More stories

  • in

    Dove finisce la chimica?

    Caricamento playerAlla fine del 2015 l’Unione internazionale di chimica pura e applicata (IUPAC) introdusse un importante aggiornamento della tavola periodica degli elementi, lo schema che mostra gli elementi chimici in base alle loro principali caratteristiche. I responsabili della IUPAC aggiunsero nihonio, moscovio, tennesso e oganesson, completando per la prima volta la settima riga (“periodo”) della tavola. Erano quattro nuovi elementi “superpesanti” scoperti e sintetizzati negli anni precedenti da laboratori alla ricerca della risposta a una delle domande più affascinanti e sfuggenti di sempre, con grandi implicazioni sulla nostra capacità di comprendere come funziona praticamente tutto: dove finisce la chimica?
    Negli anni se lo sono chiesto in molti, ma già oltre un secolo e mezzo fa la questione aveva probabilmente incuriosito Dmitrij Ivanovič Mendeleev, il chimico russo che trovò il modo di ordinare ossigeno, carbonio, ferro e tutti gli altri elementi scoperti – e ancora da scoprire – in una tabella per poterli classificare. Una prima versione del suo schema fu presentata nei primi mesi del 1869, mettendo le basi per lo studio e la ricerca di elementi all’epoca ancora ignoti che avrebbero permesso di riempire le caselle mancanti. In alcuni casi fu necessario più di un secolo per riuscirci, mentre già si ipotizzava che ci potessero essere ancora altri elementi che avrebbero resa necessaria l’aggiunta di nuove caselle nella tavola di Mendeleev.
    Nella tavola periodica, quella che studiano ogni anno milioni di studenti delle scuole superiori, le righe si chiamano periodi e ciascuno ospita gli elementi in una sequenza basata sul loro numero atomico, che indica la quantità di protoni contenuti nel nucleo (la parte centrale e densa di un atomo, formata da protoni che possiedono carica positiva e neutroni, invece privi di carica).
    Ogni nuovo periodo inizia dopo un gas nobile e il primo elemento è sempre un metallo alcalino, con un numero atomico più grande di un’unità rispetto all’elemento con cui si era conclusa la riga precedente. Nei sette periodi della tavola, i metalli sono sulla sinistra e gli altri tipi di elementi sulla destra. Ne consegue che man mano che ci si sposta lungo una riga verso destra si trovano elementi via via più pesanti, con caratteristiche differenti da metallo a gas.
    (Wikimedia)
    Se si legge la tavola in verticale, le colonne (gruppi o famiglie) contengono elementi con caratteristiche chimiche simili. Hanno per esempio una stessa configurazione elettronica esterna, cioè elettroni che si comportano allo stesso modo attorno ai nuclei dei loro atomi. Esistono 18 gruppi e si va da quello dei metalli alcalini fino a quello dei gas nobili.
    Gli elementi con numero atomico da 1 a 118 occupano i sette periodi della tavola periodica, ma come abbiamo visto non è sempre stato così. Per lungo tempo la tavola ebbe alcuni buchi, dovuti alla difficoltà di trovare in natura gli elementi che ci si attendeva di avere tra una casella e un’altra, o alla difficoltà di sintetizzarli nel caso in cui fosse impossibile reperirli nell’ambiente. Per questo si dice spesso che i primi 94 elementi sono tutti “naturali”, mentre quelli da 95 a 118 vengono definiti talvolta “artificiali” o “sintetici”, anche se la distinzione e la definizione sono dibattute.
    In questa ultima categoria ricadono anche gli elementi superpesanti, a partire dal rutherfordio che ha numero atomico 104. La loro caratteristica principale è quella di essere piuttosto schivi, al punto da preferire quasi sempre di non esistere o di farlo per pochissimo tempo. I nuclei dei loro atomi tendono a perdere pezzi, o per meglio dire a decadere, in alcuni casi pochi istanti dopo la loro creazione. Per questo è così difficile crearli, studiarli e immaginare applicazioni in cui potrebbero essere utili, per lo meno allo stato attuale delle conoscenze.
    Le fabbriche degli elementi superpesanti sono relativamente poche perché richiedono particolari acceleratori di particelle: sofisticati strumenti che vengono utilizzati per far scontrare tra loro gli atomi in modo che si uniscano producendo un elemento più pesante. Tra i vari centri, il Lawrence Berkeley National Laboratory (LBNL) in California è probabilmente il più conosciuto, per lo meno per una delle tante dispute che hanno riguardato la storia della chimica. Tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio dei Settanta, il laboratorio confermò di avere sintetizzato per la prima volta il rutherfordio, anche se un altro laboratorio nell’Unione Sovietica, l’Istituto unito per la ricerca nucleare di Dubna (JINR), anni prima aveva segnalato la prima rivelazione del nuovo elemento.
    Parte dell’Electron Cyclotron Resonance presso il Lawrence Berkeley National Laboratory (Berkeley Lab)
    La disputa nacque intorno al nome da dare, visto che i ricercatori sovietici proponevano di chiamarlo dubnio come la città in cui era avvenuta la scoperta o kurchatovio in onore di Igor Kurchatov, tra i principali fautori del programma di ricerca nucleare sovietico. La controversia fu risolta solamente nel 1997, quando la IUPAC decise di adottare il nome rutherfordio, in onore di Ernest Rutherford, il fisico neozelandese considerato il padre della fisica nucleare.
    Ancora oggi l’LBNL negli Stati Uniti e il JINR in Russia sono i centri di riferimento per la ricerca dei nuovi elementi, insieme alla Società per la ricerca sugli ioni pesanti a Darmstadt in Germania. Dagli anni Ottanta in particolare, i tre centri si sarebbero fatti una serrata concorrenza nella ricerca e nella produzione di nuovi elementi. Nel corso del tempo alla competizione si sarebbero aggiunti altri laboratori, che ancora oggi studiano il mondo sfuggente degli elementi superpesanti con un obiettivo molto ambizioso: trovare nuovi elementi che siano stabili, al punto da durare anni se non secoli prima di decadere in modo significativo.
    Per produrre uno di questi elementi si parte da un fascio di ioni pesanti (solitamente nuclei di atomi privati dei loro elettroni) che viene orientato verso un bersaglio, cercando di vincere la forza di repulsione tra i nuclei (sono entrambi positivi) e di farli unire. A seconda dei laboratori e dei risultati che si vogliono ottenere si seguono vari approcci con strumentazioni ed elementi diversi. Si usano microonde e campi magnetici molto intensi per rimuovere gli elettroni dall’elemento di partenza (spesso si usa il calcio) e gli ioni ottenuti vengono poi fatti passare attraverso un acceleratore, in modo che raggiungano velocità pari al 5-20 per cento di quella della luce, che è di circa 300 milioni di metri al secondo.
    Raggiunta la velocità desiderata, il fascio di ioni viene indirizzato verso il bersaglio, costituito da un elemento diverso a seconda del numero atomico finale che si sta provando a ottenere. Per ottenerne uno pari a 114 si parte dal calcio che ha numero atomico 20 e si usa come bersaglio il plutonio che ha invece numero atomico 94. Fare centro è però molto difficile e per questo si utilizzano enormi quantità di ioni in modo da rendere più probabile una collisione. Quando si riesce a ottenere un nucleo superpesante, questo viene rallentato e guidato in altri strumenti per essere misurato: è il momento in cui si ha la conferma di avere ottenuto un risultato.

    La misurazione finale non è semplice, così come la possibilità di poter fare qualcosa prima del decadimento dell’elemento appena ottenuto. In breve tempo infatti questi nuclei atomici instabili si trasformano (o per meglio dire “trasmutano”) in nuclei di energia inferiore; il riferimento è il tempo di dimezzamento, cioè quanto ci mette la metà degli atomi di un campione radioattivo a decadere. Nel caso di diversi superelementi, per riuscire a sperimentare e studiare reazioni chimiche con altri elementi è necessario almeno un tempo di dimezzamento di mezzo secondo.
    La difficoltà nel produrli e in molti casi il poco tempo per fare esperimenti spiega come mai sappiamo ancora poche cose su molti elementi superpesanti, al punto da non essere certi della loro classificazione nella tavola periodica, o per meglio dire della possibilità di continuare a utilizzare la tabella come prima. L’oganesson (118) è nella posizione dei gas nobili, l’ultima colonna a destra, ma secondo alcuni gruppi di ricerca probabilmente non è un gas. Ipotizzano che sia un solido in condizioni standard e che diventi un liquido quando viene portato a 52 °C.
    Il particolare comportamento di questi metalli è dovuto al modo in cui si distribuiscono gli elettroni nei loro atomi e al modo in cui interagiscono, raggiungendo altissime velocità quasi prossime a quelle della luce. In queste condizioni si verificano effetti relativistici che hanno conseguenze più importanti rispetto a quelli che si verificano negli elementi più leggeri. Studiandoli i gruppi di ricerca hanno l’opportunità di capire meglio il funzionamento di alcuni fenomeni nella fisica dell’infinitamente piccolo, che potrebbero poi essere applicati in altri ambiti della ricerca sulla materia, le sue caratteristiche e il suo funzionamento.
    I più ottimisti pensano inoltre che procedendo con questi esperimenti si possa approdare un giorno all’”isola della stabilità“, un modo per definire il luogo dove idealmente si trovano versioni (isotopi) di elementi transuranici particolarmente stabili e che quindi decadono molto lentamente rispetto ai tempi finora osservati. In questo modo potrebbero diventare utilizzabili non solo per ricerche più approfondite, ma anche per lo sviluppo di qualcosa che oggi non riusciamo a immaginare come materiali con insolite proprietà.
    La ricerca di base funziona del resto in questo modo, come ha ammesso di recente a Scientific American Jacklyn Gates, responsabile del gruppo di ricerca sugli elementi pesanti a Berkeley: «Tutto ciò che facciamo ora… non ha applicazioni pratiche. Ma se pensi ai nostri telefoni cellulari e a tutte le tecnologie che ci sono finite dentro, beh quelle tecnologie risalgono fino all’età del bronzo. Le persone all’epoca non avevano certo idea che la loro scoperta sarebbe finita in questi dispositivi cui siamo sempre incollati e dai quali siamo fortemente dipendenti. Quindi gli elementi superpesanti possono essere utili? Forse non in questa generazione, ma magari tra una o due potremo disporre di migliori tecnologie che ci rendano le cose e la vita un poco più semplici». LEGGI TUTTO

  • in

    Il Nobel per la Chimica a Moungi G. Bawendi, Louis E. Brus e Alexei I. Ekimov

    Il Premio Nobel per la Chimica 2023 è stato assegnato a Moungi G. Bawendi, Louis E. Brus e Alexei I. Ekimov «per la scoperta e la produzione dei punti quantici». Il Nobel è uno dei premi più prestigiosi in ambito scientifico: quello per la Chimica viene assegnato dal 1901.I “punti quantici” (“quantum dots”) sono nanoparticelle così piccolissime che la loro stessa dimensione determina le loro proprietà. Questi componenti sono fondamentali in numerose applicazioni legate alle nanotecnologie, in oggetti che usiamo tutti i giorni come televisori e luci a LED.Nei primi anni Ottanta Brus ed Ekimov riuscirono a creare i primi punti quantici, particelle talmente piccole da avere caratteristiche strettamente legate agli effetti della meccanica quantistica. Una dozzina di anni dopo, Bawendi riuscì a trovare un sistema per produrre quantum dots ancora più efficienti, aprendo a grandi opportunità per il loro utilizzo nella vita di tutti i giorni.Se indaghiamo la materia nell’ordine dei milionesimi di millimetri si verificano infatti particolari fenomeni, chiamati effetti quantici, che sembrano contraddire ciò che intuitivamente sappiamo su tutto ciò che ci circonda e di cui in ultima istanza siamo fatti. Alla fine degli anni Trenta del Novecento le possibilità di questi fenomeni erano state già esplorate a livello teorico, con calcoli ed equazioni che consentivano di prevedere molti degli effetti quantici, ma passare dalla teoria alla pratica con gli strumenti dell’epoca non era semplice considerato che si dovevano creare strutture un milione di volte più piccole della punta di un ago.I primi risultati furono raggiunti negli anni Settanta con la produzione di alcune nanostrutture, che richiedevano però un ambiente con un vuoto pressoché totale e temperature vicine allo zero assoluto (0 K o -273,15 °C). Non sembravano quindi esserci grandi possibilità per delle applicazioni pratiche.Le cose cambiarono quando nell’Unione Sovietica di fine anni Settanta Alexei Ekimov iniziò a interessarsi a una particolare caratteristica ottica del vetro, cioè la sua capacità di assumere diverse colorazioni anche se viene prodotto con la stessa sostanza. Ciò dipende dal modo in cui viene scaldato e raffreddato nella fase di produzione: i colori derivano da come si formano le particelle al suo interno e in particolare dalle loro dimensioni. Ekimov condusse vari esperimenti verificando con analisi ai raggi X che effettivamente le dimensioni delle particelle nel vetro erano dovute alle modalità di produzione e che in alcuni vetri se ne potevano trovare di grandi appena due nanometri e in altri di 30 nanometri.A seconda delle dimensioni di queste particelle la luce veniva assorbita in modo diverso: più erano piccole più la luce virava verso il blu, perché lo spazio disponibile per gli elettroni intorno alle particelle diminuisce e ciò influisce sulle proprietà ottiche della particella. Ekimov si rese conto di essere davanti a un effetto quantico e di avere realizzato per la prima volta in modo consapevole dei punti quantici, cioè delle nanoparticelle che causano effetti quantici dipendenti dalle loro dimensioni.Quando le particelle hanno un diametro di solo alcuni nanometri, lo spazio disponibile per gli elettroni si restringe e questo influisce sulle proprietà ottiche della particella (Nobel Prize)Ekimov pubblicò i risultati delle proprie ricerche nel 1981 in Unione Sovietica, ma all’epoca le informazioni scientifiche circolavano con difficoltà anche nel blocco occidentale. Fu così che lo statunitense Louis Brus, completamente inconsapevole del lavoro di Ekimov, arrivò alle medesime conclusioni nel 1983 lavorando su alcune soluzioni in vista del loro utilizzo nella produzione di reazioni chimiche da produrre sfruttando l’energia solare. Come Ekimov, Brus si accorse che più piccole erano le particelle su cui lavorava, più la luce che assorbivano virava verso il blu.Non era una scoperta da poco, perché le proprietà ottiche di una sostanza dipendono dai suoi elettroni, che influiscono anche su altre proprietà come la capacità di condurre l’elettricità o di determinare la velocità di una reazione chimica. Il cambiamento nella capacità di assorbimento rendeva possibile la creazione di nuovi materiali, sfruttando una proprietà che si aggiungeva a quelle già note come il numero di elettroni.Il metodo sviluppato da Brus per produrre le nanoparticelle non funzionava però sempre a dovere e rendeva difficoltosa soprattutto la produzione di particelle tutte della stessa dimensione. Il problema fu risolto da Moungi Bawendi, che nel 1988 aveva iniziato il proprio dottorato al laboratorio di Brus trasferendosi poi al Massachusetts Institute of Technology (MIT). Nel 1993 insieme al proprio gruppo di ricerca Bawendi riuscì a produrre nanocristalli di una dimensione specifica partendo da una soluzione che veniva saturata con le sostanze necessarie per produrre gli stessi nanocristalli. Il metodo fu ulteriormente perfezionato e rese possibile una produzione molto semplice e rapida rispetto alle esperienze precedenti.Oggi i punti quantici sono presenti in molti prodotti, a cominciare dai sistemi di illuminazione. Se vengono illuminati con luce blu, assorbono quel colore e ne emettono altri: modificando le dimensioni delle particelle diventa quindi possibile determinare il colore che produrranno. Negli schermi QLED dei televisori è questa tecnologia a rendere i colori e la “Q” sta proprio per “quantum dots”. La stessa tecnologia viene impiegata in alcuni tipi di lampadine a LED per rendere più “calda” o “fredda” la luce. In ambito medico, le caratteristiche dei quantum dots legate alla luce sono sfruttate per esami diagnostici per esempio per mappare alcune attività cellulari. Nella chimica, sono invece impiegati per controllare particolari reazioni chimiche. In futuro il loro utilizzo sarà fondamentale per realizzare sensori elettronici sempre più piccoli e probabilmente per nuove generazioni di sistemi informatici. Tutto grazie a un’intuizione su un materiale che usiamo da millenni: il vetro.Moungi G. Bawendi è nato nel 1961 a Parigi, in Francia, ha conseguito un dottorato nel 1988 presso l’Università di Chicago (Stati Uniti) ed è docente al Massachusetts Institute of Technology (MIT).Louis E. Brus è nato nel 1943 a Cleveland (Stati Uniti) e ha conseguito il proprio dottorato nel 1969 alla Columbia University, dove è docente.Alexei I. Ekimov è nato nel 1945 nell’ex Unione Sovietica, ha conseguito il proprio dottorato nel 1974 a San Pietroburgo e in seguito si è trasferito negli Stati Uniti per proseguire le proprie attività di ricerca. LEGGI TUTTO