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    Cosa ci può dire il cranio di un Neanderthal con disabilità vissuto fino a sei anni

    Caricamento playerVissuti tra 600mila e 40mila anni fa (le stime sono dibattute), i Neanderthal furono l’ultima specie nota del genere Homo a convivere sul pianeta con la nostra (Homo Sapiens), per alcune decine di migliaia di anni. Tra le specie estinte di ominini è in assoluto la più conosciuta e studiata, da quando nel 1856 i primi fossili furono scoperti in una cava nella valle di Neander, in Germania.
    Il 26 giugno la rivista Science Advances ha pubblicato in un articolo i risultati di un’approfondita analisi condotta sul fossile di un Neanderthal da un gruppo di ricerca guidato dalla paleoantropologa spagnola Mercedes Conde-Valverde, insegnante dell’università di Alcalá, in Spagna. L’analisi del fossile, composto da parti del cranio di un individuo di circa sei anni di età, indicherebbe la presenza di una patologia congenita all’orecchio interno comunemente associata alla sindrome di Down e probabilmente debilitante al punto da richiedere le cure e le attenzioni di più adulti. Il fatto che l’individuo sia sopravvissuto fino ai sei anni, secondo le autrici e gli autori dello studio, proverebbe la diffusione di «comportamenti prosociali altamente adattivi» e di una stabile e disinteressata collaborazione di gruppo tra i Neanderthal.
    Sebbene siano stati immaginati, descritti e raffigurati per lungo tempo – e in parte lo siano ancora – come esseri rozzi e non civilizzati, i Neanderthal condividevano con i Sapiens molte caratteristiche. Alcune sono dibattute, come la capacità di costruire strumenti musicali e dipingere, ma molte altre sono assodate, come la sepoltura dei morti, l’uso di strumenti in pietra e indumenti, e del fuoco per cuocere il cibo, scaldarsi e difendersi dai predatori. Diversi studi pubblicati negli ultimi decenni, che hanno contribuito a rivedere precedenti valutazioni del divario socioculturale con i Sapiens, hanno inoltre suggerito che i Neanderthal collaborassero abitualmente e si prendessero cura gli uni degli altri.
    L’idea che fossero anche capaci di provare compassione è dibattuta da tempo, perché diversi studiosi sostengono che la collaborazione avvenisse tra individui in grado di ricambiare il favore, o in ogni caso con fini utilitaristici e con l’aspettativa di un beneficio reciproco, più che per benevolenza. Lo studio pubblicato su Science Advances, secondo il gruppo di ricerca guidato da Conde-Valverde, accresce tuttavia le prove a sostegno dell’esistenza di un sentimento di altruismo disinteressato tra i Neanderthal, esteso oltre la cerchia di familiari più stretti dell’individuo con la disabilità congenita.

    – Leggi anche: Di sicuro i Neanderthal non erano grandi conversatori, ma forse si parlavano

    Il fossile della ricerca uscita su Science Advances, codificato con la sigla CN-46700, è composto dal frammento di un osso temporale destro (la parte laterale inferiore della scatola cranica) e fa parte di un insieme di resti scoperti nel 1989 nel sito archeologico della caverna di Cova Negra nella provincia di Valencia, in Spagna, un’area occupata dai Neanderthal tra 273mila e 146mila anni fa. Per costruire un modello tridimensionale dell’osso completo il gruppo di ricerca ha utilizzato delle microtomografie computerizzate ai raggi X, una tecnica che permette, come le TAC, di ottenere sezioni trasversali di un oggetto fisico senza bisogno di distruggerlo.
    La ricostruzione di un individuo adulto esposta nel museo dei Neanderthal a Mettmann, in Germania (AP Photo/Martin Meissner)
    L’analisi ha mostrato che l’osso apparteneva a un individuo che aveva poco più di sei anni, soprannominato “Tina” dal gruppo di ricerca, sebbene non sia possibile stabilirne il genere. L’osso temporale è una struttura di grande importanza perché contiene e protegge la coclea e altri organi responsabili non soltanto dell’udito ma anche dell’equilibrio. Una serie di anomalie morfologiche riscontrate nel fossile, in attesa di un eventuale futuro esame del DNA che permetta di confermare un’anomalia cromosomica, suggerisce che Tina presentasse deficit invalidanti di vario tipo e critici per la sopravvivenza, tra cui deficit cognitivi, una ridotta capacità di suzione e una mancanza di coordinazione motoria e di equilibrio.
    Considerando lo stile di vita impegnativo e l’intensa mobilità dei Neanderthal, scrive il gruppo di ricerca, è difficile immaginare che la madre di Tina sarebbe stata in grado di fornirle da sola le cure necessarie e nel frattempo svolgere per un periodo di tempo prolungato le normali attività quotidiane tipiche dei gruppi di cacciatori-raccoglitori. È molto più probabile che abbia ricevuto continuamente aiuto da altri membri del gruppo sociale di cui lei e sua figlia facevano parte. «È la spiegazione più semplice per il fatto sorprendente che un individuo con sindrome di Down sia sopravvissuto per almeno sei anni in epoca preistorica», ha detto Conde-Valverde al Washington Post.
    I risultati delle analisi condotte su altri fossili in precedenti studi avevano già sostenuto l’ipotesi che i Neanderthal si prendessero cura dei membri fragili e vulnerabili del gruppo. Una ricerca pubblicata nel 2018 da un gruppo di archeologi e antropologi della University of York, nel Regno Unito, e della Australian National University, a Canberra, analizzò diversi fossili di individui con lesioni traumatiche guarite. Il gruppo concluse che le cure mediche e l’assistenza sanitaria tra i Neanderthal fossero pratiche abituali diffuse, non distintamente diverse da quelle tipiche di contesti sociali successivi, e probabilmente motivate dall’investimento nel benessere dei membri del gruppo.

    – Leggi anche: I modi in cui abbiamo disegnato i Neanderthal dicono più cose di noi che di loro

    Un esempio noto e molto citato di assistenza e collaborazione tra i Neanderthal è uno dei fossili scoperti alla fine degli anni Cinquanta nella grotta Shanidar, nel Kurdistan iracheno, e denominato Shanidar 1. È composto dai resti di un individuo con segni di deformazioni degli arti associate a gravi lesioni traumatiche al cranio subite in giovane età e poi guarite, che probabilmente avevano provocato problemi di vista e di udito. Le analisi del fossile mostrarono che l’individuo era sopravvissuto fino all’età di circa 40 anni: un periodo di tempo che diversi ricercatori si spiegano soltanto ammettendo l’assistenza e le cure consapevoli da parte di un gruppo sociale.
    Conde-Valverde ha spiegato alla rivista Science che la scoperta della probabile disabilità dell’individuo ricostruito a partire dal fossile CN-46700 è importante «perché finora nel dibattito sull’assistenza tra i Neanderthal avevamo soltanto individui adulti». L’ipotesi formulata per spiegare la sopravvivenza di Tina fino ai sei anni dimostrerebbe che il valore attribuito dai Neanderthal agli individui fosse esteso ai membri di ogni fascia d’età. Suggerisce inoltre che l’accudimento e la genitorialità collaborativa facessero parte di un complesso adattamento sociale molto simile a quello dei Sapiens, e con origini probabilmente molto antiche all’interno del genere Homo.
    Altri studiosi sostengono che la compassione e l’altruismo incondizionato dei Neanderthal non siano deducibili con certezza sulla base delle analisi dei fossili. Analisi simili svolte in passato su resti scoperti in tre diversi siti nell’Europa del Nord hanno permesso tra l’altro di ricavare prove di cannibalismo tra i Neanderthal, come concluso in uno studio nel 2016. Il che non è comunque incompatibile con l’ipotesi della solidarietà e dell’assistenza abituale agli individui vulnerabili, dal momento che non esistono prove che il cannibalismo fosse una pratica comune (è più probabile che fosse associato, come del resto anche nella storia umana, a periodi di estrema scarsità di cibo).
    L’archeologa spagnola Sofia C. Samper Carro, insegnante all’Australian National University ed esperta di comportamento dei Neanderthal, ha detto al Washington Post che in generale il legame tra le lesioni o le patologie e le relazioni di assistenza tra gli individui è difficile da dimostrare negli studi sui fossili. Ma ha aggiunto che lo studio pubblicato su Science Advances fornisce prove sufficienti per dimostrare un chiaro legame tra una disabilità infantile e un impegno nelle cure da parte di individui adulti.
    Anche se probabilmente non saremo in grado di dimostrare inequivocabilmente che i Neanderthal avessero questa capacità, «studi come questo sono certamente un passo avanti nella giusta direzione per demistificare la nostra unicità e il presunto comportamento meno “umano” dei Neanderthal», ha detto Samper Carro. LEGGI TUTTO

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    È stata scoperta una rete di antiche città in Amazzonia, abitata quando in Europa c’era l’Impero Romano

    Caricamento playerUn gruppo di archeologi guidati dal francese Stéphen Rostain ha scoperto i resti di una serie di antiche città nella foresta amazzonica dell’Ecuador, grazie a una tecnologia di telerilevamento basata sul laser e a indagini sul campo. L’articolo scientifico che documenta la scoperta, pubblicato sulla rivista Science, spiega che queste città furono abitate circa tra il 500 a.C. e un periodo compreso tra il 300 e il 600 d.C., più o meno quando in Europa c’era l’Impero Romano.
    Appartenevano al cosiddetto popolo Upano, così chiamato dal nome di un fiume che scorre in una regione collinare ai piedi delle Ande: è la più antica società umana amazzonica mai scoperta e studiata. Questi insediamenti infatti hanno almeno mille anni in più dei più antichi trovati in precedenza nell’Amazzonia.
    Rostain è un archeologo esperto di antiche civiltà amazzoniche precolombiane, cioè che vivevano in America prima che ci arrivasse Cristoforo Colombo nel 1492, ed è un ricercatore del Centre national de la recherche scientifique (CNRS), l’analogo francese del Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR) italiano. Aveva iniziato a studiare alcune montagnole del tipo che solitamente nasconde resti di antiche costruzioni nella valle dell’Upano una trentina d’anni fa, ma per molto tempo lui e i suoi colleghi si erano limitati a studiare due siti principali, Sangay e Kilamope, dove sono stati trovati manufatti di ceramica dipinta e incisa.
    Le sue scoperte si sono estese dopo che nel 2015 l’Istituto nazionale per il patrimonio culturale dell’Ecuador realizzò una mappatura aerea della valle dell’Upano con un LIDAR, uno strumento che permette di misurare la distanza di oggetti e superfici attraverso impulsi laser e che per questo può essere usato per rilevare la presenza di strutture umane nascoste in una fitta foresta. Grazie alle informazioni ottenute in questo modo gli archeologi si sono accorti che i siti a loro noti erano collegati ad altri, fino ad allora sconosciuti, attraverso una rete di strade. Complessivamente sono stati trovati cinque grandi insediamenti e dieci più piccoli in una zona di 300 chilometri quadrati. Le strade più grandi misuravano 10 metri di larghezza e si allungavano fino a 20 chilometri.
    La copertina di Science del 12 gennaio 2024, dedicata alla scoperta della rete di antiche città scoperta in Amazzonia
    Sono state trovate le tracce di campi coltivati a mais, patate e manioca (un altro tubero), canali, abitazioni e costruzioni per cerimonie religiose, entrambe realizzate con mattoni di fango, l’unico materiale da costruzione reperibile nella regione. Il gruppo di Rostain ha stimato che nella rete di centri potessero vivere almeno 10mila persone, forse fino a 30mila nei periodi di picco demografico. Sarebbe una popolazione numericamente simile a quella che abitava Londra in epoca romana e capace di organizzare il lavoro in maniera complessa, avendo potuto realizzare una rete urbana di questa estensione.
    La scoperta è una ulteriore conferma del fatto che le popolazioni della foresta amazzonica non vissero sempre in piccoli gruppi più o meno nomadi, come si pensava in passato, ma che nella regione si svilupparono anche altri tipi di società prima dell’arrivo degli europei. LEGGI TUTTO

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    La più antica struttura in legno mai scoperta

    Una ricerca pubblicata mercoledì sulla rivista Nature sostiene che due tronchi incastrati insieme e trovati in un sito archeologico in Zambia, in Africa, costituiscano la più antica struttura in legno prodotta da una specie umana mai scoperta finora. Secondo lo studio hanno più di 450mila anni e precedono quindi di oltre 100mila anni i più antichi resti di Homo sapiens, l’unica specie umana attualmente esistente, la nostra. In precedenza la più antica struttura in legno mai trovata risaliva ad appena 9mila anni fa: si trattava dei resti di alcune piattaforme trovate in un lago nel Regno Unito. È ancora più vecchio il più antico oggetto manufatto di legno mai rinvenuto, il frammento di un’asse scoperto in Israele e risalente a 780mila anni fa, ma se l’abilità di altre specie umane estinte di realizzare piccoli strumenti era nota, non si sapeva che costruissero anche strutture più grandi e complesse.I due tronchi trovati nel 2019 in Zambia, e più precisamente nella riva del fiume Kalambo presso una cascata vicino al confine con la Tanzania, sono incrociati ad angolo retto. Secondo i ricercatori che li hanno studiati sono stati modificati dall’azione umana con degli strumenti di pietra, in modo che potessero incastrarsi. I risultati della datazione implicherebbero che la struttura possa essere stata costruita da ominini (il termine per definire le specie più vicine agli esseri umani moderni) come Homo erectus o Homo naledi, specie che si evolvettero dagli stessi antenati da cui proviene Homo sapiens. Si stima che la nostra specie sia comparsa circa 300mila anni fa, quindi successivamente alla realizzazione della struttura trovata in Zambia.Rispetto ai reperti in pietra, è molto più difficile che reperti in legno così antichi si conservino. In questo caso, i tronchi si trovavano immersi nell’acqua di una falda sotterranea, che ha permesso loro di preservarsi per quasi mezzo milione di anni senza andare incontro al decadimento naturale che interessa normalmente il legno. La datazione è avvenuta tramite lo studio della luminescenza dei sedimenti che li ricoprivano, una tecnica che permette di determinare l’ultima volta che delle rocce furono esposte alla luce solare. Il noto metodo di datazione con il carbonio-14 permette di stimare l’età di materiale organico vecchio fino a 50mila anni fa.La struttura al momento della scoperta e in uno schema (Larry Barham/Università di Liverpool)Gli studiosi che hanno analizzato la struttura – appartenenti a università e istituzioni britanniche, all’Università di Liegi, in Belgio, e al Museo Moto Moto di Mbala, in Zambia – sono quasi certi che i tronchi siano stati modificati dall’azione umana: per verificarlo sono state prodotte delle repliche degli utensili di pietra trovati nel sito sotto la cascata del Kalambo e le hanno usate per lavorare legni con caratteristiche simili a quello dei tronchi. I segni lasciati dalle repliche sono analoghi a quelli ritrovati sui reperti, per cui si pensa che furono fatti «intenzionalmente con utensili di pietra».La scoperta potrebbe significare che l’abilità di usare il legno per costruire degli oggetti è molto più antica di quanto noto finora e ampliare la nostra conoscenza di altre specie di ominini. Inoltre potrebbe mettere in dubbio la nozione che i primi esseri umani conducessero esclusivamente una vita nomade. Il più piccolo dei due tronchi è lungo 1 metro e mezzo: complessivamente le loro dimensioni indicano che probabilmente facevano parte di una struttura abbastanza grande. Anche se non è possibile dire con certezza che degli ominini si fossero stabiliti permanentemente nella zona della cascata, la realizzazione di una struttura come quella trovata avrà sicuramente richiesto sforzi notevoli, difficilmente spiegabili se il sito era solo un accampamento.La struttura (Larry Barham/Università di Liverpool)Gli studiosi che hanno partecipato allo studio ritengono che la complessità della struttura implichi la possibilità che fu progettata e costruita da ominini che potevano collaborare in modo efficace grazie all’uso del linguaggio. Un’altra ipotesi del gruppo di ricerca è che la struttura non fosse parte di una vera e propria abitazione: poteva essere parte delle fondamenta di un riparo, di un camminamento o di una piattaforma per pescare nel fiume, ma è molto difficile giungere a conclusioni precise al riguardo.Al momento i tronchi sono conservati in Inghilterra, dove sono stati studiati, in una cisterna che replica le condizioni in cui sono stati preservati naturalmente per centinaia di migliaia di anni. Ma saranno riportati in Zambia per essere esposti al pubblico.– Leggi anche: La nuova teoria secondo cui i nostri antenati rischiarono di estinguersi LEGGI TUTTO

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    Ötzi aveva la pelle più scura di quanto credessimo 

    Un gruppo di ricerca internazionale ha analizzato più approfonditamente il DNA di Ötzi, l’uomo vissuto oltre 5.300 anni fa i cui resti furono trovati nel 1991 sulle Alpi tra l’Italia e l’Austria. Le analisi hanno permesso di ricostruire in modo più accurato il genoma di Ötzi, che è la più antica mummia umana naturale mai trovata in Europa, e alcune sue caratteristiche fisiche: principalmente il fatto che avesse la pelle più scura di quanto si pensasse in base a precedenti studi meno approfonditi e che verosimilmente avesse sviluppato una calvizie più o meno pronunciata.Lo studio ha anche ricostruito che Ötzi – così chiamato dal nome austriaco della regione dove fu trovato, Ötztal – discendesse soprattutto da popolazioni agricole dell’Anatolia, più o meno nell’odierna Turchia. Sono informazioni importanti, che aggiungono nuovi elementi non solo alle conoscenze su Ötzi ma anche a quelle sulle origini delle persone europee, di cui contribuiscono a sfatare alcuni pregiudizi ancora esistenti su una presunta “purezza” delle popolazioni europee, associata a una serie di caratteristiche fisiche a partire dalla pelle chiara.L’analisi dei geni responsabili del colore della pelle della mummia dice che la sua pelle conteneva molta più melanina di quanto si pensasse, e che era mediamente più scura delle tonalità di pelle più scure oggi presenti in Europa. Per farsi un’idea più precisa Johannes Krause, genetista dell’Istituto Max Planck (Germania), uno degli enti di ricerca che hanno partecipato allo studio, ha spiegato: «Direi che basti guardare la mummia. Probabilmente rappresenta il colore della pelle di Ötzi piuttosto bene. È relativamente scura, anche più scura dei più scuri toni di pelle comuni nel sud dell’Europa odierno, ad esempio in Sicilia e in Andalusia. Non scura come quella delle persone originarie delle regioni a sud del Sahara».La scoperta spiega peraltro proprio l’attuale colore della mummia, che in passato si supponeva fosse legato al processo di mummificazione ma non era mai stato veramente spiegato. Rende inoltre imprecisa l’attuale ricostruzione dell’aspetto di Ötzi presente al Museo Archeologico di Bolzano dove la mummia è conservata: tale ricostruzione è la seconda che sia mai stata fatta ed era stata realizzata dopo le prime analisi genetiche, poco più di dieci anni fa. In realtà da vivo Ötzi aveva la pelle più scura e probabilmente non molti capelli, dato che i suoi geni indicano una predisposizione per la calvizie e all’epoca della morte aveva circa 45 anni. Quest’ultimo dettaglio contribuirebbe a spiegare perché non furono trovati molti capelli attaccati alla mummia.La ricostruzione dell’aspetto di Ötzi presente al Museo Archeologico di Bolzano (ANSA / UFFICIO STAMPA MUSEO ARCHEOLOGICO DI BOLZANO)Il ritrovamento di Ötzi (o “Uomo del ghiaccio”, come è anche chiamato) nel 1991 fu un evento straordinario per la gran quantità di informazioni che sono state ottenute studiandolo. Si stima che Ötzi sia vissuto tra il 3350 e il 3120 avanti Cristo. Secondo le ricostruzioni sarebbe morto colpito alla schiena da una freccia: il suo corpo rimase congelato nel ghiaccio, che contribuì alla sua conservazione. Fu trovato da alcuni escursionisti: aveva ancora addosso alcuni indumenti, oltre a un’ascia e un arco.Nel 2012 furono pubblicati i risultati del primo sequenziamento del genoma della mummia: secondo quelle analisi Ötzi aveva la pelle chiara, gli occhi marroni (in precedenza si riteneva che fossero azzurri) e ascendenze steppiche (aveva cioè antenati provenienti dall’Europa orientale e Asia centrale). Quest’ultimo dato era considerato abbastanza sorprendente: le ascendenze steppiche sono piuttosto comuni tra le odierne popolazioni dell’Europa meridionale, ma secondo le conoscenze attuali gli umani appartenenti a questa componente ancestrale comparvero in Europa ben dopo la morte di Ötzi.A sinistra la prima ricostruzione del volto di Ötzi, a destra la seconda: nessuna delle due mostra quello che era il vero colore della pelle di Ötzi (ANSA / ANDREE KAISER – NATIONAL GEOGRAPHIC)Le analisi appena pubblicate sono state svolte con tecnologie di sequenziamento più sofisticate, accurate e approfondite rispetto a quelle disponibili nel 2012, a partire dal DNA estratto dall’osso dell’anca di Ötzi: lo studio, accessibile e leggibile a questo link, è stato pubblicato sulla rivista Cell Genomics. Vi ha partecipato anche l’Istituto per gli studi sulle mummie all’Eurac Research di Bolzano.Secondo lo studio, contrariamente a quanto si era pensato finora, nel DNA di Ötzi non ci sono tracce di ascendenze steppiche e il 92 per cento della sua ascendenza genetica è associato a quello di antiche popolazioni dell’Anatolia, probabilmente migrate verso il nord dell’Europa attraverso la penisola balcanica, che praticavano l’agricoltura.Albert Zink, direttore dell’Istituto per gli studi sulle mummie all’Eurac Research, ha detto che lo studio potrebbe contribuire a decostruire l’erronea credenza di una qualche “purezza” della popolazione europea: «Sono proprio studi come questi che dimostrano che i nostri antenati sono tutti migrati in un momento o nell’altro, che siamo tutti un grande miscuglio genetico», ha detto.– Leggi anche: Ci sono altre mummie preistoriche come Ötzi sulle montagne? LEGGI TUTTO

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    Anche altri ominidi seppellivano i propri morti?

    Per quel che sappiamo i neanderthal (Homo neanderthalensis) furono l’unica altra specie animale oltre alla nostra (Homo sapiens) che seppelliva i propri morti, una pratica le cui testimonianze più antiche risalgono a 78mila anni fa. C’è però un gruppo di paleoantropologi che ha ipotizzato lo facessero anche gli Homo naledi, una specie estinta di ominini che è stata scoperta in Sudafrica solo nel 2013 e aveva cervelli grandi un terzo di quelli umani. Se confermata, questa teoria cambierebbe profondamente l’attuale conoscenza sull’evoluzione umana.A ipotizzare che l’Homo naledi seppellisse i propri morti è il gruppo di ricerca che lo studia fin dalla sua scoperta: è guidato da Lee Berger, paleoantropologo sudafricano dell’Università del Witwatersrand a Johannesburg, ed è finanziato dall’organizzazione scientifica statunitense National Geographic Society. Il 5 giugno Berger ha parlato pubblicamente per la prima volta dei ritrovamenti archeologici che giustificherebbero l’ipotesi e la rivista del National Geographic le ha dedicato un lungo articolo. Tuttavia gli studi del gruppo di Berger non hanno ancora completato il processo di revisione tra pari (peer review), che nella comunità scientifica garantisce il valore di una ricerca, e finora hanno suscitato molto scetticismo tra gli esperti.I resti dell’Homo naledi furono scoperti nel 2013 da due speleologi sudafricani all’interno della grotta Dinaledi, che si trova poco lontano dalla cosiddetta “Culla dell’umanità”, un importante sito paleoantropologico a 50 chilometri da Johannesburg, ed è fatta di un complicato sistema di cunicoli che si estendono per centinaia di metri sottoterra. Nella grotta nel tempo sono stati trovati più di 1.800 frammenti di ossa appartenenti ad almeno 27 individui che hanno permesso di ricostruire che gli H. naledi erano alti in media circa 1 metro e 40 centimetri, avevano lunghe braccia e un cervello grande un terzo di quello di H. sapiens.I naledi erano ominini, cioè facevano parte della sottofamiglia di specie che comprende oltre all’essere umano moderno (Homo sapiens) le specie che gli sono più vicine come bonobo e scimpanzé (con la parola “ominidi” si intende invece un gruppo più ampio, di cui fanno parte anche gli oranghi e i gorilla). Si pensa che vissero tra 500mila e 240mila anni fa e che per almeno 50mila anni condivisero il proprio territorio nel sud dell’Africa con la nostra specie. Dovremmo discendere da un antenato comune: è stato stimato che i due rami evolutivi si separarono due milioni di anni fa.Lee Berger tiene una ricostruzione di un cranio di Homo naledi insieme al presidente del Sudafrica Cyril Ramaphosa, il 10 settembre 2015  (EPA/THAPELO MOREBUDI, ANSA)Berger e i suoi colleghi ritengono che gli Homo naledi seppellissero i propri morti per via del luogo in cui sono state trovate le loro ossa e della posizione di alcune in particolare.La camera della grotta Dinaledi in cui sono state rinvenute è la più profonda del complesso ed è collegata al resto attraverso un cunicolo verticale largo solo una ventina di centimetri: fin dai primi tempi dopo la scoperta, la squadra di ricercatori pensò che fosse improbabile che le ossa fossero arrivate nel fondo della grotta trascinate dall’acqua, data la ridottissima ampiezza del cunicolo e l’assenza di altri sedimenti, e ipotizzò che i resti degli ominini vi fossero stati portati intenzionalmente. Si considerarono anche le possibilità che a portarli nella grotta fossero stati dei predatori oppure degli Homo sapiens: la prima ipotesi fu esclusa perché sulle ossa non sono presenti segni di morsi, la seconda perché nella grotta non ci sono segni della presenza di umani.Un’ulteriore possibile spiegazione, che in passato l’accesso alla grotta fosse diverso e più facile, e che fosse diventato più ostico solo in seguito al crollo di una parete, fu scartata per assenza di riscontri.Invece secondo Berger e la sua squadra ci sarebbe una prova a sostegno dell’ipotesi della sepoltura: due scheletri quasi completi sono stati trovati all’interno di depressioni ovali nel terreno che per la loro forma sembrano scavate. I bordi infatti sono netti e ricoperti di fango.L’altra ragione per cui il paleoantropologo pensa che Dinaledi fosse un luogo di sepoltura è la presenza di altre cose all’interno della grotta: frammenti di carbone, ossa di tartaruga e coniglio bruciate e fuliggine sulle pareti apparentemente usata per tracciare dei segni. L’ipotesi di Berger è che gli ominini usassero dei tizzoni ardenti per farsi luce all’interno della grotta e portassero con sé legna o altri materiali per accendere dei fuochi.Sia la rivista del National Geographic che il New York Times, che ha dedicato a sua volta un articolo all’ipotesi di Berger, hanno intervistato vari paleoantropologi non coinvolti negli studi sugli Homo naledi per avere dei pareri terzi in merito. Maxime Aubert, archeologo dell’australiana Griffith University, è uno dei più scettici: ha detto al New York Times che per ora sembra «che la storia che si sta raccontando sia più importante dei fatti». Tutte le prove a sostegno della tesi potrebbero avere altre spiegazioni, in particolare il carbone e i segni fatti con la fuliggine potrebbero essere dovuti al passaggio di Homo sapiens dopo l’estinzione dei naledi.María Martinón-Torres, direttrice del Centro Nacional de Investigación sobre la Evolución Humana (CENIEH) in Spagna, ha definito l’ipotesi di Berger prematura e ritiene in particolare che non ci siano gli elementi per parlare di sepoltura. Paul Pettitt, archeologo dell’inglese Durham University, non è convinto che si possa davvero escludere che sia stato un flusso d’acqua a spingere le ossa nella grotta Dinaledi.Per avere conferme bisognerebbe stimare l’età dei pezzi di carbone e della fuliggine, cosa che finora non è stata fatta anche perché richiede molto tempo. John Hawks dell’Università del Wisconsin, che fa parte della squadra di Berger, ha detto che in futuro sarà fatto ma che nel frattempo lui e gli altri studiosi dei naledi volevano condividere le proprie scoperte con il resto della comunità scientifica per via delle possibili conseguenze straordinarie che avrebbe la loro teoria, se fosse confermata.Finora si è sempre pensato che i comportamenti più complessi della nostra specie e dei neanderthal, come la coscienza della morte e i riti funebri, siano diventati possibili grazie alle dimensioni del cervello molto maggiori di quelle degli altri ominini. Se però anche i naledi erano in grado di scavare tombe e tracciare segni significherebbe che a essere essenziale per il pensiero complesso non sarebbe la dimensione del cervello, ma qualche altra caratteristica. LEGGI TUTTO