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    Ogni giorno facciamo un sacco di cose senza pensarci

    Quando si visita una città per la prima volta, percorrendone le strade a piedi, è abbastanza normale aiutarsi consultando una mappa sul proprio smartphone o seguendo cartelli e altre indicazioni. E imboccare una via anziché un’altra, in casi del genere, è solitamente un’azione guidata da un pensiero cosciente. La maggior parte delle azioni di tutti i giorni non sono di questo tipo: lavarsi i denti, preparare la moka o raggiungere l’ufficio sono azioni prese in carico da una specie di pilota automatico. Sono involontarie, in un certo senso: il risultato di decisioni prese per abitudine e senza che ne siamo coscienti.Le decisioni di questo secondo tipo coinvolgono principalmente quella che in psicologia cognitiva viene definita memoria implicita (o procedurale), un insieme di processi della memoria a lungo termine che utilizza le nostre esperienze passate per permettere l’esecuzione di movimenti e operazioni senza che ce ne rendiamo conto, come andare in bicicletta, suonare uno strumento musicale o usare una tastiera senza dover osservare i tasti. Sono decisioni che si distinguono da quelle coscienti anche sul piano neuro-anatomico: coinvolgono cioè aree del cervello specifiche, diverse rispetto a quelle più coinvolte quando invece cerchiamo, per esempio, di mimare il titolo di un film o risolvere un cruciverba.Comprendere come funziona la memoria quando svolgiamo determinate azioni per abitudine, senza farci caso, è utile a capire cosa succede nei casi patologici in cui particolari traumi o malattie compromettono quei processi. Ma è utile in generale a capire come fa il cervello a gestire ogni giorno migliaia di decisioni inconsce, normalmente, e come e perché azioni che inizialmente richiedono un certo grado di coscienza possono diventare azioni del tutto automatiche e portare ad abitudini molto difficili da cambiare.– Leggi anche: Quelli che vedono i suoniLa memoria implicita è uno dei due tipi principali di memoria a lungo termine: l’altra, quella esplicita (o dichiarativa), serve a richiamare ricordi coscienti di fatti del passato, o anche la data di un compleanno o l’orario di un appuntamento. Quella implicita è invece inconscia e non richiede sforzi, ma dura comunque a lungo: giorni, anni o decenni, a seconda dei casi. Un modo abituale di distinguere i due diversi tipi di memoria a lungo termine, come suggerito dall’esperta psichiatra statunitense Sara Jo Nixon, è ricordarsi che quella esplicita serve a «sapere cosa» e quella implicita a «sapere come».Attraverso la memoria implicita costruiamo ricordi che, una volta formati, è difficile rimuovere – dimenticare come si va in bicicletta, appunto – ed è molto facile richiamare: avviene di fatto, a livello inconscio, ogni volta che eseguiamo determinate azioni in modo automatico. Quando impariamo ad andare in bicicletta acquisiamo varie capacità motorie e di coordinazione necessarie per mantenere l’equilibrio, pedalare, sterzare e controllare l’andatura, tutto nello stesso momento. E succede più o meno la stessa cosa anche quando impariamo a guidare: sono tutte abilità che vengono memorizzate nella memoria implicita, in modo da non dover impiegare ogni volta che le mettiamo in pratica tutte le risorse mentali e la concentrazione richieste la prima volta.In un certo senso, come ha scritto la ricercatrice australiana Gina Cleo sul sito The Conversation, le abitudini e le azioni automatiche permettono di svolgere centinaia di attività mentre il cervello elabora tutte le altre informazioni che riceve ogni secondo. Ciascuno dei due diversi sistemi – quello dell’attività consapevole e quello delle decisioni inconsce – coinvolge inoltre aree diverse del cervello, sebbene nessun tipo di memoria sia del tutto autonomo ed esistano molte interdipendenze funzionali tra le varie parti del cervello.Sulla base di diversi studi di neurofisiologia e neuropsicologia si ipotizza che la parte più coinvolta nelle attività di organizzazione e pianificazione dei comportamenti e delle azioni volontarie sia la corteccia prefrontale. È la parte anteriore del lobo frontale del cervello, ed è responsabile dei processi decisionali: quelli che implicano un’intenzione. Permette di formare nuove connessioni nel cervello quando acquisiamo nuove conoscenze o apprendiamo una nuova abilità, per esempio, e richiede un certo sforzo cognitivo e cosciente.– Leggi anche: Pat Martino diventò un grande chitarrista per due volteUn’area strettamente connessa alla corteccia prefrontale ma distinta è quella dei gangli della base, un insieme di centri nervosi alla base del cervello, legati al controllo dei movimenti, alle emozioni e alla formazione delle abitudini. Sono strutture evolutivamente primordiali, tra le prime a formarsi nel cervello umano, e poiché funzionano in modo riflessivo e automatico non richiedono uno sforzo cognitivo.Quando in un contesto che tende a ripetersi eseguiamo una certa azione più volte e per un periodo di tempo abbastanza lungo, un comportamento inizialmente guidato da un’intenzione può progressivamente diventare un’abitudine. In questo caso l’intenzione viene meno e un impulso a mettere in atto un certo comportamento emerge in automatico perché ci troviamo in un contesto che ha stimolato quel comportamento altre volte in passato. Questo funzionamento spiega peraltro perché quest’area del cervello – in cui si trovano grandi quantità di dopamina, il neurotrasmettitore che regola le sensazioni di piacere – sia la stessa area responsabile, tra le altre cose, dei comportamenti legati alle dipendenze patologiche.Alterazioni patologiche nei gangli della base, causate da fattori non ancora chiari, sono state riscontrate in diverse malattie neurologiche tra cui il morbo di Parkinson, in cui la ridotta produzione di dopamina provoca gradualmente gravi disfunzioni nella regolazione dei movimenti.In alcuni casi non patologici, in condizioni di particolare stress e in presenza di altri fattori come i cambiamenti nella routine quotidiana o la mancanza di sonno, può capitare che strutture primordiali del cervello come i gangli della base, responsabili dei comportamenti abitudinari, prendano il sopravvento sulle strutture superiori, responsabili delle attività coscienti. Si ipotizza che sia questa, per esempio, la spiegazione fisiologica delle tragiche dimenticanze che portano alcune persone a lasciare i bambini in macchina senza rendersene conto, esattamente come è possibile che accada con lo smartphone o le chiavi di casa.– Leggi anche: Perché ci è difficile ricordare le cose successe durante la pandemiaIn circostanze normali, ha scritto Cleo, le abitudini sono invece «scorciatoie della mente» che ci permettono di destinare la nostra concentrazione e la nostra capacità di ragionamento ad altre attività e pensieri nella vita quotidiana. Se per varie ragioni le abitudini smettono di produrre benefici o portano a risultati ritenuti controproducenti, può essere utile o necessario interromperle: cosa solitamente molto difficile da fare.Secondo lo psicologo inglese Benjamin Gardner, docente alla University of Surrey nel Regno Unito e autore di decine di studi scientifici e libri sul comportamento abitudinario, non esiste un approccio ideale per eliminare un’abitudine (in parte diversa dalla dipendenza, che presenta più fattori biologici e neurologici interdipendenti). Molto dipende dal comportamento che si vuole interrompere e dall’individuo che ne ha necessità. Ma i tre modi principali sono: smettere direttamente di fare una certa cosa, evitare lo stimolo ambientale che attiva un certo comportamento, oppure associare a quello stimolo un nuovo comportamento altrettanto soddisfacente.Seguendo un esempio posto da Gardner, se volessimo interrompere la nostra abitudine di mangiare popcorn appena mettiamo piede in un cinema, avremmo sostanzialmente tre possibilità. Potremmo dire a noi stessi «niente popcorn» ogni volta che andiamo al cinema, e quindi non comprarlo. Oppure potremmo smettere del tutto di andare al cinema, evitando il fattore scatenante. O infine potremmo sostituire il popcorn con qualcos’altro da mangiare, che si adatti meglio al nostro budget o alle nostre esigenze nutrizionali. LEGGI TUTTO

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    La musica e i ricordi

    Quando Laura Nye Falsone ebbe il primo figlio, nel 1996, stava avendo un grande successo il disco dei Wallflowers “Bringing down the horse”: «Mi basta sentire le prime note di One Headlight e mi ritrovo a ballare con mio figlio appena nato in braccio», dice: «ogni volta mi riempie il cuore di gioia».Quando l’Alzheimer precoce di Carol Howard, una biologa marina morta nel 2019, peggiorò, spesso non riusciva neanche a riconoscere suo marito. Una volta le successe di presentarlo a qualcuno come suo padre. Lui ora racconta che però se solo sua moglie sentiva una canzone di Simon e Garfunkel degli anni Sessanta poteva cantarne ogni parola senza sforzo.La capacità della musica di evocare ricordi così vividi è un fenomeno già ben conosciuto dai ricercatori. Può innescare accesi ricordi degli anni passati – per molti più intensamente che ogni altro senso come il gusto o l’odorato – e quelle esperienze possono provocare emozioni profonde. «La musica può aprire porte dimenticate sulla memoria», dice Andrew Budson, primario di neurologia cognitiva e comportamentale, responsabile dello staff di formazione e direttore del Centro per le Neuroscienze Cognitive e Traslazionali all’Ospedale per gli Affari dei Veterani di Boston. «Può portarti indietro nel tempo, nello stesso modo in cui una scossa di elettricità può attivare il tuo cervello e farlo funzionare», continua: «abbiamo avuto tutti l’esperienza familiare di tornare nella nostra città, passare accanto al nostro liceo e sentire affiorare i ricordi. La musica può fare la stessa cosa. Fornisce una cornice auditiva ed emotiva che ci permette di rivivere quei ricordi».Gli scienziati che studiano i forti effetti che la musica ha sul cervello dicono che le nuove conoscenze possono migliorare le terapie per malattie come la demenza e altri disturbi della memoria, l’ansia, lo stress e la depressione, la difficoltà di apprendimento e anche molte patologie fisiche come il dolore cronico, il cancro e il Parkinson.Ci sono prove che la musica porti alla produzione di neurotrasmettitori del cervello, come la dopamina, un trasmettitore chimico che si occupa del sistema cerebrale di ricompensa. Altri studi hanno mostrato che la musica riduce il cortisolo, l’ormone che produce lo stress, e aumenta la secrezione di ossitocina, che ha un ruolo durante il travaglio e il parto, e nel legame, nella fiducia e nell’attaccamento romantico neonato-genitore.«La musica attiva diverse parti del cervello», e questo la rende uno strumento particolarmente versatile, spiega Amy Belfi, ricercatrice di scienze psicologiche all’Università della Scienza e della Tecnologia del Missouri e ricercatrice principale nel laboratorio di Cognizione ed Estetica della Musica. «Ne facciamo uso per migliorarci l’umore, per aiutarci a studiare, per legare con altre persone. Diventa parte della nostra identità, colonna sonora delle nostre vite, il che spiega perché è così efficace nello stimolare e far rivivere i ricordi».Alcuni esperti vedono anche la musica – che può alleviare l’agitazione nei soggetti affetti da demenza – come un’alternativa ai sedativi, per esempio, o come un mezzo che permette a queste persone di evitare i ricoveri. Frank Russo, professore di psicologia alla Metropolitan University di Toronto, pensa che sia un obiettivo raggiungibile. È direttore scientifico di un’azienda che sta sviluppando un lettore musicale che usa l’intelligenza artificiale per produrre una playlist ad hoc progettata per guidare il paziente da uno stato di ansia a uno di calma.«Uno degli aspetti più impegnativi per i “caregiver” è la gestione dell’ansia e dell’agitazione», dice Russo, le cui ricerche si concentrano sull’intersezione tra neuroscienza e musica. «Una grande quantità di persone finisce in case di cura che ricorrono a sedativi e antipsicotici. La musica è una grande opportunità in questi casi».Melissa Owen, terapista musicale alla Clinica universitaria del Commonwealth in Virginia, ha già avuto a che fare con casi come questi nel suo lavoro. «Rimango ancora a bocca aperta di fronte alla capacità della musica di cambiare in meglio i comportamenti, le emozioni e anche i rapporti tra gli operatori sanitari e i loro pazienti, anche solo per la durata di una specifica canzone», dice. Fornisce «un momento di normalità quando molto sembra già perduto».Per comprendere gli effetti che la musica ha sul cervello, si studiano i diversi tipi di memoria che vengono coinvolti. Gli scienziati dicono che per esempio quando suoniamo, a differenza di quando semplicemente ascoltiamo, usiamo la memoria “procedurale”, un tipo di memoria “implicita” a lungo termine, che fornisce la capacità inconscia di ricordarci delle abitudini o delle routine di tutti i giorni, come scrivere con le dita su una tastiera, andare in bicicletta o lavarci i denti, senza doverci pensare.Questo tipo di memoria si differenzia da quella “episodica”, un tipo di memoria a lungo termine ed “esplicita”, che fornisce ricordi coscienti ed è quella che usiamo per ricordarci, per esempio, cosa ci eravamo segnati di dover comprare al supermercato.(Sia la memoria implicita che quella esplicita sono tipi di memoria a lungo termine – la prima inconscia e senza necessità di sforzi, la seconda bisognosa dello sforzo conscio di volersi ricordare). La memoria episodica ha origine nell’ippocampo, la regione del cervello che è la prima a smettere di funzionare quando sopraggiunge la demenza, dice Budson. «L’Alzheimer attacca per primo e soprattutto l’ippocampo», aggiunge, spiegando perché invece la memoria procedurale continui a fornire ai pazienti la capacità di ricordare i testi ed eseguire i brani: «è un sistema di memoria completamente diverso».Nei soggetti con un cervello sano, «la memoria episodica dà la possibilità di sentirsi trasportati indietro nel tempo» a uno specifico evento o periodo «quando ascolti un brano musicale», dice Budson, mentre la capacità di cantare o suonare musica appartiene alla memoria procedurale, il che significa che non c’è bisogno di pensare intenzionalmente a quello che si sta facendo. Un esempio noto è quello del celebre cantante Tony Bennett, di 96 anni, che anche durante le sofferenze dell’Alzheimer poteva continuare a cantare le sue canzoni più famose.Budson dice che comunque i pazienti affetti da Alzheimer possono fare esperienza del fenomeno di “tornare indietro nel tempo” grazie alla musica tramite la memoria episodica, anche dopo che la malattia ha intaccato il loro ippocampo, quando questi ricordi episodici hanno più di due anni. «Questi ricordi sono stati ‘consolidati’, e una volta consolidati possono essere accessibili anche se l’ippocampo è stato distrutto».«Il processo di consolidamento inizia nella notte dopo la quale un ricordo viene formato, e può durare fino a due anni», spiega Budson. Quando si crea un ricordo, non viene archiviato subito nell’ippocampo. I diversi aspetti di un ricordo – le immagini, i suoni, gli odori, le emozioni e i pensieri – sono rappresentati da uno schema di attività neuronale in diverse parti della corteccia, la superficie esterna del cervello, dove avvengono la vista, l’udito, l’odorato, l’emozione e il pensiero».Per capire il concetto, suggerisce, pensate ai ricordi come piccoli palloncini che fluttuano in diverse aree del cervello. «Quando un nuovo ricordo si forma è come se l’ippocampo cercasse di legare insieme i fili dei palloncini, proprio come se stesse tenendo tutti i fili di diversi palloncini nella sua mano», continua. «Se l’ippocampo venisse distrutto, i palloncini si dividerebbero, volerebbero via e il ricordo sarebbe eliminato». Ma dopo che il ricordo viene consolidato, «i diversi palloncini si legano l’un l’altro autonomamente tramite spesse corde e non c’è più bisogno dell’ippocampo perché il ricordo rimanga intatto. È per questo che le persone con la malattia di Alzheimer continuano ad avere ricordi della propria infanzia ma non di cosa hanno mangiato a pranzo o di chi hanno incontrato il giorno prima».Tutti conoscono l’effetto “macchina del tempo” di quando si ascolta una canzone della propria gioventù. «Andavo al liceo negli anni Ottanta e oggi, quando sento una canzone di Blondie o dei Depeche Mode, ho quella sensazione di essere in giro con i miei amici, indipendente dai miei genitori, quando stavo cominciando a sentirmi un adulto; è davvero intensa», spiega Budson. «Non ascoltiamo le canzoni solo una volta. Abbiamo nel tempo diverse opportunità di registrare quel ricordo. La musica che è profondamente consolidata in noi può sbloccare dei ricordi fotografici. Riusciamo a ricordarci dettagli più vividi del passato quando sentiamo la musica». Le ricerche hanno dimostrato che questo effetto è più forte di quando vediamo dei volti familiari o di quando ci troviamo di fronte ad altri stimoli.Belfi ha condotto una ricerca specifica su questo aspetto. Durante uno studio, trenta partecipanti (di età tra i 15 e i 30 anni) ascoltavano quindici secondi estratti da canzoni che erano popolari quando erano più giovani. Dopo aver ascoltato questi spezzoni, guardavano alcune foto di volti di persone famose appartenenti allo stesso periodo, tra cui politici, atleti e attori: ma non musicisti, per evitare confusioni. Gli scienziati chiedevano quindi ai partecipanti di descrivere ogni ricordo “autobiografico” che era stato ispirato loro dall’esposizione a questi stimoli. «La musica provocava ricordi molto più dettagliati di quanto facessero i volti», dice Belfi. «Abbiamo concluso che la musica tende ad associarsi a ricordi personali della vita». In un altro breve studio ha detto di aver chiesto ai partecipanti – 39 giovani adulti dai 18 ai 34 anni e 39 adulti più anziani dai 60 ai 77 anni – di tenere un diario per un lasso di tempo di quattro giorni nel quale registrare le loro reazioni sia alle canzoni che sentivano sia al cibo che mangiavano, cucinavano e vedevano nei supermercati o nei programmi TV di cucina. «La musica evocava più frequentemente ricordi personali, una percentuale maggiore di ricordi involontari, e ricordi considerati più personali in confronto a quelli provocati dal cibo».Questo non sorprenderebbe Falsone, una responsabile di laboratorio del Centro per la ricerca ambientale Smithsonian. Il bambino che teneva in braccio mentre ballava ora ha ventisei anni, e lei ha avuto altri due figli e una figlia. Tutti loro conoscono il suo aneddoto sui “Wallflowers”.«Quando ne parlo, loro alzano gli occhi al cielo e dicono, ‘Sì, mamma, lo sappiamo. Ti piace questa canzone’», dice, «ma sorridono».© 2023, The Washington PostSubscribe to The Washington Post(traduzione di Emilia Sogni) LEGGI TUTTO

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    Perché ci è difficile ricordare le cose successe durante la pandemia

    Negli ultimi tre anni, soprattutto nel 2020 e nel 2021, le condizioni eccezionali determinate dalla pandemia e dalle misure adottate per contrastarla hanno fornito a ricercatori e ricercatrici di tutto il mondo l’opportunità di raccogliere e analizzare enormi quantità di dati e informazioni. Diverse ricerche di psicologia e neuroscienze hanno permesso di approfondire le conoscenze sui sogni, per esempio, o sulle reazioni agli eventi traumatici e alla sovraesposizione alle notizie.Una parte delle ricerche si è concentrata anche sulla percezione distorta del tempo durante la pandemia e su come il normale funzionamento della memoria sia stato condizionato da molti fattori relativi alle routine atipiche di quel periodo. Un’impressione comune e molto condivisa è che sia piuttosto faticoso rievocare e distinguere con chiarezza i ricordi delle cose successe durante le fasi di isolamento. E che sia difficile associare con precisione un determinato evento a un particolare momento della pandemia anziché un altro: dire se quell’evento sia avvenuto nell’autunno del 2020 o del 2021, per esempio.Questa sensazione largamente condivisa è stata interpretata e descritta dagli studiosi che se ne sono occupati come un fenomeno del tutto normale, molto utile a spiegare per contrasto come funziona la memoria in circostanze normali. Le nostre giornate sono solitamente scandite da eventi – spostamenti in macchina o appuntamenti a cena, per esempio – che forniscono «punti di riferimento temporali», scriveva già alla fine del 2020 un gruppo di ricercatori canadesi della Université Laval, a Québec, in uno studio sulla percezione del tempo durante la pandemia pubblicato sulla rivista Frontiers in Psychology.Quando quei punti di riferimento vengono meno, non solo la nostra percezione del tempo cambia ma cambia anche il modo in cui memorizziamo le informazioni. Non avere molti ricordi chiari e contestualizzati delle cose successe durante la pandemia non è quindi l’effetto di una successiva rimozione o perdita della memoria di quegli eventi, in questo caso, ma piuttosto del fatto che in quel periodo non abbiamo “immagazzinato” informazioni nel modo in cui lo facciamo abitualmente.Per codificare nuovi ricordi e recuperare quelli vecchi il nostro cervello utilizza i cambiamenti nel contesto e i confini degli eventi come una specie di sostegno: stimoli che attivano una diversa attenzione alle circostanze. E tanto più forti e fuori dall’ordinario sono gli stimoli, tanto è più probabile la formazione dei ricordi di quegli eventi. Dopo l’impatto iniziale con la straordinarietà della pandemia – e molti infatti ricordano bene cosa facevano e dove si trovavano nei primissimi giorni – la vita di moltissime persone nel mondo si è svolta invece in un contesto di eccezionale monotonia.– Leggi anche: La pandemia noiosaL’ambiente ripetitivo e privo di stimoli vari in cui le persone hanno trascorso grandissima parte del loro tempo in isolamento è un tipo di ambiente «cognitivamente scarso», ha detto alla rivista canadese The Walrus la neuropsicologa e scienziata cognitiva canadese Morgan Barense della University of Toronto. E questa condizione comporta inevitabilmente una serie di conseguenze.Il cosiddetto doomscrolling, la pratica di scorrere ininterrottamente le notizie (perlopiù drammatiche e deprimenti) sugli smartphone, è stato per molte persone un tentativo del tutto spontaneo di arricchire la memoria a breve termine in momenti della giornata che prima della pandemia erano destinati ad altre attività. Ricevere meno stimoli nuovi significa anche stimolare di meno la memoria in generale: una carenza che si riflette sia in una ridotta formazione di nuovi ricordi, sia in una diminuzione degli stimoli necessari a rafforzare i ricordi di esperienze passate correlate a stimoli di quello stesso tipo.Percorrere ogni giorno in macchina una certa strada da casa all’ufficio, per esempio, è un’attività routinaria che in quanto tale generalmente non attiva un’attenzione diversa da quella di tutti i giorni lungo quello stesso tragitto. Il percorso fornisce però una serie di stimoli – passare da un certo negozio o da una scuola, o incrociare un amico – che possono in molti casi, anche in modo molto indiretto, funzionare come segnali di recupero di esperienze già vissute e rafforzarne il ricordo.Aver formato meno ricordi durante la pandemia è un fenomeno direttamente associato anche alle alterazioni nella normale percezione del tempo, e cioè la sensazione che scorra troppo lentamente o troppo velocemente, o l’incapacità di distinguere un giorno feriale da uno festivo: distorsioni conosciute nella letteratura psichiatrica come «disintegrazione temporale» e associate a vari disturbi della salute mentale.Per uno studio longitudinale, cioè che misura le variazioni nel tempo, pubblicato nel 2022 su una rivista della American Psychological Association (la più importante associazione di psicologi negli Stati Uniti), un gruppo di ricercatori della University of California Irvine condusse due sondaggi su 5.661 persone all’inizio e alla fine dei primi sei mesi della pandemia. Circa due terzi degli intervistati riferirono di aver avuto una percezione distorta del tempo. I ricercatori conclusero che le distorsioni nella percezione del tempo erano molto comuni e associate a diversi fattori tra cui la salute mentale e i livelli di stress prima della pandemia, e l’esposizione a eventi traumatici durante la pandemia.Nel caso delle esperienze traumatiche l’alterazione dei ricordi e della percezione del tempo ha ragioni diverse dalla povertà degli stimoli e dalla monotonia dell’ambiente, e riguarda piuttosto una difficoltà nella rielaborazione degli eventi.– Leggi anche: Vi capita di ricordare in terza persona?Come spiegava sul New York Times in un articolo del 2022 il neurologo statunitense Scott A. Small, noto per le sue ricerche sull’Alzheimer e sull’invecchiamento cognitivo, i neuroni contengono quelle che a volte sono definite «nanomacchine» dedicate alla formazione di nuovi ricordi, ma anche nanomacchine completamente diverse che servono allo scopo opposto: smantellare accuratamente – e quindi dimenticare – le parti dei nostri ricordi immagazzinati.In una certa misura, l’oblio determinato da questa attività neurologica – da non confondere con la rimozione nella psicoanalisi – è un fenomeno normale. E non dovrebbe essere considerato un malfunzionamento della memoria, secondo Small, ma una parte «sana e adattiva» del normale funzionamento del cervello. Memoria e oblio, in altre parole, sono parti di uno stesso processo e in un equilibrio fondamentale per la nostra salute mentale: dipendiamo dalla memoria per «registrare, imparare e ricordare» gli eventi, e dall’oblio per «compensare, scolpire e soffocare i nostri ricordi».La mancanza di questo equilibrio è particolarmente evidente, per esempio, nei casi di disturbo post-traumatico da stress (PTSD). In circostanze normali l’oblio agisce come una protezione dall’ansia debilitante, ha scritto Small, perché non cancella i ricordi ma ne riduce la potenza emotiva. Che è un meccanismo del cervello in funzione sempre, anche quando i ricordi sono associati a emozioni più ordinarie: dimenticare nel senso di mettere da parte dolore o risentimento, per esempio, è spesso una condizione necessaria a preservare relazioni sociali e amicizie. E non vuole dire che il ricordo in sé sia scomparso dalla memoria.Nei pazienti con disturbo post-traumatico da stress l’area del cervello che immagazzina ricordi che generano ansia e paura è molto attiva, e appare invece molto diminuita la capacità dell’individuo di ridurre la potenza emotiva di quei ricordi. Semplificando i termini ma con cautela, ha scritto Small, è possibile pensare al disturbo post-traumatico da stress come a un disturbo contraddistinto da un eccesso di memoria e un difetto di oblio nel senso di «dimenticare in modo sano» un’esperienza traumatica.Di disturbo post-traumatico da stress si è parlato anche in relazione a particolari reazioni alla pandemia, da alcuni associate per tipologia di sintomi a forme lievi di PTSD. Lo stress cronico e l’incertezza sulla propria sopravvivenza sperimentate da molte persone durante la pandemia, secondo Barense, ha provocato in loro un’ansia prolungata e condizionato negativamente la loro memoria e la salute mentale, anche in assenza di una diagnosi di disturbo d’ansia.– Leggi anche: Cosa può insegnare un incidente aereo sulle nostre reazioni alla pandemiaIn alcuni casi, ha detto a The Walrus lo psicologo canadese della University of Toronto Scarborough Steve Joordens, persone che hanno temuto per la loro vita anche in funzione di particolari vulnerabilità – persone immunodepresse o in precarie condizioni di salute – hanno avuto attacchi di panico o altre reazioni emotive incontrollate al momento di tornare a uno stile di vita normale.Casi di questo tipo possono succedere per il modo in cui sono fatti i nostri cervelli, che si sono evoluti per prevedere minacce immediate – i predatori, per esempio – e riconoscere segnali già associati in precedenza a esperienze pericolose, ha ricordato Joordens. Quei segnali attivano a loro volta sensazioni di paura, ma in alcuni casi lo fanno anche in assenza di un pericolo concreto. Vivere l’esperienza di trovarsi in un bar poco prima di una sparatoria, per esempio, potrebbe portare una persona a sentirsi in pericolo in futuro anche solo ascoltando il rumore della macinatura del caffè, associato all’evento traumatico (che è il funzionamento classico del disturbo post-traumatico da stress).Nel caso delle persone che hanno avuto difficoltà a tornare alla normalità dopo i lunghi periodi di isolamento durante la pandemia, il cervello ha tracciato una serie di associazioni tra determinati stimoli – gli assembramenti, per esempio – e una profonda sensazione di paura. In alcuni casi particolarmente problematici le persone hanno avuto bisogno dell’aiuto di specialisti.Per la maggior parte delle persone il ritorno alla normalità invece non è stato difficile, e ha determinato anzi una scarica molto intensa di stimoli nuovi e per lungo tempo assenti. Questa condizione particolare, ha detto Barense, può in molti casi portare anche a diversi tipi di miglioramento improvviso della memoria negli adulti. È un fenomeno noto nella letteratura scientifica come «picco di reminiscenza», e si verifica – a volte a seguito di un cambiamento significativo nella vita – quando le persone sperimentano un miglioramento dei ricordi della prima infanzia o dell’adolescenza.– Leggi anche: A che età risalgono i nostri primi ricordi LEGGI TUTTO