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    E se fossimo lo “zoo” di una specie aliena?

    Nel 1973, in un articolo intitolato L’ipotesi dello zoo, pubblicato sulla rivista di scienze planetarie Icarus, l’astrofisico della Harvard University John Allen Ball teorizzò che l’assenza di interazioni con forme di vita intelligente extraterrestre, ammesso che esistano, fosse spiegabile ipotizzando una loro volontà di rimanere nascoste. In pratica civiltà extraterrestri più evolute e antiche della nostra eviterebbero deliberatamente qualsiasi interazione, rendendo la parte dell’Universo in cui viviamo una sorta di area protetta. «L’ipotesi dello zoo prevede che non li troveremo mai perché non vogliono essere trovati, e hanno la capacità tecnologica di assicurarsene», scrisse Ball.L’ipotesi di Ball, che in seguito lavorò all’osservatorio Haystack del Massachusetts Institute of Technology fino alla pensione, nel 2006, è la stessa alla base di diverse storie di fantascienza, raccontate anche molto prima che lui la formulasse nel 1973. Ma per quanto bizzarra possa apparire, è una delle molte ipotesi di spiegazione del cosiddetto paradosso di Fermi: un dibattito in corso da oltre settant’anni sulla discrepanza tra le alte aspettative di vita intelligente extraterrestre e l’assenza di qualsiasi prova a sostegno. L’ipotesi dello zoo è stata recentemente ripresa in un articolo pubblicato sul numero di gennaio della rivista Nature Astronomy.
    Scritto dall’astrobiologo inglese Ian Andrew Crawford e dall’astrofisico tedesco Dirk Schulze-Makuch, l’articolo esamina alcuni dei più noti tentativi di spiegazione del paradosso di Fermi proposti nel corso degli anni. Suggerisce che le civiltà tecnologiche extraterrestri siano estremamente rare (o assenti) nella galassia, o esistano ma si nascondano da noi. E conclude che, considerando il nostro impegno nella continua esplorazione dello Spazio, potremmo essere in grado di escludere una delle due possibilità in un futuro non troppo lontano: qualche decennio.
    Crawford è un professore di scienze planetarie e astrobiologia alla Birkbeck University of London: si è occupato a lungo di esplorazioni lunari, ha lavorato con l’Agenzia Spaziale Europea (ESA) e nel 2023 ha ricevuto dalla NASA il premio “Michael J. Wargo”, assegnato a scienziati che si siano distinti per la ricerca nel campo dell’esplorazione spaziale. Schulze-Makuch è un professore del centro di astronomia e astrofisica dell’Università Tecnica di Berlino e professore a contratto del dipartimento di scienze della Terra e dell’ambiente della Washington State University ed è noto soprattutto per le sue pubblicazioni sulla vita extraterrestre, tra cui il libro del 2017 The cosmic zoo: complex life on many worlds.
    Il paradosso di Fermi prende il nome da un aneddoto secondo cui nel 1950 il famoso scienziato italiano Enrico Fermi, premio Nobel per la fisica nel 1938, a un certo punto disse «Dove sono tutti quanti?» in una conversazione sulla mancanza di prove di vita extraterrestre. Lo chiese mentre era a pranzo con altri scienziati durante una visita a Los Alamos (la città del New Mexico sede del centro di ricerca che aveva sviluppato la prima bomba atomica statunitense).

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    La domanda attribuita a Fermi, scrivono Crawford e Schulze-Makuch, può essere considerata un paradosso soltanto se si presuppone che esistano forme di vita extraterrestre tecnologicamente evolute: se non esistono, non c’è alcun paradosso. La possibilità che non esistano tende tuttavia a essere difficile da ammettere per moltissime persone: probabilmente, secondo Crawford e Schulze-Makuch, perché è vista come una violazione del principio copernicano secondo cui né la Terra né l’umanità sono in una posizione di privilegio nell’Universo. La recente scoperta di esopianeti potenzialmente abitabili in sistemi solari diversi dal nostro ha ulteriormente rafforzato una certa diffusa convinzione che possano esistere forme di vita su altri mondi.
    L’esopianeta Ross 128 b, in orbita attorno alla stella Ross 128 a circa 11 anni luce dal Sole, in una rappresentazione dell’Osservatorio europeo australe (M. Kornmesser/ESO via AP)
    Tra gli anni Settanta e Ottanta il dibattito sul paradosso di Fermi fu approfondito in particolare negli Stati Uniti dall’astrofisico Michael Hart e dal fisico e matematico Frank J. Tipler. La maggior parte dei tentativi di spiegare il paradosso, secondo Hart, rientra in tre grandi categorie: spiegazioni fisiche, temporali e sociologiche.
    Le spiegazioni fisiche suggeriscono che i viaggi interstellari siano impossibili, a causa delle distanze siderali e delle enormi quantità di energia eventualmente richiesta per raggiungere una velocità vicina a quella della luce (quasi 300mila km al secondo). Ma per quanto difficile sul piano ingegneristico, scrisse Hart, compiere viaggi spaziali di questo tipo per una civiltà tecnologicamente molto evoluta non sarebbe fisicamente impossibile. Come ipotizzato in seguito da Tipler, che su questo era d’accordo con Hart, non è nemmeno possibile escludere che alcune civiltà dispongano di speciali mezzi spaziali auto-replicanti, in grado di viaggiare nello Spazio e nel frattempo creare copie di sé stessi, spostandosi di pianeta in pianeta.
    Le spiegazioni temporali fanno invece riferimento all’età della Via Lattea, la galassia in cui si trova il nostro sistema solare: circa 13 miliardi di anni. Secondo i sostenitori di questa spiegazione, è un tempo così lungo da rendere molto basse le probabilità di una coesistenza di più forme di vita intelligenti nello stesso momento, a meno che non siano estremamente longeve o estremamente diffuse nell’Universo. Ma nemmeno questa è una spiegazione plausibile, secondo Hart: perché almeno una civiltà, tra quelle con sufficienti possibilità tecnologiche e con l’intenzione di farlo, avrebbe potuto visitare e potenzialmente colonizzare pianeti abitabili della Galassia in un lasso di tempo più breve rispetto all’età complessiva della Galassia.
    Pur non potendo sapere con certezza se forme di vita extraterrestre abbiano visitato oppure no la Terra milioni o miliardi di anni fa, scrisse Hart, il filo ininterrotto dell’evoluzione biologica sulla Terra permette di escludere che sia stata «colonizzata»: vedremmo altrimenti tracce di questo condizionamento nella nostra stessa evoluzione. E il fatto che non ci siano prove di un’interferenza di questo tipo in circa 4 miliardi di storia della Terra lascia supporre che eventuali interazioni con il nostro pianeta, ammesso che ci siano state, siano in ogni caso un evento rarissimo.
    Restano le spiegazioni sociologiche, cioè quelle molto speculative che fanno riferimento a ipotetici comportamenti delle forme di vita extraterrestre tecnologicamente evolute, soltanto immaginabili. Spiegazioni del genere comprendono l’ipotesi che le civiltà esauriscano le loro risorse energetiche prima di potersi fare vive nell’Universo, per esempio, o che non abbiano alcun desiderio di estendere la loro influenza oltre l’area in cui si sono sviluppate. Il problema fondamentale di queste spiegazioni è che possono risolvere il paradosso solo ammettendo che un determinato comportamento sia comune a tutte le forme di vita extraterrestre tecnologicamente evolute nella storia della Galassia. Che è però una condizione la cui plausibilità, per ragioni di distribuzione di probabilità, diminuisce al crescere del numero di forme di vita di cui siamo disposti a ipotizzare l’esistenza.
    Le spiegazioni sociologiche del paradosso, in sostanza, funzionano soltanto se immaginiamo che le forme di vita extraterrestre tecnologicamente evolute siano rare. Ma in quel caso non ci sarebbe alcun paradosso da spiegare, perché i «tutti quanti» della domanda attribuita a Fermi sarebbero, in definitiva, molto pochi.

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    L’idea condivisa da Hart e Tripler sulla base delle loro considerazioni, anche nota come congettura di Hart-Tripler, è che l’assenza di prove di un’interazione di qualsiasi tipo con una civiltà extraterrestre sia più facilmente spiegabile, rispetto a qualsiasi altra spiegazione, attraverso l’ipotesi che non esistano civiltà extraterrestri abbastanza evolute nella nostra galassia. In un celebre articolo pubblicato nel 1983 e intitolato The Solipsist Approach to Extraterrestrial Intelligence l’astronomo e divulgatore scientifico Carl Sagan e il fisico William Newman suggerirono tuttavia un approccio più prudente e paziente alla questione del paradosso di Fermi, affermando che «l’assenza di prove non è prova dell’assenza».
    Esiste del resto un certo ottimismo crescente riguardo alla possibilità che altri mondi diversi dal nostro possano ospitare qualche forma di vita: mondi troppo distanti per pensare di poterli raggiungere, ma che possono comunque essere studiati per cercare eventuali “firme biologiche”, cioè sostanze o fenomeni che possono rivelare la presenza della vita. Diverso è il discorso per le “firme tecnologiche”, che per loro natura dovrebbero essere più facilmente rilevabili e meno ambigue di quelle biologiche, ma rispetto alle quali percepiamo nell’Universo solo un «grande silenzio», come lo definì nel 1983 l’astronomo statunitense e scrittore di fantascienza Glen Brin.
    Secondo Crawford e Schulze-Makuch, autori del recente articolo su Nature Astronomy, il grande silenzio può significare prima di tutto che l’ipotesi di Hart e Tipler sull’inesistenza di civiltà extraterrestri tecnologicamente evolute fosse corretta. O tuttalpiù che quelle civiltà siano molto rare nell’Universo – e assenti, dal nostro punto di vista – a causa di limiti di qualche tipo che ne ostacolano lo sviluppo o la manifestazione. È una possibilità nota anche come teoria del “grande filtro”, definita negli anni Novanta dall’economista e ricercatore statunitense della University of Oxford Robin Hanson, ma in parte ammessa anche da Hart già nel 1975.
    Se nessuna di queste due ipotesi fosse corretta, secondo Crawford e Schulze-Makuch, l’assenza di prove dell’esistenza di civiltà extraterrestri tecnologicamente evolute potrebbe a quel punto avere un’altra sola spiegazione, del tipo sociologico: l’ipotesi dello zoo. Eventuali civiltà si terrebbero cioè a distanza di proposito, per evitare di essere rilevate, sebbene non sia chiaro con quali motivazioni.

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    Già prima che Ball ne scrivesse su Icarus nel 1973, l’idea alla base dell’ipotesi dello zoo era stata citata dallo scrittore inglese Olaf Stapledon nel romanzo del 1937 Il costruttore di stelle. Era inoltre stata resa familiare fin dalla seconda metà degli anni Sessanta dalla serie televisiva Star Trek, nel cui universo immaginario la Prima direttiva vieta ai pianeti della Federazione di interferire nello sviluppo naturale di civiltà aliene, per evitare a quelle ancora impreparate i pericoli di un’eventuale introduzione esterna della tecnologia dei viaggi interstellari. In tempi più recenti una specie di ipotesi dello zoo è stata ripresa anche dallo scrittore cinese di fantascienza Liu Cixin, il cui romanzo La materia del cosmo immagina l’Universo come una «foresta oscura» abitata da feroci predatori che si nascondono per ragioni di sopravvivenza.
    Un modellino della USS Enterprise, un’astronave immaginaria dell’universo di Star Trek, a una mostra alla casa d’aste Christie’s a Londra, il 2 agosto 2006 (Bruno Vincent/Getty Images)
    Come ha recentemente detto Crawford al sito Universe Today, «esistono due sole possibilità: o le intelligenze extraterrestri esistono, o no». Entrambe le risposte sarebbero sorprendenti, ma soltanto una delle due può essere vera. Al momento l’unica certezza che abbiamo, ha detto, è l’assenza di prove di quel tipo di forme di vita, nonostante la quantità incalcolabile di pianeti e nonostante l’età dell’Universo: una discrepanza che è alla base del paradosso di Fermi, appunto.
    Per rafforzare il paradosso, Crawford e Schulze-Makuch hanno citato alcuni recenti modelli dei possibili processi di evoluzione della vita secondo cui l’abitabilità nella Galassia sarebbe sostanzialmente aumentata soltanto negli ultimi miliardi di anni. Anche in un caso del genere, secondo loro, i tempi necessari per l’evoluzione di una civiltà e quelli plausibilmente necessari per una colonizzazione interstellare sarebbero molto più brevi rispetto all’evoluzione della Galassia: così tanto più brevi che dovremmo comunque aspettarci che più civiltà tecnologiche siano sorte prima della nostra.
    «Ci sono voluti circa due miliardi di anni prima che la Terra sviluppasse un’atmosfera ricca di ossigeno che consentisse agli animali complessi di evolversi. Se ciò fosse successo solo l’1 per cento più velocemente su qualche altro pianeta, cosa possibile a causa di una moltitudine di processi biologici e geologici, un’intelligenza tecnologica sarebbe presumibilmente apparsa 20 milioni di anni prima di noi», hanno scritto Crawford e Schulze-Makuch. Se accettiamo quindi che esistano intelligenze extraterrestri e accettiamo che siano tecnologicamente in grado di raggiungere sistemi stellari diversi da quelli in cui si sono sviluppate, la totale mancanza di prove della loro esistenza si spiegherebbe secondo Crawford e Schulze-Makuch soltanto con una loro volontà di rimanere nascoste.
    Una delle critiche all’ipotesi dello zoo riguarda il principale limite di tutte le spiegazioni sociologiche: la scarsa probabilità che uno stesso comportamento sia condiviso per centinaia di milioni di anni da tutte le eventuali forme di vita extraterrestre tecnologicamente evolute. Come osservato dall’astrofisico scozzese Duncan Forgan, membro fondatore del programma SETI (Search for Extra-Terrestrial Intelligence) nel Regno Unito, basterebbe un singolo gruppo di dissidenti in un’eventuale civiltà aliena, oppure l’esistenza di «cricche galattiche» indipendenti anziché un singolo gruppo conforme, per ottenere un comportamento divergente rispetto al presupposto dell’ipotesi dello zoo: che ogni civiltà tecnologicamente evoluta si stiano nascondendo.
    Altri scienziati affermano in generale che l’ipotesi dello zoo, benché potenzialmente corretta, sia inutile in un senso scientifico pratico e più vicina a un modo di pensare teologico. Per questo motivo sostengono che nel campo delle spiegazioni sociologiche del paradosso di Fermi siano più meritevoli di attenzione altre ipotesi, come quella dell’esaurimento delle risorse o quella dell’autodistruzione.

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    Rispetto a queste obiezioni note Crawford e Schulze-Makuch sostengono che le ridotte probabilità che uno stesso comportamento sia unanimemente condiviso da più intelligenze extraterrestri non nega di per sé l’ipotesi dello zoo. Riduce piuttosto la probabilità che quelle intelligenze in grado di manifestarsi ma non intenzionate a farlo siano molte. Quanto alla critica riguardo all’approccio teologico, l’opinione di Crawford e Schulze-Makuch è che l’ipotesi dello zoo sia molto diversa da altre teorie puramente speculative, come l’ipotesi del planetario dello scrittore e matematico inglese Stephen Baxter, secondo cui le nostre osservazioni sarebbero un’illusione generata da una civiltà in grado di manipolare la materia e l’energia su scala galattica.
    La differenza fondamentale, ha spiegato Schulze-Makuch a Universe Today, è che «se viviamo in una sorta di simulazione, potremmo non scoprirlo mai», mentre possiamo invece scoprire se l’ipotesi dello zoo sia corretta oppure no. Man mano che le nostre capacità tecnologiche aumentano, potrebbero infatti raggiungere o superare quelle di eventuali altre civiltà che sarebbero a quel punto non più in grado di nascondere ogni loro traccia.
    Sebbene Schulze-Makuch sia un po’ più possibilista rispetto a Crawford, in generale l’ipotesi dello zoo è un argomento utilizzato da entrambi per sostenere soprattutto l’altra possibilità: che non esistano intelligenze extraterrestri tecnologicamente evolute, oppure che siano molto rare. Nell’articolo scrivono che «se non riusciamo a identificare soluzioni plausibili al paradosso di Fermi, con la possibile eccezione dell’ipotesi dello zoo, ne consegue che o la vita stessa è rara e/o esistono colli di bottiglia tra l’origine della vita e l’avvento della tecnologia». Dal momento che l’esistenza di pianeti potenzialmente abitabili sembra più probabile rispetto a qualche decennio fa, per spiegare «dove sono tutti quanti» dovremmo prendere in considerazione l’esistenza di una serie di “grandi filtri” evolutivi che complicano o ostacolano la transizione dall’origine della vita (abiogenesi) alla civiltà tecnologica.
    Ulteriori approfondimenti riguardo all’eventuale esistenza di intelligenze extraterrestri, concludono Crawford e Schulze-Makuch, potranno derivare soltanto da un’esplorazione sistematica dell’Universo. La ricerca di firme biologiche in esopianeti a noi vicini potrebbe entro i prossimi decenni limitare le probabilità sia della complessità biologica che delle intelligenze: perché se dovessimo scoprire che le biosfere extraterrestri sono rare, allora le intelligenze lo saranno presumibilmente ancora di più. E questo indebolirebbe progressivamente il paradosso di Fermi: non avremmo prove perché non esistono.
    Se invece dovessimo scoprire che le biosfere complesse sono comuni in almeno una parte dell’Universo da noi osservata, allora la vita tecnologica potrebbe comunque essere rara a causa di filtri evolutivi difficili da superare. In assenza di filtri, l’ipotesi dello zoo resterebbe l’ultima plausibile: ma a un certo punto anche questa potrebbe essere verificata. «Se si nascondono attivamente da noi, potrebbero trovare difficoltà sempre maggiori di fronte alle nostre stesse capacità in rapido aumento», osservano Crawford e Schulze-Makuch. E se anche quelle civiltà riuscissero a nascondere le prove della loro tecnologia, alla lunga sarebbe per noi difficile non osservare il gran numero di pianeti abitati, implicito in uno scenario del genere.
    Altre ragioni che indeboliscono l’ipotesi che civiltà tecnologiche possano a lungo rimanere nascoste è che quelle dotate di grandi riserve energetiche avrebbero comunque difficoltà a nascondere tutti i segni degli effetti termodinamici della produzione di calore di scarto: segni che sono infatti alla base di alcune attuali ricerche di firme tecnologiche. È inoltre molto probabile che civiltà in grado di viaggiare nello Spazio generino grandi quantità di detriti spaziali, e maggiore è il numero di civiltà di questo tipo esistite nella storia della Galassia, maggiori saranno la quantità di detriti che finiranno nel Sistema Solare e le probabilità di scoprirne le prove.
    La conclusione di Crawford e Schulze-Makuch è che «più a lungo non rileviamo alcun segno di vita intelligente avanzata intorno a noi, meno probabile diventa la spiegazione dell’ipotesi dello zoo, costringendoci a concludere che la vita intelligente tecnologica è rara nell’Universo». LEGGI TUTTO

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    La giusta atmosfera per cercare vita aliena

    Caricamento playerQuando nel luglio del 2022 il James Webb Space Telescope (JWST) – il telescopio spaziale più potente mai realizzato – iniziò a mostrare stelle, galassie e nebulose in grande dettaglio fu immaginato che presto grazie ai suoi strumenti avremmo potuto trovare indizi su mondi lontanissimi da noi che potrebbero ospitare la vita. E in poco più di un anno di attività alcuni dati raccolti dal JWST mostrano in effetti che un pianeta che si trova al di fuori del nostro sistema solare (un “esopianeta”) ha nella propria atmosfera alcuni composti chimici noti per essere legati alla vita, qui sulla Terra.Siamo ancora molto distanti dal poter confermare l’esistenza di forme di vita diverse da quelle terrestri, almeno per come le conosciamo, ma i risultati ottenuti grazie al JWST confermano quanto sia promettente lo studio delle atmosfere degli esopianeti per rispondere alla domanda delle domande: siamo soli nella vastità del cosmo?È una questione che si sono posti pensatori, filosofi, scrittori, poeti e scienziati ben prima che iniziassimo ad avventurarci oltre l’atmosfera terrestre poco meno di 70 anni fa. Dare una risposta si è rivelato molto più complesso del previsto non solo nel caso di mondi così lontani illuminati da stelle la cui luce impiega un’enorme quantità di anni per raggiungerci, ma anche per i pianeti che si trovano nel nostro vicinato cosmico e che possiamo esplorare direttamente con sonde e robot, come Marte. Negli ultimi decenni chi si occupa di astronomia e astrobiologia ha raccolto indizi importanti, a volte convincenti e a volte meno, ma comunque insufficienti per dichiarare con certezza l’esistenza della vita fuori dalla Terra.La scoperta di una grande quantità di sistemi solari oltre al nostro, cioè di stelle con pianeti che orbitano loro intorno, ha permesso di rivedere analisi e modelli sulla probabilità che alcuni di quei mondi ospitino qualche forma di vita. Sono posti troppo distanti per essere raggiunti con le sonde, ma ci sono comunque modi per studiarli e andare alla ricerca di eventuali “firme biologiche”, cioè di sostanze o fenomeni che possono rivelare la presenza della vita. L’eventualità di riuscirci appare oggi molto più probabile di un tempo e per i più ottimisti è solo questione di tempo, e soprattutto di guardare nel punto giusto.K2-18b, l’esopianeta a 124 anni luce da noi osservato dal JWST, è un buon esempio di dove andare a guardare. Si chiama così perché orbita intorno a K2-18, la sua stella di riferimento. I sistemi solari sono tanti e catalogarli tutti con nomi particolari non sarebbe pratico, di conseguenza per convenzione si utilizzano combinazioni di lettere e numeri scelte con alcuni criteri. Uno di questi prevede di nominare i pianeti con il nome della loro stella di riferimento seguito da una lettera dell’alfabeto partendo dalla “b”. L’assegnazione della lettera avviene in ordine cronologico, quindi la “b” indica il primo esopianeta a essere scoperto in un sistema solare, la “c” il secondo e così via. K2-18b è stato quindi il primo esopianeta a essere scoperto in orbita a K2-18.K2-18b in una rappresentazione artistica (NASA)Trovare gli esopianeti non è semplice, ma negli ultimi decenni le possibilità di ricerca sono migliorate grazie ad alcuni telescopi spaziali realizzati per questo scopo, come Kepler della NASA. Non possiamo osservare direttamente questi corpi celesti perché sono troppo distanti da noi, ma possiamo rilevarne (o più correttamente “rivelarne”) la presenza calcolando come varia la luminosità della stella intorno a cui orbitano. Quando le passano davanti, rispetto al nostro punto di osservazione, fanno diminuire temporaneamente la luminosità apparente della stella dandoci un indizio sulla loro presenza. Rilevare questa debolissima oscillazione richiede strumenti molto precisi e messi a debita distanza dai disturbi dovuti all’atmosfera terrestre: per questo i telescopi sono “spaziali”, perché effettuano le loro osservazioni stando direttamente nello Spazio.K2-18b, che ha una massa otto volte quella della Terra, fu scoperto nel 2015 proprio grazie a Kepler e attirò presto l’attenzione di vari gruppi di ricerca per la sua posizione rispetto alla stella K2-18, una “nana rossa” meno luminosa e più fredda del Sole. Questo significa che per essere esposto alla stessa quantità di energia che riceve la Terra, l’esopianeta deve essere più vicino alla sua stella di quanto lo sia il nostro pianeta al Sole.K2-18b si trova infatti a una distanza media di circa 24 milioni di chilometri da K2-18, poco più del 15 per cento della distanza media Terra-Sole. Considerata l’energia prodotta dalla nana rossa, l’esopianeta riceve circa 1,22 kilowatt per metro quadrato, non molto distante dagli 1,36 del nostro pianeta. In altri termini: la stella è poco potente, ma la maggiore vicinanza permette comunque all’esopianeta di ricevere quantità di energia paragonabili alle nostre.Le stime sono derivate dalle conoscenze sulle caratteristiche di K2-18 e della distanza a cui si trova K2-18b, ma sono appunto stime e non possono fornirci informazioni molto più precise. Il calcolo è basato su un pianeta ideale e non tiene in considerazione numerose altre variabili, come per esempio quanto la sua superficie sia riflettente o se ci siano nuvole nella sua atmosfera, che a loro volta potrebbero riflettere una parte della radiazione solare come avviene qui sulla Terra.Distanza e caratteristica della stella ci dicono che K2-18b si trova in una “zona abitabile”, cioè a una distanza tale dalla sua stella da avere una temperatura superficiale media paragonabile a quella terrestre, di conseguenza potenzialmente idonea a ospitare acqua senza che questa sia sempre congelata o che si vaporizzi completamente. Dove c’è acqua sulla Terra c’è quasi sempre vita, di conseguenza l’indicazione di “zona abitabile” riceve sempre grandi attenzioni soprattutto da parte dei media, che rinnovano periodicamente le grandi aspettative sugli annunci legati alla vita aliena. La presenza di acqua è infatti una condizione importante, ma non necessariamente sufficiente per sostenere che su un mondo diverso dal nostro ci siano organismi viventi.Quella creazione di grandi aspettative aveva coinvolto anche K2-18b qualche anno fa. Rimasto un sorvegliato speciale dopo la sua scoperta, nel 2019 l’esopianeta era finito su tutti i giornali in seguito ad alcune osservazioni effettuate con il telescopio spaziale Hubble, che insieme ad altri dati avevano portato a ipotizzare la presenza di vapore acqueo nell’atmosfera del pianeta, un indizio della possibile presenza di acqua sulla sua superficie.Ulteriori studi avrebbero poi portato a indicare K2-18b come un probabile “pianeta hycean”, cioè un pianeta in una zona abitabile ricoperto da un oceano e con un’atmosfera ricca di idrogeno, potenzialmente compatibile con la vita (hycean deriva dalle parole inglesi hydrogen e ocean). La presenza dell’oceano, l’esistenza di un grande strato di ghiaccio superficiale e le ipotesi sulla natura rocciosa del pianeta sono ancora dibattute, proprio a causa della quantità limitata di dati che possiamo raccogliere a così grande distanza.Un telescopio più potente può però aiutarci a capire qualcosa di più ed è quello che sta facendo il James Webb Space Telescope. Grazie ai suoi strumenti è stato possibile raccogliere nuovi dati su K2-18b, che sembrano indicare la presenza di gas a noi familiari, perché presenti nella nostra atmosfera, la cui composizione deriva in buona parte dagli organismi viventi che popolano il pianeta. Oltre all’anidride carbonica e al metano sono stati trovati indizi sulla presenza di dimetil solfuro (DMS), una sostanza organica che è prodotta per lo più dalle alghe marine: è, insieme ad altri composti, ciò che costituisce la salsedine, o più in generale l’odore del mare.Le firme biologiche rivelate dagli strumenti del JWST sono a oggi il più grande indizio su cosa potrebbe accadere su K2-18b a 124 anni luce da noi. La notizia dei nuovi dati è stata comunicata con una certa enfasi dai gruppi di ricerca che se ne sono occupati, ma è bene ricordare che al momento non possiamo sapere quanto siano corrispondenti alla realtà i risultati dei loro studi. L’incertezza dipende dalla tecnica che viene usata per trovare le firme biologiche e che ha sempre a che fare con l’impossibilità di osservare direttamente un mondo così lontano da noi con gli attuali strumenti.Il metodo consiste nello scegliere una fonte luminosa e misurare come cambia la luce quando questa attraversa l’atmosfera dell’esopianeta che le passa davanti. I vari composti atmosferici lasciano passare la luce in modo diverso, assorbendo solo alcune delle sue lunghezze d’onda, e queste differenze possono essere colte dagli spettrografi, speciali strumenti per osservare e analizzare la radiazione elettromagnetica emessa da una determinata sorgente. Potete immaginarli come una versione molto elaborata dei prismi che si usano negli esperimenti a scuola per “scomporre” la luce nei colori dell’arcobaleno. Il JWST è dotato di due spettrografi molto precisi e sensibili, per l’osservazione di sorgenti a grande distanza.(Wikimedia)Immaginate di osservare una lampadina con o senza un foglio di plastica trasparente di mezzo: noterete più o meno la stessa cosa. Aggiungete qualche decina di altri fogli sempre trasparenti, ma di colori diversi: la lampadina continuerà a essere visibile, ma la sua luce apparirà molto diversamente da prima. Ora immaginate di dover partire da quella luce e di dover ricostruire i vari colori dei fogli attraverso cui passa. Su una scala molto diversa, si fa qualcosa di simile con la spettrografia per capire quali sostanze siano presenti nell’atmosfera del pianeta, ma utilizzando una parte della radiazione elettromagnetica che non riusciamo a vedere a occhio nudo. Non è una cosa da poco e i dati lasciano spazio a stime e interpretazioni che possono poi essere smentite con la raccolta di nuove analisi e dati.La rivelazione del DMS, per esempio, è stata effettuata con due sole osservazioni di K2-18b da parte del James Webb Space Telescope, a dimostrazione delle potenzialità del nuovo telescopio. Ulteriori osservazioni potranno consentire di raccogliere nuovi dati e di affinare le analisi su un tipo particolare di pianeti, con caratteristiche diverse dai pianeti rocciosi. Per le loro caratteristiche, i pianeti hycean sono considerati ideali per le osservazioni atmosferiche.Risultato di una ipotetica analisi dello spettro dell’atmosfera di un esopianeta durante il transito davanti alla propria stella di riferimento (NASA)Per quanto ne sappiamo finora, le probabilità che ci sia vita su K2-18b continuano a essere molto basse, anche se l’eventualità non può essere esclusa del tutto. Lo studio delle caratteristiche del pianeta è comunque molto importante per affinare e sviluppare nuove tecniche di ricerca delle firme biologiche. Per vari esopianeti e per alcune lune del nostro sistema solare si ipotizzano condizioni ambientali estreme in cui gli organismi viventi avrebbero poche possibilità di resistere. Al tempo stesso, sulla Terra vengono scoperte spesso nuove specie in grado di sopravvivere a grandi profondità negli oceani, per esempio in prossimità dei getti caldissimi delle sorgenti idrotermali o tra i ghiacci dei Poli. Tra questi ci sono i microrganismi “estremofili”, sui quali si concentrano spesso gli studi di astrobiologia per capire come potrebbero essere fatte forme di vita su altri mondi all’apparenza poco ospitali.Capire come si è fatti è del resto fondamentale per capire gli altri. Qualcosa di analogo vale anche per la Terra e gli altri pianeti. Alla fine degli anni Ottanta, l’astrofisico e divulgatore scientifico statunitense Carl Sagan propose con alcuni colleghi di utilizzare la sonda Galileo della NASA per capire se si potesse rilevare la vita sulla Terra dallo Spazio utilizzando i sensori di una sonda. Galileo era stata progettata per avvicinarsi a Giove e alle sue lune per studiarle, sfruttando la spinta orbitale di altri corpi celesti compresa la Terra compiendo alcuni passaggi ravvicinati. Nel 1993 Sagan pubblicò i risultati del suo lavoro sulla rivista scientifica Nature, elencando ciò che era stato possibile rilevare con la sonda e che in seguito sarebbe diventato noto come i “criteri di Sagan per la vita”.Quella ricerca viene spesso indicata come una delle fondamenta dell’astrobiologia, disciplina che negli ultimi anni ha avuto una rapida evoluzione e che come abbiamo visto con K2-18b offre strumenti e prospettive importanti per la ricerca della vita in altri mondi. Sagan insieme al collega Frank Drake era del resto tra i più convinti sostenitori del “principio di mediocrità”, secondo il quale sulla grande scala dell’Universo non c’è proprio niente di particolare nella Terra e nello sviluppo dell’umanità, perché non c’è nulla che impedisca agli stessi fenomeni che lo hanno reso possibile di verificarsi altrove e in molte altre circostanze nel cosmo. È un principio che si contrappone all’ipotesi della rarità della Terra, secondo cui la vita sul nostro pianeta si è sviluppata grazie a un insieme estremamente improbabile di condizioni e per questo difficilmente replicabile. I due approcci sono discussi da tempo e contrastanti, ma condividono una possibile soluzione: continuare a cercare. LEGGI TUTTO