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    Mangiamo sempre la stessa banana

    Caricamento playerNella prima metà di marzo delegati da tutto il mondo si sono riuniti a Roma per parlare di banane, uno dei frutti più consumati e con un impatto importante sull’alimentazione di miliardi di persone. Rappresentanti del settore, responsabili delle principali aziende produttrici e agronomi hanno partecipato ai numerosi incontri del World Banana Forum dell’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura (FAO), arrivando in più sessioni alla medesima conclusione: il mercato delle banane è esposto a grandi rischi derivanti quasi tutti dall’avere impostato l’intero commercio mondiale praticamente su una sola varietà di banana, nonostante ne esistano diverse centinaia se non addirittura un migliaio.
    Il problema è noto da tempo ed è una costante fonte di preoccupazione per chi lavora con il frutto esotico più esportato in assoluto, con un fatturato annuo intorno ai 10 miliardi di euro. Coltivare e trasportare le banane dai paesi per lo più tropicali in cui crescono in mezzo mondo richiede un grande impegno logistico, soprattutto nella gestione dei tempi per assicurarsi che i frutti siano messi in vendita al giusto punto di maturazione. Più si impiegano standard e sistemi condivisi, più si riescono a ottimizzare i processi di produzione e distribuzione ed è per questo che in Occidente e altre parti del mondo mangiamo tutti le stesse identiche banane.
    La varietà più coltivata è diffusa è la Cavendish, che produce frutti relativamente lunghi e dalla polpa compatta fino agli ultimi stadi di maturazione, quando diventa invece molto morbida e più dolciastra. La Cavendish è uno dei tanti ibridi ottenuti nel tempo dall’incrocio delle specie Musa acuminata e Musa babisiana per ottenere frutti con quantità sufficienti di polpa. Gli incroci resero infatti possibile la coltivazione di specie senza semi, che nelle banane selvatiche occupano un grande spazio all’interno del frutto.
    Banana selvatica tagliata a metà: è evidente la differenza della polpa rispetto alle banane abitualmente consumate (Wikimedia)
    Nel farlo si ottennero però varietà che non possono essere riprodotte utilizzando i loro semi, ma semplicemente tramite propagazione: da una pianta si ottengono altre piante, che sono di fatto cloni della pianta di partenza. Le Cavendish, come molte altre varietà di banane, non hanno quindi la capacità di evolversi attraverso incroci con piante con materiale genetico diverso. Sono di conseguenza più esposte a malattie e parassiti, perché ci sono meno mutazioni casuali che attraverso la selezione potrebbero favorire la loro sopravvivenza a particolari agenti esterni. Le conseguenze di queste monocolture possono essere devastanti, come dimostra la storia delle banane.
    Quando nella seconda metà dell’Ottocento furono avviate le esportazioni su grande scala, si affermò la varietà Gros Michel: una banana resistente e con tempi di maturazione tali da potere essere trasportata per lunghi viaggi senza il rischio che andasse velocemente a male. Nel secondo dopoguerra la Gros Michel aveva permesso ai produttori di espandere enormemente il mercato delle banane, ma in pochi anni un imprevisto decimò le coltivazioni: un fungo aveva attaccato le piante, che essendo pressoché tutte identiche non avevano difese contro l’infezione. L’epidemia fu definita “malattia di Panama” e interessò tutte le principali piantagioni nell’America Centrale e in Sudamerica.
    Da risorsa stabile e resistente, in poco tempo la Gros Michel era diventata fragile e inaffidabile, poco adatta per fare affari. I produttori si diedero quindi da fare per trovare un’altra varietà e scoprirono che la Cavendish, nota già da tempo ma meno coltivata, aveva il pregio di resistere al fungo e di conseguenza convertirono le loro piantagioni. Ciò permise di evitare il collasso del settore, anche se le Cavendish erano meno saporite delle Gros Michel. Furono adottate le medesime strategie di coltivazione senza prevedere una maggiore differenziazione per evitare che in futuro la nuova varietà potesse avere i problemi che avevano decimato la precedente.
    Ancora oggi le Cavendish sono le banane più diffuse al mondo, ma proprio come era accaduto con le Gros Michel iniziano a essere esposte ad alcune forme della malattia di Panama. I primi indizi risalgono a una quindicina di anni fa, quando in Malaysia e a Sumatra furono segnalati i primi casi di infezione. La causa fu in seguito ricondotta a uno specifico tipo di fungo (Fusarium tropical race 4 – TR4), che attacca i banani sottraendone le energie e privandoli della capacità di crescere e sopravvivere.
    Grandi coltivazioni di piante pressoché identiche rendono più difficile l’isolamento di quelle infette: il fungo si diffonde con facilità e non esistono trattamenti efficaci per ridurne gli effetti. Le Cavendish sono inoltre esposte ad altri rischi legati a malattie virali che possono sviluppare i banani, che portano alla morte delle piante e a importanti danni economici per i raccolti.
    (Jack Taylor/Getty Images)
    Durante il World Banana Forum di Roma, il direttore generale della FAO Qu Dongyu ha ricordato che si stima ci siano circa mille varietà di banane (le stime variano molto) eppure in quasi tutto il mondo se ne consuma una sola, la Cavendish. Diversificare la produzione potrebbe avere grandi benefici per ridurre i rischi legati alla coltivazione di un’unica varietà, ma c’è storicamente una certa resistenza da parte dei produttori sia per motivi logistici, sia per la percezione da parte dei consumatori in particolare in Occidente.
    Per la maggior parte delle persone che acquistano banane al mercato o al supermercato, la Cavendish è la banana per antonomasia. Ogni frutto ha pressoché lo stesso sapore, il medesimo aspetto e gli stessi tempi di maturazione. Questi ultimi sono essenziali per gli esportatori, che hanno necessità di consegnare miliardi di banane ancora acerbe e di lasciare che maturino poi nelle fasi di distribuzione al dettaglio.
    La Gros Michel secondo molti esperti era in questo la banana perfetta, molto meno delicata della Cavendish che deve essere trasportata con maggiori cautele e richiede spesso di essere refrigerata per rallentarne la maturazione. Il passaggio fu inevitabile, ma pochi produttori sembrano essere interessati a differenziare il loro mercato sia per le molte variabili in più che si aggiungerebbero sia per la percezione da parte dei consumatori, che in ultima istanza sono abituati a un solo tipo di banana.
    Nonostante se ne discuta da anni, al momento non sembrano esserci grandi soluzioni praticabili. Le notizie sulle infezioni fungine sono ormai una costante e riguardano le monocolture in Asia, Africa, Australia e da qualche tempo nell’America centrale e in Sudamerica. La diffusione della malattia di Panama tra i principali produttori nell’America Latina e nei Caraibi potrebbe avere un forte impatto sul mercato, considerato che la maggior parte delle banane consumate nei paesi economicamente più sviluppati arriva da quelle zone.
    Come contromisura alcuni gruppi di ricerca stanno lavorando allo sviluppo di piante geneticamente modificate in modo da essere resistenti al TR4. Interventi di questo tipo potrebbero introdurre una maggiore diversità genetica, che non viene ormai raggiunta a causa di generazioni e generazioni di banani originati dalle stesse piante di partenza. Non in tutti i paesi è però consentito il commercio di organismi geneticamente modificati, di conseguenza per ora i produttori sono restii a introdurre frutti OGM. Le cose potrebbero cambiare nei prossimi anni grazie alle nuove tecniche di modifica del DNA, come Crispr/CAS9, che permettono di cambiare parte del materiale genetico di un organismo senza introdurne di nuovo proveniente da altri organismi.
    Una diversificazione nella coltivazione di banane viene comunque auspicata da esperti e organizzazioni per la conservazione dell’ambiente, in particolare per favorire la biodiversità, cioè la varietà di specie che vivono in una certa zona. Piante tutte uguali tra loro (non necessariamente cloni come nel caso delle banane) riducono la possibilità per altri organismi di vivere e prosperare, portando a un impoverimento degli habitat.
    I benefici ambientali sarebbero importanti, ma trovare varietà di banane adatte al commercio globale potrebbe rivelarsi difficile, soprattutto nel mantenimento dei costi. Nonostante sia un frutto che deve di solito attraversare mezzo mondo per arrivare sulle nostre tavole, una banana costa spesso meno di 50 centesimi di euro, meno di molti altri frutti nostrani. I prezzi più alti legati alla diversificazione potrebbero influire sulla domanda, con forti implicazioni per un settore che si basa quasi esclusivamente sulle esportazioni.
    Tra le tante varietà di banane, diffuse per lo più localmente o comunque disponibili in pochi paesi ci sono le banane rosse, le banane Latundan, le Pisang Raja, le banane thailandesi, le banane “mille dita” e le banane Blue Java. Nella maggior parte dei casi si tratta di banane dalle dimensioni più contenute rispetto alla classica Cavendish e con sapori e consistenze lievemente diversi, legati alla maggiore o minore concentrazione di zuccheri e al loro svilupparsi dall’amido nella fase di maturazione. Impongono spesso tempi di consumo più stretti o comunque diversi da quelli delle banane cui siamo abituati e anche per questo c’è una certa ritrosia alla produzione da parte dei grandi esportatori.
    Il mercato delle banane è controllato da alcune grandi aziende che determinano di fatto i successi delle varietà in circolazione, e che sono molto affezionate alle Cavendish, le più richieste dai loro clienti. L’Unione Europea è il principale importatore di banane e si stima che nel 2023 ne abbia importati circa 5 milioni di tonnellate, pari al 27 per cento delle importazioni totali seguita da Stati Uniti (22 per cento) e Cina (10 per cento). LEGGI TUTTO

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    Le politiche ambientali danneggiano davvero gli agricoltori?

    Caricamento playerIl 6 febbraio la Commissione Europea ha annunciato un nuovo ambizioso obiettivo che prevede la riduzione del 90 per cento delle emissioni di gas serra entro il 2040, rispetto ai livelli del 1990. La raccomandazione, che non è vincolante e sarà discussa in futuro dalle altre istituzioni europee, contiene riferimenti molto vaghi al settore agricolo nonostante questo produca circa il 14 per cento di tutte le emissioni nell’Unione Europea. La mancanza di indicazioni chiare non è passata inosservata e, secondo vari osservatori, è dovuta alla volontà della Commissione di non esacerbare ulteriormente i rapporti con gli agricoltori, diventati tesissimi nelle ultime settimane in parte proprio per le iniziative legate alla riduzione delle emissioni dei gas serra.
    Da settimane in Italia, Francia, Germania, Spagna e in vari altri paesi europei gli agricoltori protestano contro le politiche nazionali e dell’Unione applicate al loro settore. Le ragioni delle proteste cambiano a seconda dei paesi, con rivendicazioni non sempre semplici da comprendere e coerenti, ma in un modo o nell’altro hanno comunque tutte a che fare con il modo in cui sono assegnati i sussidi per sostenere le attività agricole, i vincoli da rispettare per ottenerli e le nuove norme per ridurre le emissioni.

    – Ascolta anche: Le proteste degli agricoltori sono un pezzo di una storia più grande, che sfama il mondo

    Nelle semplificazioni che spesso accompagnano le cronache delle proteste è passato il concetto che gli agricoltori siano contro alcune delle più importanti politiche per contrastare il cambiamento climatico, e che di conseguenza siano più interessati al proprio tornaconto che all’ambiente e al suo futuro. In realtà, la questione è molto più complessa e le proteste degli ultimi giorni sono il risultato di anni di difficoltà economiche, proposte sul clima difficili da raggiungere in poco tempo e meccanismi non sempre efficienti nell’attribuzione dei sussidi.
    L’agricoltura in EuropaIl settore agricolo nell’Unione Europea ha un ruolo importante sia dal punto di vista economico sia per i servizi che offre, visto che produce il cibo consumato da centinaia di milioni di persone. I dati completi più recenti riferiti al 2022 dicono che agricoltura e allevamento costituiscono circa l’1,5 per cento del prodotto interno lordo dell’Unione. È una quota relativamente contenuta rispetto ad altri settori molto più grandi, ma in termini assoluti è comunque rilevante, intorno ai 221 miliardi di euro sempre nel 2022. Se si considera il valore generato da tutte le attività agricole, compreso l’indotto, si arriva a quasi 540 miliardi di euro, la maggior parte dei quali è derivata direttamente dalle coltivazioni (circa 290 miliardi di euro).
    Quattro paesi da soli producono circa il 57 per del valore di tutto ciò che è legato al settore agricolo europeo: Francia con 97 miliardi di euro, Germania con 76, Italia con 71,5 e infine Spagna con 63. Il maggior peso di queste nazioni nella produzione agricola spiega almeno in parte perché alcune delle proteste più grandi si siano verificate proprio in quei paesi.

    SussidiPer ragioni storiche e di funzionamento del mercato, è molto raro che il settore agricolo riesca a sostenersi senza aiuti pubblici. È un problema diffuso che riguarda molte aree del mondo e che viene quasi sempre affrontato dai governi con agevolazioni fiscali e sussidi, tesi per esempio a far costare meno i carburanti per i mezzi agricoli o a favorire investimenti in sistemi per rendere più efficiente la produzione agricola. Spesso ai sussidi per obiettivi si affiancano finanziamenti “a pioggia”, che vengono quindi attribuiti senza che sia richiesto qualcosa in cambio.
    Nell’Unione Europea l’insieme delle norme che regolano l’erogazione dei fondi europei si chiama “Politica agricola comune” (PAC) e viene aggiornata ogni cinque anni. Quella attualmente in vigore risale al 2023, sarà valida fino alla fine del 2027 e prevede lo stanziamento di circa 387 miliardi di euro, divisi in due grandi fondi: il Fondo europeo agricolo di garanzia (FEAGA) e il Fondo europeo agricolo per lo sviluppo rurale (FEASR). La maggior parte del denaro sarà distribuita attraverso sussidi diretti per gli agricoltori, con una spesa intorno a 190 miliardi di euro.
    Con la precedente PAC, si stima che la maggior parte degli agricoltori ricevette nel 2019 circa 5mila euro, mentre una piccola parte costituita da aziende molto più grandi incassò più di 50mila euro. I criteri di assegnazione della nuova PAC sono stati rivisti, con nuove modalità di accesso ai fondi e maggiori vincoli legati soprattutto alla tutela dell’ambiente: gli agricoltori che non rispettano alcune richieste necessarie per accedere ai fondi possono perdere diversi pagamenti.
    Nel corso degli anni i sussidi si sono rivelati molto importanti per mantenere un settore spesso esposto alle oscillazioni dei prezzi, dovute a come cambia la domanda in base all’offerta dai paesi esteri, ma anche a grandi imprevisti come si è per esempio visto nel 2022 con l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia. Come in altri settori dove sono previsti, i sussidi possono condizionare negativamente il sistema, per esempio mantenendo in vita aziende non efficienti, che non si sentono incentivate a migliorarsi visto che tanto i fondi riducono il rischio di non essere redditizie.
    Se accompagnati da incentivi, i sussidi possono però fare la differenza e indurre le aziende ad adottare comportamenti virtuosi, investendo per esempio in nuovi macchinari e tecnologie per aumentare la resa delle coltivazioni e ridurre il loro impatto ambientale. I sussidi sono inoltre importanti per tenere sotto controllo i prezzi di beni di prima necessità, che devono essere il più possibile accessibili a tutte le fasce della popolazione. Trovare il giusto equilibrio non è mai stato semplice e le cose si sono ulteriormente complicate circa cinque anni fa in seguito all’avvio di un enorme, e necessario, piano per ripensare l’economia europea e renderla più sostenibile: il “Green Deal”.
    Dalla fattoria alla forchettaAvviato nel 2020, il Green Deal è la serie di iniziative politiche proposte dalla Commissione europea per raggiungere in Europa entro il 2050 la neutralità carbonica (ovvero riuscire a rimuovere tanta anidride carbonica, o altri gas serra, quanta quella immessa nell’atmosfera). Il piano coinvolge tutti i settori produttivi, da quelli dell’industria all’energia passando per la mobilità, e riguarda naturalmente anche il settore agricolo. Tra le soluzioni da adottare ci sono l’efficientamento energetico, la riduzione del consumo di combustibili fossili e la tutela dell’ambiente attraverso iniziative per creare nuove foreste e ripristinare gli ecosistemi naturali.
    Il progetto più importante all’interno del Green Deal per il settore agricolo è il cosiddetto “Farm to Fork”, letteralmente “dalla fattoria alla forchetta” in inglese. È anche in questo caso un piano estremamente ambizioso per:
    Avere un impatto ambientale neutro o positivo, contribuire a mitigare il cambiamento climatico e ad adattarsi ai suoi impatti, invertire la perdita di biodiversità, garantire la sicurezza alimentare, la nutrizione e la salute pubblica, assicurando che tutti abbiano accesso a cibo sufficiente, sicuro, nutriente e sostenibile, preservare l’accessibilità economica dei prodotti alimentari generando ritorni economici più equi, favorendo la competitività del settore dell’approvvigionamento dell’UE e promuovendo il commercio equo.
    Sulla base di queste dichiarazioni di indirizzo è previsto che le istituzioni europee producano leggi e direttive per il settore agricolo, utilizzando il meccanismo dei sussidi (la PAC) come principale strumento pratico per incentivare i produttori a comportamenti virtuosi o per sanzionare eventuali comportamenti scorretti.
    Nelle intenzioni, il Farm to Fork aveva obiettivi molto ambiziosi come una forte riduzione dei fertilizzanti e dei pesticidi (che hanno effetti su molte specie importanti per gli ecosistemi), la conversione di un quarto dei terreni alle colture biologiche e la piantumazione di almeno 3 miliardi di alberi. Alcune proposte sono rimaste, mentre altre sono state via via riviste e ridotte di portata per venire incontro alle richieste del settore agricolo. In alcuni casi si è trattato di scelte obbligate perché alcuni provvedimenti erano impraticabili, in altri casi di cedimenti alle pressioni degli agricoltori, che riescono a esercitare molto bene la loro capacità di influenza a livello nazionale ed europeo soprattutto negli anni elettorali.
    Cedimenti e concessioniIl caso più evidente e discusso negli ultimi giorni è stato quello della Sustainable Use Regulation (SUR), che nell’ambito del Green Deal prevedeva una progressiva riduzione dei pesticidi entro il 2030. Martedì 6 febbraio la Commissione Europea ha deciso di rinunciare alla SUR, dopo che a novembre dello scorso anno la proposta sulla riduzione era già stata respinta dal Parlamento Europeo ed era quindi già esposta a una probabile cancellazione o comunque a una sua profonda revisione.
    I pesticidi riducono il rischio di perdere interi raccolti a causa dei parassiti, ma il loro impiego su larga scala ha un forte impatto sugli ecosistemi e in particolare su una grandissima quantità di specie di insetti, che ne patiscono ugualmente gli effetti. Tra i più colpiti ci sono spesso gli insetti impollinatori, che hanno un ruolo centrale nella fecondazione di molte varietà di piante. Meno insetti significa anche meno cibo per molte specie di uccelli e di altri piccoli predatori, con un progressivo impoverimento della biodiversità, cioè di quanto è diversificato un certo ambiente naturale.
    (Sean Gallup/Getty Images)
    La rinuncia alla SUR, che era stata proposta nel giugno del 2022, è stata vista come una concessione agli agricoltori in vista delle imminenti elezioni europee che si terranno il prossimo giugno. La decisione è stata fortemente criticata da scienziati e scienziate che da anni studiano gli effetti dei pesticidi sull’ambiente, scoprendo spesso ricadute che danneggiano lo stesso settore agricolo. Lo scorso anno 6mila scienziati avevano firmato una lettera a sostegno della SUR, segnalando l’importanza di non rinviare ulteriormente la decisione sui pesticidi.
    La notizia sull’abbandono della SUR è stata velocemente messa in secondo piano dall’annuncio della Commissione europea sulla riduzione del 90 per cento delle emissioni di gas serra entro il 2040, rispetto ai livelli del 1990. Ciò che però ha colpito diversi analisti è che il piano, ampiamente anticipato nelle scorse settimane, non contiene nessun riferimento specifico all’agricoltura, a differenza di alcune bozze circolate in precedenza. Il documento si limita a ricordare l’importanza del settore agricolo nel ridurre le emissioni di gas serra, ma non contiene informazioni più specifiche.
    Anche se si tratta di una raccomandazione, quindi non vincolante e in un certo senso indirizzata alla futura Commissione che sarà scelta dopo le elezioni europee, le modifiche alle regole per il settore agricolo proprio mentre dilagavano le proteste con i trattori in molti paesi europei sono state notate da molti. Bas Eickhout, tra i parlamentari europei più in vista del gruppo dei Verdi, ha commentato in aula il documento dicendo: «Avete cancellato tutte le cose sull’agricoltura. Nascondere queste cose nella vostra comunicazione non fa certo sparire il problema».
    Dalle comunicazioni della Commissione sono stati rimossi alcuni riferimenti a una riduzione entro il 2040 del 30 per cento del metano e di alcuni gas (NOS) prodotti dai motori termici, così come sono stati eliminati i passaggi sulla necessità di cambiare stili e abitudini di vita. In precedenza veniva per esempio raccomandato di consumare meno carne e prodotti caseari, visto che una quota importante dei gas serra deriva dalle attività degli allevamenti di animali. Oltre ai riferimenti sulla riduzione dei pesticidi, altre ipotesi riguardavano la riduzione dei sussidi per l’acquisto dei combustibili fossili, in modo da favorire il passaggio a macchinari agricoli meno inquinanti e più efficienti.
    A fine gennaio la Commissione europea aveva anche annunciato una deroga all’applicazione di una regola molto contestata, ma ritenuta importante per favorire la biodiversità (che in ultima istanza ha comunque effetti positivi anche nelle coltivazioni). La regola prevede che gli agricoltori lascino incolto il 4 per cento dei propri terreni ogni anno, in modo da favorire una rigenerazione del terreno, la crescita di piante selvatiche e di piccoli ecosistemi popolati da una grande varietà di specie. Deroghe simili erano già state applicate in passato, rispondendo alle richieste degli agricoltori che avevano segnalato difficoltà legate alla produzione.
    Ambiente e agricolturaLe richieste e le rimostranze degli agricoltori variano molto e non è sempre semplice comprenderne la fondatezza, ma in questi anni è diventato evidente un certo disallineamento tra le scelte legate alle politiche agricole e quelle ambientali. Sono state adottate regole più rigide e spesso complesse per ridurre l’impatto ambientale del settore, senza che fossero affrontati fino in fondo alcuni dei problemi più rilevanti soprattutto per i produttori medio-piccoli, che hanno più difficoltà a fare investimenti e a mantenersi al passo con le nuove regole.
    I progressi tecnologici per rendere più sostenibile il settore agricolo esistono, in alcuni casi anche da diverso tempo, ma alcuni di questi rimangono inaccessibili in particolare nell’Unione Europea. Le forti limitazioni all’impiego degli organismi geneticamente modificati (OGM), per esempio, possono rendere più necessario il ricorso ai pesticidi perché le coltivazioni sono meno resistenti ai parassiti. La richiesta di usarne meno potrebbe quindi avere un forte impatto sulla resa delle coltivazioni, già inferiori rispetto a quelle realizzate nei paesi dove gli OGM sono liberamente utilizzabili.
    Buona parte dei paesi europei utilizza i semi di soia e mais OGM importati da Brasile, Argentina, Stati Uniti e Canada per gli animali da allevamento, spesso meno costosi dei loro analoghi non OGM prodotti internamente. Si determina in questo modo una sensibile disparità sul mercato, che finisce per favorire prodotti provenienti dall’estero e contro i quali è difficile competere.
    Una protesta degli agricoltori in Bulgaria, il 6 febbraio (AP Photo/Valentina Petrova)
    Come dimostra l’andamento del Green Deal fino a qui, gestire la transizione ecologica richiede enormi quantità di risorse e ha innumerevoli implicazioni, difficili da tenere sotto controllo in un’economia globale. Alcune ci sono più evidenti semplicemente perché ne abbiamo esperienza diretta nella vita di tutti i giorni, altre come quelle del settore agricolo ci appaiono più distanti o tendiamo proprio a ignorarle. Nelle nostre società il cibo è sempre disponibile e accessibile, in un modo o nell’altro, al punto da non portarci a pensare a cosa abbia reso possibile la sua esistenza sullo scaffale di un supermercato o sulla bancarella di un mercato.
    Grazie alle maggiori conoscenze scientifiche e ai progressi tecnologici dell’ultimo secolo, non è mai esistito tanto cibo quanto oggi. Ma l’attuale modo di produrlo non è più sostenibile e deve essere ripensato nei suoi fondamentali. Molte delle tecnologie per farlo esistono già e in alcuni contesti sono già ampiamente utilizzate, ma la transizione verso questi sistemi e un modo diverso di pensare l’agricoltura richiede tempo, denaro e una certa capacità nel comunicare l’importanza del cambiamento a chi materialmente coltiva la terra.
    Cedere a ogni rivendicazione e protesta, per quanto comprensibile in un quadro così complesso, potrebbe rivelarsi deleterio o per lo meno rischioso per un pezzo importante della transizione ecologica. Come ha spiegato Alan Matthews, esperto di economia agricola del Trinity College di Dublino: «Perché gli agricoltori dovrebbero fermarsi a questo punto, se vedono che i governi corrono ai ripari? I governi devono mantenere le loro posizioni e spiegare che dobbiamo raggiungere gli obiettivi ambientali. Parliamo piuttosto di questo, senza arrenderci». LEGGI TUTTO

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    Avremo farmaci sviluppati dalle intelligenze artificiali?

    Sviluppare un nuovo farmaco è un po’ come fare una scommessa: si investono tempo e moltissimo denaro nella ricerca e nella sperimentazione di qualcosa che non si sa se davvero funzionerà e che potrebbe rivelarsi un costosissimo fallimento. Una nuova molecola molto promettente in laboratorio può mostrarsi inefficace nella sperimentazione animale o nei test clinici sugli esseri umani e prevederlo prima è spesso impossibile. Per ridurre uno dei rischi di impresa più grandi che esistano, negli ultimi tempi le aziende farmaceutiche hanno iniziato a esplorare le nuove possibilità offerte dai sistemi di intelligenza artificiale (AI), i cui progressi sono diventati evidenti anche ai meno esperti nell’ultimo anno soprattutto grazie al successo di ChatGPT di OpenAI.Alcune aziende hanno iniziato a utilizzare le AI per provare a prevedere efficacia e sicurezza di nuovi principi attivi, altre per rendere più semplice e rapido il complicato processo di selezione dei volontari che partecipano ai test clinici. Lo hanno fatto sia sviluppando al proprio interno nuove divisioni dedicate ai sistemi di intelligenza artificiale, sia appoggiandosi alle società e startup nate di recente proprio per applicare le AI al settore dei farmaci.
    A inizio gennaio le due aziende farmaceutiche Eli Lilly e Novartis hanno stretto un accordo con Isomorphic Labs, una società controllata da Alphabet (la holding di Google) e nata da una divisione di DeepMind, una delle più innovative aziende nel settore delle AI. Trattandosi di accordi per un valore complessivo di 3 miliardi di dollari se ne è parlato molto e non solo tra gli addetti ai lavori, ma le condizioni prevedono investimenti piuttosto misurati nel tempo. Eli Lilly anticiperà 45 milioni di dollari, ma i restanti 1,7 miliardi di dollari dell’accordo saranno pagati solo al raggiungimento di alcuni risultati ambiziosi, come l’avvio dei test clinici o l’approvazione dei nuovi principi attivi. Qualcosa di analogo riguarda anche Novartis che anticiperà 37,5 milioni di dollari e investirà altri 1,2 miliardi di dollari nel tempo, sulla base di un sistema basato su incentivi e risultati.
    DeepMind è tra le società che più hanno sperimentato l’impiego delle AI in ambito scientifico e in particolare nell’analisi e nella previsione delle caratteristiche delle proteine. La forma di una proteina determina infatti anche la sua funzione, di conseguenza lo studio e la previsione della sua struttura sono fondamentali nello sviluppo di molti farmaci. Isomorphic Labs parte da quelle conoscenze e ha l’obiettivo di accelerare in modo significativo la fase di scoperta di nuove molecole per i farmaci che attualmente dura diversi anni e richiede molte risorse, portandola dalla media di cinque anni a due.
    Sfruttando diversi modelli di apprendimento automatico, Isomorphic Labs ha sviluppato una piattaforma per prevedere le caratteristiche delle molecole e il modo in cui potranno interagire con l’organismo. Avere la possibilità di fare queste valutazioni in maniera più accurata consente di orientare la ricerca, riducendo il rischio di un fallimento nelle fasi successive quando dalla sperimentazione in laboratorio si passa ai test clinici con le persone. Il sistema naturalmente non garantisce sempre la produzione di molecole efficaci e sicure, ma secondo i responsabili dell’azienda può limitare sensibilmente gli insuccessi e soprattutto potrebbe accelerare le fasi di sviluppo.
    In un certo senso i sistemi di Isomorphic Labs hanno qualcosa in comune con i modelli generativi come ChatGPT, che tra le altre cose riescono a comporre testi come in una normale conversazione utilizzando la statistica per prevedere qualche parola da inserire dopo quella che hanno appena prodotto. Le AI per lo sviluppo dei farmaci fanno qualcosa di simile, ma per progettare le strutture molecolari rispettando alcune regole e limitazioni che vengono scelte dagli operatori. In poco tempo, il sistema è in grado di produrre numerose varianti della stessa molecola, affinando man mano il risultato in base agli effetti previsti sull’organismo.
    Sanofi, un’altra grande azienda farmaceutica, ha avviato una collaborazione con la società Exscientia che nella sua documentazione si presenta con frasi alquanto audaci come: “In futuro tutti i farmaci saranno progettati con le AI. Il futuro è ora con Exscientia”. Anche questa azienda ha l’obiettivo di scoprire nuovi principi attivi e di prevederne le caratteristiche e le interazioni con l’organismo, ancora prima di avviarne lo sviluppo e la sperimentazione.
    L’azienda farmaceutica italiana Menarini ha invece avviato una collaborazione con Insilico Medicine, società fondata tra Hong Kong e New York che sostiene di avere già sviluppato 17 potenziali nuovi farmaci sui quali effettuare i test clinici. L’accordo ha un valore stimato intorno ai 500 milioni di dollari e coinvolge Stemline Therapeutics, una delle controllate di Menarini, che avrà l’esclusiva per lo sviluppo, la sperimentazione e l’eventuale vendita di un nuovo principio attivo per il trattamento di alcune forme di tumore. Le possibilità di successo, però, sono ancora tutte da dimostrare.
    Per questo motivo ha suscitato una certa attenzione nel settore l’avvio dei test clinici su un nuovo farmaco sperimentale di Genentech per trattare la colite ulcerosa, una malattia cronica che comporta una forte infiammazione del colon, tale da far aumentare nel tempo il rischio di tumore rispetto a chi non ha questa condizione. Il principio attivo era stato sviluppato per trattare altri problemi di salute, ma da alcune simulazioni con sistemi di intelligenza artificiale è emerso che avrebbe potuto dare qualche risultato contro la colite ulcerosa.
    Talvolta può accadere che un farmaco sperimentale si riveli inefficace nel trattare la condizione per cui era stato sviluppato, mentre mostra di essere promettente contro un’altra malattia. Scoprirlo però non è semplice e richiede spesso anni di lavoro o qualche coincidenza favorevole. I gruppi di ricerca di Genentech sono riusciti a ottenere questo risultato in nove mesi utilizzando anche le AI per confrontare milioni di ipotesi, fino a trovare conferme sulla probabile utilità del loro farmaco nel trattare le cellule del colon coinvolte nella malattia.
    Già nel 2022 erano emersi indizi sul possibile uso del farmaco contro la colite ulcerosa, ma ora saranno necessari i test clinici per confermare la sua efficacia su pazienti veri. Le sperimentazioni di questo tipo fuori dai laboratori sono richieste dalle autorità di controllo per assicurarsi non solo che un farmaco sia efficace, ma anche sicuro per chi lo utilizza.
    I tempi dei test clinici sono molto lunghi e spesso hanno una fase iniziale molto costosa, sia in termini di tempo sia di denaro, per la selezione dei volontari che dovranno far parte della sperimentazione. Per alcuni test clinici è infatti necessario avere persone con diagnosi chiare della malattia che si vuole trattare, distribuiti in particolari fasce della popolazione per genere, età, condizione economica e provenienza geografica. In molti studi più il campione selezionato è di qualità, più ci si possono attendere dati affidabili.
    Partendo da questi presupposti, alcune aziende farmaceutiche hanno iniziato a sfruttare sistemi di intelligenza artificiale per organizzare la selezione dei volontari nei test clinici. Le AI possono accedere a enormi elenchi, come quelli degli ospedali o quelli tenuti dalle istituzioni sanitarie, effettuando rapidamente una preselezione in base ai criteri richiesti dall’azienda farmaceutica. In questo modo si riducono i tempi successivi della selezione e, almeno in linea teorica, si possono ottenere gruppi di volontari più adatti alla sperimentazione da svolgere.
    La multinazionale farmaceutica Amgen ha sviluppato uno strumento di intelligenza artificiale che si chiama ATOMIC, specializzato nella ricerca e nella classificazione dei dati clinici provenienti da medici, ospedali e altre istituzioni sanitarie. Amgen dice che con il nuovo sistema è in grado di selezionare in meno di nove mesi i volontari per uno studio clinico, rispetto all’anno e mezzo di lavoro richiesto in precedenza. La società ha già usato lo strumento per l’avvio di alcuni test clinici legati alle malattie cardiovascolari e al trattamento dei tumori con buoni risultati, di conseguenza utilizzerà ATOMIC per buona parte delle nuove selezioni in programma per quest’anno.
    La selezione dei volontari è naturalmente un ambito molto diverso rispetto a quello dello sviluppo di nuovi principi attivi, ma è comunque importante perché una sua migliore gestione potrebbe consentire alle aziende farmaceutiche di risparmiare tempo e denaro. È inoltre un settore in cui secondo gli esperti ci sono maggiori margini di successo in breve tempo e minori rischi, considerata la diversa complessità dell’iniziativa.
    Soluzioni di questo tipo sono inoltre viste come una naturale evoluzione degli strumenti basati sulle AI che avevano iniziato a farsi spazio nelle aziende farmaceutiche. Per esempio l’azienda svizzera Roche ha sviluppato un sistema che ha chiamato RocheGPT con dati e informazioni legati all’azienda, alle sue attività e agli ambiti di ricerca. RocheGPT è visto come una sorta di ChatGPT, ma altamente specializzato sulle caratteristiche di Roche e in grado di fornire risposte di vario tipo e in vari ambiti, non necessariamente legati alla sola ricerca, ma anche alla gestione delle attività aziendali.
    Altre aziende farmaceutiche hanno iniziato a sperimentare le AI per accelerare altri processi che di solito richiedono molto tempo legati alla compilazione della documentazione da presentare agli organismi regolatori, come la Food and Drug Administration (FDA) negli Stati Uniti e l’Agenzia europea per i medicinali (EMA) in Europa. In alcuni casi si tratta di documenti accessori e meno importanti, in altri dell’organizzazione dei dati dei test clinici sui quali è comunque necessario un controllo umano finale. Al momento FDA ed EMA non hanno regole esplicite sull’impiego dei sistemi di intelligenza artificiale, ma iniziano a essere sollevati dubbi e preoccupazioni per la loro mancanza, come del resto sta avvenendo in diversi altri settori in cui hanno iniziato a diffondersi le AI di ultima generazione.
    A essere molto interessate al settore farmaceutico non ci sono solamente le società che sviluppano sistemi di intelligenza artificiale, ma anche le aziende che producono microprocessori. Nvidia, uno dei principali produttori al mondo di chip e molto attivo nel settore dei sistemi per le AI, ha contratti con almeno una ventina di aziende farmaceutiche per fornire i propri processori o i centri dati che vengono impiegati per la grande quantità di calcoli richiesti da alcuni modelli di intelligenza artificiale. La domanda è alta e secondo alcuni analisti in breve tempo alcune delle aziende farmaceutiche più grandi competeranno per i dati e la capacità di elaborarli.
    L’interesse intorno ai sistemi di intelligenza artificiale nell’ultimo anno è stato senza precedenti e di sicuro ha portato ad aspettative che in alcuni ambiti sono molto più alte rispetto alle effettive capacità di alcune AI. Gli investimenti, comunque, non mancano in numerosi settori e si prevede che si manterranno alti anche nel corso di quest’anno. In ambito farmaceutico si stima che nell’ultimo decennio ci siano stati investimenti per circa 18 miliardi di dollari in società di biotecnologie che hanno al centro i sistemi di intelligenza artificiale. Se agli inizi riguardavano per lo più società di dimensioni relativamente piccole o medie, ora interessano alcuni dei marchi più famosi e potenti al mondo. LEGGI TUTTO

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    I SUV sono ancora un grande problema per l’ambiente

    Caricamento playerI SUV, gli “sport utility vehicle”, sono tra i veicoli a motore più venduti degli ultimi anni a livello globale, come dimostra la loro crescente presenza nelle città e sulle strade anche in Italia. L’alta domanda è stata assecondata dalle aziende automobilistiche, che nel tempo hanno espanso la presenza dei SUV nei loro cataloghi, concentrando spesso l’offerta di nuove tecnologie e optional accattivanti su questi modelli. La loro grande diffusione ha permesso al settore dell’auto di subire meno le cicliche e ricorrenti crisi che lo interessano, ma ha anche portato a un paradosso: proprio in un momento in cui c’è una maggiore consapevolezza sulle cause e gli effetti del riscaldamento globale, si vendono automobili più grandi e pesanti di un tempo, che in molti casi inquinano di più o comunque rallentano la riduzione delle emissioni di anidride carbonica nell’atmosfera, il principale gas serra.I dati sulle vendite nel 2022 aiutano a farsi un’idea della dimensione del fenomeno. In generale l’anno scorso non è stata una buona annata per il settore dell’auto, con una riduzione dello 0,5 per cento rispetto all’anno precedente e una vendita complessiva di 75 milioni di automobili. La riduzione è stata più marcata nell’Unione Europea (-4 per cento) e negli Stati Uniti (-8 per cento), soprattutto a causa della mancanza dei componenti e delle materie prime.Le vendite dei SUV sono invece aumentate del 3 per cento tra il 2021 e il 2022 e quasi un’automobile su due (46 per cento) venduta lo scorso anno era un SUV. La crescita nelle vendite ha interessato soprattutto l’Europa, gli Stati Uniti e l’India, dove la domanda continua a mantenersi alta e quasi tutti i produttori danno molta più evidenza nelle pubblicità a questi modelli rispetto alle automobili compatte o totalmente elettriche.Naturalmente non tutti i SUV venduti nel 2022 erano a motore termico. Secondo uno dei rapporti dell’Agenzia internazionale dell’energia (IEA) il 16 per cento dei SUV venduti erano elettrici, con una offerta di modelli di questo tipo mai raggiunta prima e superiore a quella delle altre tipologie di automobili elettriche. Per avere un’idea della dimensione del mercato, nel 2022 si stima siano stati venduti 10 milioni di automobili elettriche, con un aumento del 50 per cento rispetto al 2021 quando ne erano stati venduti 6,6 milioni.L’aumento dei SUV elettrici è di per sé positivo, ma non rimuove il problema del loro maggiore impatto ambientale rispetto ad altri veicoli. I SUV sono più pesanti e per questo meno efficienti dal punto di vista energetico, semplicemente perché occorre più energia per spostarli (a prescindere da come sia stata generata). Senza contare il maggiore impatto per costruire e trasportare automobili più pesanti e voluminose dalle fabbriche ai punti di vendita, circostanza che incide ampiamente sull’intero indotto dell’automobile.Sempre la IEA segnala che tra il 2021 e il 2022 il consumo di petrolio impiegato per i carburanti delle automobili è rimasto sostanzialmente lo stesso, mentre è aumentato quello per i SUV. L’incremento stimato è stato di mezzo milione di barili di petrolio al giorno, circa un terzo dell’intera crescita di domanda di questa materia prima nel corso del 2022 rispetto all’anno precedente.Rispetto a un’automobile di medie dimensioni, un SUV consuma circa il 20 per cento in più di carburante, proprio perché è necessario un motore di una cilindrata maggiore per spostarlo. L’impiego di motori ibridi, che mettono insieme un motore termico e uno elettrico, consente di ridurre i consumi, che continuano comunque a essere alti se confrontati con quelli di un’automobile di medie dimensioni sempre dotata di tecnologia ibrida. Il risultato è che le emissioni prodotte non si riducono in maniera significativa.Autovetture totali (in blu), SUV (in verde) e percentuale di SUV (linea celeste) (IEA)L’IEA stima che nel 2022 le emissioni di anidride carbonica prodotte dai SUV siano aumentate di 70 milioni di tonnellate. In tutto il mondo i veicoli di questo tipo sulle strade sono circa 330 milioni che emettono un miliardo di tonnellate di anidride carbonica all’anno. Un ipotetico luogo fatto solo di SUV sarebbe il sesto paese per emissioni di anidride carbonica annue, dopo il Giappone.Il motivo del successo dei SUV deriva da numerosi fattori che riguardano sia chi compra le automobili sia chi le vende. Fino agli anni Novanta erano poco diffusi, soprattutto in Europa, costosi e ricordavano esteticamente i classici fuoristrada. Alla fine di quel decennio, l’offerta iniziò a differenziarsi con la comparsa di modelli che erano una sorta di via di mezzo tra le normali automobili e i fuoristrada, riscuotendo un certo successo. Man mano che diventavano disponibili nuovi modelli e soprattutto che i prezzi si abbassavano, la domanda si fece più alta e in molti paesi oggi è più probabile che qualcuno esca da un concessionario con un SUV che con una berlina.Al crescente successo di questi veicoli ha contribuito anche una certa percezione sulla loro sicurezza da parte di chi li acquista. I SUV sono visti come automobili più “sicure”, perché più grandi e all’apparenza solide, quindi in grado di proteggere meglio chi si trova al loro interno. È una percezione che riveste un ruolo importante al momento della scelta di una nuova automobile: chi è abituato ad avere auto di medie-piccole dimensioni sa che cosa significa essere nel traffico circondato da auto molto più grandi e pesanti, si sente meno al sicuro e quando deve cambiare la propria automobile valuta di passare a un SUV, per ridurre quel senso di insicurezza.I produttori di automobili promuovono volentieri i loro SUV rispetto agli altri modelli perché da questi riescono quasi sempre ad avere margini di guadagno più alti. I SUV sono più cari, fino al 50 per cento in più rispetto alle berline o alle due volumi di dimensioni comparabili, ma la loro produzione non costa molto di più se confrontata con quella delle altre auto. C’è di conseguenza un forte interesse a orientare gli acquisti verso i SUV, specialmente se con tecnologie ibride sulle quali si può fare comunque leva per vincere le eventuali ritrosie di chi compra e pensa all’impatto ambientale della sua scelta.Oltre a richiedere più materiale per essere costruiti, ad avere un peso maggiore e a produrre più emissioni a parità di persone che possono trasportare, i SUV inquinano di più anche in altri modi. I veicoli più pesanti consumano in modo diverso gli pneumatici, per esempio, portando a una maggiore produzione di polveri sottili che rimangono a lungo in sospensione nell’aria e che possono costituire un rischio per la salute, specialmente nei contesti urbani. Le città in molti casi non sono inoltre attrezzate per veicoli che occupano molto più spazio rispetto alle normali automobili: ciò comporta maggiori problemi di traffico, tempi più lunghi per trovare parcheggi con relativi aumenti delle emissioni e problemi di sicurezza per chi va a piedi o utilizza la bicicletta.In generale, i SUV sono più sicuri per chi viaggia al loro interno e più pericolosi per gli altri, rispetto alle auto di medie dimensioni. Uno studio realizzato un paio di anni fa negli Stati Uniti ha rilevato come sia otto volte più probabile che una persona alla guida di un SUV investa e uccida un bambino in un incidente rispetto alle persone sulle altre automobili, e come quel tipo di veicolo sia più rischioso e a volte letale anche per i pedoni e i ciclisti. I dati e le loro analisi variano molto a seconda degli studi ed è quindi difficile stabilire quale sia l’effettivo impatto dei SUV in termini di sicurezza stradale. È stata comunque rilevata una maggiore pericolosità di questi veicoli nel caso di impatti laterali contro automobili più piccole, i cui sistemi di protezione non sono sempre sufficienti per ridurre gli effetti dello scontro e proteggere chi si trova nell’abitacolo da quel lato.Il problema era presente soprattutto con i primi modelli di SUV ed è stato affrontato, con qualche miglioramento, negli ultimi anni grazie all’introduzione di nuove regole di sicurezza per i costruttori. Le stime più recenti riferite al 2013-2016 dicono che chi si trova in auto ha il 28 per cento di probabilità in più di morire in uno scontro con un SUV rispetto a una normale automobile, rispetto al 59 per cento rilevato nel periodo tra il 2009 e il 2012.I problemi di sicurezza sono anche legati all’ingombro sulle strade più vecchie, dove il passaggio di due veicoli negli opposti sensi di marcia era già normalmente difficoltoso. Essendo più grandi e massicci, i SUV possono interferire con la visibilità nei veicoli di minori dimensioni, per esempio quando si vogliono effettuare sorpassi. Di notte ai problemi di visibilità si aggiungono i rischi legati ai fari più alti rispetto a quelli delle normali automobili, con il rischio di rimanere abbagliati se non sono orientati correttamente.Mentre gli effetti sulla sicurezza sono ancora dibattuti, quelli sull’impatto ambientale dei SUV sono ormai assodati grazie ai dati raccolti negli ultimi anni, nell’ambito di studi e ricerche sulle emissioni prodotte dai mezzi di trasporto. Le aziende che li producono sostengono spesso che con l’elettrificazione il problema sarà risolto, ma – al di là di alcuni processi industriali per la costruzione che avverranno ancora a lungo bruciando combustibili fossili – il consumo di energia continuerà a essere un punto critico soprattutto per un motivo: un’automobile elettrica pesa spesso di più del suo modello equivalente con motore termico. È un problema che riguarda molti modelli e non solo i SUV. Una FIAT 500 ha una massa intorno alla tonnellata, mentre una FIAT 500 elettrica ha una massa di circa 300 chilogrammi in più.L’aumento della massa è dovuto soprattutto alle batterie e alla necessità di rinforzare la scocca per reggerne il peso. Nel caso di alcuni modelli di SUV l’aumento è significativo perché la massa più grande dovuta alle maggiori dimensioni richiede di usare motori più potenti e batterie più grandi, portando a un veicolo piuttosto pesante.È un dilemma difficile da risolvere e che diventerà sempre più centrale se continuerà a esserci un’alta domanda di SUV, specialmente se saranno venduti come una alternativa “verde” perché completamente elettrici. Alcuni esperti segnalano che la soluzione al problema passi dall’introduzione di imposte più alte per l’acquisto dei SUV, in base alla loro massa, in modo da disincentivare almeno in parte l’acquisto di veicoli pesanti e voluminosi. Alcuni governi stanno valutando o hanno introdotto misure simili, che potrebbero aiutare a recuperare parte del denaro che veniva raccolto attraverso le accise sui carburanti, che diventeranno sempre più marginali man mano che si passerà ai motori elettrici.Veicoli più costosi a causa delle imposte potrebbero anche essere un incentivo per spingere i produttori di automobili a investire nella ricerca e nello sviluppo di batterie di nuova generazione, meno pesanti e comunque efficienti. Nell’ultimo decennio i progressi nel settore sono stati notevoli, ma sono stati sfruttati soprattutto per estendere la quantità di chilometri che un veicolo elettrico riesce a percorrere con una sola carica. Di conseguenza man man che diventavano più compatte si aggiungevano batterie, senza riduzioni significative della massa dei veicoli. La progressiva diffusione di stazioni di ricarica e tempi più rapidi per caricare le batterie stanno iniziando a cambiare le cose, rendendo meno centrale nella percezione delle persone l’autonomia. La maggior parte degli spostamenti giornalieri consiste inoltre in poche decine di chilometri, enormemente al di sotto della capacità degli ultimi modelli delle automobili elettriche.Alcune aziende automobilistiche come Tesla e Volvo sono inoltre al lavoro per ottimizzare il peso della scocca, per esempio integrandola con le batterie in modo da ridurre la massa complessiva. È un lavoro di ricerca complesso che richiede la sperimentazione di nuovi materiali da sostituire agli attuali. Rispetto a metà anni Novanta, mediamente un veicolo dei giorni nostri ha il 44 per cento in meno di acciaio, grazie all’impiego di alluminio, di altre leghe metalliche e di materiali come la fibra di carbonio. Non tutti i materiali sono però adeguati o in alcuni casi richiedono comunque molta energia nella loro fase di produzione, in un contesto in cui molta dell’energia viene ancora derivata dall’impiego dei combustibili fossili.Che siano SUV elettrici e a peso ridotto o veicoli compatti, le automobili continuano comunque a essere un sistema di trasporto inefficiente dal punto di vista energetico in buona parte dei contesti, soprattutto se confrontato con i trasporti collettivi. Alcune lo sono più delle altre. LEGGI TUTTO

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    Virgin Orbit è in guai grossi

    Virgin Orbit, l’azienda spaziale del miliardario britannico Richard Branson, licenzierà l’85 per cento del proprio personale e cesserà le attività nell’immediato futuro, dopo non essere riuscita a ottenere nuovi finanziamenti. Dan Hart, il CEO della società, ha comunicato giovedì la notizia ai dipendenti. La conferma dei licenziamenti è contenuta in un documento fornito all’autorità che si occupa delle attività di borsa (SEC) negli Stati Uniti, dove l’azienda è registrata.Stando alla documentazione, Virgin Orbit licenzierà 675 dipendenti e ne manterrà un centinaio, condizione che renderà impossibili nuove attività di ricerca e di sperimentazione del sistema di lancio per trasportare satelliti in orbita. In sei anni di esistenza, l’azienda aveva sviluppato una soluzione alternativa ai lanci spaziali effettuati con razzi che partono dal suolo. Il suo sistema prevede che il razzo venga montato sotto l’ala di un grande aeroplano, un Boeing 747-400, e che sia lanciato quando l’aereo è già in quota in modo da poter utilizzare razzi meno potenti e costosi, idealmente più semplici da gestire.(Virgin Orbit)Lo scorso gennaio, Virgin Orbit aveva effettuato il primo tentativo di trasporto in orbita di un satellite, ma la missione era stata un fallimento. Dopo essersi staccato dall’ala del Boeing 747-400, il razzo LauncherOne aveva raggiunto lo Spazio, ma non l’altitudine corretta per collocare il satellite nella giusta orbita. Nonostante il fallimento, la società aveva comunque sottolineato l’importanza del risultato raggiunto, che secondo i suoi responsabili dimostrava la fattibilità del nuovo sistema.Le condizioni economiche di Virgin Orbit non erano comunque buone. Già a inizio marzo la società aveva annunciato una «pausa delle attività», rimandando a successivi aggiornamenti che sarebbero stati diffusi nelle settimane seguenti. Ora l’azienda ha annunciato che, attraverso la società Virgin Investments, Branson ha fornito circa 11 milioni di euro che saranno impiegati per la cessazione dei contratti e per i licenziamenti. Il costo complessivo dell’operazione sarà intorno ai 15 milioni di euro, sempre secondo le previsioni di Virgin Orbit.Dopo l’annuncio della cessazione delle attività, le azioni di Virgin Orbit hanno perso circa il 40 per cento del proprio valore in borsa. La notizia non ha comunque sorpreso più di tanto gli analisti, considerato che la società cercava da mesi nuovi finanziatori e che Branson aveva detto di non volerla più finanziare direttamente. Virgin Orbit era nata nel 2017 da una divisione di Virgin Galactic, altra società di Branson dedicata invece al turismo spaziale e in forte ritardo nelle proprie attività. LEGGI TUTTO