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    Come facciamo a calcolare la temperatura media della Terra

    Negli ultimi anni sono stati costantemente superati record di temperatura massima di vario genere: oltre alle temperature più alte mai misurate in specifiche località di varie parti del mondo, escono spesso nuovi dati che ci dicono ad esempio che un certo mese di aprile o un certo mese di giugno, o l’anno scorso, sono stati i più caldi mai registrati tenendo conto delle temperature medie mondiali. A queste notizie ci siamo forse abituati, ma forse non tutti sanno in che modo vengono calcolate le temperature medie dell’intero pianeta, una cosa tutt’altro che semplice.Giulio Betti, meteorologo e climatologo del Consiglio nazionale delle ricerche (CNR) e del Consorzio LaMMA, spesso intervistato dal Post e su Tienimi Bordone, spiega come si fa nel suo libro uscito da poco, Ha sempre fatto caldo! E altre comode bugie sul cambiamento climatico, che con uno stile divulgativo rispiega vari aspetti non banali del cambiamento climatico e smonta le obiezioni di chi nega che stia accadendo – o che sia causato dall’umanità. Pubblichiamo un estratto del libro.
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    L’essere umano si è evoluto insieme alla sua più grande ossessione: misurare e quantificare qualsiasi cosa, dalle particelle subatomiche, i quark e i leptoni (10-18 metri), all’intero universo osservabile, il cui diametro è calcolato in 94 miliardi di anni luce. Si tratta di misurazioni precise e molto attendibili, alle quali si arriva attraverso l’uso di supertelescopi, come il James Webb, e di acceleratori di particelle. Cosa volete che sia, quindi, per un animale intelligente come l’uomo, nel fantascientifico 2024, ottenere una stima attendibile e verificabile della temperatura terrestre?
    Effettivamente è ormai un processo consolidato e routinario, quasi “banale” rispetto ad altri tipi di misurazioni dalle quali dipendono centinaia di processi e attività che la maggior parte di noi ignora. Ma come funziona?
    Partiamo dalla base: la rilevazione del dato termico, demandata alle mitiche stazioni meteorologiche, meglio note come centraline meteo. Queste sono disseminate su tutto il globo, sebbene la loro densità vari molto da zona a zona. In Europa e in Nord America, ad esempio, il numero di stazioni meteorologiche attive è più elevato che in altre aree, sebbene ormai la copertura risulti ottimale su quasi tutte le terre emerse.
    Quando parliamo di “stazioni meteorologiche”, infatti, ci riferiamo alle centraline che registrano temperatura e altri parametri meteorologici nelle zone continentali, mentre quelle relative ai mari utilizzano strumenti differenti e più variegati.
    I dati meteorologici su terra provengono da diversi network di stazioni, il più importante dei quali, in termini numerici, è il GHCN (Global Historical Climatology Network) della NOAA che conta circa 100.000 serie termometriche provenienti da altrettante stazioni; ognuna di esse copre diversi periodi temporali, cioè non tutte iniziano e finiscono lo stesso anno. La lunghezza delle varie serie storiche, infatti, può variare da 1 a 175 anni. Di queste 100.000 stazioni meteorologiche, oltre 20.000 contribuiscono alle osservazioni quotidiane in tempo reale; il dato raddoppia (40.000) nel caso del network della Berkeley Earth. Alla NOAA e alla Berkeley Earth si aggiungono altre reti di osservazione globale, quali il GISTEMP della NASA, il JMA giapponese, e l’HadCRUT dell’Hadley Center-University of East Anglia (UK).
    Oltre ai cinque principali network citati si aggiungono le innumerevoli reti regionali e nazionali i cui dati contribuiscono ad alimentare il flusso quotidiano diretto verso i centri globali.
    Le rilevazioni a terra, però, sono soltanto una parte delle osservazioni necessarie per ricostruire la temperatura del nostro pianeta, a queste infatti va aggiunta la componente marina, che rappresenta due terzi dell’intera superficie del mondo.
    I valori termici (e non solo) di tutti gli oceani e i mari vengono rilevati ogni giorno grazie a una capillare e fitta rete di osservazione composta da navi commerciali, navi oceanografiche, navi militari, navi faro (light ships), stazioni a costa, boe stazionarie e boe mobili.
    Parliamo, come facilmente intuibile, di decine di migliaia di rilevazioni in tempo reale che vanno ad alimentare diversi database, il più importante dei quali è l’ICOADS (International Comprehensive Ocean-Atmosphere Data Set). Quest’ultimo è il frutto della collaborazione tra numerosi centri di ricerca e monitoraggio internazionali (NOC, NOAA, CIRES, CEN, DWD e UCAR). Tutti rintracciabili e consultabili sul web. I dati raccolti vengono utilizzati per ricostruire lo stato termico superficiale dei mari che, unito a quello delle terre emerse, fornisce un valore globale univoco e indica un eventuale scarto rispetto a uno specifico periodo climatico di riferimento.
    Come nel caso delle stazioni a terra, anche per le rilevazioni marine esistono numerosi servizi nazionali e regionali. Tra gli strumenti più moderni ed efficaci per il monitoraggio dello stato termico del mare vanno citati i galleggianti del progetto ARGO. Si tratta di una collaborazione internazionale alla quale partecipano 30 nazioni con quasi 4000 galleggianti di ultima generazione. Questi ultimi sono progettati per effettuare screening verticali delle acque oceaniche e marine fino a 2000 metri di profondità; la loro distribuzione è globale ed essi forniscono 12.000 profili ogni mese (400 al giorno) trasmettendoli ai satelliti e ai centri di elaborazione. I parametri rilevati dai sensori includono, oltre alla temperatura alle diverse profondità, anche salinità, indicatori biologici, chimici e fisici.
    I dati raccolti da ARGO contribuiscono ad alimentare i database oceanici che vanno a completare, insieme alle osservazioni a terra, lo stato termico del pianeta.Ma cosa avviene all’interno di questi mastodontici database che, tra le altre cose, sono indispensabili per lo sviluppo dei modelli meteorologici? Nonostante la copertura di stazioni meteorologiche e marine sia ormai capillare, restano alcune aree meno monitorate, come ad esempio l’Antartide o alcune porzioni del continente africano; in questi casi si ricorre alla tecnica dell’interpolazione spaziale, che, in estrema sintesi, utilizza punti aventi valori noti (in questo caso di temperatura) per stimare quelli di altri punti. La superficie interpolata è chiamata “superficie statistica” e il metodo risulta un valido strumento anche per precipitazioni e accumulo nevoso, sebbene quest’ultimo sia ormai appannaggio dei satelliti.
    Oltre all’interpolazione si utilizza anche la tecnica della omogeneizzazione, che serve per eliminare l’influenza di alterazioni di rilevamento che possono subire le stazioni meteorologiche nel corso del tempo, tra le quali lo spostamento della centralina o la sua sostituzione con strumentazione più moderna. Ovviamente, dietro queste due tecniche, frutto della necessità di ottenere valori il più possibile corretti e attendibili, esiste un universo statistico molto complesso, che per gentilezza vi risparmio.
    Tornando a monte del processo, vale a dire allo strumento che rileva il dato, si incappa nel più classico dei dubbi: ma la misurazione è attendibile? Se il valore di partenza è viziato da problemi strumentali o di posizionamento, ecco che tutto il processo va a farsi benedire.
    Per quanto sia semplice insinuare dubbi sull’osservazione, è bene sapere che tutte le centraline meteorologiche ufficiali devono soddisfare i requisiti imposti dall’Organizzazione Mondiale della Meteorologia e che il dato fornito deve sottostare al “controllo qualità”.
    Se il signor Tupato da Castelpippolo in Castagnaccio [nota: Tupato in lingua maori significa “diffidente”] asserisce che le rilevazioni termiche in città sono condizionate dall’isola di calore e quindi inattendibili, deve sapere che questa cosa è nota al mondo scientifico da decenni e che, nonostante la sua influenza a livello globale sia pressoché insignificante, vi sono stati posti rimedi molto efficaci.
    Partiamo dall’impatto delle isole di calore urbano sulle serie storiche di temperatura. Numerosi studi scientifici (disponibili e consultabili online da chiunque, compreso il signor Tupato) descrivono le tecniche più note per la rimozione del segnale di riscaldamento cittadino dalle osservazioni. Tra queste, il confronto tra la serie termica di una località urbana e quella di una vicina località rurale; l’eventuale surplus termico della serie relativa alla città viene rimosso, semplicemente.Un altro metodo è quello di dividere le varie città in categorie legate alla densità di popolazione e correggere lo scostamento termico di quelle più popolate con le serie di quelle più piccole.
    In alcuni casi si è ricorso alla rilocalizzazione in aree rurali limitrofe delle stazioni meteorologiche troppo condizionate dall’isola di calore urbana, in questo caso il correttivo viene applicato dopo almeno un anno di confronto tra il vecchio e il nuovo sito.
    Poiché gli scienziologi del clima sono fondamentalmente dei maniaci della purezza dei dati e sono soliti mangiare pane e regressioni lineari, negli ultimi anni l’influenza delle isole di calore urbane viene rimossa anche attraverso l’utilizzo dei satelliti (con una tecnica chiamata remote sensing). Insomma, una faticaccia, alla quale si aggiunge anche il controllo, per lo più automatico, della presenza di errori sistematici o di comunicazione nei processi di osservazione e trasferimento dei dati rilevati.
    Tutto questo sforzo statistico e computazionale viene profuso per rimuovere il contributo delle isole di calore urbane dalle tendenze di temperatura globale che, all’atto pratico, è praticamente nullo. L’impatto complessivo delle rilevazioni provenienti da località urbane che alimentano i dataset globali è, infatti, insignificante, in quanto la maggior parte delle osservazioni su terra è esterna all’influenza delle isole di calore e si somma alla mole di dati provenienti da mari e oceani che coprono, lo ricordo, due terzi della superficie del pianeta.Quindi, anche senza la rimozione del segnale descritta in precedenza, l’influenza delle isole di calore urbane sulla temperatura globale sarebbe comunque modestissima. Se poi il signor Tupato vuol confrontare l’andamento delle curve termiche nel tempo noterà che non ci sono sostanziali differenze tra località rurali e località urbane: la tendenza all’aumento nel corso degli anni è ben visibile e netta in entrambe le categorie.
    Infine, l’aumento delle temperature dal 1880 a oggi è stato maggiore in zone scarsamente urbanizzate e popolate come Polo Nord, Alaska, Canada settentrionale, Russia e Mongolia, mentre è risultato minore in zone densamente abitate come la penisola indiana.
    Ecco che tutto questo ragionamento si conclude con un’inversione del paradigma: l’isola di calore urbana non ha alcun impatto sull’aumento della temperatura globale, ma l’aumento della temperatura globale amplifica l’isola di calore urbana. Durante le ondate di calore, infatti, le città possono diventare molto opprimenti, non tanto di giorno, quanto piuttosto nelle ore serali e notturne, quando la dispersione termica rispetto alle zone rurali risulta molto minore. La scarsa presenza di verde e le numerose superfici assorbenti rallentano notevolmente il raffreddamento notturno, allungando così la durata del periodo caratterizzato da disagio termico. Nelle zone di campagna o semirurali, al contrario, per quanto alta la temperatura massima possa essere, l’irraggiamento notturno è comunque tale da garantire almeno alcune ore di comfort.
    © 2024 Aboca S.p.A. Società Agricola, Sansepolcro (Ar)
    Giulio Betti presenterà Ha sempre fatto caldo! a Milano, insieme a Matteo Bordone, il 16 novembre alle 16, alla Centrale dell’Acqua, in occasione di Bookcity. LEGGI TUTTO

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    Fino a poco tempo fa le tartarughe marine erano quasi un mistero

    Le tartarughe marine non sono animali che si incontrano facilmente: a meno che non vivano in cattività, passano sulla terraferma solo i primi momenti della loro vita, quando escono dalle uova su una spiaggia per spostarsi subito nel mare, e anni dopo, se sono femmine, per deporre le proprie uova. Anche per questo per secoli abbiamo saputo pochissime cose sulle sette specie di tartarughe marine esistenti, comprese le tartarughe liuto (Dermochelys coriacea), quelle più grandi (arrivano a 400 chili di peso), e tuttora dobbiamo scoprirne.Lo racconta l’ecologo e divulgatore scientifico statunitense Carl Safina nel libro Il viaggio della tartaruga, appena pubblicato da Adelphi nella sua collana Animalia, dedicata a saggi sul comportamento di altre specie animali: ne pubblichiamo un estratto. Il 9 dicembre Safina parlerà di tartarughe marine e altri animali a Peccioli (Pisa), in occasione della nuova edizione di “A Natale libri per te”, una manifestazione progettata in collaborazione col Post e coordinata dal suo peraltro direttore Luca Sofri.***Nonostante millenni di venerazione e di commercio, le tartarughe marine sono incredibilmente misconosciute. Molti fatti basilari sulle varie specie, sui territori di nidificazione e sul comportamento sono stati oggetto di dibattito fino in tempi molto recenti, e alcuni restano ancora sconosciuti. Era il 1959 quando una Tartaruga Liuto avvistata al largo di Soay, nei pressi dell’isola di Skye in Scozia, non solo finì sulle prime pagine dei giornali, ma divenne argomento di discussione – come possibile mostro marino – perfino nella letteratura specializzata. Un testimone dichiarò quasi fuori di sé: «Rimanemmo pietrificati e lo osservammo mentre si avvicinava sempre di più… come un mostro infernale di tempi preistorici».Un disegno raffigura un serpente marino (che altro, se no?), benché entrambi i testimoni oculari avessero tracciato discreti schizzi di una Tartaruga Liuto sopra il pelo dell’acqua, e nonostante la sobria descrizione del secondo testimone contenesse alcune scrupolose osservazioni («quando la bocca era aperta … potevo vedere delle crescite filamentose simili a viticci pendenti dal palato»: le proiezioni usate per trattenere le meduse). Il punto è che nessuno disse: «Oh, ma si tratta di una grossa tartaruga – potrebbe essere una Liuto»; in molti luoghi al di fuori dei tropici, infatti, la gente non aveva ancora alcuna familiarità con le tartarughe marine.Una tartaruga liuto su una spiaggia di Trinidad, vicino a un cane, nel 2013 (AP Photo/David McFadden)Fino agli anni Sessanta e Settanta nessuno dei principali territori di nidificazione delle Tartarughe Liuto era noto alla scienza; e solo negli anni Sessanta gli scienziati capirono che il sesso delle tartarughine è determinato dalla temperatura di incubazione delle uova. Negli anni Settanta si stava appena cominciando a scoprire che le tartarughe marine migrano. Ancora nel 1988 l’idea che le Liuto nidificanti nei Caraibi si spingessero fino a latitudini temperate era considerata tutta da dimostrare.Fino a metà degli anni Novanta l’origine delle giovani Tartarughe Caretta trovate in acque messicane rimase sconosciuta; il territorio di nidificazione più vicino era il Giappone – distante oltre diecimila chilometri – e, poiché imprese migratorie di tale entità erano ritenute quasi impossibili, alcuni studiosi continuarono a cercare siti sconosciuti nel Nuovo Mondo. Uno di loro osservò: « Una migrazione transpacifica supererebbe di gran lunga la portata geografica nota delle migrazioni delle tartarughe marine». (Soltanto qualche anno dopo, i trasmettitori satellitari e le targhette identificative avrebbero fatto a pezzi quelle posizioni, dimostrando che effettivamente le Caretta giapponesi e australiane nuotano da costa a costa nel bacino del Pacifico e che quasi tutte le specie marine sono magistrali navigatrici).Negli anni Novanta non si sapeva pressoché niente della localizzazione delle tartarughe neonate dal momento in cui lasciano la spiaggia dove si sono schiuse fino a quando ricompaiono come giovani individui delle dimensioni d’un vassoio; di diverse specie non sappiamo essenzialmente ancora nulla. Perfino negli anni Novanta i ricercatori si limitavano a ipotizzare che spesso le tartarughe tornassero a deporre le uova sulla spiaggia della propria schiusa (oggi, le evidenze fornite in tal senso dal DNA sembrano convincenti).Tartarughe liuto appena uscite dal proprio guscio su una spiaggia della Thailandia, nel 2021 (Sirachai Arunrugstichai/Getty Images)A metà del ventesimo secolo, e anche successivamente, gli scienziati discutevano se tre tipi di tartarughe marine fossero davvero specie distinte (come ricorderete, nel mondo ne esistono soltanto sette). Ancora negli anni Sessanta ci si scontrava sul fatto che la Tartaruga di Kemp fosse o meno una specie a sé. Nessuno scienziato ne aveva mai vista una deporre le uova, e così qualcuno pensava si trattasse di ibridi. Le nidificazioni di massa della Tartaruga Olivacea e di quella di Kemp, cui partecipavano decine di migliaia di individui che arrivavano insieme sulle spiagge con la luce del giorno, rimasero a quanto pare sconosciute alla scienza finché nel 1960 un documentario amatoriale – girato nel 1947, sulla nidificazione di massa della Tartaruga di Kemp – non giunse infine nelle sale consacrate.La Tartaruga a Dorso Piatto, una specie australiana, rimase ignota alla scienza fino agli anni Ottanta del diciannovesimo secolo, e per cent’anni gli studiosi discussero se si trattasse effettivamente di una specie distinta. Ancora nel 1996 infuriava il dibattito sulla cosiddetta «Black Turtle», la Tartaruga Nera («infuriava» per chi si occupava di Tartarughe Nere): si trattava di una specie a sé oppure soltanto di una razza di Tartaruga Verde? (L’analisi genetica dimostra che sono semplicemente Tartarughe Verdi con una colorazione più scura).Il fatto che almeno alcune Liuto compissero viaggi di andata e ritorno dai territori di alimentazione a quelli riproduttivi, per poi far nuovamente rotta verso la stessa area generale di foraggiamento non fu confermato fino al 2005. Cosa piuttosto notevole, poi, sempre nel 2005 un articolo erudito ammetteva: «Se le giovani tartarughe si spostino andando semplicemente alla deriva, o invece nuotino attivamente controcorrente, è materia di qualche dibattito». Oggi il tracciamento satellitare ha confermato quello che era probabile: se ne hanno voglia, le giovani tartarughe entrano nel flusso della corrente e lo attraversano. La scienza avanza. Ma il punto è che le tartarughe svelano i propri segreti lentamente, e molti restano chiusi «tra le loro piastre corazzate».Traduzione di Isabella C. Blum© 2007 Carl SafinaPublished by arrangement with Jean V. NaggarLiterary Agency, Inc., and The Italian Literary Agency© 2023 Adelphi edizioni s.p.a. Milano LEGGI TUTTO

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    Le creme per la pelle non penetrano, evaporano

    Caricamento playerI cosmetici sono un tema su cui si trovano tantissime informazioni in giro per internet, ma molto spesso poco accurate scientificamente. Anche per questo, oltre che per le formule spesso oscure usate dal marketing promozionale dei prodotti, non è sempre facile capire a cosa servano e cosa facciano davvero. Da anni Beatrice Mautino, divulgatrice scientifica e co-autrice del podcast del Post Ci vuole una scienza, dà numerose e accurate dritte per riuscire a farsi un’idea spiegando la chimica e la fisica dei cosmetici. Lo fa sui suoi canali social, in eventi pubblici e con una serie di libri: il terzo è appena uscito in libreria, pubblicato da Gribaudo, e si intitola La scienza dei cosmetici. Ne pubblichiamo un estratto che spiega che, diversamente da come pensano molte persone, le creme cosmetiche non penetrano nella pelle, né vengono assorbite.***Un’amica che formula cosmetici per una grossa azienda mi ha confessato che odia l’acido ialuronico perché glielo fanno mettere dappertutto. In questo libro nomineremo spesso i cosiddetti ingredienti emozionali, quelli che non hanno nessun ruolo effettivo in un cosmetico, ma vengono aggiunti alle formule perché creano un certo immaginario, suscitano determinate emozioni e aiutano il dipartimento marketing a presentare il prodotto come diverso da quello dell’anno precedente che aveva una formula pressoché identica con l’unica differenza di quell’ingrediente emozionale attorno al quale viene fatto girare tutto.Ci sono però degli ingredienti che un ruolo ce l’hanno, magari anche molto importante, ma nel tempo sono diventati anch’essi emozionali, caricati di aspettative che non possono mantenere. L’acido ialuronico è fra questi e viene raccontato dal marketing come ingrediente che “penetra in profondità”, restaura la pelle cadente e rimpolpa le rughe.L’analogia non dichiarata, ma suggerita, è quella con i filler, cioè le iniezioni con acido ialuronico che si fanno in medicina estetica e che, trattandosi di iniezioni, possono penetrare davvero in profondità grazie all’ago. Il cosmetico con acido ialuronico può fare la stessa cosa? Ovviamente no, non ci si può nemmeno avvicinare. Chimicamente parlando, l’acido ialuronico è un grosso polimero, costituito da migliaia di unità di acido glucuronico e N-acetilglucosammina, appartenente alla famiglia dei glicosamminoglicani, ed è uno dei principali componenti del tessuto connettivo e della matrice extracellulare, dove svolge funzioni molto importanti all’umor vitreo dell’occhio.La sua struttura molecolare lo rende una spugna efficientissima, in grado di assorbire per ogni grammo di polvere di acido ialuronico fino a 6 litri d’acqua, e quindi è un umettante molto efficace, in grado di trattenere acqua sulla superficie della pelle.Il passaggio da umettante molto efficace a ingrediente emozionale è dovuto, come dicevamo, all’analogia con i trattamenti di medicina estetica e un certo rimando dei cosmetici in commercio a quello che chiamano “effetto filler”, cioè all’illusione di riuscire a ottenere un rimpolpamento della pelle e una riduzione della profondità delle rughe grazie all’azione “in profondità” dell’acido ialuronico. La verità è che questa molecola è enorme e non riesce a superare lo strato corneo. Non ci riesce neanche nelle sue versioni “a basso peso molecolare”, cioè spezzettato, perché per quanto siano spezzettate rimangono comunque troppo grandi e inadatte a superare la barriera molto selettiva della pelle. L’acido ialuronico, così come pressoché tutti gli ingredienti cosmetici, non penetra in profondità e svolge la sua azione dall’esterno.– Ascolta anche: “Tutto sul sudore, i deodoranti e gli antitraspiranti”, una puntata di Ci vuole una scienzaSe non penetrano in profondità, come mai quando stendiamo le creme sulla pelle le vediamo “assorbire” velocemente?Questa domanda mi è stata posta diverse volte nel corso della mia attività di divulgazione sui cosmetici. In rete circolano articoli allarmistici sulla percentuale altissima, superiore al 60-70%, di ingredienti di un cosmetico che verrebbero assorbiti. Una volta, un gentile lettore di Le Scienze, la rivista per la quale scrivo ormai da molti anni, mi ha chiesto se poteva incolpare la crema idratante per i valori un po’ troppo alti di colesterolo nel sangue, dato che la crema lo conteneva. In effetti, se ci pensate, l’effetto più evidente che notiamo dopo aver steso un prodotto idratante è la sua scomparsa in un tempo che può essere anche molto veloce. D’altronde, se non viene assorbita dove va?Ho dovuto rispondere al gentile lettore che la causa probabilmente la doveva cercare nella sua passione per i formaggi più che nell’idratazione, perché la pelle, anche per ciò che riguarda i grassi, il suo lavoro di bloccarne la penetrazione in profondità lo fa bene.Gli ingredienti emollienti come il colesterolo possono essere incorporati nelle riserve di grassi dello strato corneo, soprattutto se la loro composizione mima quella naturalmente presente nella pelle, come abbiamo visto. Alcuni di questi possono anche penetrare attraverso i venti strati di cellule morte che compongono lo strato corneo, ma man mano che si addentrano nell’epidermide, l’ambiente diventa sempre più acquoso e, di conseguenza, inospitale per loro. Per contro, a fermare l’acqua e a impedire che ogni bagno possa trasformarci in spugne, c’è proprio lo strato di grassi idrorepellente che cementa lo strato corneo.Questi sono solo due esempi che rendono l’idea di come la barriera della pelle, per quanto non sia totalmente impermeabile, è comunque molto selettiva. L’approccio è quello descritto dal “modello del formaggio svizzero” che si usa per gestire la sicurezza di ambiti molto complessi come l’assistenza sanitaria o l’ingegneria, in cui si dà per scontato che ci siano dei buchi, cioè delle falle nel sistema, ma la presenza di tante fette fa sì che i buchi siano quasi sempre tappati dalla fetta successiva.Illustrazione tratta da “La scienza dei cosmetici” (Per cortesia dell’editore)Ogni tanto qualcosa riesce a superare tutte le barriere, infilando una serie di buchi particolarmente fortunata, ma si tratta di eccezioni che, nel caso della pelle, dipendono dalle condizioni della pelle stessa, dalle dimensioni della sostanza, dalla sua struttura chimica, dalla presenza di eventuali cariche elettriche, dalla temperatura e anche dal tempo di contatto.Tutto il resto rimane fuori o, al massimo, si va a integrare nello strato corneo; quindi, la risposta alla domanda iniziale sul destino delle creme e degli altri prodotti è che, molto banalmente, evaporano.
L’acqua, i grassi o gli oli siliconici usati come base per produrre i cosmetici sono “solventi”, cioè sono dei vettori che hanno la funzione principale di trasportare le sostanze funzionali rimangono lì sulla superficie dove possono svolgere la loro azione. È l’evaporazione a darci quella sensazione di leggerezza e freschezza che proviamo quando vediamo un idratante “assorbirsi bene”.Ma quindi, se niente si assorbe, come fanno i medicinali a passare? Questa è un’altra delle domande che ricevo spesso quando spiego che gli ingredienti cosmetici non sono pensati per essere assorbiti dalla pelle. Tendiamo a prendere la parte per il tutto. Se si parla di cosmetici non si parla di medicinali. Il fatto che abbiano lo stesso aspetto non significa che lavorino allo stesso modo. Le pomate medicinali sono formulate per far penetrare i principi attivi alla profondità necessaria (e comunque non è facile nemmeno in quel caso), ma la parte cosmetica di una pomata medicinale si comporta esattamente come le creme cosmetiche, cioè in parte evapora e in parte si deposita.Ma quindi, allora, i cosmetici non servono?
In genere questo è l’ultimo round, quello della delusione.Nella primavera 2023 sono stata invitata da Cosmetica Italia, l’associazione di categorie delle aziende cosmetiche, al Cosmoprof di Bologna, la più importante fiera cosmetica al mondo. Mi è stato chiesto di tenere una breve relazione sulla comunicazione dell’efficacia dei cosmetici dal punto di vista di chi fa informazione scientifica e si trova spesso e volentieri a ridimensionare le pubblicità o a spiegare il funzionamento di qualche meccanismo apparentemente oscuro. Avevo di fronte a me qualche centinaio di aziende a cui ho detto che a forza di giocare continuamente al rialzo con la medicalizzazione dei cosmetici e la promozione di effetti “impossibili” ci saremmo fatti tutti male: sia chi i prodotti li compra e ripone in loro troppe aspettative rimanendone poi inevitabilmente deluso, sia chi li produce perché poi è difficile tornare indietro al “vero valore del cosmetico” come ripetono spesso tutti gli addetti ai lavori. Se la comunicazione dei cosmetici fa passare l’idea che per funzionare debbano “penetrare in profondità”, poi è inevitabile rimanerci male e pensare che “allora non servono a niente” quando si scopre che non penetrano. Non so se il mio appello sia stato raccolto da qualcuno, ma fermiamoci a pensare: è così importante che un cosmetico sia assorbito? Non ci basta che funzioni, cioè che faccia quello per cui l’abbiamo comprato e, per esempio, idrati la nostra pelle? Se lo fa rimanendo all’esterno non va bene lo stesso?© 2023 Gribaudo – IF – Idee editoriali Feltrinelli srl– Leggi anche: I cosmetici “ecobio” non esistono LEGGI TUTTO