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    Sono state trovate altre due specie di granchi alieni nell’Adriatico

    Il granchio blu non è l’unica specie di granchi alieni presente nel mar Mediterraneo: ne sono state trovate almeno altre due. Mercoledì l’Istituto per le risorse biologiche e le biotecnologie marine del Consiglio nazionale delle ricerche (CNR-IRBIM) ha annunciato il ritrovamento di un granchio della specie Charybdis feriata, chiamata anche “granchio crocifisso”, al largo delle coste di Senigallia, in provincia di Ancona. E uno studio pubblicato ad agosto da un gruppo di ricerca dello stesso istituto dava conto della presenza di una terza specie, il granchio blu del mar Rosso (Portunus segnis), sempre vicino ad Ancona e nel mar Ionio, vicino alle coste calabresi.Il granchio crocifisso è una specie originaria delle acque tropicali e subtropicali dell’oceano Indiano e dell’oceano Pacifico e ha grandi dimensioni: i maschi possono arrivare a pesare un chilo. Come i granchi blu, vengono pescati e mangiati nelle zone di origine. Secondo i ricercatori dell’IRBIM potrebbe essere arrivato nel Mediterraneo nello stesso modo in cui si pensa sia arrivato il granchio blu: nelle acque di zavorra delle navi mercantili, cioè nell’acqua che le grandi imbarcazioni prelevano dal mare per mantenersi stabili durante la navigazione e che possono poi disperdere a migliaia di chilometri di distanza.Il granchio crocifisso trovato al largo di Senigallia è il primo individuo della specie segnalato nell’Adriatico, ma già nel 2004 ne era stato segnalato uno vicino a Barcellona, in Spagna, e più di recente altri vicino a Livorno (2015) e nel golfo di Genova (2o22): tutti insomma sono stati avvistati vicino a grandi porti, e dato che finora i ritrovamenti sono stati pochi si può pensare che per il momento la loro presenza sia sporadica e limitata ad alcuni individui.Il granchio blu del mar Rosso trovato nell’Adriatico (Ernesto Azzurro, CNR-IRBIM)– Leggi anche: Nei mari della Calabria sono stati avvistati due pesci scorpioneAnche per il granchio blu del mar Rosso è stata ipotizzata la stessa origine. Per entrambe le specie, almeno per il momento, i ricercatori dell’IRBIM non temono che si possa arrivare una proliferazione simile a quella del granchio blu (Callinectes sapidus), che in alcune zone d’Italia è diventato una specie invasiva e ha causato grossi danni alle specie autoctone e agli allevamenti di molluschi. Infatti le temperature dei mari che circondano l’Italia sono probabilmente troppo basse perché le due specie di granchi ci si possano trovare bene al punto da creare nuove popolazioni.«Considerate le caratteristiche ecologiche del granchio crocifisso e la sua tolleranza termica, non riteniamo che ci sia il rischio di un’invasione di questa specie in Adriatico», ha detto Ernesto Azzurro, biologo dell’IRBIM di Ancona, che aveva commentato in modo simile lo studio sul granchio blu del mar Rosso. Tuttavia Azzurro e i suoi colleghi hanno sottolineato che le cose potrebbero cambiare, dato che per via del cambiamento climatico causato dalle attività umane anche le temperature del mar Mediterraneo stanno aumentando: «L’attuale aumento delle temperature sta favorendo il successo di specie tropicali invasive, ed è molto importante monitorare la presenza e la distribuzione di questi alieni in stretta collaborazione con i pescatori».Al di là dei granchi nuotatori, negli ultimi anni si sono viste sempre più specie animali aliene nel Mediterraneo. Spesso si tratta di pesci e spesso arrivano dal mar Rosso attraverso il Canale di Suez: come nel caso del pesce scorpione (di cui quest’estate sono stati trovati due individui in Calabria). Il Mediterraneo e il mar Rosso sono collegati dal Canale fin dal 1869, ma è solo negli ultimi decenni che certe specie hanno cominciato a migrare dall’uno all’altro perché il cambiamento climatico ha reso il Mediterraneo più ospitale per certi animali del mar Rosso. Dal 1869 al 2008 sono state almeno 63 le specie che sono arrivate nel Mediterraneo dal mar Rosso.– Ascolta anche: Vicini e lontani, il podcast sulle specie aliene prodotto dal Post con Oikos LEGGI TUTTO

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    La tempesta delle alluvioni in Libia era un “medicane”?

    Le gravi alluvioni in Libia che secondo le autorità della parte orientale del paese hanno causato la morte di più di 3mila persone sono dovute alla tempesta Daniel, che in precedenza era passata sulla Grecia, provocando anche lì grandi allagamenti. Nell’attraversare il mar Mediterraneo la tempesta è probabilmente diventata più intensa, tanto che se ne è parlato come di un possibile ciclone simil-tropicale, o medicane (che si pronuncia “medichein”), un raro tipo di perturbazione che ha caratteristiche simili agli uragani, le tempeste che tipicamente colpiscono la costa orientale del Nord America. Pare tuttavia che non sia stato il caso di Daniel.Full timelapse of Storm #Daniel ⛈️Daniel brought devastating flooding to central Greece as the system stalled in the Mediterranean Sea.When the system finally moved south, it strengthened into a Medicane tropical-like system before landfalling near Benghazi, Libya. pic.twitter.com/nCs0icxua3— Zoom Earth (@zoom_earth) September 10, 2023L’espressione “ciclone simil-tropicale” è usata in meteorologia per descrivere delle tempeste che avvengono nel bacino del mar Mediterraneo, ma anche sul mar Nero, che condividono alcune caratteristiche con le tempeste tropicali e gli uragani, pur avendo dimensioni molto minori. “Medicane” invece è una crasi delle parole “mediterranean” e “hurricane” e per questo si pronuncia all’inglese. Nella comunità scientifica è un termine meno usato rispetto a “ciclone simil-tropicale”, e più o meno sono usati come sinonimi.I medicane hanno una forma simile a quella delle tempeste tropicali che si formano negli oceani, cioè spirali con un occhio al centro, ma al di là delle dimensioni i due fenomeni si differenziano per la loro diversa origine.Le tempeste tropicali nascono quando gli strati d’acqua superficiali dell’oceano hanno temperature particolarmente elevate, pari o superiori ai 26 °C. In queste condizioni, l’evaporazione aumenta e così la quantità di vapore acqueo presente nell’atmosfera. Il vapore poi condensa in grandi nubi: rilascia calore, produce un abbassamento della pressione e un’intensificazione del vento vicino alla superficie del mare. L’intera sequenza si ripete in un processo a catena creando la tempesta.I medicane invece non si formano a causa delle condizioni marine. La loro origine è atmosferica: si generano quando si incontrano una massa d’aria calda tipicamente di origine subtropicale e una massa d’aria fredda tipicamente di origine subpolare. Assumono però caratteristiche simili alle tempeste tropicali perché quando passano sul mare la loro parte centrale, più calda, “si carica” dell’acqua che evapora e la trasporta con sé. A quest’acqua si devono poi le precipitazioni legate alla tempesta.Non avendo origine marina, i medicane si verificano anche quando le temperature marine di superficie sono più basse, comprese tra i 15 e i 26 °C. È comunque più probabile che si formino in autunno, quando il mare risente ancora del riscaldamento estivo. Generalmente non sono più di uno o due all’anno e finora nel 2023 non ce n’è stato nessuno accertato.Nel caso di Daniel sembra che non si siano verificate condizioni tali da poter parlare di medicane (non tutti i cicloni del Mediterraneo lo diventano) secondo Sante Laviola, ricercatore dell’Istituto di scienze dell’atmosfera e del clima del Consiglio nazionale delle ricerche (ISAC-CNR).La tempesta Daniel, la cui dinamica precisa è ancora in corso di analisi, è stata molto intensa a causa del cosiddetto “blocco a omega” che negli ultimi giorni si è manifestato in Europa, spiega Sante Laviola: «È una struttura atmosferica con una forma che ricorda la lettera greca omega: nelle pieghe dell’omega, la sua parte inferiore, ci sono zone di bassa pressione, mentre nella parte centrale una zona di alta pressione. Noi in Italia eravamo nella zona di alta pressione, quindi abbiamo avuto bel tempo. Nella parti estreme, la Grecia da una parte, e la Spagna e il Portogallo dall’altra, ci sono stati bassa pressione e temporali». La zona di alta pressione è quella a cui si devono le alte temperature raggiunte sulle Alpi, che in alcuni casi hanno battuto dei record raggiunti nell’estate del 2003 e in quella del 2022, entrambe ricordate per il caldo estremo.The current #weather situation in Europe is a textbook Omega block. While central Europe will “enjoy” a #heatwave, Greece will face a #medicane with disastrous damages due to heavy rain and #floods fueled by an extremely hot #MediterraneanSea. #ClimateEmergency #heavyrain pic.twitter.com/qtkNTX9ZLg— Dr. Monica Ionita 🇷🇴 🇩🇪 🇪🇺🌡🌧💧🔥🌊 (@IonitaMoni) September 5, 2023Si parla di blocco a omega perché in concreto quello che succede è che la zona di alta pressione, cioè l’anticiclone, blocca per un periodo di tempo piuttosto lungo le perturbazioni delle pieghe dell’omega.Giulio Betti, meteorologo del CNR e del Consorzio LaMMA, il Laboratorio di monitoraggio e modellistica ambientale della Regione Toscana, aggiunge: «Quello che colpisce dei fenomeni degli ultimi giorni è la durata causata dalla configurazione a omega, che probabilmente è favorita dal cambiamento climatico. Le ondate di calore e gli anticicloni di blocco, come quelli che hanno fatto superare i record termici in Canada nel 2021 e che hanno causato la siccità nel 2022, sono favoriti dal cambiamento climatico».Per quanto riguarda i medicane, stando agli studi disponibili, con il cambiamento climatico potrebbero diventare meno frequenti ma più intensi in caso di formazione. È la stessa previsione che è stata fatta anche per gli uragani. Infatti il riscaldamento dell’atmosfera (dovuto alle emissioni di gas serra delle attività umane) dovrebbe indebolire i movimenti di aria fredda che contribuiscono alla formazione dei cicloni simil-tropicali, ma al tempo stesso le maggiori temperature marine dovrebbero aumentare l’evaporazione e quindi la quantità d’acqua trasportata dai cicloni che comunque continueranno a formarsi.Prossimamente sarà possibile avere più informazioni sulla tempesta Daniel e fare analisi più approfondite. Sicuramente ha causato raffiche di vento molto forti: da 160 chilometri orari, una velocità maggiore rispetto a quella raggiunta dalle raffiche del medicane Apollo, che tra la fine di ottobre e l’inizio di novembre del 2021 arrivò in Sicilia. Furono più forti invece le raffiche del medicane Ianos, che interessò la Grecia nel settembre del 2020: raggiunsero i 190 chilometri orari.Il ciclone Daniel si è intensificato attraversando il Mediterraneo perché lì ha raccolto molto vapore acqueo dagli strati superficiali del mare, che essendo caldi causavano una notevole evaporazione. I grandi danni in Libia sono stati causati principalmente dal crollo di alcune dighe e ora la tempesta si sta spostando sull’Egitto, ma dato che non si trova più sul mare si sta esaurendo: l’energia delle tempeste infatti deriva dagli scambi con il mare e diminuisce quando questi fenomeni sovrastano la terraferma. LEGGI TUTTO

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    Il Mediterraneo più caldo causa temporali più intensi

    Caricamento playerIn questi giorni il Nord Italia e la Sardegna sono interessati dall’ennesima serie di precipitazioni e grandinate dell’estate, che tra le altre cose hanno causato una frana per cui è stato chiuso un tratto dell’autostrada A43 e interrotto il traffico ferroviario di collegamento diretto con la Francia. Fenomeni meteorologici di questo tipo ci sono sempre stati durante la stagione estiva, tuttavia l’aumento della loro intensità negli ultimi anni è associato dalla comunità scientifica alle maggiori temperature dell’acqua del mar Mediterraneo, a loro volta dovute al più ampio riscaldamento globale causato dalle emissioni di gas serra umane.I temporali estivi si formano quando grandi masse di aria calda si spostano dalla parte più bassa dell’atmosfera (quella vicino al suolo o alla superficie del mare) verso l’alto portandosi dietro l’acqua evaporata, e poi incontrando masse d’aria più fredda: il vapore acqueo condensa, creando particelle d’acqua liquida e quindi nubi, che causano precipitazioni temporalesche la cui intensità è legata alla differenza di temperatura tra le masse d’aria coinvolte. Per questo la temperatura superficiale del mar Mediterraneo influenza i temporali: tanto più è alta, maggiore è l’acqua evaporata e l’energia che alimenta i fenomeni atmosferici.Ciò che sta cambiando in questi anni è che, contestualmente al cambiamento climatico dovuto alle attività umane, non stanno aumentando solo le temperature medie dell’atmosfera ma anche quelle degli strati più superficiali degli oceani e dei mari. Il Mediterraneo è uno dei bacini che si stanno scaldando più velocemente sul pianeta e a questo si devono i temporali più intensi (e forse un aumento delle grandinate).La tempesta di questi giorni – indicata col nome ufficiale Rea dal Servizio meteorologico dell’Aeronautica militare, anche se alcuni giornali usano il nome Poppea scelto dal sito ilMeteo – è dovuta all’arrivo di un fronte di aria fredda da ovest che ha raggiunto la Sardegna e la Liguria nel fine settimana. Causerà precipitazioni fino a mercoledì, in particolare sulle regioni centrali, sulla Campania e sulla Calabria, e mareggiate in Sardegna e nel Tirreno centro-meridionale.In un’intervista con il Corriere della Sera il climatologo Massimiliano Pasqui, ricercatore dell’Istituto per la BioEconomia del Consiglio nazionale delle ricerche (CNR), ha detto che ultimamente sulla superficie del Tirreno settentrionale, cioè proprio il mare su cui si affaccia la Liguria, sono state registrate temperature superiori ai 27 °C. Sono «3-4 gradi sopra la media del periodo» e «anche se può sembrare poco, dal punto di vista dell’energia sprigionata è tanto». «Sono temperature da mari tropicali», ha spiegato Pasqui, «per dire: ai Caraibi siamo sui 30 gradi».Il vortice centrato sul golfo Ligure. Fino a domani, martedì, marcata instabilità con rovesci e temporali sparsi al Nord (soprattutto Nord Est) e sulle regioni centrali. Fenomeni possibili, ma meno frequenti, anche sul basso v. Tirrenico e sulla Sicilia settentrionale. 1/2 pic.twitter.com/hGnhqTJ23w— Giulio Betti (@Giulio_Firenze) August 28, 2023Il 2023 finora è stato un anno di record di temperature per gli oceani e i mari. Il 24 luglio una boa nella Baia dei Lamantini, circa 65 chilometri a sud di Miami, in Florida, registrò 38,4 °C, che potrebbe essere la più alta temperatura marina mai rilevata. Tra la fine di marzo e l’inizio di aprile invece la media globale della temperatura marina superficiale aveva raggiunto il valore più alto mai registrato (21,05 °C) secondo i dati della National Oceanic and Atmospheric Administration (NOAA), l’agenzia federale statunitense che si occupa di meteorologia. Lo stesso valore di temperatura globale è stato raggiunto la scorsa settimana, tra lunedì e mercoledì, probabilmente anche per via di El Niño, quel fenomeno atmosferico dell’oceano Pacifico che tra le altre cose contribuisce all’aumento della temperatura media globale.Sempre il 24 luglio i satelliti di Copernicus, il programma di collaborazione scientifica dell’Unione Europea che si occupa di osservazione della Terra, avevano rilevato temperature superiori anche di 5 °C alla media dei decenni passati per lo stesso periodo in gran parte del Mediterraneo.(Unione Europea, dati del Copernicus Marine Service)– Leggi anche: Cosa comporta il riscaldamento del mar Mediterraneo LEGGI TUTTO

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    Quanti vulcani sottomarini ci sono nel Canale di Sicilia?

    Caricamento playerNel Canale di Sicilia, il tratto di mare tra la Sicilia, la Tunisia e Malta, sono stati individuati tre vulcani sottomarini di cui finora non si conosceva l’esistenza. La scoperta è avvenuta nel corso di una spedizione scientifica internazionale coordinata e finanziata dal Centro per la ricerca oceanica GEOMAR Helmholtz di Kiel, in Germania, e proposta dall’Istituto nazionale di oceanografia e di geofisica sperimentale (OGS) italiano e dall’Università di Malta: aveva l’obiettivo di mappare con maggiore precisione parte dei fondali di questa parte del mar Mediterraneo e studiarne il vulcanismo. Si è svolta tra il 16 luglio e il 5 agosto a bordo della nave tedesca Meteor.Sui fondali del mar Mediterraneo ci sono decine di vulcani sottomarini, che possono essere estinti o attivi come quelli in superficie e in alcuni casi hanno dimensioni maggiori di quelle dei vulcani emersi. Nella comunità scientifica non ci sono tuttavia particolari preoccupazioni relative a eventuali eruzioni dei vulcani che si trovano nei mari italiani; e per quanto riguarda quelli appena scoperti «non c’è alcuna evidenza che siano attivi», dice Emanuele Lodolo, ricercatore dell’OGS e uno dei proponenti della spedizione scientifica, «anche se in alcuni di essi ci sono dei fenomeni di idrotermalismo».I tre “nuovi” vulcani si trovano tra la costa meridionale siciliana e l’isola di Linosa, di cui il più grande è largo 6 chilometri e ha un’altezza di più di 150 metri rispetto al fondale circostante. Le posizioni esatte non sono ancora state diffuse in attesa della pubblicazione degli studi in merito su una rivista scientifica. Nel 2019 l’Istituto nazionale di oceanografia e di geofisica sperimentale aveva già trovato una serie di vulcani sconosciuti nel Canale di Sicilia, nell’area marina di fronte alla costa tra Mazara del Vallo e Sciacca; il più vicino alla terraferma dista solo 7 chilometri.Il Canale di Sicilia è una zona in cui si trovano molti vulcani (alcuni dei quali già noti da tempo) perché è attraversata da un “rift”, cioè una regione in cui la litosfera, lo strato sotto alla crosta terrestre, si estende e forma delle faglie. I fenomeni vulcanici che lo caratterizzano sono peraltro responsabili dell’origine di alcune delle isole dell’area, come Pantelleria e Linosa.La presenza dei “nuovi” vulcani è stata rilevata grazie a una serie di strumenti e principalmente attraverso un ecoscandaglio Multibeam, lo strumento più tecnologicamente avanzato per ottenere immagini ad alta precisione dei fondali, che si trova nella chiglia della Meteor. Rileva la forma dei fondali grazie all’emissione di onde acustiche: le onde vengono riflesse dai fondali e lo strumento registra i loro tempi di arrivo e così ricostruisce la morfologia del fondo del mare.Con l’ecoscandaglio sono stati localizzati i rilievi sottomarini. Poi, con l’utilizzo di un magnetometro a traino della nave, è stato verificato che fossero vulcani: in presenza di rocce vulcaniche infatti le misure del campo magnetico terrestre mostrano delle anomalie dovute alla presenza di minerali ferrosi in queste rocce. I ricercatori hanno poi recuperato alcuni campioni di roccia dai fondali usando draghe: nei prossimi mesi li analizzeranno per ottenere informazioni sull’età del vulcani e sulle caratteristiche dei magmi che li hanno generati.Un magnetometro sulla Meteor (Istituto nazionale di oceanografia e geofisica sperimentale)La spedizione scientifica ha permesso di scoprire che, sebbene il Canale di Sicilia sia navigato da millenni, nelle mappe batimetriche, cioè dei fondali, disponibili ci sono degli errori grossolani: in particolare segnalano la presenza di rilievi sommersi che non esistono.«Il Canale di Sicilia è uno dei mari ancora meno studiati dal punto di vista scientifico e adesso piano piano stiamo riempiendo questo buco di conoscenza», racconta Lodolo. In generale i fondali del mar Mediterraneo sono stati mappati in alta risoluzione in larga parte, per più del 70 per cento, ma per certe aree le mappe sono tuttora poco precise: «Per quanto riguarda il Canale di Sicilia, non più del 30-40 per cento, una percentuale bassa rispetto a quelle degli altri mari attorno all’Italia».Avere mappe batimetriche più precise è importante sia per ragioni scientifiche che pratiche: serve per assicurare una maggiore sicurezza nella navigazione, per studiare la messa in posa di nuovi cavi sottomarini, valutare eventuali rischi associati alla presenza di vulcani vicini alle coste e salvaguardare gli ecosistemi marini. Tuttavia richiede lunghe spedizioni, importanti finanziamenti e, nel caso di tratti di mare vicini a più paesi come il Canale di Sicilia, vari permessi. L’Istituto nazionale di oceanografia e geofisica sperimentale progetta di continuare gli studi sui fondali in questa regione, che però non sono semplici anche per «questioni geopolitiche» dato che richiedono di navigare anche in acque libiche e tunisine.In ogni caso i nuovi dati raccolti finiranno nel database dell’European Marine Observation and Data Network (EMODnet), la rete dell’Unione Europea che raccoglie i dati sui mari da tutti i paesi membri, e poi all’interno del Progetto Seabed 2030, un’iniziativa internazionale per cercare di avere una mappa precisa dei fondali oceanici entro il 2030: nel 2020 li conoscevamo solo per il 19 per cento. «Oggi abbiamo tutta la tecnologia per mappare i fondali ad alta definizione, ma le batimetrie sono ancora poco attendibili in vari settori marini», aggiunge Lodolo.La nave Meteor (Istituto nazionale di oceanografia e geofisica sperimentale)Il più grande vulcano sottomarino del Mediterraneo è il Marsili, che è anche il più esteso vulcano d’Europa: si trova nel mar Tirreno, tra Palermo e Napoli. Ha una forma allungata, copre circa 2.100 chilometri quadrati (una superficie simile a quella della provincia di Vercelli, o a quella di Siracusa), la sua base è a tre chilometri profondità e il suo punto più alto a poco più di 500 metri sotto il livello del mare. È attivo ma la sua ultima eruzione dovrebbe essere avvenuta tra 7mila e 2mila anni fa secondo le stime degli scienziati. E vista la profondità della sua sommità i rischi associati a un eventuale eruzione sarebbero molto bassi: probabilmente comporterebbe solo una deviazione momentanea del traffico marittimo e non dovrebbe causare tsunami.Altri vulcani sottomarini dei mari italiani molto noti – oltre a quelli attorno alle isole Eolie, a loro volta di origine vulcanica – sono il Vavilov, che si trova sempre nel Tirreno, a nord-ovest del Marsili, è inattivo ed è conosciuto dal 1959; e il Palinuro, che invece è a circa 65 chilometri dalle coste del Cilento, è attivo ed è stato scoperto negli anni Ottanta. Il vulcano sottomarino del Mediterraneo che si conosce da più tempo è il Kolumbo, che è nel mar Egeo e dista solo 8 chilometri dalle coste dell’isola di Santorini. La sua parte più alta è a soli 10 metri di profondità dal livello del mare e quando a metà del Seicento eruttò in maniera esplosiva causò la morte di 70 abitanti di Santorini e fece scoprire l’esistenza dei vulcani sottomarini.Anche la presenza di vulcani sottomarini nel Canale di Sicilia è nota da più di un secolo perché nel 1831 un’eruzione creò per breve tempo una piccola isola di fronte a Sciacca, l’isola Ferdinandea: raggiunse la considerevole altezza di 60 metri sopra il livello del mare, ma nel giro di un anno fu completamente erosa dal mare e ora la sua sommità è a 7 metri sotto il livello del mare. Di quelli appena scoperti, che si trovano più a sud, quello più superficiale ha la sommità a una profondità di circa 50-60 metri, mentre gli altri sono leggermente più profondi.La spedizione scientifica che ha permesso di scoprire i vulcani si chiama M191 SUAVE e vi hanno preso parte anche ricercatori dell’Istituto di ricerca dell’Acquario della Baia di Monterey (Stati Uniti), della Victoria University di Wellington (Nuova Zelanda) e delle Università di Birmingham, Oxford, Edimburgo (Regno Unito) e Kiel (Germania). I due responsabili scientifici erano Aaron Micallef dell’Università di Malta e Jörg Geldmacher del GEOMAR.Nel corso della spedizione è stato casualmente individuato il relitto di una nave circa a metà strada tra l’isola vulcanica di Linosa e la Sicilia: del relitto per ora si sa solo che è lungo 100 metri e largo 17 e che si trova a una profondità di 110 metri. «Ci siamo passati sopra con il magnetometro e possiamo dire che è costituito da materiale ferroso», aggiunge Lodolo, ma per il momento non se ne sa altro. L’OGS ne ha segnalato la posizione alle autorità marittime italiane. LEGGI TUTTO

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    Anche nei mari si raggiungono nuovi record di temperatura

    Ultimamente si stanno registrando nuovi record di temperatura non solo nell’aria vicina al suolo, ma anche negli oceani e nei mari. Il 24 luglio una boa nella Baia dei Lamantini, circa 65 chilometri a sud di Miami, in Florida, ha registrato 38,4 °C, che potrebbe essere la più alta temperatura marina mai rilevata, se la misura sarà confermata. Il record precedente risaliva all’estate del 2020, quando nel Golfo Persico, vicino al Kuwait, erano stati registrati 37,6 °C. E sempre il 24 luglio la temperatura superficiale media del mar Mediterraneo ha raggiunto 28,4 °C: anche in questo caso si tratta di un record, finora la media più alta erano i 28,25 °C dell’agosto del 2003.L’innalzamento delle temperature marine è una parte del riscaldamento globale causato dalle attività umane che si percepisce poco nella vita quotidiana, ma preoccupa da tempo la comunità scientifica che si occupa di clima e quest’anno ha attirato l’attenzione in modo particolare. Tra la fine di marzo e l’inizio di aprile infatti la media globale della temperatura marina superficiale aveva raggiunto il valore più alto mai registrato (21,05 °C) secondo i dati della National Oceanic and Atmospheric Administration (NOAA), l’agenzia federale statunitense che si occupa di meteorologia. In particolare si erano registrati valori di temperatura molto alti rispetto alla media nel nord dell’oceano Atlantico. Poi a maggio e a giugno i valori delle temperature medie delle superfici marine sono stati i più alti mai registrati per quei mesi, superando anche di 0,5 °C i record precedenti.Secondo il Climate Change Service di Copernicus, il programma di collaborazione scientifica dell’Unione Europea che si occupa di osservazione della Terra, a causa delle temperature particolarmente alte raggiunte nel nord dell’Atlantico ci troviamo in un «territorio sconosciuto» per quanto riguarda il contesto meteorologico.Secondo le prime valutazioni dei climatologi questi record sono stati dovuti al più generale riscaldamento globale in combinazione con altri fattori che ancora non sono stati definiti con precisione. A giugno Albert Klein Tank, direttore dello Hadley Centre del Met Office, l’ufficio meteorologico nazionale del Regno Unito, aveva ipotizzato che c’entrasse l’indebolimento di alcuni venti che normalmente portano sabbia del deserto del Sahara al di sopra dell’Atlantico settentrionale e ne abbassano le temperature, perché la sabbia riflette la luce solare.Negli ultimi sette anni, ogni anno, le temperature medie degli oceani sono aumentate rispetto al precedente e nel 2022 hanno raggiunto i valori massimi dagli anni Cinquanta, quando si cominciarono a registrare con sistematicità. Il riscaldamento dei mari è un problema per varie ragioni: causa morie di animali e piante marine, contribuisce all’innalzamento del livello del mare (perché maggiore è la temperatura dell’acqua minore è la sua densità, e quindi maggiore il volume che occupa) e favorisce i fenomeni meteorologici estremi come gli uragani negli oceani e i grossi temporali nel bacino del Mediterraneo. Infatti tanto più sono caldi gli strati superficiali dell’acqua, maggiore è l’evaporazione dell’acqua e dunque l’umidità nell’aria che può intensificare le precipitazioni.#ImageOfTheDayThe marine heatwave sweeping across the Mediterranean Sea is hitting record highs, particularly in the central basinAccording to @CMEMS_EU, sea temperature anomalies have spiked to +5.5°C along the coasts of Italy, Greece and North Africa ♨️ pic.twitter.com/NcHpboKP60— 🇪🇺 DG DEFIS #StrongerTogether (@defis_eu) July 27, 2023Finora le temperature marine sono aumentate meno rispetto a quelle atmosferiche: in media di circa 0,9 °C rispetto ai livelli pre-industriali, mentre quella media dell’aria vicina al suolo è aumentata di 1,5 °C rispetto allo stesso periodo, cioè rispetto a prima che i paesi più ricchi cominciassero a diffondere grandi quantità di gas serra nell’atmosfera. Si stima che circa il 90 per cento del calore ceduto all’atmosfera dalle attività umane sia stato assorbito dagli oceani, che però hanno potuto assorbirne molto senza grosse ripercussioni per decenni.L’anomalia di temperatura, cioè la differenza rispetto alla temperatura media della superficie marina nel periodo 1971-2000, per la giornata del 24 luglio 2023 secondo i dati preliminari della NOAA; nell’Atlantico settentrionale e nel Mediterraneo si sono registrate temperature medie di 5 o anche 6 °C superiori alla media storica– Leggi anche: In Italia le grandinate sono aumentate LEGGI TUTTO

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    In Italia le grandinate sono aumentate

    I nubifragi, le trombe d’aria e le grandinate che negli ultimi giorni hanno colpito il Nord Italia, dal Friuli Venezia Giulia alla Lombardia, sono stati dovuti allo spostamento verso sud dell’anticiclone responsabile della precedente ondata di calore: l’incontro tra correnti d’aria fredda provenienti da nord con l’aria calda e umida sopra la Pianura Padana ha causato una serie di temporali molto intensi. È un fenomeno tipico della stagione estiva e che tuttavia secondo studi recenti è diventato più frequente negli ultimi anni, probabilmente per via del cambiamento climatico.«Dal 1999 al 2021 nel bacino del Mediterraneo le grandinate sono aumentate», spiega Sante Laviola, ricercatore dell’Istituto di scienze dell’atmosfera e del clima del Consiglio nazionale delle ricerche (ISAC-CNR) ed esperto dell’uso dei satelliti per la meteorologia: «In particolare nell’ultimo decennio sono aumentate del 30 per cento, lo abbiamo misurato grazie ai satelliti». Laviola è uno degli autori di alcuni studi che hanno permesso di capire delle cose in più sulla grandine, un fenomeno meteorologico ancora relativamente poco compreso a causa della storica difficoltà di raccogliere dati al riguardo.Le grandinate possono verificarsi in qualunque punto del pianeta ma avvengono con frequenza molto maggiore in alcune regioni per via della morfologia del loro territorio: c’è più probabilità che si generino dove ci sono alte montagne che influiscono sulla circolazione delle masse d’aria nell’atmosfera. Ad esempio grandina con particolare frequenza nella grande pianura al centro degli Stati Uniti, tra gli Appalachi e le Montagne Rocciose, che è anche detta “Tornado Alley”, “corridoio delle trombe d’aria” (le trombe d’aria sono spesso associate alla grandine). Anche l’Italia, avendo due estese catene montuose, è molto soggetta a grandinate, specialmente nella Pianura Padana e ancora più in particolare in Friuli Venezia Giulia, le cui aree pianeggianti sono quasi completamente circondate dalle montagne.Non è comunque solo la forma del territorio a influire sulla probabilità che avvenga una grandinata, ma anche le condizioni atmosferiche, e per questo ci sono stagioni dell’anno in cui grandina più di frequente. In Italia la stagione delle grandinate è storicamente compresa tra aprile e ottobre, anche se in anni recenti sembra essersi estesa fino a novembre.È più probabile che grandini d’estate perché questo fenomeno si crea all’interno delle cosiddette nubi convettive, che sono dovute alla presenza di masse d’aria calda e umida nell’atmosfera e si possono riconoscere perché si sviluppano molto in verticale. Quando la superficie terrestre è particolarmente calda e lo è per molte ore al giorno, l’aria più vicina a terra sale verso l’alto portandosi dietro l’acqua evaporata dal suolo e dagli specchi d’acqua. Se salendo in quota le masse d’aria calda e umida incontrano aria più fredda, il vapore acqueo condensa, formando una nube: è detta convettiva perché in fisica si definisce “moto convettivo” quel fenomeno per cui un fluido riscaldato si muove verso l’alto, mentre quello più freddo e denso va verso il basso.«All’interno delle nubi convettive», spiega Laviola, «le correnti ascendenti e discendenti sollevano ingenti quantità di masse d’acqua sotto forma di goccioline. Nel percorso verso l’alto si accrescono, si raffreddano fino a superare un livello di temperatura che si chiama “zero termico”, cioè dove c’è il passaggio di stato dal liquido al solido: quindi l’acqua ghiaccia. Ai cristalli d’acqua ghiacciata si avvicinano altre goccioline che ghiacciano attorno al nucleo principale, che è l’embrione del chicco di grandine, e lo rendono più grande: immaginiamo nuclei di ghiaccio che si muovono in un mare di piccole goccioline, salendo e scendendo». A volte succede anche che chicchi diversi si uniscano, creando grandine di grosse dimensioni.Legnano poco fa … pic.twitter.com/m6beddy2DG— Roberto Luraghi (@LuraghiRoberto) July 24, 2023A un certo punto le masse di ghiaccio diventano così grandi che la forza di gravità vince la spinta verso l’alto delle correnti ascensionali e quindi inizia a grandinare.È ciò che è successo negli ultimi giorni nel Nord Italia: l’aria vicina al suolo era molto calda per l’ondata di calore causata dall’anticiclone, una zona di alta pressione in cui l’aria tende a spostarsi dall’alto verso il basso. Quando l’anticiclone si è spostato verso sud, l’aria vicina alla superficie ha cominciato a salire, arrivando poi a formare nubi convettive.Fino a qualche decennio fa la grandine poteva essere studiata con molti limiti perché essendo un fenomeno fugace e molto localizzato, cioè che si verifica per poco tempo, di solito mezz’ora al massimo, su aree circoscritte, c’è poco tempo per rilevarla e non è detto che si abbiano gli strumenti adeguati per studiarla: le dimensioni dei chicchi di grandine infatti si misurano a terra coi grelimetri, pannelli orizzontali con una superficie di circa 20 centimetri per 40 che si deforma all’impatto con i chicchi di grandine. In Italia sono sufficientemente diffusi solo in Friuli Venezia Giulia, una regione storicamente molto interessata dalla grandine.Nell’ultima ventina d’anni però le osservazioni dirette coi grelimetri e coi radar meteorologici hanno potuto essere ampliate grazie ai satelliti dotati di strumenti di radiometria a microonde, che permettono di rilevare la presenza di chicchi di grandine all’interno delle nubi, e di farlo per un ampio territorio contemporaneamente. Dato che non misurano i chicchi caduti a terra, restituiscono la probabilità di una grandinata e delle dimensioni dei suoi chicchi, ma grazie a dei modelli matematici possono comunque fornire dati utili agli scienziati per capire quanto spesso grandina in una regione. Permettono inoltre di studiare anche le grandinate che avvengono in mare.Laviola e i suoi colleghi hanno appunto sviluppato un modo per sfruttare i dati dei satelliti a questo scopo e così hanno scoperto che dal 1999 al 2021 la frequenza delle grandinate nel bacino del Mediterraneo è aumentata. Vale sia per le grandinate con chicchi con diametro compreso tra i 2 e i 10 centimetri, che danneggiano sempre le coltivazioni e anche altre cose progressivamente al crescere delle dimensioni, sia per le cosiddette supergrandinate o grandinate estreme, quelle con chicchi dal diametro superiore ai 10 centimetri, che sono distruttive per qualunque cosa.In una delle recenti grandinate in Friuli è stato peraltro battuto il record europeo per chicco di grandine col diametro maggiore: 19 centimetri.Can confirm 19 cm based on the cloth pic.twitter.com/7OGda2s932— Federico Pavan (@PavanFederico00) July 25, 2023Il gruppo di ricerca di cui fa parte Laviola ha anche cercato di capire se il recente aumento delle grandinate possa essere legato al cambiamento climatico. Il problema è che 22 anni di dati non sarebbero sufficienti per dirlo, dato che «tutto quello che accade a una scala inferiore a cinquant’anni non è climatologia». Per questo i ricercatori hanno indagato sui cinquant’anni precedenti utilizzando altri tipi di dati: non sulla grandine, dato che non ce ne sono, ma su altre variabili atmosferiche che però hanno una forte influenza sulla probabilità di grandinate e su cui invece sono disponibili dati storici europei per il bacino del Mediterraneo a partire dal 1949.Una di queste variabili è la temperatura superficiale del Mediterraneo, che influenza la probabilità di grandinate perché più è alta più evaporazione genera: e questa è in aumento da decenni a causa del cambiamento climatico. Le altre sono un indice che dice quanta energia potenziale c’è nell’atmosfera che può generare moti convettivi, la temperatura media alla quota in cui si genera la convezione e l’altezza dello zero termico, cioè la quota in cui l’acqua liquida diventa ghiaccio: tutte queste variabili sono aumentate dal 1949 a oggi, anche per via del cambiamento climatico. E indirettamente hanno permesso di ricostruire che in questi decenni le condizioni favorevoli alle grandinate sono state sempre più frequenti.«Se gli ultimi settant’anni hanno dimostrato un trend in crescita, è abbastanza inverosimile che la tendenza cambi in futuro», conclude Laviola, «ma per il futuro abbiamo degli scenari, non previsioni. Aumenteranno le grandinate? Probabilmente sì, ma non sicuramente sì». LEGGI TUTTO

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    Un raro avvistamento di uno squalo di plastica, forse

    Nell’estate del 2020 Giannis Papadakis notò un pesce alquanto particolare lungo un’area costiera della Grecia. Lo portò a riva, lo fotografò sugli scogli e inviò poi le immagini a un gruppo di ricercatori che lo studiarono e un paio di anni dopo pubblicarono una ricerca, annunciando un avvistamento nel Mediterraneo di uno squalo goblin (Mitsukurina owstoni), un pesce molto difficile da trovare in natura e che non era mai stato osservato prima in acque mediterranee. La scoperta aveva aperto un grande confronto tra gli esperti e a molti dubbi, fino al ritiro della ricerca perché forse quel pesce avvistato in Grecia non era uno squalo goblin, ma più banalmente un giocattolo di plastica.Il gruppo di ricerca aveva pubblicato lo studio nel maggio del 2022, citando tra la specie rare osservate nel Mediterraneo anche lo squalo goblin, che si distingue da altri squali per la forma della sua testa, con un rostro che ricorda un becco allungato e affusolato. È diffuso in buona parte del mondo, vive nelle profondità oceaniche e la maggior parte degli avvistamenti è stata storicamente effettuata al largo del Giappone, dove fu scoperto alla fine del diciannovesimo secolo.Dopo la pubblicazione della ricerca, vari esperti avevano iniziato a sollevare dubbi sulla scoperta nel Mediterraneo. C’erano diverse cose che non tornavano: era troppo piccolo rispetto agli esemplari che vengono osservati solitamente, le branchie avevano una strana forma e anche il colore lasciava qualche dubbio. L’esemplare ritrovato da Papadakis non era stato inoltre esaminato direttamente dagli autori della ricerca, che avevano basato le proprie osservazioni sulle fotografie.Nell’autunno dello scorso anno i dubbi erano diventati più concreti, con un articolo di commento firmato da un altro gruppo di ricerca. Era poi circolata una fotografia di uno squalo giocattolo venduto dalla casa editrice italiana DeAgostini che assomigliava molto a quello delle foto di Papadakis. Gli autori dello studio avevano ribadito di essere sicuri della scoperta, ammettendo comunque che l’esemplare era probabilmente di dimensioni inferiori rispetto a quelle inizialmente ipotizzate.Folks https://t.co/ViIsSoEn3t pic.twitter.com/N7fM0OooIP— Dr. David Shiffman (@WhySharksMatter) March 15, 2023Dopo ulteriori confronti e critiche, il 23 marzo scorso gli autori hanno infine convenuto che le foto fornite da Papadakis non erano sufficienti per una chiara identificazione dell’esemplare. Di conseguenza la scoperta segnalata nella loro ricerca è stata rimossa, pur non rendendo necessario il ritiro dell’intero studio che conteneva al suo interno la segnalazione di vari altri ritrovamenti nel Mediterraneo.La vicenda ha attirato qualche critica anche nei confronti di Mediterranean Marine Science, la rivista scientifica che a maggio del 2022 aveva pubblicato l’annuncio della scoperta. Lo studio aveva superato una revisione da parte di esperti indipendenti, a dimostrazione di come a volte i sistemi stessi di revisione possano portare a qualche errore (un problema noto da tempo e inevitabile, specialmente da quando si pubblicano moltissime ricerche negli ambiti più disparati).Quanto alle foto scattate da Papadakis, potremmo non sapere mai se ritraessero effettivamente un pesce o uno squalo di plastica venduto in edicola. LEGGI TUTTO