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    Non siamo così d’accordo su cosa sia davvero una specie

    Caricamento playerIl gammaro dei fossi, un crostaceo appartenente all’ordine degli anfipodi, è ampiamente diffuso nei torrenti in Europa e la sua presenza è un valido indicatore della qualità dell’acqua dolce. All’apparenza è simile a un minuscolo gamberetto e per diverso tempo si pensò che tutti i suoi individui appartenessero a un’unica specie (Gammarus fossarum), ma è ormai evidente che le cose stanno diversamente. Si stima che 25 milioni di anni fa iniziarono a prodursi linee di discendenza separate che portarono a sue nuove sottospecie: a seconda di come vengono classificate le differenze genetiche di questi animali, le probabili specie di questi piccoli crostacei sono 32 o addirittura 152.
    Quello del gammaro dei fossi non è un caso isolato: i progressi nella ricerca e nella capacità di analizzare gli intricati percorsi evolutivi hanno aggiunto nuove importanti complicazioni nel modo in cui vengono classificate le specie. Nel nostro colossale e instancabile lavoro di classificare gli esseri viventi che condividono con noi il pianeta, il livello di complessità è ormai tale da fare mettere in discussione il modo stesso con cui per lungo tempo abbiamo identificato e definito le specie.
    Classificare le specie e provare a organizzarne i complessi gradi di parentela tiene impegnati i naturalisti da molti secoli e il loro lavoro, che si è modificato e arricchito nel corso del tempo, è stato accompagnato da polemiche, critiche e riflessioni filosofiche. Nel suo Saggio sull’intelletto umano pubblicato nel 1689, il filosofo britannico John Locke si interrogò a lungo sulla classificazione delle specie in un discorso più ampio su come si svilupparono la conoscenza umana e l’intelletto. Nel suo trattato scrisse: «I confini delle specie sono quali li fanno gli uomini, e non la natura, ammesso che in natura ci siano confini prefissati».
    Le riflessioni di Locke non piacquero al matematico e filosofo tedesco Gottfried Wilhelm Leibniz, che scrisse Nuovi saggi sull’intelletto umano, un trattato che smontava punto per punto la maggior parte delle assunzioni formulate dal filosofo britannico. Tra le altre cose, Leibniz criticava lo scetticismo mostrato da Locke sulla classificazione delle specie e il tentativo di provare a fare ordine nella natura.
    Il lavoro di sistematizzazione e classificazione raggiunse l’apice nel diciottesimo secolo grazie agli studi del naturalista svedese Carl Nilsson Linnaeus (quasi sempre italianizzato in Linneo), che perfezionò un sistema di nomenclatura binomiale che viene utilizzata ancora oggi con l’aggiunta di opportune integrazioni. La classificazione linneana organizza gli esseri viventi in vari livelli gerarchici: si parte dai regni (si aggiunse poi il concetto di dominio al di sopra, per includere batteri e archèi) che si dividono in phylum, si prosegue poi con le classi che si diramano a loro volta in ordini e ancora in famiglie, generi e infine specie.
    Esempio di classificazione (Zanichelli)
    Lavorando su proposte e riflessioni di alcuni importanti suoi predecessori, come lo svedese John Ray, Linneo perfezionò un sistema che prevedeva di utilizzare un binomio latino per identificare ogni specie. Utilizzò il primo nome per indicare il genere, che era per forza comune a più specie, e il secondo per caratterizzare una singola specie e distinguerla dalle altre.
    Nel caso del Gammarus fossarum, il minuscolo crostaceo europeo, Gammarus indica il genere, mentre fossarum è l’epiteto per distinguere una certa specie. Ma come abbiamo visto, questo sistema funziona solo fino a un certo punto, perché nel caso del gammaro dei fossi abbiamo via via scoperto l’esistenza di molte specie che per lungo tempo sono state chiamate tutte con lo stesso nome.
    Linneo aveva del resto pensato al suo sistema di classificazione in un periodo in cui le conoscenze scientifiche sulle specie erano ancora relativamente limitate, con una certa convinzione che esistessero da sempre più o meno in quel modo e che fossero il frutto di una creazione divina. Si confrontavano le caratteristiche, si identificavano le cose in comune e sulla base di quelle si stabiliva la classificazione.
    Fu necessario circa un secolo perché iniziasse a fare presa il concetto di evoluzione, grazie al lavoro di altri naturalisti come Charles Darwin. Le specie non erano dunque da sempre uguali, ma il frutto di un incessante processo di evoluzione, immaginabile come un gigantesco albero genealogico con migliaia di biforcazioni e rami. In quel contesto, stabilire con esattezza quando una specie fosse diventata tale si rivelò più difficile.
    Gammarus fossarum (Università di Amsterdam via Wikimedia)
    A quasi due secoli di distanza dal lavoro di Darwin, sappiamo molte cose in più sull’evoluzione e il caso del gammaro è solo uno dei tanti simili, come ha raccontato di recente il giornalista scientifico Carl Zimmer in un articolo sul New York Times. Nel 1758 Linneo aveva descritto una singola specie di giraffa classificandola come Giraffa camelopardalis e in seguito si aggiunsero nove sottospecie (cioè con differenze minime tali da essere considerate difficilmente una specie a sé). Oggi diversi studi sulle caratteristiche genetiche di questi animali hanno portato a una revisione della tassonomia, sulla quale non sono però tutti d’accordo.
    Alla tassonomia classica se ne sono aggiunte altre che identificano tre, quattro e perfino otto specie diverse. La seconda è tra le più condivise e comprende la giraffa settentrionale (G. camelopardalis), la giraffa reticolata (G. reticulata), la giraffa meridionale (G. giraffa) e la giraffa masai (G. tippelskirchi). Ne esistono nel complesso 117mila esemplari in Africa e per questo le giraffe sono considerate “vulnerabili” e non in pericolo immediato di estinzione, ma le cose cambierebbero se fossero considerate come specie distinte. In questo caso la giraffa settentrionale sarebbe tra gli animali a maggior rischio di estinzione, a causa della distruzione dei suoi habitat tra Niger ed Etiopia e del bracconaggio.
    Secondo alcune organizzazioni impegnate nella tutela delle giraffe, una classificazione più chiara potrebbe aiutare a salvare questi animali, facendo maggiori pressioni sui governi e sulle istituzioni internazionali. È un esempio di come stabilire il confine tra una specie e un’altra abbia risvolti pratici non indifferenti, rispetto a discussioni e ragionamenti più teorici che possono apparire slegati dalla realtà. La definizione più condivisa di cosa sia una specie è del resto relativamente recente e viene impiegata da circa 80 anni.
    (Getty Images)
    Negli anni Quaranta del secolo scorso, l’ornitologo tedesco Ernst Mayr fu infatti tra gli studiosi che provarono a introdurre una nuova definizione di specie, basandosi sul modo in cui gli esseri viventi si riproducono. L’idea di base è relativamente semplice: se due animali non si possono riprodurre tra loro, allora appartengono a specie diverse. Questa distinzione ebbe una grande presa tra i naturalisti, ma presentava comunque qualche problema. Una balena non può riprodursi con un cardellino, questo è abbastanza evidente, ma ci sono molti casi in cui animali di specie diverse in qualche modo imparentate riescono comunque a riprodursi tra loro (il limite successivo è l’eventuale capacità della prole di riprodursi e di non essere sterile).
    Zimmer nel suo articolo cita il caso di diverse specie di rane europee, studiate negli ultimi anni dall’erpetologo francese Christophe Dufresnes. Analizzandone il comportamento e le generazioni, Dufresnes ha notato che alcuni gruppi di rane portano di frequente alla nascita di incroci, ma solo in alcuni casi. Studiandone il materiale genetico, il ricercatore ha notato che i gruppi di rane con un antenato comune relativamente recente, e quindi maggiormente imparentate, tendono a produrre incroci con maggiore frequenza. Secondo le stime di Dufresnes sono necessari fino a sei milioni di anni prima che due gruppi di rane – che evolvono da una stessa biforcazione nell’albero evolutivo – perdano la capacità di incrociarsi, diventando di fatto due specie diverse.
    Gli studi come quelli di Dufresnes hanno contribuito ad aggiungere un quadro temporale alla definizione data da Mayr, ma non risolvono completamente il problema. Mostrano infatti che la differenziazione tra specie avviene molto lentamente, almeno per i tempi umani, e che ci può essere un periodo molto lungo in cui specie che si stanno differenziando continuano a essere in grado di incrociarsi e riprodursi. È un processo che avviene ancora oggi e che riguarda molti esseri viventi che abbiamo intorno, ma è difficile capire se stia ancora avvenendo o se si sia concluso.
    In tempi remoti un fenomeno simile a quello osservato in alcune specie di rane avvenne con gli orsi. Oggi vediamo un orso polare e un orso bruno e sappiamo che si tratta di due animali molto diversi, seppure con qualche elemento in comune. Sappiamo inoltre che la pelliccia molto chiara degli orsi polari è il frutto dell’adattamento all’ambiente circostante, che nel loro caso è quasi sempre fatto di neve e ghiaccio nei quali mimetizzarsi. L’orso bruno si è invece adattato a vivere su terreni dove una pelliccia scura si confonde meglio con l’ambiente che ha intorno. Oltre a questi aspetti più evidenti, queste due specie hanno altre caratteristiche tali da essere distinguibili anche nei resti di orsi risalenti a centinaia di migliaia di anni fa.
    Proprio studiando quei reperti e analizzandone il DNA è emerso che per un lungo periodo orsi polari e orsi bruni si incrociarono tra loro. La loro differenziazione iniziò da un antenato comune circa mezzo milione di anni fa, ma per migliaia di anni i due gruppi continuarono a incrociarsi e a rimescolare il loro materiale genetico. Si differenziarono in modo più netto solamente 120mila anni fa e da allora i casi di incroci diventarono via via più sporadici, fino a quando le due specie furono pressoché incompatibili alla riproduzione comune. Il periodo precedente e molto lungo di incroci lasciò comunque il segno, se si considera che ancora oggi il 10 per cento del DNA di un orso bruno deriva da quello degli orsi polari.
    (Dietmar Denger/laif/Contrasto)
    Quando si parla di ibridi tendiamo a pensare ad animali con cui abbiamo una certa dimestichezza, come il mulo che è un incrocio tra un asino e una cavalla, o il porcastro che deriva dall’incrocio tra una scrofa e un cinghiale. In realtà ci sono molti altri esempi come la ligre, che nasce da un incrocio tra un maschio di leone e una femmina di tigre, il cama che ha come genitori un lama e un cammello, e ancora lo zebrallo, che nasce da una zebra e un cavallo. La grande varietà di ibridi osservabili oggi ci ricorda che i confini tra specie diverse sono spesso labili e che ci sono molte eccezioni alla regola di Mayr.
    A dirla tutta, un altro animale che conosciamo molto bene è anche il frutto di una ibridazione, per lo meno parziale: l’essere umano. La nostra evoluzione è stata tutt’altro che lineare e ha compreso lunghi periodi di riproduzione tra specie diverse. Le analisi genetiche svolte soprattutto negli ultimi anni sfruttando il DNA antico, per esempio, hanno evidenziato come per diverso tempo ci furono incroci tra gruppi di Neanderthal e umani moderni, tanto che si ritrovano ancora oggi tracce genetiche dei Neanderthal in alcune popolazioni. La differenziazione e classificazione delle specie e sottospecie di umani è ancora oggi molto dibattuta, a ulteriore dimostrazione di quanto sia difficile stabilire che cosa sia davvero una specie.
    Chi si occupa di classificazione e tassonomia impara a muoversi nell’incertezza e a gestirla, come del resto fa praticamente chiunque si occupi di scienza, ma la mancanza di punti fermi può essere a volte frustrante. È probabilmente anche per questo motivo che di recente l’Unione ornitologica internazionale ha scelto di provare a mettere ordine nelle diatribe che spesso nascono intorno alla classificazione delle specie di uccelli.
    Nel 2021 l’Unione ha incaricato un gruppo di lavoro di riorganizzare le quattro liste più condivise di specie aviarie, realizzando un unico grande catalogo. Per farlo, nove esperti si confronteranno su oltre 11mila specie, votando di volta in volta sulla base di alcuni criteri per definire le singole specie. Il confronto non è sempre pacifico e richiede una certa capacità di mediazione, tra chi vorrebbe spesso mettere insieme più uccelli in un’unica specie e chi invece propone di mantenere una differenziazione più marcata.
    Le nuove opportunità offerte dai progressi in campo informatico potrebbero comunque aiutare, non solo nella catalogazione degli uccelli. Alcuni gruppi di ricerca hanno per esempio iniziato a lavorare a sistemi di riconoscimento automatico delle immagini, in modo da mettere a confronto molto più velocemente individui fotografati negli ambienti naturali con gli esemplari conservati nei musei o rappresentati nei loro cataloghi. Dal confronto possono emergere dettagli su somiglianze o altre caratteristiche da approfondire, anche sul piano genetico, in modo da fare meglio ordine.
    Al di là degli aiuti offerti dalle nuove tecnologie informatiche e di analisi genetica, il lavoro di catalogazione e costruzione delle tassonomie è comunque lungo e impegnativo, nonché enorme. A oggi la catalogazione ha interessato più o meno 2,3 milioni di specie, ma più si studiano i diversi ambienti e la loro diversità più emerge che ci sono ancora milioni se non miliardi di specie da scoprire e catalogare. Alcuni sono minuscoli e difficili da identificare e studiare a causa della loro alta variabilità, come alcuni gruppi di batteri, altri semplicemente vivono in ambienti dove un tempo non si riteneva potesse esserci la vita, come è il caso degli organismi estremofili.
    Ed è proprio studiando e catalogando gli estremofili che iniziano a esserci ipotesi e supposizioni su come potrebbero essere fatte forme di vita su altri pianeti. Forse un giorno dovremo catalogarle insieme alle altre, ma questa è un’altra storia. LEGGI TUTTO

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    Non riusciamo a capire perché ci siano così tante orchidee

    Nero Wolfe, l’eccentrico investigatore inventato dallo scrittore statunitense Rex Stout, passa molto tempo delle proprie giornate a riflettere mentre cura la propria collezione di orchidee nella sua serra privata all’ultimo piano della sua casa di New York. In una delle sue prime avventure sentenzia che «nella vita tutto, tranne la coltura delle orchidee, deve avere uno scopo».Per Wolfe è un’attività fine a se stessa, ma non per questo meno importante visto che coltivarle lo aiuta a pensare e a concentrarsi sui casi da risolvere. Non ambisce a collezionarle tutte, considerato che ne esistono circa 28mila specie note e che molte altre probabilmente non sono state ancora scoperte e catalogate. Perché siano così tante è ancora oggi un mistero, la cui soluzione sfuggirebbe persino a Nero Wolfe.Le orchidee sono uno dei gruppi più grandi e vari delle angiosperme, quelle che comunemente e con una certa approssimazione chiamiamo “piante da fiore”. Le specie appartenenti alla famiglia delle Orchidacee sono estremamente diversificate, per forma e colori, tanto da avere affascinato nella storia una grande quantità di botanici, semplici appassionati e persone di scienza. Tra queste ci fu anche il naturalista Charles Darwin, che oltre alle proprie ricerche sull’evoluzione dedicò un intero libro ai metodi «col mezzo dei quali le orchidee vengono fecondate dagli insetti». Darwin era rimasto colpito dai vari modi in cui si riproducono queste piante, dando spesso origine a nuovi incroci e generazione dopo generazione a nuove specie. Erano una sorta di laboratorio evolutivo fiorito.Ancora oggi il lavoro di Darwin è un importante punto di partenza per chi studia le orchidee e vuole capire da cosa derivi la loro alta differenziazione, che le ha portate a popolare tutti i continenti fatta eccezione per l’Antartide. Chi coltiva le orchidee come Wolfe sa quanto siano delicate e difficili da mantenere, ma negli ambienti selvatici queste piante proliferano e si riproducono velocemente. Sono talmente diffuse da rendere molto probabile un loro avvistamento durante una passeggiata in un parco, o in modo diverso mentre assaggiamo un gelato alla vaniglia: uno degli aromi più utilizzati in pasticceria è infatti derivato da un’orchidea originaria del Messico.Da specie a specie cambiano forme e colori dei fiori, ma non le strutture fondamentali: tre sepali superiori (le foglie modificate che fanno parte del calice) e tre petali inferiori, uno dei quali assolve la funzione di “labello”, una sorta di base di atterraggio e decollo per attirare gli insetti impollinatori. Il fiore dell’orchidea possiede sia gli organi femminili sia quelli maschili, riuniti nel ginostemio, una particolare struttura tipica di alcune famiglie di piante. La vicinanza tra questi organi spiega almeno in parte il successo delle orchidee, che possono comunque riprodursi anche per via asessuata, cioè con una pianta che genera autonomamente una copia identica di se stessa.1. labello; 2. petali; 3. sepali (Wikimedia)La riproduzione sessuata si verifica per impollinazione incrociata oppure per autoimpollinazione. La prima è la più frequente tra le orchidee e coinvolge nella maggior parte dei casi gli insetti impollinatori, per lo più imenotteri (come le api) e con i quali c’è spesso un’alta selettività (significa che una certa specie di orchidea ha un impollinatore specifico). Come altre piante da fiore, le orchidee attirano gli insetti impollinatori producendo una sostanza zuccherosa e nutriente: il nettare. L’insetto si posa sul labello, entra più in profondità nel calice e inizia a nutrirsi di nettare; nel frattempo il suo corpo si ricopre del polline dell’orchidea, organizzato in particolari masse ciascuna delle quali si chiama pollinio. Visitando altri fiori, l’insetto trasporterà i pollinii e in questo modo feconderà la pianta che potrà quindi riprodursi.Non tutte le orchidee sono così generose con gli insetti impollinatori da offrire loro il nettare. La produzione di questo fluido viscoso e zuccheroso costa energia e alcune piante hanno sviluppato la capacità di imitare le specie nettarifere nell’aspetto, ma non nella sostanza: sono le cosiddette “orchidee ingannevoli”. L’insetto plana sul fiore e quando scopre che non c’è nettare è ormai troppo tardi e si è ricoperto comunque dei pollinii prodotti dalla pianta.In altri casi ingannevole è l’orchidea più di ogni cosa. Esistono infatti specie che utilizzano una forma particolare di mimetismo: il loro labello assume una forma e un colore, talvolta persino una pelosità, che ricorda quella di particolari insetti impollinatori. Producono inoltre sostanze (feromoni) tipicamente prodotte dalle femmine degli insetti per attirare i maschi, che si illudono di avere trovato una compagna e tentano quindi un amplesso con il labello. Il tentativo di approccio fa sì che i pollinii aderiscano al corpo e possano poi essere trasportati verso altri fiori.Alcune orchidee preferiscono fare da sole, sfruttando la vicinanza e la particolare conformazione dei loro organi sessuali. L’autofecondazione in alcune specie avviene semplicemente con i pollinii che cadono sullo stigma, la parte che riceve il polline durante l’impollinazione. Altre specie attuano la cleistogamia, un processo nel quale l’autoimpollinazione avviene senza che prima si apra il fiore, oppure si fecondano grazie alla particolare conformazione delle appendici filamentose sulle quali si ammassano i pollinii.(Getty Images)La particolare varietà di fecondazione può spiegare in parte come mai esistano così tante specie di orchidee, visti i numerosi incroci che si possono verificare, ma è anche vero che molte piante sfruttano meccanismi simili, pur non essendo così diffuse in tutto il mondo. Secondo alcuni gruppi di ricerca per capire meglio il mistero della grande varietà ci si deve concentrare sui semi.In un certo senso, quando si tratta di semi le orchidee puntano più sulla quantità che sulla qualità. Molte piante producono pochi semi attrezzati di sostanze nutrienti che saranno usate nella fase di quiescenza e fino al momento della germinazione. Le orchidee producono invece migliaia di minuscoli semi, leggeri e facilmente disperdibili dal vento in ampie porzioni di territorio. Non avendo un bagaglio sufficiente di sostanze nutrienti, devono ricevere un aiuto dall’ambiente e in particolare da alcune specie di funghi, che forniscono l’energia iniziale per la germinazione. Quando questa avviene e la pianta inizia a svilupparsi, il fungo riceve la propria ricompensa in termini di sostanze nutrienti con cui crescere e riprodursi.In alcune specie questa simbiosi dura per tutta la vita della pianta, con alcuni tipi di orchidee che affidano buona parte del lavoro al loro fungo di riferimento, riducendo al minimo le proprie attività metaboliche. È un sistema che non rende naturalmente possibile la germinazione di tutti i semi prodotti da un’orchidea, ma è una buona garanzia sul fatto che sulla quantità alcuni portino a termine la loro missione. È necessario che nell’ambiente ci siano i funghi adatti per innescare la simbiosi e questo spiega perché ci sono specie di orchidee tipiche di determinati ecosistemi.Circa il 70 per cento delle orchidee ha sviluppato inoltre la capacità di crescere non ancorandosi al suolo, ma ai rami e ai tronchi degli alberi (epifitismo). Sfruttano le altre piante come punti di appoggio, ma non utilizzano i loro nutrienti come fanno per esempio i funghi. Le loro radici aeree hanno un rivestimento di cellule ormai morte che proteggono le parti più intime, mentre le punte sono esposte all’ambiente circostante e sono importanti per la raccolta di acqua, attraverso l’umidità dell’aria. In Europa le orchidee sono quasi sempre terricole, con radici e bulbi affondati nel terreno, ma anche in questo caso con una grande varietà nella loro forma a seconda delle specie.Radice aerea di un’orchidea (Wikimedia)Tutte queste caratteristiche aiutano a farsi un’idea della grande complessità con cui si devono confrontare i gruppi di ricerca desiderosi di risolvere i misteri delle orchidee. Nel 2003, per esempio, uno studio provò a trovare qualche risposta in Ecuador, che ospita oltre 3.700 specie conosciute di orchidee. Dall’analisi era emerso che l’alto numero di semi prodotti da ogni orchidea e le caratteristiche dell’ambiente andino hanno favorito una rapida diffusione di queste piante, con un adattamento marcato nel corso di varie generazioni.Nel 2015 una ricerca a più ampio spettro provò a ricostruire il complesso albero evolutivo delle orchidee, utilizzando la genetica e le analisi dei fossili. Lo studio dice che le orchidee ebbero origine in un periodo compreso tra 120 e 102 milioni di anni fa, probabilmente in quella che oggi chiamiamo Australia. All’epoca i continenti erano diversi dagli attuali, e attraverso i loro semi le orchidee si espansero via via verso i tropici e in generale nell’attuale Sudest asiatico, dove si può osservare la maggiore varietà di specie finora catalogate.C’è però uno studio diffuso a settembre, per ora preliminare e non ancora sottoposto ai processi di verifica e controllo (“peer review”), che mette in dubbio la ricostruzione finora più condivisa. La ricerca si è basata sull’analisi del materiale genetico di quasi duemila specie di orchidee e ha ipotizzato che il loro antenato comune fosse nel Cretacico superiore (tra 100 e 65 milioni di anni fa) in una parte di ciò che era rimasto della Laurasia, la più settentrionale delle due grandi masse terrestri che formavano la Pangea. Le numerose specie di orchidee iniziarono a proliferare molto tempo dopo, circa cinque milioni di anni fa, portando poi alla distribuzione che osserviamo oggi con la forte presenza di queste piante in alcune aree.Il nuovo studio ha fatto discutere e aggiunge spunti importanti per ricostruire l’evoluzione delle orchidee, ma non è stato trovato molto convincente rispetto alla precedente ipotesi. Capire dove e quando tutto abbia avuto origine per queste piante è comunque importante per ricostruire le loro molteplici e variegate evoluzioni. Lo è non soltanto per arricchire le conoscenze su una famiglia di angiosperme così diffusa, ma anche a fini di conservazione. Il riscaldamento globale sta infatti modificando numerosi ecosistemi ed è uno fattori nell’impoverimento della biodiversità, cioè della varietà di specie che popolano un certo ambiente. La grande diversità potrebbe non essere più un tratto peculiare delle orchidee, con una conseguente perdita di numerose specie e l’impossibilità di studiare le loro origini.Xanthopan morganii (Wikimedia)Nel suo trattato sulle orchidee, Charles Darwin raccontò di essere rimasto colpito dall’orchidea cometa (Angraecum sesquipedale) nativa del Madagascar, perché ha un prolungamento del calice molto profondo in cui si accumula il nettare. Si chiese come potesse raggiungerlo un normale insetto impollinatore e ipotizzò che potesse esistere una farfalla o una falena con una spirotromba (il piccolo tubo con cui si nutrono) sufficientemente lunga per raggiungere il fondo della cavità. La sua ipotesi fu commentata con un certo distacco dagli entomologi dell’epoca, che si dovettero però ricredere quando fu scoperta una falena (Xanthopan morganii) con una spirotromba decisamente lunga e che faceva da insetto impollinatore di quella specie di orchidea. È per questo motivo che informalmente oggi viene chiamata “orchidea di Darwin”. LEGGI TUTTO

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    La nuova vita delle foglie morte

    In questo periodo dell’anno nel nostro emisfero le chiome di miliardi di alberi si tingono di rosso, arancione e giallo, il segno più evidente dell’arrivo della stagione fredda. Man mano che si riducono le ore di luce giornaliere e si abbassano le temperature, le piante caducifoglie rallentano il loro metabolismo e fanno cadere a terra le foglie, che nel corso della stagione calda sono state essenziali per la fotosintesi. Una quantità gigantesca di foglie decidue ricopre quindi il sottobosco, i prati, i campi, i parchi cittadini, ma anche le strade e i marciapiedi, causando qualche disagio ma anche grandissime opportunità talvolta sottovalutate.Soprattutto le persone che vivono in città tendono a vedere le foglie secche a terra come un fastidio e un pericolo nei giorni di pioggia, quando rendono scivolosi i marciapiedi. La loro mancata rimozione è spesso fonte di lamentele e polemiche contro le amministrazioni comunali, accusate di tanto in tanto di non intervenire con tempestività per fare pulizia. Nelle città più grandi, ripulire strade e piazze richiede uno sforzo non indifferente: solo a Milano l’azienda per la raccolta dei rifiuti (AMSA) stima di raccogliere in media 450 tonnellate di foglie alla settimana nel periodo autunnale; corrispondono a un volume notevole, considerato quanto poco pesano le foglie in rapporto allo spazio che occupano.Le foglie secche vengono poi smaltite in vario modo a seconda di come sono organizzati i comuni. In alcuni casi vengono incenerite insieme agli altri rifiuti, in altri smaltite con l’umido oppure riutilizzate per altri scopi, compresi quelli di rigenerazione del suolo. Oltre alle questioni di sicurezza per chi cammina sui marciapiedi o va in bicicletta, le foglie secche su asfalto e cemento vengono di preferenza rimosse perché durano a lungo e nel caso di prolungati periodi senza pioggia si rompono in pezzi sempre più piccoli, producendo polveri che possono contribuire al peggioramento della qualità dell’aria.Le pratiche di rimozione variano moltissimo a seconda delle città, ma in generale interessano soprattutto le foglie cadute sulle aree ricoperte da cemento e asfalto, mentre riguardano in misura minore le zone verdi come quelle dei parchi cittadini. Le foglie secche a contatto diretto con il terreno sono infatti un’ottima risorsa per rigenerare il suolo, arricchendolo di minerali e altre sostanze utili per la crescita delle piante e per la vita di microrganismi, funghi, insetti, uccelli e altri animali di piccola taglia. Per questo viene consigliato di non raccogliere e bruciare le foglie secche, ma di lasciarle dove sono sul terreno o di riutilizzarle in altro modo, per esempio per produrre il compost che potrà poi essere impiegato come fertilizzante.(Spencer Platt/Getty Images)Nel caso di foglie decidue di piccole dimensioni che si depositano su un prato, come quello di un parco pubblico o del giardino di casa, il consiglio è di non fare sostanzialmente nulla. Complice la pioggia, le foglie marciscono e si decompongono durante la stagione fredda, aggiungendo nutrienti al suolo. Nel caso di grandi quantità o di foglie di maggiori dimensioni, c’è il rischio che il prato o piante di piccole dimensioni restino completamente coperti non ricevendo luce e ossigeno a sufficienza, con un conseguente “soffocamento”. In queste condizioni può rendersi necessaria la rimozione delle foglie, che possono però essere trasferite in altre aree del prato o in aiuole dove sono coltivate piante più grandi e vigorose, meno esposte al rischio di soffocamento.Non sempre le foglie che cadono al suolo sono però sane. Un albero malato, per esempio a causa di alcuni parassiti, può contaminare altre piante più piccole. È quindi importante verificare sempre la salute degli alberi caducifogli per decidere se lasciare o meno in terra le foglie che hanno perso. Dovrebbero essere raccolte separatamente, in modo da non utilizzarle per fare il compost dove alcuni parassiti potrebbero proliferare più facilmente, complice l’umidità e il calore che si sviluppa con la decomposizione.(AP Photo/Matthias Schrader)Le foglie secche possono essere utilizzate inoltre per la pacciamatura, il processo con cui si ricopre una porzione di terreno con materiali vegetali (e non solo) di vario tipo, per proteggerlo dall’erosione e mantenerlo più fertile. È un’attività che viene svolta in ambito agricolo, ma anche per il giardinaggio e in misura più contenuta nei parchi urbani. Si utilizzano frammenti di corteccia, aghi di pino, paglia e all’occorrenza anche le foglie secche. Di solito vengono triturate direttamente sul prato, per esempio utilizzando un tagliaerba regolato in modo che lasci il materiale triturato dove si trova invece di raccoglierlo in un contenitore.I prati sottoposti a questi trattamenti nei parchi urbani e nei giardini appaiono molto diversi dall’immaginario collettivo in cui sono sempre verdi, ma non significa che siano meno curati. La presenza delle foglie non è un indicatore della trascuratezza di un prato e ricorda che anche un giardino costituisce un ecosistema, con molte specie diverse che lo popolano e che variano a seconda delle stagioni. C’è un tempo in cui un prato è verde e fiorito e un altro in cui riposa e si rigenera, sotto a uno strato di foglie. LEGGI TUTTO

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    Il suono che fanno le piante

    Caricamento playerLe persone appassionate di giardinaggio dicono spesso che parlare alle piante le aiuti a crescere, anche se la questione è ancora dibattuta e non ci sono molti elementi scientifici per sostenerlo. Sembra invece certo che le piante parlino, a loro modo, e che i loro suoni possano aiutare a comprendere se hanno bisogno di acqua o se sono sotto particolari stress.Un gruppo di ricerca dell’Università di Tel Aviv, in Israele, ha provato ad ascoltare le piante utilizzando microfoni molto sensibili e in ambienti isolati acusticamente, riuscendo a registrare i suoni che producono a seconda delle circostanze e della loro specie di appartenenza. Lo studio si è concentrato sulle piante del tabacco (Nicotiana tabacum), del pomodoro (Solanum lycopersicum) e del grano tenero (Triticum aestivum), rendendo possibile la registrazione di suoni che devono essere poi elaborati per poter essere ascoltati con le nostre orecchie.Lo studio spiega che i suoni emessi dalle piante hanno una frequenza compresa tra i 20 e i 100 kilohertz, troppo alta per essere percepita dal nostro udito. I suoni registrati ricordano quelli dei chicchi di mais quando si prepara il pop corn, ma secondo il gruppo di ricerca sono dovuti alla cavitazione (formazione e implosione) delle piccole bolle d’aria che si producono all’interno dello xilema, il tessuto vegetale dentro cui passa la linfa, contenente acqua e sostanze nutrienti per la pianta.Pomodoro LEGGI TUTTO