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    Ascesa e declino di 23andMe

    Fino a qualche anno fa 23andMe era considerata una delle più promettenti e ricche aziende per i test genetici, nata con la promessa di offrire sistemi innovativi per prevedere l’insorgenza di particolari malattie. Oggi le sue condizioni sono talmente precarie da indurre chi ha cause legali con la società ad abbassare le proprie pretese di risarcimento pur di avere qualche soldo. È quello che è successo lo scorso settembre a un gruppo di clienti di 23andMe, che per risolvere una causa legata alla diffusione di dati personali – una vicenda risalente al 2023 e che aveva portato a grandi critiche nei confronti dell’azienda – alla fine ha chiesto 30 milioni di dollari, molto meno di quanto ipotizzato inizialmente, proprio nel timore che in tempi brevi la società possa essere venduta o non abbia più le risorse per pagare.La notizia è stata ampiamente ripresa sui giornali ed è vista come uno dei segni più tangibili della crisi di 23andMe. La società ha perso infatti buona parte del proprio valore in borsa, passando da circa 6 miliardi a meno di 150 milioni di dollari, e fatica a raccogliere nuovi clienti e contratti. Senza nuove idee, la sua cofondatrice Anne Wojcicki potrebbe non essere in grado di salvarla, dopo 20 anni di grandi promesse e risultati spesso deludenti.
    L’alternarsi di successi, enormi investimenti e grandi perdite, con licenziamenti di massa e le dimissioni di vari membri del consiglio di amministrazione, sono nella storia di molte aziende tecnologiche della Silicon Valley, ma nel caso di 23andMe sono ancora più peculiari perché interessano un settore in cui sono state riposte grandi speranze sia da parte degli investitori sia dei clienti. Le aziende che si occupano di salute hanno cercato di sfruttare più di altre le evoluzioni tecnologiche offerte da Internet per offrire servizi innovativi, ingrandirsi e raccogliere gigantesche quantità di dati, spesso sfruttando i vuoti legislativi lasciati da leggi ormai datate.
    23andMe esiste dal 2006, quando fu fondata da Wojcicki insieme a Linda Avey e a Paul Cusenza, che uscì quasi subito dall’iniziativa. Dopo essersi laureata in biologia alla Yale University, nel 1996 Wojcicki aveva iniziato a lavorare come consulente per alcuni fondi di investimento nel settore dell’assistenza sanitaria. Raccontò in seguito di non averne avuto una grande impressione: molte società avevano il solo scopo di produrre e offrire trattamenti medici molto costosi per ottenere il massimo dei rimborsi dalle assicurazioni sanitarie, che gestiscono buona parte dell’accessibilità alle cure negli Stati Uniti. 23andMe nasceva quindi con l’idea di scardinare alcuni di quei modelli di gestione dell’assistenza sanitaria, puntando su metodi innovativi per l’analisi dei dati per la salute. Una conoscenza fortuita favorì il piano.
    In quegli anni Wojcicki aveva conosciuto Sergey Brin e Larry Page, i due cofondatori di Google che avevano preso in affitto il garage di Susan Wojcicki come loro prima sede della startup che stava sviluppando il motore di ricerca. Susan era sorella di Anne e avrebbe poi avuto un ruolo nell’azienda, diventandone una delle più importanti dirigenti e la responsabile di YouTube.
    Tra Brin e Anne Wojcicki era iniziata una relazione e quest’ultima aveva scoperto che Avey stava pensando a sistemi innovativi per offrire a tutti test genetici come sistema di prevenzione per alcune malattie. Wojcicki era interessata all’idea e disse ad Avey che avrebbero potuto collaborare per mettere in piedi una startup. Avey accettò, pensando che Wojcicki fosse il collegamento ideale con Brin e quindi con Google per avere risorse e visibilità.
    Fu in effetti Brin a investire i primi milioni di dollari in 23andMe, a facilitare la ricerca di altri investitori e a valutare l’assunzione di alcuni dipendenti. La scelta del nome derivava dalle 23 paia di cromosomi presenti nel nucleo delle cellule dell’organismo umano in cui è raccolto il materiale genetico di ogni persona. Nel 2007, poche settimane dopo il matrimonio tra Brin e Wojcicki, Google annunciò un importante investimento nella società, che divenne molto discussa e guardata con interesse da altri fondi di investimento.
    L’idea alla base dei servizi di 23andMe era semplice e al tempo stesso ambiziosa. Attraverso il sito dell’azienda si acquista un kit per l’esame del DNA che viene spedito a casa, il cliente sputa in una provetta e la manda a 23andMe che ne analizza il contenuto. Sulla base delle informazioni genetiche raccolte dalla saliva, la società mostra poi al proprio cliente quello che ha scoperto, dalla presenza di geni che indicano il maggior rischio di ammalarsi di qualcosa a una sorta di albero genealogico che mostra la propria discendenza su base geografica.

    Grazie alla grande visibilità data dal coinvolgimento di Google, migliaia di persone inviarono i loro sputi a 23andMe, ricevendo in cambio informazioni genetiche di ogni tipo come la predisposizione a soffrire di calvizie o di obesità e informazioni più particolari come le cause genetiche della consistenza del proprio cerume. Wojcicki si fece notare anche per l’organizzazione di feste in cui ospiti come il miliardario Rupert Murdoch o il produttore cinematografico Harvey Weinstein venivano invitati a sputare nelle provette per sottoporsi ai test.
    Anche grazie a questi eventi 23andMe era riuscita a far parlare di sé, ma il prezzo di 399 dollari per ogni kit era comunque troppo alto per rendere di massa i test genetici. Nel 2009 Wojcicki pensò che uno degli ostacoli alla crescita dell’azienda fosse Avey, che da genetista aveva un approccio più cauto e conservativo nella promozione di ciò che effettivamente si poteva ottenere con un test. Nella maggior parte dei casi, avere uno o più geni riconducibili a una malattia non significa che prima o poi si svilupperà quella malattia: altre variabili genetiche, stili di vita e fattori ambientali hanno un ruolo altrettanto importante. Nei propri “Termini e condizioni” 23andMe chiariva questi aspetti, che però non trasparivano molto dalla comunicazione sulla possibilità di avere grafici e stime sulla presenza di geni noti per essere associati a certe malattie.
    Wojcicki ottenne che Avey venisse estromessa dalla società, diventandone in questo modo l’unica figura di spicco. Le conoscenze maturate in quel periodo le permisero di entrare in contatto con il miliardario Yuri Milner che fece un grande investimento in 23andMe, tale da permettere all’azienda di vendere i test del DNA a 99 dollari.
    La forte riduzione del prezzo e una prima campagna pubblicitaria in tutti gli Stati Uniti attirarono l’attenzione della Food and Drug Administration (FDA), l’agenzia statunitense che si occupa tra le altre cose di farmaci e test diagnostici. La versione del test per scopi sanitari non aveva le autorizzazioni necessarie per essere venduta e la FDA ne bloccò le vendite, riducendo le possibilità di espansione della società.
    Furono necessari circa due anni prima che 23andMe producesse tutta la documentazione necessaria per ricevere un’autorizzazione da parte della FDA. L’operazione richiese milioni di dollari, ma infine rese possibile la vendita dei kit senza particolari limitazioni e in pochi anni i clienti diventarono circa otto milioni.
    Wojcicki puntò molto sulla promozione della parte legata ai test per la discendenza, venduti come uno strumento per scoprire da quali aree geografiche provenissero i propri avi, anche se queste ricostruzioni sono soggette a numerosi errori e approssimazioni. Questo ambito offriva qualche sicurezza in più rispetto a quello dei geni e delle malattie, sul quale comunque l’azienda continuava a fornire servizi e a effettuare ricerche.
    Sergey Brin e Anne Wojcicki a un evento di 23andMe a New York nel 2008, la coppia ha divorziato nel 2015 (Donald Bowers/Getty Images for The Weinstein Company)
    Questa strategia commerciale permise a 23andMe di superare alcune difficoltà economiche sorte negli anni in cui non poteva vendere i propri kit per via delle limitazioni imposte dall’FDA, ma segnalò anche la spregiudicatezza di Wojcicki nel gestire una società che ha a che fare con la salute. La FDA impose a 23andMe di non fornire informazioni sulla presenza di varianti genetiche che potrebbero far aumentare il rischio di ammalarsi di alcuni tipi di cancro, così come di non fornire informazioni su quali farmaci potrebbero funzionare meglio in base ai profili genetici.
    23andMe stava comunque raccogliendo un’enorme mole di dati sulle caratteristiche genetiche di milioni di persone e Wojcicki pensò di sfruttarle in altro modo, offrendo servizi per analisi di massa alle aziende farmaceutiche. Nel 2018 fu stretto un accordo con GSK per l’utilizzo in esclusiva dei dati per cinque anni, ma trovare altre società interessate a collaborare con 23andMe si rivelò più difficile del previsto. GSK nel 2023 ha esteso la propria collaborazione per un anno, attraverso un contratto aggiuntivo da 20 milioni di dollari, ma ultimamente 23andMe non ha più annunciato nuovi accordi con altre aziende.
    I clienti che hanno inviato i loro sputi alla società possono scegliere se metterli a disposizione per attività di ricerca o mantenerli privati, ma 23andMe è stata criticata spesso per il modo in cui gestisce i dati degli utenti. In particolare sono emersi problemi di sicurezza, divenuti evidenti nel 2023 con il furto dei dati di sette milioni di persone, circa la metà degli utenti dell’azienda. E proprio da quella violazione dei dati sarebbe poi partita l’iniziativa legale per la quale c’è ora la proposta di una risoluzione con un risarcimento da 30 milioni di dollari.
    Appena due anni prima della perdita dei dati, 23andMe si era quotata in borsa, approfittando di un periodo in cui c’era un grande interesse per le società che promettevano di aumentare il proprio valore grazie a offerte pubbliche di acquisto miliardarie. Nel febbraio del 2021 il prezzo di una singola azione raggiunse i 321 dollari, ma a partire dal 2022 23andMe iniziò un rapido declino in borsa perdendo buona parte del proprio valore. Oggi un’azione vale poco meno di 5 dollari e anche per questo ci sono forti dubbi sulla capacità dell’azienda di rilanciare le proprie attività.
    L’andamento delle azioni di 23andMe da quando è in borsa (Google)
    Secondo gli analisti il rapido declino di 23andMe in borsa è dipeso sia dallo sgonfiarsi della bolla legata ai servizi per la salute nella Silicon Valley, sia da alcune scelte commerciali poco efficaci dell’azienda. La divisione dedicata alla ricerca di nuove terapie non ha mai portato a risultati soddisfacenti, anche a causa dello scarso coinvolgimento delle grandi aziende farmaceutiche. Nel 2022 23andMe aveva assunto 150 persone per provvedere allo sviluppo di nuovi farmaci, ma l’investimento si è rivelato troppo oneroso, tanto da portare in breve tempo al licenziamento di circa metà delle persone coinvolte in quelle attività.
    Un altro punto debole di 23andMe è stato a lungo il modello basato sul singolo acquisto di un kit, che espone l’azienda alle oscillazioni della domanda, che è sensibilmente diminuita negli ultimi anni. Per provare a superare questa impostazione l’azienda offre da qualche tempo 23andMe+, un servizio in abbonamento per ricevere periodicamente rapporti personalizzati sulla propria salute, consigli per vivere meglio e dettagli su non meglio specificate future scoperte. La sottoscrizione dell’abbonamento ha un costo iniziale di 229 dollari e c’è poi una spesa annuale di 69 dollari.
    23andMe+ ha raccolto poche centinaia di migliaia di adesioni, senza diventare determinante per la società. Nel 2021 23andMe aveva previsto 2,9 milioni di abbonamenti entro la fine di marzo 2024, ma ha chiuso il 2023 con 640 mila abbonati scesi a 562mila nei primi mesi di quest’anno.
    A novembre del 2023 23andMe ha poi presentato Total Health, un nuovo piano in abbonamento che costa quasi 1.200 dollari all’anno e che promette di offrire test genetici più approfonditi, oltre a una serie di servizi per effettuare esami di laboratorio e ricevere consulenze mediche. Il piano non è al momento coperto dalle assicurazioni ed è quindi completamente a carico dei singoli clienti, che al momento non sembrano essere interessati. Il punto di ingresso per la maggior parte di loro è del resto il test nella sua versione classica ed economica, che offre però informazioni generiche e spesso deludenti, di conseguenza non incentiva molto il passaggio alle versioni più costose.
    Tra le altre cose, Total Health viene promosso come un sistema per invecchiare meglio e più lentamente (23andMe)
    Gli abbonamenti e i nuovi servizi per ora non sono stati sufficienti per rinvigorire gli affari di 23andMe, che da quando è stata fondata non ha mai prodotto utili e che lo scorso anno ha licenziato circa un quarto dei propri dipendenti, proprio per ridurre le spese. Le condizioni precarie dell’azienda hanno spinto Wojcicki a proporre di togliere dal mercato azionario l’azienda, ma l’offerta di acquisto per azione – circa 0,40 dollari rispetto ai 10 di quando fu quotata – non solo non ha convinto gli investitori, ma ha anche portato alle dimissioni dell’intero consiglio di amministrazione. I suoi componenti hanno accusato Wojcicki di non avere presentato una proposta credibile e si sono lamentati di non potere fare nulla, visto che Wojcicki ha la quantità di azioni necessaria per vincolare ogni decisione al proprio voto nel consiglio.
    Alla fine della scorsa settimana 23andMe ha proposto di ridurre il numero di azioni in possesso dei suoi investitori, in modo da fare aumentare il valore di ogni singola azione. È una procedura che viene talvolta seguita dalle aziende in difficoltà e che rischiano di uscire da alcuni listini azionari, in questo caso lo statunitense NASDAQ. In mancanza di una ripresa significativa del valore azionario, 23andMe potrebbe essere esclusa dal listino a novembre.
    Nel frattempo Wojcicki ha iniziato a fare proposte ad alcuni fondi di investimento, annunciando l’intenzione della società di potenziare il modello di condivisione dei dati raccolti dai propri utenti con aziende del settore farmaceutico e delle biotecnologie. Non è però chiaro se possa esserci un effettivo interesse per quei dati, considerato che negli ultimi anni sono diventati disponibili a prezzi più accessibili registri con l’intero genoma, cioè tutto il DNA che si trova all’interno di una cellula, rispetto a dati più frammentari come quelli raccolti da 23andMe.
    Le notizie poco incoraggianti sull’andamento della società hanno inoltre avuto un effetto negativo sulle vendite dei kit e degli altri servizi, più che altro per una ridotta fiducia nei sistemi di gestione dei dati dell’azienda. La diffidenza deriva dall’incertezza sulla gestione dei dati nel caso di fallimento o vendita della società, considerato che contengono informazioni sensibili e legate alla salute dei clienti. La società dice che continuerà a mantenere la propria politica per cui i dati possono essere condivisi solo con un consenso dei diretti interessati, e che questa regola sarà mantenuta anche nel caso di una vendita, ma il trasferimento dei dati in sé verso la società acquirente sarebbe comunque un cambiamento a cui pochi clienti avrebbero pensato mentre sputavano in un’innocente provetta quasi vent’anni fa. LEGGI TUTTO

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    Il cromosoma Y sta scomparendo?

    Per quanto piccolo e diverso dagli altri, il cromosoma Y è fondamentale nella determinazione del sesso degli esseri umani, di molti altri mammiferi e perfino di alcuni insetti. Quando è presente, alcuni suoi geni determinano lo sviluppo del sesso maschile (XY) rispetto a quello femminile (XX), ma nonostante il ruolo centrale per la nostra esistenza sappiamo ancora relativamente poco di questo particolare cromosoma. A dirla tutta, non sappiamo nemmeno se continuerà a farci compagnia per sempre: secondo alcune ipotesi molto dibattute, il cromosoma Y si starebbe impoverendo sempre di più e prima o poi potrebbe sparire, portando a profondi cambiamenti nella riproduzione della nostra specie.Un passo indietro, cosa sono i cromosomiUn cromosoma è formato da un’intera catena di DNA e da un gruppo di proteine che lo rendono stabile. Questa catena è costituita da tanti pezzetti (sequenze) che delimitano i geni contenenti le istruzioni per produrre le proteine, che a loro volta insieme alle molecole formano le cellule e i tessuti degli organi. Gli individui sono quasi tutti diversi in buona parte per via dei cambiamenti che si verificano nel loro codice genetico, spesso a causa di mutazioni dovute a errori casuali di trascrizione del DNA quando questo viene ereditato dalle nuove cellule.
    Tendiamo a immaginare i cromosomi come piccole capsule che contengono al loro interno il DNA, ma in realtà un cromosoma passa buona parte della propria esistenza nel nucleo in una forma piuttosto disordinata che ricorda quella di un piatto di spaghetti. Solo quando avviene la riproduzione cellulare i cromosomi si organizzano in piccole matasse, in modo da avere una struttura più resistente e adatta per la loro duplicazione.
    Rappresentazione schematica dei cromosomi nel nucleo di una cellula, a sinistra, e disposizione dei cromosomi a coppie (“cariotipo”) durante la riproduzione cellulare, a destra (Zanichelli, Wikimedia)
    Il genoma umano, cioè l’intero insieme di geni che determinano come è fatto ciascuno di noi, è raccolto in 23 paia di cromosomi: queste sono presenti in praticamente tutte le cellule dell’organismo, che contengono quindi ognuna una copia di tutto il materiale genetico. Naturalmente ogni cellula utilizza solo la parte necessaria a svolgere le proprie funzioni, quindi per esempio una cellula del fegato utilizzerà i geni che riguardano quell’organo, mentre “spegnerà” tutti gli altri geni di cui non ha bisogno.
    Varianti e mutazioniOgni coppia di cromosomi è formata da un cromosoma proveniente dalla femmina e da uno proveniente dal maschio. Due organismi non imparentati della stessa specie hanno cromosomi pressoché identici, ma se li si analizza con maggiore attenzione a livello genetico si possono notare piccole varianti in alcune sequenze del loro DNA. Queste mutazioni nel codice possono fare una grande differenza in come appare e funziona un organismo rispetto a un altro. Alcune differenze sono più evidenti, come il colore degli occhi o dei capelli, altre sono nascoste e possono riguardare il rischio di essere più esposti a certe malattie.
    Le mutazioni sono il frutto di cambiamenti o errori di trascrizione avvenuti tantissimo tempo fa e trasmesse di generazione in generazione: possono essere comuni a un’intera popolazione, oppure uniche e specifiche per ogni individuo. Si possono essere verificate negli spermatozoi o nelle cellule uovo, che si sono poi fuse insieme per portare a un nuovo organismo, oppure possono essere avvenute nelle prime fasi dello sviluppo. In un modo o nell’altro, queste mutazioni diventano parte integrante del materiale genetico di un individuo e saranno presenti in tutte le cellule, costituendo in alcuni casi nuove informazioni genetiche che faranno funzionare in un modo lievemente diverso alcuni tipi di cellule.
    X e YNei mammiferi placentati (cioè dotati di una placenta che consente all’embrione di nutrirsi e respirare nella sua fase di sviluppo) e in alcuni altri animali ci sono due cromosomi che si distinguono dagli altri: X e Y. Sono cromosomi sessuali (“eterosomi”) e, come suggerisce il nome, sono responsabili della determinazione del sesso di un individuo (si distinguono quindi da tutti gli altri cromosomi che sono detti “autosomi”). Mentre le coppie normali di cromosomi contengono gli stessi geni, gli eterosomi contengono ciascuno geni specifici che determinano i caratteri legati al sesso.
    Capire che esistessero cromosomi sessuali non fu semplice. Il primo ad accorgersi del caso particolare del cromosoma X fu il biologo cellulare tedesco Hermann Henking, che nel 1891 si era accorto del particolare comportamento in un insetto di un cromosoma che non prendeva parte a un processo di divisione cellulare (meiosi). Non essendo sicuro di che cosa avesse osservato, Henking lo aveva chiamato “elemento X” e solo in seguito divenne chiaro che si trattava effettivamente di un cromosoma, che conservò quindi quel nome: X.
    Da quell’incognita si sarebbe generato uno dei più grandi fraintendimenti della genetica. La maggior parte delle persone è infatti convinta che il cromosoma X sia chiamato così per via della sua somiglianza alla lettera X, ma in realtà come abbiamo visto i cromosomi appaiono informi nel nucleo e si organizzano solamente al momento della riproduzione cellulare.
    All’inizio del Novecento fu proposto per la prima volta che il cromosoma X fosse coinvolto nella determinazione del sesso, ma con la scorretta ipotesi che determinasse il sesso maschile. Le cose cambiarono nel 1905 quando la genetista statunitense Nettie Stevens identificò il cromosoma Y. Sapendo che i cromosomi funzionano in coppia, ipotizzo che Y fosse il compagno di X, scoperto quattordici anni prima. Per questo motivo decise di chiamarlo Y, semplicemente perché nell’ordine alfabetico veniva dopo X, e non per via della sua forma che solo con molta fantasia ricorda quella della lettera.
    La scoperta del cromosoma Y smontò l’ipotesi che fosse il cromosoma X a determinare il sesso maschile. La conferma arrivò con gli studi del biologo statunitense Theophilus Painter, che all’inizio degli anni Venti del secolo scorso dimostrò che sono i cromosomi X e Y a determinare il sesso, in base alla presenza o meno di Y.
    RiproduzioneNegli spermatozoi e nelle cellule uovo non ci sono coppie di cromosomi come nella maggior parte delle altre cellule, ma una sola copia di ogni cromosoma. In questo modo, dalla loro unione nel processo di fecondazione si ottengono cellule che contengono una copia di cromosomi provenienti dalla femmina e una copia dal maschio. Dalla prima si avrà sempre un cromosoma X, mentre dal secondo ci sarà la stessa probabilità di avere un cromosoma X o Y. È quindi il maschio a determinare il sesso, ma come ciò avvenga di preciso rimase un mistero per molti anni.
    (Zanichelli)
    Le risposte arrivarono nel 1990 quando fu identificato per la prima volta il gene SRY (dalle iniziali di “sex region on the Y”), che innesca i meccanismi che portano allo sviluppo maschile nell’embrione. A 12 settimane circa dal concepimento, SRY interviene sul funzionamento di altri geni che regolano lo sviluppo delle cellule che costituiranno poi i testicoli. La loro presenza induce la produzione degli ormoni maschili (come il testosterone), che nel corso della gravidanza condizioneranno lo sviluppo degli altri tratti maschili.
    Quella scoperta fu molto importante per capire i meccanismi di differenziazione, ma portò anche a un’altra constatazione: il cromosoma Y contiene pochissime altre informazioni, se confrontato con il suo compagno X. Si stima che il cromosoma X contenga infatti un migliaio di geni che fanno un sacco di cose, non solo legate al sesso, mentre invece il cromosoma Y contiene circa 55 geni e molto altro materiale genetico che allo stato delle attuali conoscenze non fa praticamente nulla. E questo ha diverse implicazioni.
    La più evidente è che i maschi fanno ampiamente affidamento sul cromosoma X proveniente dalla femmina per lo sviluppo di alcune funzionalità, semplicemente perché quelle istruzioni non sono disponibili anche sul cromosoma Y. Non è una cosa da poco: significa che per alcune funzionalità non ci sono alternative e questo spiega perché certe condizioni genetiche riguardano quasi esclusivamente gli individui di sesso maschile. Negli individui di sesso femminile la presenza di due cromosomi X fa sì che ci sia un’alternativa, o meglio, che ogni cellula utilizzi le istruzioni provenienti dalla femmina o dal maschio, disattivando le altre.
    Un’altra conseguenza piuttosto evidente è che un solo cromosoma X è sufficiente per avere le istruzioni necessarie per lo sviluppo di alcune caratteristiche e funzioni dell’organismo. E proprio partendo da questa constatazione alcuni anni fa la genetista australiana Jenny Graves iniziò a chiedersi come mai il cromosoma Y fosse fatto in quel modo e in sostanza fosse più povero del suo compagno X.
    La scomparsa di YStudiando la grande varietà di modi in cui viene determinato il sesso tra le specie del regno animale, Graves ipotizzò che fino a qualche tempo fa X e Y non avessero particolari differenze, se consideriamo una scala del tempo molto ampia come quella dei processi evolutivi. Dal confronto con altre specie, Graves calcolò che il cromosoma Y avesse perso centinaia di geni rimanendo con 55 nel corso di 166 milioni di anni, quindi al ritmo di circa cinque geni ogni milione di anni. Mantenendo quella cadenza, ipotizzò che entro 11 milioni di anni il cromosoma Y avrebbe perso anche i restanti 55 geni diventando del tutto inutile, anche nei meccanismi di determinazione del sesso.
    Graves pubblicò il proprio studio sulla rivista scientifica Nature nel 2002 e tornò sull’argomento, con nuove ricerche e analisi, negli anni seguenti suscitando grande clamore e aprendo un dibattito molto agguerrito tra chi studia i cromosomi. Il confronto si fece in più occasioni acceso, con conferenze in cui Graves difendeva la propria ipotesi della scomparsa del cromosoma Y da chi invece provava a confutare le sue teorie. Fu per esempio segnalato che non si poteva immaginare una degradazione lineare nel tempo del cromosoma Y, la cui perdita di geni era magari avvenuta in modi più netti nel corso dell’evoluzione per poi interrompersi.
    Il dibattito scientifico è ancora oggi aperto perché non si è raggiunto un consenso sulla base dei dati e degli studi disponibili, ma c’è comunque una certa tendenza verso un’ipotesi più tranquillizzante per gli affezionati al cromosoma Y. È basata su uno studio pubblicato nel 2014, sempre su Nature, che segnala come il cromosoma si sia stabilizzato insieme al resto del corredo genetico degli esseri umani. Nei 25 milioni di anni da quando è iniziata la differenziazione dalle altre scimmie, la nostra specie ha di fatto perso pochissimi geni. Non ci sarebbero quindi elementi per ritenere che il cromosoma Y continui a perdere pezzi e a rimpicciolirsi fino a diventare completamente irrilevante.
    Graves e altri genetisti non sono però completamente convinti, anche perché esistono già oggi alcune specie di mammiferi che hanno perso il cromosoma Y e continuano comunque a esistere. Studiando i roditori appartenenti alla specie Tokudaia osimensis, per esempio, un gruppo di ricerca ha scoperto che buona parte dei geni un tempo su Y è diventata disponibile su altri cromosomi di questi animali, ma non ha invece trovato tracce del gene SRY che innesca la differenziazione sessuale nell’embrione, né geni che svolgano la medesima funzione.
    In uno studio pubblicato su PNAS nell’autunno del 2022, il gruppo di ricerca ha in compenso segnalato di avere trovato alcune sequenze genetiche presenti solamente nel genoma dei maschi e non delle femmine di quei roditori. Analizzandole hanno scoperto che probabilmente quelle minime differenze intervengono sul gene SOX9 (che non si trova nei cromosomi sessuali), che ha un ruolo fondamentale nella determinazione dei maschi nei vertebrati e che viene solitamente attivato dopo l’intervento di SRY. In altre parole: in alcune specie prive del cromosoma Y potrebbe esserci un meccanismo alternativo per portare alla differenziazione sessuale.
    L’eventuale scomparsa del cromosoma Y negli esseri umani potrebbe quindi essere accompagnata da altri cambiamenti, tali da offrire un sistema alternativo per la determinazione del sesso. Potrebbero però esserci conseguenze, per esempio legate all’evolversi di più sistemi in diverse parti del mondo. In milioni di anni questa circostanza potrebbe portare alla comparsa di nuove specie di esseri umani, come del resto è avvenuto in quei gruppi di roditori. È una prospettiva affascinante, ma nel campo dell’evoluzione con le sue innumerevoli variabili è davvero difficile fare previsioni.
    Vie alternativeLa recente mappatura completa delle informazioni genetiche contenute nel cromosoma Y potrebbe offrire nuovi spunti, ma questa storia ci ricorda soprattutto che in natura ci sono modi molto diversi tra loro per la determinazione del sesso. Il risultato è quasi sempre lo stesso, cioè una distribuzione relativamente omogenea di maschi e femmine, ma il modo per arrivarci può essere spesso creativo e al di là della più fervida immaginazione di qualche autore di romanzi fantasy o distopici.
    La determinazione del sesso nei rettili e negli uccelli è su base genetica come la nostra, ma è la femmina e non il maschio a essere determinante. Una coppia di cromosomi Z porta a un maschio, di conseguenza le cellule sessuali dei maschi possono dare solo un cromosoma Z (come abbiamo visto, nelle cellule sessuali i cromosomi non sono in coppia), mentre le femmine sono ZW e quindi possono dare o un cromosoma Z o uno W. Anche in questo caso c’è una probabilità del 50 per cento che il nuovo individuo sia maschio o femmina, proprio come nei mammiferi.
    In alcune specie di insetti come api e formiche le cose funzionano diversamente. La riproduzione spetta a un’unica femmina, la regina, che può decidere se usare o meno lo sperma prodotto dal gruppo di maschi fertili che le fanno compagnia. Se lo utilizza produce uova dalle quali nascono solo femmine, se non lo utilizza depone uova dalle quali nasceranno solamente maschi. Questo significa che i maschi di formica derivano solo da una femmina, la regina, e mai da un maschio: il loro intero corredo genetico deriva da un unico genitore. Per un sistema complesso che si basa sull’attività di migliaia di individui, come un formicaio o un alveare, è un importante vantaggio perché dà alla regina la possibilità di espandere il più possibile la colonia con nuova prole che lavorerà per cercare cibo, conservarlo, estendere il nido e curarsi dei nuovi nati.
    Due individui di pesci pagliaccio (AP Photo/Sam McNeil)
    Ci sono poi individui di alcune specie che possono produrre sia cellule sessuali maschili sia femminili, di conseguenza possono riprodursi per conto proprio (ermafroditismo). In alcune specie questa capacità si presenta simultaneamente e prevede quindi la presenza contemporanea di organi (gonadi) maschili e femminili; in altre specie l’ermafroditismo è invece sequenziale, cioè l’individuo è per una fase della propria vita di un sesso e poi di un altro. Nel caso di particolari condizioni genetiche, ci possono essere casi di ermafrotidismo in moltissime specie, compresa la nostra.
    I cosiddetti pesci pagliaccio, resi famosi dal film Pixar Alla ricerca di Nemo, alla nascita sono tutti maschi, poi man mano che crescono e maturano diventano femmine. Fanno una vita particolare in gruppi molto gerarchici dove comandano solamente un maschio e una femmina, gli unici che si riproducono. Se muore la femmina dominante, il maschio dominante cambia sesso e diventa la nuova femmina dominante, mentre un nuovo maschio prende il suo posto.
    Tra gli animali ci sono anche quelli che fanno completamente a meno della genetica per la determinazione del sesso. In varie specie di tartarughe e alligatori, per esempio, il sesso non è ancora determinato al momento della posa delle uova e solo in un secondo momento avviene la differenziazione in base alla temperatura intorno al nido. Sopra una certa temperatura si ottiene un maschio, mentre al di sotto di quel limite una femmina. Un’ipotesi è che in questo modo nascano individui di sesso diverso in diversi periodi dell’anno, in modo da favorire la resistenza a particolari condizioni climatiche, ma non tutti sono convinti e la determinazione del sesso in base alla temperatura è tra le più studiate, anche per comprendere eventuali effetti sulle specie dovuti all’aumento della temperatura media globale come conseguenza del riscaldamento globale. LEGGI TUTTO

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    Una femmina di coccodrillo si è riprodotta da sola

    Una femmina di coccodrillo in uno zoo del Costa Rica si è riprodotta da sola, in un raro caso di partenogenesi in questa specie. Nel gennaio del 2018 l’animale aveva deposto 14 uova, nonostante fosse vissuto in isolamento per 16 anni senza avere contatti con altri simili. Sorpresi dalla circostanza, i responsabili dello zoo avevano selezionato sette uova e le avevano messe all’interno di una incubatrice. Dopo tre mesi le uova non si erano ancora schiuse e si era quindi deciso di analizzarle, scoprendo che all’interno di una c’era il feto di un coccodrillo completamente formato, ma non vitale. Servivano però ulteriori analisi per confermare che la femmina di coccodrillo si fosse riprodotta autonomamente.Come racconta uno studio sulla vicenda pubblicato sulla rivista scientifica Biology Letters, i test del DNA avevano rivelato che la madre e il feto erano sostanzialmente identici dal punto di vista del materiale genetico, fatta eccezione per le estremità dei cromosomi del feto. Possiamo immaginare i cromosomi come matasse a forma di X (fatta eccezione del cromosoma Y) per la trasmissione delle informazioni genetiche.Le differenze riscontrate con le analisi suggerivano che la cellula uovo prodotta dalla madre non si fosse unita con uno spermatozoo, come avviene normalmente nella fecondazione, ma con un “globulo polare”, una delle piccole sacche cellulari che si formano insieme alla cellula uovo vera e propria contenenti cromosomi molto simili a quelli materni. Di solito i globuli polari diventano materiale di scarto e non sono coinvolti direttamente nella riproduzione, ma in alcuni casi si possono fondere con la cellula uovo, completando il materiale genetico in assenza di uno spermatozoo e portando quindi alla partenogenesi.Il fenomeno è abbastanza comune in varie specie di uccelli, pesci, serpenti e lucertole, mentre non era mai stato osservato tra i Crocodylia, l’ordine di rettili che comprende i coccodrilli, gli alligatori e i caimani, per citarne alcuni. La femmina di coccodrillo nel Costa Rica era stata portata al Parque Reptilandia, un parco per i rettili, quando aveva due anni, nel 2002, e da allora non aveva avuto contatti con propri simili. Questa circostanza esclude la possibilità di un concepimento ritardato, dove uno o più spermatozoi riescono a sopravvivere a lungo (sono stati osservati casi di anni) nell’apparato riproduttivo della femmina prima di fecondare una cellula uovo.Non è ancora chiaro come mai alcuni animali riescano a riprodursi per partenogenesi. Un’ipotesi è che questa capacità possa rivelarsi utile nei periodi di prolungata assenza di maschi disponibili per la riproduzione, in modo da garantire comunque il proseguimento della specie. Una teoria simile contempla la possibilità che la partenogenesi avvenga con più probabilità nelle specie a rischio di estinzione. Altri ipotizzano che si tratti semplicemente di un fenomeno del tutto casuale e che non abbia una grande utilità per buona parte delle specie viventi odierne. Se la partenogenesi fosse molto comune, la varietà genetica degli esemplari sarebbe molto più bassa e indebolirebbe le specie.La maggiore disponibilità di sistemi per le analisi genetiche ha comunque reso evidente negli ultimi anni una quantità di partenogenesi superiore alle aspettative, come dimostra anche il caso della femmina di coccodrillo nel Costa Rica. La sua storia potrebbe aggiungere qualche elemento affascinante sui lontani parenti degli odierni coccodrilli come i dinosauri e gli pterosauri, che si sospetta da tempo avessero la capacità di riprodursi da soli in determinate circostanze. I fossili non permettono di recuperare il materiale genetico di quegli animali, quindi forse non sapremo mai se la partenogenesi fosse effettivamente comune tra alcune delle loro specie. LEGGI TUTTO