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    Nettuno non è davvero di questo colore

    Caricamento playerNel 1989 la sonda Voyager 2 passò vicino a Nettuno, l’ottavo e più lontano pianeta del sistema solare partendo dal Sole, e raccolse dei dati che furono poi elaborati come immagini dalla NASA, l’agenzia spaziale statunitense. In queste fotografie Nettuno appare di un blu piuttosto acceso e da allora è questo il colore che gli associamo e che vediamo cercando online le sue rappresentazioni. Tuttavia non si tratta del suo colore reale, quello che vedremmo se ci trovassimo su un’astronave in viaggio vicino al pianeta. Nettuno è in realtà celeste, cioè azzurro molto tenue, un colore piuttosto simile a quello di Urano: lo ha chiarito uno studio appena pubblicato sulla rivista scientifica Monthly Notices of the Royal Astronomical Society.

    New images reveal what Neptune and Uranus really look like: pic.twitter.com/e6Jah29mAv
    — University of Oxford (@UniofOxford) January 5, 2024

    L’origine del malinteso è in parte dovuta alla tecnica usata da Voyager 2 per fotografare i pianeti, ha spiegato l’astrofisico dell’Università di Oxford Patrick Gerard Joseph Irwin, primo autore dello studio, che è basata sul modello per la resa dei colori RGB, sigla che sta per “red, green, blue” cioè “rosso, verde, blu”. In pratica per produrre un’unica immagine di un pianeta la sonda registrava tre diverse immagini: ognuna conteneva informazioni sulla componente rossa, o verde, o blu del colore del pianeta in questione, e solo combinate insieme restituivano il colore vero e proprio.
    La resa finale di questa operazione tuttavia può cambiare significativamente a seconda di come viene eseguita e di quali scelte vengono fatte. Parametri regolati diversamente possono risultare in immagini che appaiono molto differenti, come sa chiunque abbia usato un filtro di Instagram per modificare una fotografia scattata con uno smartphone.
    La NASA ha spiegato che, nel caso delle foto di Nettuno, le immagini furono composte in modo da «evidenziare la visibilità di piccole caratteristiche, a scapito della fedeltà del colore». In particolare, gli scienziati fecero una scelta consapevole per far sì che si vedessero meglio le perturbazioni nell’atmosfera del pianeta. Queste infatti sono molto meno visibili nelle immagini più fedeli realizzate dagli autori del nuovo studio. Gli astrofisici, in realtà, hanno sempre saputo che il vero colore di Nettuno non era quello delle immagini diffuse nel 1989, ma nel tempo questa informazione si è perlopiù persa nella percezione collettiva.
    Per ottenere un’immagine più realistica del pianeta Irwin e i suoi colleghi hanno utilizzato dati raccolti dal telescopio spaziale Hubble e altri ottenuti dal Very Large Telescope (VLT) dell’Osservatorio europeo australe, che si trova in Cile. Le immagini prodotte da questi strumenti più recenti sono composte da pixel che contengono ciascuno informazioni su tutti i colori dello spettro visibile all’occhio umano, e sono per questo più affidabili rispetto alle immagini registrate da Voyager 2. Grazie alle informazioni così ottenute è stato possibile riprocessare le immagini del 1989 per verificare di che colore fosse realmente Nettuno all’epoca.
    Nello stesso studio è stato anche verificato che Urano è un po’ più verde quando uno dei suoi poli è orientato verso il Sole, cioè durante le sue estati e i suoi inverni; è un po’ più bluastro invece nelle sue primavere e nei suoi autunni. LEGGI TUTTO

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    L’annosa questione di chi si alza appena l’aereo atterra

    Sia in aeroporto che a bordo di un aereo, al momento di salirci sopra o prima di uscirne alla fine del volo, trovarsi in una fila è una delle esperienze più comuni. Il desiderio condiviso di ridurre il rischio di trovarsi in questa condizione e dover affrontare possibili disagi è la causa di comportamenti competitivi che paradossalmente finiscono spesso per generare anziché evitare ritardi e rallentamenti. Molte delle cose che facciamo quando prendiamo un aereo, in generale, riguardano fenomeni studiati nelle scienze del comportamento, l’insieme di varie discipline – tra cui psicologia, economia e scienze cognitive – che analizzano il comportamento umano e l’impatto che ha sul gruppo nel suo insieme.È abbastanza frequente notare alcuni passeggeri che subito dopo l’atterraggio si alzano in piedi e si affrettano a prendere il loro bagaglio dalla cappelliera, nonostante l’invito dell’equipaggio a tenere le cinture di sicurezza allacciate finché l’aereo non si ferma. Ed è altrettanto comune vedere persone in piedi affollare i gate in aeroporto e formare una fila prima ancora che comincino le operazioni di imbarco. Altre scelgono invece di attendere sedute che la fila si accorci, per rimanere meno tempo possibile in piedi ed essere tra le ultime persone a salire a bordo.
    Alla base di questi comportamenti possono esserci ragioni diverse da caso a caso, a volte anche urgenze particolari. Come ha detto al Washington Post Drake Castañeda, responsabile delle comunicazioni aziendali della compagnia Delta Air Lines ed ex operatore responsabile degli imbarchi, alcune persone possono essere semplicemente molto emozionate e impazienti all’idea del viaggio. O magari preferiscono sgranchirsi le gambe prima dell’imbarco e rimanere in piedi prima di un viaggio in cui resteranno presumibilmente sedute per molto tempo, soprattutto nei voli più lunghi. Ma indipendentemente dalle loro intenzioni, ha aggiunto Castañeda, i passeggeri che si mettono in fila troppo presto rischiano di rendere i tempi di attesa più lunghi per tutti.

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    In generale l’affollamento è una conseguenza del desiderio di ottenere un vantaggio competitivo sulle altre persone in un contesto in cui tutte devono fare la stessa cosa, senza un ordine prestabilito: salire su un aereo e poi scendere. I passeggeri che si alzano prima degli altri all’atterraggio e prendono il bagaglio per dirigersi verso una delle uscite dell’aereo contano di anticipare altri passeggeri – sia quelli seduti nelle file davanti che quelli seduti dietro – che stanno per fare o stanno già facendo la stessa cosa, in un modo più o meno veloce.

    pic.twitter.com/ypJcD5jkPO
    — Jeremy Danner (@Jeremy_Danner) December 2, 2022

    Un discorso simile ma con ulteriori variabili in gioco vale per le persone che si accalcano nei gate intasando l’area dell’imbarco (a volte chiamate in inglese gate lice, “pidocchi del gate”). Come quelle che scattano in piedi subito dopo l’atterraggio, attirano spesso l’antipatia sia di altri passeggeri che del personale responsabile dell’imbarco.
    Nella maggior parte dei casi la ragione per cui cercano di precedere altre persone è perché contano in questo modo di avere più spazio a bordo per muoversi e per riporre i bagagli a mano nelle cappelliere, rispetto alle persone che si imbarcano dopo. In alcuni casi, a seconda della compagnia aerea e della quantità di passeggeri già imbarcati, ai passeggeri che salgono per ultimi può tra l’altro essere chiesto di consegnare il bagaglio a mano affinché sia caricato in stiva (gratuitamente), se lo spazio a bordo per i bagagli è già esaurito. E per le persone che viaggiano soltanto con quello significa aggiungere al tempo di viaggio previsto un tempo imprevisto di attesa nell’aeroporto di destinazione per recuperare il bagaglio, o anche considerare il rischio di smarrire un bagaglio che contavano di avere sempre a portata di mano e che per questo può magari contenere oggetti di valore.
    La conseguenza spiacevole di questa competizione è che provoca spesso rallentamenti per tutti i passeggeri, come spiegato a Business Insider da Rich Henderson, assistente di volo da oltre dieci anni e coautore del sito Two Guys on a Plane. L’affollamento nell’area dell’imbarco ostacola il passaggio di gruppi di passeggeri che hanno priorità sugli altri, e può provocare confusione e ritardi se un passeggero su una sedia a rotelle, per esempio, per imbarcarsi deve attendere che le persone ammassate nell’area dell’imbarco si facciano da parte e siano ricacciate in coda alla fila.

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    I due principali fattori alla base del comportamento delle persone in situazioni come l’imbarco e lo sbarco dall’aereo sono il conformismo e la concorrenza, ha detto al Washington Post la psicologa Shira Gabriel, professoressa alla University at Buffalo. «Le persone usano altre persone come fonti di informazioni sia riguardo a cosa stanno facendo, sia riguardo a quale sia la cosa giusta da fare», ha detto Gabriel.
    La prima persona che si alza dal proprio posto, in altre parole, fornisce a tutte le altre informazioni su come possono e forse dovrebbero comportarsi, il che porta un maggior numero di passeggeri ad alzarsi e unirsi al primo che si è alzato, in un circolo di informazioni che passano di persona in persona. «Se vedi che le persone si mettono in fila, che si preparano, pensi che ci sia un vantaggio competitivo nel farlo», ha detto Gabriel, aggiungendo che le persone «fanno qualsiasi cosa bizzarra, se pensano che sia quello il modo di comportarsi». Questa attitudine è incentivata in parte anche dalle politiche stesse delle compagnie, che come nel caso dei bagagli a mano imprevedibilmente caricati in stiva al momento dell’imbarco possono determinare uno svantaggio concreto per le persone che arrivano dopo le altre.
    «La conseguenza di questi problemi strutturali [delle compagnie aeree] è che creano incertezza e competizione», ha detto al Washington Post lo psicologo sociale Stephen Reicher, professore alla University of St. Andrews, in Scozia. Questa situazione di incertezza motiva le persone a mettersi in fila anche a scapito di altre, perché comportarsi come se non ci fosse competizione quando la competizione c’è è da loro percepito come svantaggioso rispetto a comportarsi come se ci fosse competizione quando la competizione non c’è. Nel primo caso rischiano di perdere una coincidenza all’atterraggio, mentre nel secondo rimangono in piedi per qualche minuto senza una buona ragione, ha detto Reicher. Senza considerare il rischio dei costi sociali – fare la figura del «fesso» – nell’essere l’ultima persona in fila e per questo motivo non poter portare il bagaglio a bordo.
    Il momento dello sbarco è un altro momento del viaggio che tende a irritare molte persone, perché alcune si alzano spesso dal proprio posto prima che l’atterraggio sia concluso, e cioè prima che il segnale delle cinture allacciate venga spento, e questo comporta un rischio in termini di sicurezza. In molti casi genera anche un rallentamento delle operazioni di sbarco, spiegò al Washington Post nel 2019 l’assistente di volo newyorkese Jennifer Johnson, perché rende necessario avvisare il pilota e dirgli che un passeggero si è alzato, intasando le comunicazioni a bordo.
    Il comportamento più appropriato una volta concluso l’atterraggio, scrisse il Washington Post condividendo alcune indicazioni utili su come lasciare l’aereo in modo ordinato e rispettoso verso gli altri passeggeri, è attendere seduti il turno della propria fila prima di spostarsi nel corridoio e prendere i bagagli dalla cappelliera. Il proprio turno può variare in determinate situazioni, ma nella maggior parte dei casi è quando i passeggeri nelle file davanti alla propria hanno già preso il bagaglio e stanno uscendo dall’aereo.
    Un altro consiglio condiviso da un’assistente di volo consultata dal Washington Post, rivolto alle persone preoccupate di perdere una coincidenza, è di non aspettare lo sbarco per mettere l’equipaggio al corrente di quella particolare urgenza. Informare gli assistenti di volo già durante il viaggio, riguardo a un’eventuale coincidenza da prendere in tempi molto ristretti, può permettere loro di fornire aggiornamenti sul volo da prendere e, se possibile e utile, scambiare di posto alcuni passeggeri spostando nella parte anteriore quelli con particolare urgenza di scendere subito dopo l’atterraggio. LEGGI TUTTO

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    Il più grande ragno dei cunicoli finora scoperto

    In Australia è stato scoperto il più grande individuo mai osservato di ragno dei cunicoli (Atrax robustus), tra i ragni più velenosi e aggressivi al mondo. Per le sue grandi dimensioni è stato chiamato “Hercules” e sarà tenuto in cattività per poterne estrarre il veleno, in modo da produrre un antiveleno da utilizzare nel caso di persone morse accidentalmente da uno dei suoi simili. Se non trattato adeguatamente, il morso del ragno dei cunicoli può causare gravi problemi di salute e in alcuni casi la morte.Hercules era stato trovato lungo la regione della Costa Centrale in un luogo una cinquantina di chilometri a nord di Sydney, la città più popolosa dell’Australia. Inizialmente era stato trasportato in un ospedale della zona per poterlo gestire in sicurezza e in seguito era stato trasferito all’Australian Reptile Park, una piccola riserva che si occupa della cura e della tutela di molte specie locali. All’interno del parco un’area è dedicata all’estrazione del veleno da ragni e altri animali velenosi, proprio con l’obiettivo di produrre antidoti e di fare attività di ricerca sulla loro efficacia.
    Dopo avere ricevuto il ragno dei cunicoli, i responsabili del parco hanno velocemente realizzato di avere a che fare con l’individuo più grande mai identificato di Atrax robustus). Comprese le zampe, il ragno raggiunge una larghezza massima di 8,9 centimetri, ben al di sopra dei 5 centimetri raggiunti di solito dagli individui più grandi. È inoltre particolare che un maschio abbia dimensioni così grandi, considerato che solitamente sono più piccoli delle femmine, per quanto più letali.
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    Emma Teni, una delle responsabili del parco, ha detto ad Associated Press: «Siamo abituati alle donazioni di grandi ragni dei cunicoli, ma ricevere un maschio di questa specie così grande è come vincere alla lotteria. Anche se le femmine sono più velenose, i maschi hanno mostrato di essere più letali». L’estrazione del veleno consentirà di produrre maggiori quantità di antiveleno, che in caso di necessità può essere inviato agli ospedali che ne fanno richiesta. L’iniziativa fu avviata nel 1981 e da allora non sono state più registrate morti a causa del ragno dei cunicoli in Australia.
    Hercules e i suoi simili, per quanto di taglia inferiore, vivono nelle aree boschive, ma in alcuni casi possono essere trovati anche nei parchi e nei giardini dell’area di Sydney e più a nord fino alla città di Newcastle lungo la costa. La specie è presente solo in Australia come le altre sempre appartenenti al genere Atrax. In inglese sono di solito definiti “funnel-web spiders”, letteralmente “ragni dalla tela a imbuto” per via della particolare forma delle loro ragnatele. LEGGI TUTTO

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    L’antibiotico-resistenza è un gran problema

    Caricamento playerIl recente annuncio dello sviluppo del zosurabalpin – un antibiotico di nuova generazione ritenuto efficace contro un batterio molto difficile da trattare – è stato accolto come un nuovo importante progresso nell’affrontare il problema dell’antibiotico-resistenza, cioè della capacità di alcuni batteri di resistere ai farmaci e di portare avanti l’infezione talvolta con esiti letali. Il fenomeno è noto da tempo e secondo l’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) è uno dei più grandi rischi per la salute pubblica perché, con il passare del tempo, rende sempre meno efficaci farmaci che nel corso del Novecento avevano permesso di salvare la vita di milioni di persone.
    In generale gli antibiotici sono sostanze prodotte da un microrganismo in grado di ucciderne un altro o di limitarne la moltiplicazione. Gli antibiotici propriamente detti sono quelli prodotti in questo modo da alcuni microrganismi per contrastarne altri, mentre gli antibatterici non-antibiotici sono sostanze ottenute in laboratorio. Entrambi hanno comunque la medesima caratteristica, cioè uccidere o prevenire la crescita di particolari batteri, di conseguenza si utilizza comunemente il termine ombrello “antibiotici” per tutte e due le tipologie di sostanze.
    Lo sviluppo degli antibiotici, a partire dai primi esperimenti di Alexander Fleming sulla penicillina alla fine degli anni Venti del secolo scorso, ha portato all’identificazione di circa 15 classi dalle quali è derivata la produzione degli antibiotici che utilizziamo ancora oggi. La varietà di queste sostanze non è molto ampia e questa scarsità è diventata una delle cause dell’antibiotico-resistenza, insieme a un uso su ampia scala e spesso eccessivo degli antibiotici nella seconda metà del Novecento.
    Una certa resistenza antibiotica da parte dei batteri è sempre esistita ed è stata essenziale per scoprire gli antibiotici che utilizziamo. I batteri sono organismi unicellulari e devono difendersi dagli agenti esterni, che potrebbero danneggiarli e compromettere le loro colonie. Per farlo nel corso di milioni di anni hanno sviluppato la capacità di produrre propri antibiotici, cioè sostanze che danneggiano per esempio altre specie di batteri, che altrimenti potrebbero distruggerli e rimpiazzarli. È un processo che riguarda anche i funghi e fu alla base dei primi lavori di Fleming, che derivò la penicillina proprio da una muffa (le muffe appartengono al regno dei funghi).
    Lo studio dei batteri e delle loro difese ha portato allo sviluppo di una grande varietà di antibiotici: alcuni sono ad ampio spettro, cioè contrastano specie diverse di batteri, mentre altri sono più specializzati verso una sola o poche specie di questi microrganismi. Le diverse tipologie di antibiotici servono appunto per provare a eludere le difese dei batteri ed eliminarli, in modo da aiutare il sistema immunitario del paziente a superare l’infezione.
    I batteri si riproducono di continuo, anche più volte in una sola ora, e lo fanno copiando il loro materiale genetico. In questo processo può accadere che si verifichino delle mutazioni, cioè degli errori nel processo di copiatura del materiale genetico. La maggior parte delle mutazioni è innocua e non ha conseguenze, ma alcune possono invece determinare una maggiore resistenza del batterio a uno o più antibiotici. Un trattamento con antibiotici elimina quindi i batteri senza la mutazione, mentre si rivela inefficace contro quelli che casualmente hanno sviluppato una certa resistenza. Questi possono a loro volta mutare, producendo batteri dotati di un ulteriore tipo di resistenza e rendendo quindi ancora più difficile la loro eliminazione con gli antibiotici.
    Esempio semplificato di sviluppo dell’antibiotico-resistenza (Ufficio federale della sanità pubblica della Confederazione Svizzera)
    I batteri resistono agli antibiotici in modo diverso a seconda del modo in cui sono fatti e delle mutazioni che hanno accumulato. Alcuni espellono semplicemente l’antibiotico che si è inserito nel materiale cellulare, mentre altri rendono impermeabile la loro membrana in modo che l’antibiotico non possa andare oltre. Ci sono altri casi in cui i batteri modificano la struttura dell’antibiotico rendendolo inattivo oppure ancora modificano alcune delle proteine batteriche e sulle quali sarebbe dovuto intervenire l’antibiotico.
    Come abbiamo visto l’antibiotico-resistenza è una caratteristica tipica dei batteri legata al modo in cui mutano ed evolvono, tuttavia un uso eccessivo o inappropriato degli antibiotici può facilitare l’emergere di batteri sempre più resistenti. Gli antibiotici vengono spesso utilizzati in modo poco o per nulla adeguato, spesso per trattare malattie che non sono causate da batteri, ma da virus contro i quali un antibiotico non può fare nulla. Una certa tendenza a ricorrere agli antibiotici senza motivo era emersa piuttosto chiaramente nelle fasi più acute della pandemia da coronavirus, nonostante tutte le principali istituzioni internazionali invitassero a non utilizzare questo tipo di farmaci per trattare COVID-19, una malattia virale a tutti gli effetti.
    L’antibiotico-resistenza può anche essere favorita da un uso scorretto degli antibiotici, per esempio quando si decide di accorciare la durata della terapia, oppure di ridurre le dosi di antibiotico e di fare da sé, senza avere consultato un medico. L’effetto della maggior parte degli antibiotici è relativamente breve e per questo le terapie spesso prevedono l’assunzione di una dose due o tre volte al giorno, per avere una copertura completa durante il trattamento. Assumerne meno o in orari non regolari può facilitare la sopravvivenza dei batteri e la loro proliferazione, con un aumentato rischio di mutazioni.
    I batteri che sviluppano una marcata resistenza possono causare numerose tipologie di infezioni, che possono diventare croniche o nei casi più gravi letali. Tra le infezioni più ricorrenti e difficili da trattare ci sono quelle del tratto urinario, le polmoniti, le infezioni della pelle, alcune forme di diarrea e le infezioni a carico del sistema circolatorio. Le persone ricoverate in ospedale sono inoltre a più alto rischio di contrarre infezioni batteriche, a cominciare da quelle da Acinetobacter baumannii, un batterio che può avere una forte resistenza agli antibiotici, compresi i carpapenemi, una classe di antibiotici ad ampio spettro di azione e che vengono considerati di “ultima linea” (cioè trattamenti da adottare quando gli altri hanno fallito).
    Trattare le infezioni dovute a batteri resistenti è spesso molto difficile e rende necessaria la somministrazione di tipi diversi di antibiotici, che possono essere via via più potenti e mirati, ma anche più costosi. Trovare la giusta terapia richiede tempo in una fase in cui qualsiasi ritardo è un problema per il paziente, che continua intanto a peggiorare a causa dell’avanzare dell’infezione e degli altri problemi connessi. Le complicazioni possono rivelarsi letali, soprattutto nel caso dei ceppi batterici che si rivelano resistenti a più classi diverse di antibiotici. Il rischio è che con il tempo alcuni batteri diventino resistenti a tutti gli antibiotici oggi disponibili, vanificando i progressi raggiunti nel Novecento in questo campo.
    I dati raccolti dal Centro europeo per la prevenzione e il controllo delle malattie (ECDC) indicano che l’antibiotico-resistenza sta diventando un problema in molti paesi dell’Europa. In particolare negli ultimi anni è stato osservato un aumento della resistenza di Escherichia coli agli antibiotici solitamente più usati, con un conseguente aumento dei casi di infezioni croniche al tratto urinario e infezioni ancora più gravi. Nei paesi meridionali dell’Europa il fenomeno sembra essere più diffuso rispetto ai paesi della Scandinavia e ai Paesi Bassi. In generale, i paesi dove storicamente si registra un ricorso più prudente agli antibiotici sono anche i paesi dove il fenomeno della resistenza agli antibiotici è meno presente.
    Il problema dell’uso eccessivo degli antibiotici è comunque globale e l’OMS ha avviato diverse iniziative e progetti per sensibilizzare i governi e le autorità sanitarie nazionali sul problema, con ripetuti inviti a ridurre l’impiego degli antibiotici. In molti paesi, compresa l’Italia, sono state rafforzate le limitazioni legate alla possibilità di acquisto degli antibiotici in farmacia senza una prescrizione medica proprio per evitare gli approcci fai-da-te.
    Gli antibiotici non sono consumati solo direttamente dagli esseri umani, ma anche indirettamente attraverso la catena alimentare. Negli allevamenti si fa spesso ampio uso degli antibiotici per assicurarsi una crescita rapida e in salute degli animali, riducendo il rischio di infezioni. Le sostanze utilizzate sono le medesime impiegate sugli esseri umani e ci sono studi che hanno rilevato un effettivo passaggio di alcune di queste in chi consuma carne. Le ricerche in tema sono ancora in corso, ma si ritiene che il trasferimento sia minimo se confrontato con quello dovuto ai trattamenti medici negli esseri umani.
    Un uso solo quando strettamente necessario degli antibiotici ed esami diagnostici più accurati per stabilire in fretta la giusta terapia antibiotica sono considerati gli strumenti più importanti per contenere il problema dell’antibiotico-resistenza. Ma secondo l’OMS un approccio integrato deve anche passare attraverso lo sviluppo di antibiotici di nuova generazione, in modo da trattare i casi più difficili come quelli da Acinetobacter baumannii. Come ha segnalato un recente editoriale pubblicato dalla rivista scientifica Nature, sviluppare nuovi antibiotici non è semplice e ha forti implicazioni economiche.
    Si stima che solo un candidato antibiotico su 30 superi la fase di verifica in laboratorio per poi iniziare i test sui pazienti. L’intero processo dallo sviluppo all’approvazione da parte delle autorità di controllo può arrivare a costare intorno a un miliardo di euro, ma poiché si cerca di utilizzare il meno possibile gli antibiotici proprio per evitare l’antibiotico-resistenza i ritorni per l’azienda farmaceutica che ha investito così tanto sono generalmente bassi, spesso inferiori ai 100 milioni di euro all’anno. Di conseguenza le aziende farmaceutiche sono restie a fare grandi investimenti nel settore, salvo non ci siano incentivi e promesse di acquisto da parte dei governi tali da rendere sostenibile la loro attività di ricerca e sviluppo.
    La questione sarà affrontata nel corso della prossima assemblea generale delle Nazioni Unite a settembre, con una serie di incontri dedicati alla resistenza agli antimicrobici (il problema riguarda anche, in modo diverso, i funghi e i virus) dopo gli ultimi organizzati ormai otto anni fa. Gli incontri di questo tipo servono di solito a fissare impegni e regole comuni, ma anche per fare il punto della situazione dopo la prima serie di iniziative adottate nel 2016 da oltre 150 paesi per ridurre e rendere più responsabile il consumo di antibiotici. LEGGI TUTTO

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    Dopo molti anni c’è un nuovo promettente antibiotico

    Un nuovo tipo di antibiotico si è rivelato molto promettente nel trattare un batterio che causa spesso infezioni gravi, soprattutto in ambito ospedaliero, e che ha una forte resistenza agli antibiotici tradizionali. La scoperta è stata annunciata con due ricerche pubblicate sulla rivista scientifica Nature, che raccontano il lavoro dei gruppi di ricerca che se ne sono occupati per conto di Roche, azienda farmaceutica e di diagnostica svizzera tra le più grandi e importanti al mondo. Il nuovo antibiotico dovrà superare i test clinici per verificarne efficacia e sicurezza, quindi non sarà disponibile a breve, ma secondo gli esperti potrebbe rivelarsi molto importante nel trattare infezioni batteriche pericolose specialmente per le persone fragili.L’Acinetobacter baumannii resistente ai carbapenemi (CRAB) è un batterio che può provocare gravi infezioni proprio a causa della sua alta resistenza in particolare ai carbapenemi, una classe di antibiotici con un ampio spettro di azione e che vengono considerati di “ultima linea”, cioè trattamenti da adottare quando tutti gli altri hanno fallito. I batteri tendono a mutare facilmente in modo da resistere agli antibiotici, oppure occupano gli spazi lasciati dalle specie più esposte all’azione antibiotica: se gli antibiotici vengono usati estensivamente, come è avvenuto per decenni, si riduce via via la loro efficacia rendendo alcuni tipi di batteri più resistenti ai trattamenti disponibili. Questa “antibiotico-resistenza” è diventata un problema globale e pone seri problemi per il trattamento di infezioni batteriche che si possono rivelare letali.
    I CRAB hanno inoltre la capacità di resistere a lungo fuori dall’organismo, anche in ambienti relativamente secchi, e di conseguenza riescono a diffondersi facilmente tra le persone. Negli ospedali l’infezione può essere causata per esempio dai sistemi di ventilazione, se privi di purificatori adeguati, oppure dal contatto con superfici contaminate. I CRAB causano soprattutto polmoniti e sepsi (una anomala ed eccessiva risposta immunitaria all’infezione) che nei pazienti con altri problemi di salute possono rivelarsi letali, specialmente se in mancanza di una buona risposta agli antibiotici.
    I batteri sono organismi unicellulari, cioè costituiti da una sola cellula, e la maggior parte degli antibiotici scoperti e sviluppati fino agli anni Settanta (sostanzialmente gli unici di cui disponiamo) agisce nel citoplasma, la parte interna del batterio delimitata dalla membrana cellulare interna ed esterna. Gli antibiotici scoperti nel tempo appartengono quasi tutti a una quantità limitata di classi ed è raro che se ne aggiungano di nuovi tipi, con funzionamenti diversi.
    Consapevoli delle grandi limitazioni che da decenni hanno impedito di identificare nuovi antibiotici efficaci, i gruppi di ricerca si sono messi al lavoro esaminando decine di migliaia di molecole per individuare quelle che mostravano almeno un minimo di attività antibiotica. L’analisi ha permesso infine di identificare una molecola di partenza su cui lavorare per creare il nuovo antibiotico, il cui principio attivo è stato chiamato zosurabalpin (se supererà i test clinici, sarà venduto con un nome commerciale diverso) ed è altamente specifico nei confronti di Acinetobacter baumannii.
    Il zosurabalpin ha la capacità di limitare un processo molto importante che avviene all’interno del batterio e cioè il trasporto tramite un complesso di proteine (LptB2FGC) di sostanze dall’interno della cellula verso lo spazio tra le due membrane (“periplasma”) che servono a rafforzare le sue protezioni dagli agenti esterni. Compromettendo il sistema di trasporto, si verifica un accumulo all’interno del batterio intossicandolo e facendolo morire. È un approccio diverso da quello seguito con altri antibiotici e sembra funzionare bene, almeno nei test condotti finora in laboratorio: sia in vitro – quindi in contenitori in cui erano presenti colonie di Acinetobacter baumannii – sia in vivo con test su topi per i quali è stato possibile trattare con efficacia polmonite e sepsi, che avrebbero altrimenti causato la loro morte.
    Dopo le verifiche in laboratorio, Roche ha avviato i primi test clinici per valutare la sicurezza del nuovo antibiotico, in vista dei prossimi test che saranno invece orientati a verificare l’efficacia del zosurabalpin. Il suo meccanismo di azione è particolare perché interviene nella parte più periferica del batterio e non direttamente nel citoplasma, di conseguenza dovrebbe mostrare una buona efficacia e ridurre il rischio che il batterio accumuli mutazioni che gli consentano di evitare l’accumulo delle proteine che non riesce a trasportare verso il periplasma. Questa eventualità non può comunque essere esclusa e in laboratorio sono emersi casi di mutazioni che hanno ridotto sensibilmente l’attività antibiotica.
    Un altro problema che potrebbe presentarsi è legato alla capacità di A. baumannii di potere fare a meno, almeno per un certo periodo di tempo, del trasporto di proteine verso le proprie membrane cellulari. In alcuni casi il batterio riesce infatti a interrompere la produzione di quelle proteine, evitando proprio che il loro accumulo lo porti a intossicarsi e a morire. La riduzione del trasporto rende comunque meno infettivo il batterio e di conseguenza la capacità stessa di A. baumannii di produrre grandi colonie, che portano poi alle polmoniti difficili da trattare.
    Al di là del caso specifico, il nuovo antibiotico segna soprattutto l’esplorazione di un nuovo approccio per contrastare i batteri fermandosi alla loro parte periferica e, visto che diversi altri utilizzano un sistema simile di trasporto, in futuro potrebbero essere sviluppati antibiotici contro altre specie batteriche. Tra i possibili obiettivi potrebbero esserci Escherichia coli, Klebsiella pneumoniae e Pseudomonas aeruginosa, le cui infezioni non sempre vengono trattate con successo utilizzando i tradizionali antibiotici.
    L’approccio seguito con il zosurabalpin dovrebbe inoltre rendere possibile lo sviluppo di trattamenti altamente specifici, perché l’antibiotico è in grado di intervenire quasi esclusivamente su A. baumannii. Questo significa che la sua somministrazione non dovrebbe portare alla distruzione della flora batterica (il “microbioma”), cioè del complesso di batteri che vivono nell’intestino e che svolgono un ruolo centrale nei processi digestivi e per l’assorbimento delle sostanze nutrienti da parte del nostro organismo. I comuni antibiotici hanno spesso l’effetto collaterale di distruggere anche i batteri che ci sono utili, rallentando di conseguenza il processo di guarigione.
    I risultati dei primi test clinici condotti sul zosurabalpin saranno comunicati nel corso di quest’anno, ma i test proseguiranno con le altre fasi per diverso tempo. Roche dovrà poi presentare tutta la documentazione sui test eseguiti alle autorità di controllo come la Food and Drug Administration negli Stati Uniti e l’Agenzia europea per i medicinali nell’Unione Europea, che se non riscontreranno anomalie daranno la loro approvazione per l’impiego dell’antibiotico. Il ricorso allo zosurabalpin sarà probabilmente molto limitato e indicato per i casi in cui non hanno funzionato altri approcci terapeutici, proprio per evitare che si verifichi velocemente una resistenza batterica anche al nuovo antibiotico.
    Infine, dovranno essere anche concordati prezzi e forniture del zosurabalpin, un aspetto centrale perché non sempre per le aziende farmaceutiche è conveniente lo sviluppo di nuovi antibiotici. La fase di ricerca e dei test clinici può comportare investimenti intorno al miliardo di euro, per un prodotto che viene poi utilizzato solo in casi estremi e che magari porta a ricavi di meno di 100 milioni di euro all’anno. LEGGI TUTTO

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    Anche un orso polare è morto di influenza aviaria

    Alla lista dei numerosi mammiferi che negli ultimi due anni sono stati contagiati dal virus dell’influenza aviaria si è aggiunto anche un orso polare, trovato morto lo scorso ottobre a Utqiagvik, nell’estremo nord dell’Alaska. A fine dicembre il dipartimento per la Conservazione ambientale dello stato americano ha diffuso i risultati di un test per il virus effettuato sui resti dell’orso e il veterinario Bob Gerlach ha confermato all’Alaska Beacon che l’influenza è stata la causa della morte.Era già successo che orsi di altre specie fossero infettati dall’aviaria, ma questo è il primo caso noto nel mondo di un orso polare morto per la malattia. È stato segnalato all’Organizzazione mondiale della sanità animale (WOAH) e agli altri paesi artici in cui vivono orsi polari.
    L’epidemia di influenza aviaria in corso è cominciata tra il 2020 e il 2021 e ha causato la morte di milioni di uccelli selvatici e di allevamento e migliaia di contagi tra i mammiferi, compresi alcuni esseri umani. La situazione è tenuta sotto controllo dalle principali organizzazioni sanitarie internazionali e non è ritenuta preoccupante per le persone, mentre è osservata con maggiore apprensione per quanto riguarda alcune specie di animali selvatici che in passato erano meno vulnerabili alle epidemie di influenza aviaria.
    Esistono numerosi tipi e varianti di virus che causano la malattia e quello responsabile dell’attuale epidemia è particolarmente aggressivo e provoca un’influenza detta ad alta patogenicità (HPAI), che può comportare gravi conseguenze per la salute degli animali che la contraggono e un’ampia diffusione dei contagi. Il virus responsabile è H5N1, le cui prime versioni furono identificate in Cina negli ultimi anni del Novecento. Da allora si sono fatti più frequenti i focolai tra gli uccelli selvatici e i contagi di mammiferi. Solo negli ultimi anni il virus è stato rilevato in modo significativo in Nord America, mentre in precedenza si era manifestato principalmente in Asia, in Europa e in Africa.

    – Leggi anche: Quanto dobbiamo preoccuparci di questa influenza aviaria

    La variante di H5N1/HPAI sembra abbia sviluppato la capacità di passare più facilmente dagli uccelli ai mammiferi, a giudicare dalle segnalazioni e dagli studi più recenti. Oltre ad avere causato una quantità più alta del solito di decessi tra i volatili selvatici, ha contagiato orsi, procioni, scoiattoli, puzzole, volpi, puma e foche. In Alaska le volpi morte in cui è stata riscontrata la presenza del virus sono state tre dall’aprile del 2022.
    Gli orsi polari dell’Alaska si cibano principalmente di foche ma si ritiene che quello morto per l’aviaria abbia mangiato carcasse di uccelli e che in questo modo possa essere entrato in contatto col virus.
    Una delle maggiori preoccupazioni dei biologi riguardo all’epidemia di influenza aviaria è che si espanda maggiormente in Antartide, cioè all’estremo sud del mondo. A ottobre sono stati rilevati i primi contagi da H5N1 nella regione, tra gli stercorari antartici dell’isola di Bird, nell’arcipelago della Georgia del Sud, quindi non sul continente vero e proprio. Da allora centinaia di elefanti marini con sintomi influenzali sono morti nelle isole della zona e il virus è stato trovato sempre più vicino al continente. Il timore maggiore è che l’epidemia possa fare grossi danni raggiungendo le popolazioni di pinguini dell’Antartide.
    Secondo un rapporto di un gruppo di scienziati della WOAH e della FAO, l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura, pubblicato a dicembre, in Antartide gli effetti negativi dell’H5N1/HPAI potrebbero essere «immensi» perché sia le foche che gli uccelli della regione vivono in colonie di migliaia o centinaia di migliaia di individui, dunque in gruppi particolarmente esposti alla diffusione di una malattia contagiosa. Si teme un disastro ecologico. LEGGI TUTTO

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    Perché i cani capiscono in che direzione indichiamo, ma non cosa?

    Caricamento playerAlle persone che vivono con un cane capita abbastanza spesso di voler attirare la sua attenzione puntando il dito verso un oggetto che si trova a una certa distanza, come succede anche in molte normali interazioni umane. Di solito non passa molto prima che il cane raggiunga l’oggetto indicato, se è un biscotto o un gioco che conosce. La maggior parte dei cani rivolge in generale l’attenzione nella direzione giusta, ma ci mette un po’ a capire quale sia l’oggetto indicato, e a volte non lo capisce affatto.
    In uno studio recentemente pubblicato sulla rivista scientifica Ethology un gruppo di ricerca ungherese del dipartimento di etologia dell’Università Eötvös Loránd, a Budapest, ha cercato di fornire una spiegazione al fatto che i cani, quando viene loro indicato un oggetto, capiscono di solito in che direzione concentrare l’attenzione ma non su cosa. Dopo aver condotto una serie di esperimenti, il gruppo ha ipotizzato che questo comportamento dipenda dalla priorità che i cani tendono ad assegnare alla posizione anziché alla forma degli oggetti.
    È una conseguenza non soltanto del modo in cui vedono, ma anche del modo in cui “pensano”. Alcuni individui con particolari abilità cognitive riescono infatti a cambiare il loro approccio e imparano a elaborare le informazioni in un modo più simile a quello umano, in modo da riconoscere gli oggetti anche dal loro aspetto oltre che dalla posizione.
    Riconoscere gli oggetti a partire da un segnale che ne indica la posizione è una capacità che emerge abbastanza presto negli esseri umani durante lo sviluppo. È generalmente descritta negli studi sulla comunicazione, sul linguaggio e sulla pragmatica (lo studio della relazione tra i segni e i loro utenti) come un effetto della condivisione di un codice comune e soprattutto di un contesto linguistico, senza i quali qualsiasi definizione “ostensiva” rimarrebbe indeterminata. In mancanza di un simile contesto definire un tavolo indicandolo, per esempio, non permetterebbe all’interlocutore o all’interlocutrice di comprendere quale delle numerose informazioni meritevoli di elaborazione – il colore, la forma, una parte del tavolo (il piede) anziché tutto – è la più pertinente tra tutte le informazioni disponibili.
    La capacità di comprendere l’intenzione comunicativa alla base dei gesti che indicano la posizione di un oggetto è una delle differenze più evidenti nella reazione a quei gesti da parte dei bambini rispetto alla reazione dei cani, ha scritto il gruppo di ricerca ungherese. Mentre i bambini già a nove mesi interpretano il gesto come un’indicazione dell’oggetto specifico, i cani interpretano quello stesso gesto come un generico segnale direzionale. Indipendentemente dall’intenzione della persona che utilizza il gesto, il significato del gesto per i bambini e per i cani è diverso.
    I ricercatori e le ricercatrici hanno definito «pregiudizio spaziale» la propensione dei cani a dare priorità nell’elaborazione delle informazioni alla posizione, alla distanza e alle relazioni spaziali tra gli oggetti, spesso a scapito delle caratteristiche degli oggetti. Per studiare questo comportamento hanno condotto in una stanza vuota del dipartimento di etologia dell’università due diversi esperimenti su 82 cani (39 femmine e 43 maschi) di varie razze, tra cui Border Collie (19), Bracco ungherese (17) e Whippet (6), ciascuno dei quali accompagnato dal suo proprietario o dalla sua proprietaria, che partecipava agli esperimenti.
    Nel primo esperimento i cani dovevano reagire a un gesto del loro proprietario o della loro proprietaria e imparare in quale tra due piatti posizionati all’estremo opposto della stanza, uno a destra e uno a sinistra, veniva posizionato un premio (un bocconcino). Dall’inizio della prova avevano 15 secondi di tempo per raggiungere il piatto corretto, e un massimo di 50 tentativi per apprendere il compito che era stato loro assegnato.
    (Eniko Kubinyi/Ethology)
    Un secondo esperimento prevedeva l’utilizzo di un solo piatto per volta, posizionato al centro all’estremo opposto della stanza. A ciascun cane veniva dato il bocconcino in un solo tipo di piatto: o uno rotondo e bianco, o uno quadrato e nero. L’alternanza dei due tipi di piatto era semi-casuale: non veniva mai usato lo stesso tipo di piatto per più di due volte consecutive. Il compito dei cani in questo secondo esperimento, in pratica, era imparare a riconoscere l’oggetto dalle sue caratteristiche (forma e colore) anziché dalla sua posizione. Sia nel primo che nel secondo esperimento i ricercatori e le ricercatrici hanno misurato la velocità con cui il cane correva verso il piatto “corretto”.
    (Eniko Kubinyi/Ethology)
    I risultati hanno mostrato che i tempi di apprendimento dei cani nel primo esperimento erano più brevi rispetto a quelli nel secondo esperimento, in cui in generale i cani avevano più difficoltà a memorizzare l’oggetto giusto. Per ottenere informazioni sulla duttilità mentale dei cani i ricercatori e le ricercatrici hanno poi replicato gli esperimenti con quelli che avevano ottenuto i risultati migliori, invertendo però la collocazione del bocconcino rispetto alle prove precedenti. In un esperimento lo hanno posizionato nel piatto a destra, per tutti i cani che nel primo esperimento lo avevano nel piatto a sinistra. E in un altro esperimento lo hanno posizionato soltanto nel piatto nero quadrato, per i cani che in precedenza lo avevano ricevuto in quello bianco rotondo.
    Alcuni cani riuscivano più facilmente e velocemente di altri a superare il compito, dimostrando maggiore capacità di modificare sulla base delle nuove informazioni il comportamento precedentemente appreso. I cani che più facilmente degli altri riuscivano a riconoscere il piatto dalla forma e dal colore erano tendenzialmente quelli con più capacità di superare il pregiudizio spaziale, al quale contribuiscono variamente non soltanto le particolari capacità sensoriali dei cani – in particolare quella visiva, già studiata in precedenti ricerche – ma anche le capacità cognitive individuali.
    Gli autori e le autrici dello studio hanno spiegato che le capacità visive dei cani sono diverse a seconda delle razze, in base alla forma della testa. «I cani con la testa più corta, scientificamente definiti “brachicefali”, sviluppano una visione simile a quella umana», ha detto Zsófia Bognár, una delle coautrici dello studio, perché la struttura della loro retina implica una visione più nitida e a fuoco rispetto a quella dei cani di razze con la testa più lunga. Come misura approssimativa della qualità della vista nei cani viene infatti utilizzata una misura della forma della testa chiamata “indice cefalico”, che si calcola dividendo la larghezza del cranio per la lunghezza del cranio: più è corta la testa, più è alto l’indice.
    Sulla base dei risultati complessivi degli esperimenti e dalla valutazione di altre caratteristiche dei cani tramite test cognitivi sulla memoria, l’attenzione e la perseveranza, lo studio ha tuttavia concluso che i cani con prestazioni cognitive migliori riescono a superare i limiti sensoriali e associano le informazioni agli oggetti con la stessa facilità con cui le associano alle posizioni. Se i cani di solito non comprendono quale oggetto stiamo indicando ma soltanto la posizione in cui si trova, in definitiva, dipende in primo luogo da limiti di visione relativi alle caratteristiche fisiche della razza: limiti che determinano in generale una maggiore attenzione verso gli oggetti in movimento anziché verso quelli fissi. Ma dipende in secondo luogo anche da capacità cognitive individuali di ciascun cane. LEGGI TUTTO

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    Come questo logo della NASA è finito ovunque

    Da qualche anno è sempre più frequente vedere in giro magliette, felpe e accessori come zaini e berretti con una semplice scritta: NASA. Molti sono convinti che le quattro lettere stilizzate in modo sinuoso siano il logo ufficiale dell’agenzia spaziale statunitense, mentre in realtà il simbolo principale della NASA è un altro, più elaborato e secondo alcuni un po’ confuso. Paradossalmente, il logo di maggior successo della più grande agenzia spaziale al mondo è quello secondario, che era stato adottato nella metà degli anni Settanta e abbandonato all’inizio dei Novanta, solo per essere riscoperto e rivalutato nell’ultimo periodo. C’entrano il revival degli anni Ottanta e Novanta, il gusto per le scritte grandi e vistose su alcuni capi di abbigliamento e come alcuni loghi appaiono meglio di altri sui razzi che mandiamo nello Spazio.Il logo principale della NASA viene affettuosamente chiamato dai dipendenti dell’agenzia e dagli appassionati “meatball”, cioè “polpetta” in inglese, sia per la sua forma sia per lo storico legame dell’agenzia con l’aviazione (l’OLS in aeronautica è un sistema di atterraggio ottico con globi colorati e viene spesso chiamato “polpetta”). A prima vista, il logo appare come un insieme poco coerente di linee che attraversano la scritta NASA con un disco blu di sfondo. Le linee rosse superano i margini stessi del disco, dando un senso di movimento, ma nel complesso rendono un poco disordinata la forma del simbolo. Per lungo tempo il logo della NASA è stato infatti polarizzante, tra chi lo amava e chi lo detestava e preferiva di gran lunga il logo alternativo, quello che oggi si trova più facilmente sulle magliette.
    Il disco blu è in realtà la versione schematica di una sfera che rappresenta un pianeta (quindi non necessariamente la Terra), mentre i puntini bianchi sono stelle in riferimento allo Spazio. Le due linee rosse che superano i margini del disco rappresentano l’ala di un aeroplano, per ricordare l’aeronautica, e si tratta in particolare di ali per il volo supersonico. L’ellissi bianca serve invece a indicare un veicolo spaziale che compie un’orbita intorno all’ala rossa e alla scritta NASA.
    (NASA)
    Il logo fu adottato alla fine degli anni Cinquanta e avrebbe poi ricevuto qualche aggiornamento nel corso del tempo, fino all’inizio degli anni Settanta, quando l’agenzia spaziale ritenne fosse arrivato il momento di ripensare la propria immagine. Il progetto rientrava in un’iniziativa più grande per rendere più coerente la grafica delle varie agenzie federali statunitensi.
    Il compito per quanto riguardava la NASA fu affidato all’agenzia di design Danne & Blackburn, relativamente piccola, ma conosciuta nel settore per i suoi progetti dall’aspetto futuristico. Bruce N. Blackburn, uno dei fondatori dell’agenzia, aveva lavorato in precedenza allo sviluppo del logo per il bicentenario della Rivoluzione americana. Utilizzando i colori della bandiera statunitense, aveva realizzato una stella formata da linee tondeggianti non molto diverse da quelle che avrebbero composto il nuovo logo della NASA.
    (Bruce N. Blackburn – Governo degli Stati Uniti)
    Dopo avere valutato diverse varianti e alternative, Danne & Blackburn propose infine il logo che oggi vediamo su tanti capi di abbigliamento e altri accessori. L’agenzia optò per un design futuristico, con le quattro lettere formate ciascuna da una sola linea, spessa e sinuosa, colorata di rosso-arancione. Le due A del logo erano appena abbozzate e non avevano la linea centrale, in modo da ricordare la punta dei razzi spaziali (la sezione di un’ogiva) o l’ugello di scarico dei motori utilizzati nell’industria aerospaziale.
    (NASA)
    Se il precedente logo era la “polpetta”, quello nuovo divenne conosciuto come “the worm”, cioè “il verme” in inglese, per via del modo in cui era disegnato con le sue semplici linee. Il nuovo logo era molto meno ingombrante del precedente e soprattutto poteva essere riconosciuto con facilità anche a distanza: era più leggibile rispetto al disco blu, senza le complicazioni che disturbavano la lettura della scritta NASA. Il “verme” poteva essere inserito con più facilità sulle fiancate dei veicoli spaziali e soprattutto in verticale sui razzi, visto che aveva uno sviluppo orizzontale che subiva meno la deformazione se applicato su una grande forma cilindrica.
    (NASA)
    Il nuovo logo fu adottato ufficialmente dalla NASA nel 1975 con Danne e Blackburn che lavorarono a un intero progetto di immagine coordinata per l’agenzia spaziale, per fare in modo che la NASA avesse una propria identità grafica coerente che si riflettesse in tutto ciò che faceva: dai veicoli spaziali alla propria documentazione, passando per i materiali della comunicazione. Fu prodotto il Graphic Standards Manual, un manuale di sessanta pagine che conteneva in grande dettaglio indicazioni sull’utilizzo del logo e dei font scelti per la NASA.
    Secondo Danne, l’introduzione dell’immagine coordinata non solo rese più coerente la grafica della NASA, ma semplificò anche numerose attività legate alla comunicazione interna dell’agenzia. Furono introdotti maggiori standard, come impaginazioni predefinite per i documenti, che resero più veloce la preparazione delle pubblicazioni in un’epoca in cui molte attività editoriali erano ancora realizzate analogicamente.
    (Graphic Standards Manual – NASA)
    L’introduzione del “verme” non piacque però a tutti sia all’interno sia all’esterno della NASA. I più critici ritenevano che fosse freddo e poco comunicativo, lontano dal logo precedente che trasmetteva invece un messaggio più articolato e soprattutto era legato ad alcuni dei più grandi progressi raggiunti dall’agenzia spaziale statunitense. Quando Neil Armstrong fece il famoso primo passo sulla Luna nel 1969 sulla sua tuta c’era l’emblema della NASA con il disco blu. Per alcuni il passaggio al nuovo logo aveva significato abbandonare le glorie e i successi del programma spaziale Apollo e delle imprese lunari dei suoi astronauti.
    (Graphic Standards Manual – NASA)
    Tra la fine degli anni Ottanta e i primi Novanta, la NASA attraversò uno dei propri periodi più difficili: dovette affrontare le conseguenze del disastro dello Shuttle Challenger e si erano presentati alcuni seri problemi per il telescopio spaziale Hubble. Fu in quel contesto, nel 1992, che l’allora amministratore della NASA, Daniel S. Goldin, decise di abbandonare il “verme” e di tornare allo storico logo precedente. Scelse di annunciarlo in modo categorico suscitando la sorpresa di molti dipendenti, riferendosi al logo di Danne e Blackburn disse: «A breve morirà e non lo rivedremo mai più».
    Dopo 17 anni circa di utilizzo il logo con la sola scritta NASA era ormai finito ovunque: sui documenti, sulle targhe all’esterno degli uffici, sulle tute degli astronauti, su alcuni veicoli spaziali, sulle fiancate dei razzi e sulle rampe di lancio, sui materiali usati nei laboratori e sul merchandising dell’agenzia. Farlo scomparire in breve tempo come auspicato da Goldin sarebbe stato impossibile e infatti il logo continuò a esistere, seppure mantenendo un’esistenza in secondo piano, quasi clandestina. Gli estimatori di quella grafica del resto non mancavano.
    Il presidente statunitense Ronald Reagan di fronte al prototipo dello Space Shuttle Enterprise al Dryden Flight Research Center della NASA il 4 luglio 1982 (NASA)
    Nel 2015 due designer attivarono una raccolta fondi online per finanziare la ristampa del Graphic Standards Manual cui avevano lavorato Danne e Blackburn, per far conoscere il loro lavoro, ma anche in segno di riconoscenza. L’iniziativa raccolse l’interesse di molti appassionati e portò a sette ristampe per un totale di oltre 35mila copie vendute in tutto il mondo. La nuova diffusione del manuale portò nuova visibilità al logo e iniziò ad attirare l’interesse di alcuni produttori di vestiti e accessori, interessati a utilizzarlo sui loro prodotti.
    Nel 2017 il marchio di moda Coach chiese alla NASA il permesso di utilizzare il “verme” su giacche, borse e scarpe e l’agenzia glielo concesse anche se il logo era stato ritirato. Come buona parte delle immagini e dei prodotti grafici prodotti dal governo degli Stati Uniti, infatti, gli emblemi come quelli della NASA sono di dominio pubblico e possono essere utilizzati senza pagare licenze, a patto che vengano resi rispettando alcune regole. Fatta eccezione per le rielaborazioni artistiche, i loghi della NASA dovrebbero essere riprodotti partendo dagli originali forniti dall’agenzia e mantenendo lo stesso schema di colori, che prevede l’impiego di specifici codici colore.
    (Coach)
    Coach contribuì a rendere nuovamente di moda il logo della NASA e ispirò molte altre aziende, che iniziarono a stamparlo sui loro prodotti. Visto il crescente successo e un certo attaccamento personale, nel 2020 l’amministratore dell’agenzia spaziale, Jim Bridenstine, decise di adottare nuovamente il “verme” come logo secondario e lo fece inserire sul Falcon 9 che per la prima volta riportò in orbita astronauti dal suolo statunitense, dopo il pensionamento degli Space Shuttle avvenuto nel 2011. Da allora il logo è tornato ad apparire sulle tute spaziali e su alcuni veicoli, come la capsula Orion, che un giorno sarà utilizzata per trasportare gli astronauti verso la Luna nell’ambito del programma spaziale Artemis.
    Orion e la Luna in lontananza (NASA)
    La coesistenza di due loghi così diversi non è sempre semplice da gestire e per i più ortodossi stona dalle regole di immagine coordinata che l’agenzia si era data negli anni Settanta. La NASA ha del resto 18mila impiegati e centinaia di uffici e laboratori, senza contare l’enorme indotto che genera nell’industria aerospaziale: mantenere un’identità visiva unica non è semplice e l’eccezione del logo secondario è stata accolta tutto sommato positivamente. Chi non sopportava il “verme” sa che comunque il logo principale continua a essere la “polpetta” e chi preferisce un design più futuristico si consola vedendo il logo rosso-arancione comparire di tanto in tanto.
    Il logo realizzato da Danne e Blackburn ha avuto un grande impatto, come dimostra il suo successo nel settore dell’abbigliamento e degli accessori. Anche per questo motivo a novembre la NASA ha invitato Danne a Washington, DC, per rendere omaggio al lavoro svolto circa cinquant’anni fa insieme al suo collega, morto nel 2021. Danne ha confermato che ancora oggi non è molto fan della “polpetta”, ma ha aggiunto di essere contento che i due loghi coesistano pacificamente: «Sono così diversi, ma abbiamo trovato il modo di fare funzionare questa cosa. È il modo migliore? Probabilmente no. Ma si avvicina molto a esserlo. Soprattutto, soddisfa tutti, quindi non posso lamentarmi». LEGGI TUTTO