzia del dipartimento della Difesa degli Stati Uniti che si occupa dello sviluppo di nuove tecnologie da utilizzare in ambito militare. Nel 2019, la DARPA invitò i gruppi di ricerca interessati a proporre nuovi sistemi per ridurre la quantità di rifiuti prodotti dai soldati quando sono in guerra o lavorano per dare sostegno alla popolazione in seguito a emergenze e disastri naturali. L’agenzia era interessata a trovare sistemi per convertire gli imballaggi in nuovi prodotti, possibilmente sul posto, in modo da ridurre la produzione di rifiuti e rendere meno onerosa la loro gestione.
    La richiesta portò alla presentazione di progetti da vari centri di ricerca e al finanziamento da parte della DARPA di alcuni di quelli più promettenti. Uno di questi è gestito dalla Michigan Technological University (MTU) e consiste nell’impiegare sostanze e microorganismi per degradare la plastica e trasformarla in qualcos’altro. Il sistema per ora è dedicato a ricavare materiale organico che sia commestibile, mentre solo in un secondo momento si penserà ai modi in cui utilizzarlo.
    La plastica viene triturata e successivamente inserita in un reattore dove viene aggiunto l’idrossido di ammonio (il composto chimico che in soluzione acquosa chiamiamo ammoniaca) ad alta temperatura. Non tutta la plastica è uguale, la parola stessa è un termine ombrello che usiamo per riferirci a materiali molto diversi tra loro, di conseguenza non tutto ciò che viene sottoposto al trattamento reagisce allo stesso modo.

    Alcuni tipi di plastica come il polietilene tereftalato (PET), il materiale con cui sono solitamente fatte le bottiglie, si disgrega dopo questo primo passaggio, mentre altre plastiche hanno necessità di ulteriori trattamenti ad alte temperature e in assenza di ossigeno, che vengono effettuati in un reattore a parte. Le plastiche di questo tipo possono essere convertite in carburante oppure in sostanze lubrificanti, entrambe utili in un ipotetico scenario in cui il processo possa essere eseguito direttamente sul campo dai soldati come richiesto dalla DARPA.
    Ciò che si è ottenuto dal PET con il passaggio nel reattore viene invece dato in pasto a colonie di batteri, in grado di nutrirsi della plastica, che ha tra i propri componenti anche composti organici. Come ha raccontato al sito Undark, il gruppo di ricerca della MTU inizialmente riteneva che trovare i batteri più adatti per nutrirsi della plastica processata avrebbe richiesto molto tempo, ma le cose sono andate diversamente. In breve tempo, il gruppo di ricerca ha infatti notato che i batteri che normalmente degradano il compost (fatto per lo più di rifiuti e scarti alimentari) si adattano facilmente alla plastica trattata nel reattore. L’ipotesi è che la struttura a livello molecolare di alcuni composti delle piante abbia alcune caratteristiche in comune con ciò che viene processato con l’idrossido di ammonio, favorendo il banchetto dei batteri.
    Dopo che i batteri hanno consumato e trasformato la plastica, la poltiglia che si ottiene viene fatta essiccare fino a ottenere una polvere che contiene i principali macronutrienti: proteine, carboidrati e grassi. Il gruppo di ricerca ne ha elencato le caratteristiche in uno studio pubblicato lo scorso anno sulla rivista Trends in Biotechnology, ma il passaggio dal bidone della plastica alle razioni dei soldati o dei piatti in qualche ristorante non sarà così immediata.
    Da tempo si discute sull’opportunità di utilizzare particolari batteri e altri microrganismi come fonte di proteine e di altre sostanze nutrienti. La loro coltivazione richiede meno risorse e acqua rispetto a ciò che viene coltivato nei campi e per questo c’è chi sostiene che potrebbero affiancare la produzione di cibo più tradizionale riducendo l’impatto ambientale dell’intera catena alimentare. Le stime variano sensibilmente, ma si ritiene che circa un terzo di tutte le emissioni di gas serra sia prodotto dal settore alimentare.
    La polvere ottenuta dal processo messo a punto dalla MTU è stata testata senza trovare per ora sostanze note per essere tossiche. Il preparato è stato dato in pasto ad alcuni nematodi (vermi cilindrici) senza conseguenze e sono stati avviati test sui ratti, per effettuare osservazioni in periodi di tempo più lunghi rispetto alle settimane di vita dei nematodi. I risultati dai test sui ratti saranno essenziali per procedere con una prima richiesta alla Food and Drug Administration (FDA), l’agenzia governativa statunitense che tra le altre cose si occupa di sicurezza alimentare, per dichiarare il consumo della plastica trasformata in cibo sicuro per gli esseri umani.
    Non è comunque ancora detto che la sperimentazione porti a qualche risultato concreto, come del resto spesso avviene con i progetti finanziati dalla DARPA. L’agenzia è nota per promuovere iniziative di ricerca molto ambiziose se non impossibili da realizzare, confidando che almeno alcune delle sperimentazioni avviate portino da qualche parte. Il cibo dalla plastica potrebbe rivelarsi molto utile per migliorare la gestione della logistica, considerato che il trasferimento di cibo e rifornimenti è uno degli aspetti più onerosi per gli eserciti soprattutto se attivi in territori lontani dal loro paese, come avviene quasi sempre nel caso degli Stati Uniti.
    Se dovesse rivelarsi sicuro e affidabile, il sistema per convertire alcuni tipi di plastica in cibo potrebbe essere adottato in futuro per scopi civili, ma lo stesso gruppo di ricerca della MTU ha qualche dubbio in proposito. Stephen Techtmann, uno dei responsabili del progetto, ha detto sempre a Undark che potrebbe essere molto difficile convincere le persone a mangiare qualcosa che è stato ottenuto mettendo all’ingrasso dei batteri con la plastica, mentre ci potrebbero essere maggiori opportunità in particolari circostanze legate a strette necessità di sopravvivenza nelle emergenze: «Penso ci possa essere qualche preoccupazione in meno sul fattore disgusto nel caso in cui si tratti di un: “Questo mi terrà in vita per un altro paio di giorni”».
    I batteri sono comunque strettamente legati alla nostra alimentazione, come alcuni tipi di funghi e altri microrganismi. Li ingeriamo quando mangiamo un vasetto di yogurt, assaggiamo un formaggio o proviamo del kimchi e altri cibi fermentati. Oltre a rendere più semplici e sicuri da conservare alcuni elementi, contribuiscono alla salute del microbiota, cioè l’insieme dei microrganismi che vivono nel nostro intestino e che ci aiutano a digerire gli alimenti e a regolare numerose altre attività dell’organismo. Naturalmente non tutti i batteri sono commestibili (alcuni possono causare gravi danni) e per questo sono necessarie verifiche sulla sicurezza alimentare.
    I batteri impiegati da millenni per la produzione dello yogurt partono dal latte, quindi da una sostanza che sappiamo essere commestibile e l’idea di usarli fa sicuramente un effetto diverso rispetto alla trasformazione in alimenti della plastica, di cui sono noti gli effetti inquinanti e tossici. Ma in chimica una sostanza può sparire nel corso di una reazione, semplicemente perché si trasforma in qualcosa di diverso, che in questo caso secondo il gruppo di ricerca potrebbe aiutare almeno in parte a sfamare il mondo. LEGGI TUTTO

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    Questa è una roccia?

    Caricamento playerLe Hawaii sono famose per i vulcani e i grandi resort visitati ogni anno da milioni di turisti, alla ricerca di spiagge incontaminate affacciate sull’oceano Pacifico. Kamilo Beach, nella parte sud-orientale dell’isola più estesa dell’arcipelago, non rientra propriamente nella categoria: è famosa per i frequenti accumuli di plastica portati dall’oceano e provenienti dalla “grande chiazza di immondizia del Pacifico”. Non è una spiaggia sempre ideale per prendere il sole e fare il bagno, in compenso è il luogo in cui è stata scoperta una particolare sostanza. Per alcuni è un nuovo tipo di roccia e la dimostrazione dell’impatto delle attività umane nella geologia terrestre, per altri è semplicemente il frutto dell’inquinamento e non ha nulla di paragonabile alle rocce.
    Charles Moore, un oceanografo statunitense, aveva osservato per la prima volta la strana sostanza nel 2006 mentre stava effettuando alcune analisi e rilevazioni proprio a Kamilo Beach. Moore aveva notato uno strano oggetto solido formato da alcuni frammenti organici, come conchiglie e legno, tenuti insieme da del materiale plastico. Ipotizzò che si fosse formato a causa dell’accensione di un falò sulla spiaggia, che aveva portato alcuni detriti di plastica provenienti dal mare a fondersi e a inglobare al loro interno sabbia, piccole rocce e altri detriti. Qualche tempo dopo lo spegnimento del falò, la plastica si era solidificata creando un nuovo strato di sedimenti diverso da ciò che c’era prima sulla spiaggia.
    Materiale plastico fuso in un falò (1) si deposita e infiltra (2) in frammenti di roccia portando alla formazione di nuovi strati sedimentari (3) rilevabili nelle stratificazioni (4) e un indizio, secondo alcuni geologici, dell’Antropocene (Wikimedia)
    Moore aveva raccolto alcuni campioni che erano stati analizzati negli anni seguenti insieme ad altri reperti in particolare da Patricia Corcoran, dell’Università dell’Ontario occidentale (Canada). In una ricerca realizzata nel 2013, Corcoran e il suo gruppo di ricerca avevano segnalato che la sostanza di Kamilo Beach era costituita da frammenti di reti da pesca e per circa metà da piccoli pezzi di plastica, che si erano probabilmente separati da pezzi più grandi nel processo di degradazione del materiale a causa del moto ondoso e degli effetti della luce solare. Lo studio confermava inoltre l’ipotesi di Moore sulla probabile origine derivante da un fuoco acceso sulla spiaggia, ritenendo meno probabile un’origine derivante da una colata lavica.
    Il lavoro di Corcoran si fece soprattutto notare per la sua scelta di chiamare “plastiglomerato” la sostanza osservata alle Hawaii, dal materiale plastico che la compone insieme agli altri detriti che formano un materiale incoerente, un agglomerato appunto. Da alcuni geologi il plastiglomerato viene considerato una roccia sedimentaria clastica, cioè una roccia formata dall’accumulo di frammenti di materiali rocciosi e di altro tipo trasportati dal mare, dal vento o da altri agenti esterni.
    La classificazione del plastiglomerato e lo stesso nome sono però ancora molto discussi. Nel corso del tempo ne sono state trovate versioni in almeno una decina di posti diversi dalle Hawaii, con alcune caratteristiche in comune tali da ipotizzare che possano durare molto a lungo nel tempo, come gli altri strati geologici.
    Tra i principali sostenitori di questa ipotesi c’è Jan Zalasiewicz, un geologo che lavora all’Università di Leicester (Regno Unito) e che negli ultimi anni ha fatto parte del Gruppo di lavoro sull’Antropocene, dedicato a chiedere il riconoscimento di una nuova era geologica fortemente influenzata dalle attività umane e per questo chiamata “Antropocene” (dalle parole greche ἄνθρωπος,“umano”, e καινός, “tempo”). A fine marzo l’Unione internazionale di scienze geologiche (IUGS) ha confermato che l’Antropocene non sarà aggiunto alla lista delle epoche geologiche in cui è suddivisa la storia della Terra. È una decisione che potrà essere rivista in futuro e per questo molti ricercatori – come Zalasiewicz – sono al lavoro sugli indizi che secondo loro indicano una profonda modificazione, anche a livello geologico, portata dalla nostra specie.
    Zalasiewicz ha detto di recente a Slate che l’idea che le rocce debbano risalire a moltissimo tempo fa per essere considerate tali è una «leggenda metropolitana». Alcune rocce si formano praticamente in tempo reale durante le eruzioni vulcaniche, spiega, quando le colate laviche si raffreddano e si solidificano.
    Diversi geologi la pensano come Zalasiewicz e ritengono che la plastica debba essere ormai considerata come un materiale sedimentario. Quella dispersa nell’ambiente si disgrega col tempo, soprattutto a causa dell’azione dei raggi solari che la rendono friabile e meno elastica. I frammenti si infiltrano nel suolo e diventano una delle materie prime per la formazione delle rocce, in processi molto lunghi, ma che ormai avvengono da quasi un secolo se si considerano i primi materiali plastici del Novecento. Questo strato distinguibile dagli altri sarebbe uno dei principali indizi dell’esistenza dell’Antropocene.
    “Plastica” è naturalmente una parola ombrello usata per indicare prodotti con caratteristiche chimiche molto diverse tra loro: esistono plastiche di ogni tipo e la loro durata anche a livello molecolare può variare molto. Ed è proprio sulla durata che si sta concentrando il confronto tra gli esperti.
    I più scettici ritengono che sia ancora troppo presto per determinare se alcuni tipi di plastica abbiano effettivamente una durata compatibile con i processi geologici, che si estendono per migliaia, milioni e miliardi di anni a seconda dei casi. Nei processi geologici che avvengono in profondità nella crosta terrestre, per esempio, alcune plastiche potrebbero cambiare caratteristiche, tanto da non diventare sostanze di lunga durata come avviene con altre sostanze fossili. Non è nemmeno escluso che, dopo un certo periodo di tempo, i frammenti di plastica nei sedimenti si trasformino in petrolio, la sostanza da cui erano stati prodotti.
    Al di là dei nomi e della classificazione, i plastiglomerati sono comunque un ulteriore indizio dell’enorme impatto che le attività umane hanno avuto e continuano ad avere sul nostro pianeta. L’inquinamento derivante dalla plastica è una delle più importanti emergenze ambientali del nostro tempo, ma concordare le strategie per affrontarlo globalmente non è semplice. A fine aprile a Ottawa, in Canada, si è tenuta una nuova serie di negoziati per formalizzare un trattato internazionale vincolante per ridurre l’inquinamento che deriva dalla plastica. L’iniziativa è coordinata da un comitato intergovernativo delle Nazioni Unite, che ha il difficile compito di mettere d’accordo oltre 175 paesi che negli scorsi anni si erano impegnati per trovare una soluzione comune. Tra ritardi e rinvii, non si prevede di avere un trattato definitivo prima del 2025. LEGGI TUTTO