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    Perché in viaggio non si fa la cacca

    Caricamento playerLa “stitichezza del viaggiatore” è una condizione sperimentata da molte persone quando si allontanano da casa per qualche giorno per motivi di lavoro o di vacanza, in particolare in questo periodo dell’anno. Il temporaneo cambiamento di abitudini e di fuso orario, l’ansia da partenza e talvolta i lunghi spostamenti – soprattutto in aereo – possono influire sulla regolarità con cui ci si libera e portare a giornate piuttosto improduttive in bagno. A parte la sensazione poco confortevole, qualche giorno di stitichezza non è solitamente preoccupante, ma le cause di questo disturbo insegnano qualcosa su come siamo fatti nelle parti più recondite del nostro organismo e non solo.
    L’inizio della storia è noto più o meno a tutti: mangiamo qualcosa che nello stomaco si trasforma in poltiglia e che fluisce poi verso l’intestino, dove le varie sostanze nutrienti e l’acqua vengono assorbite dall’organismo. Ciò che resta finisce nell’intestino crasso dove viene recuperato ancora qualcosa, per esempio altra acqua, fino a quando gli scarti si accumulano nell’ampolla rettale in attesa di compiere il loro tuffo finale nel WC. Il processo può richiedere ore o giorni a seconda di cosa si è mangiato e di come è fatto ciascuno di noi, ma può anche essere condizionato da numerosi fattori esterni.
    In linea di massima l’intestino è un tipo abitudinario e gradisce la regolarità sia per quanto riguarda ciò che deve digerire, il tipo di alimenti per esempio, sia gli orari in cui vuotarsi. Spesso chi non va con regolarità in bagno attribuisce il problema al proprio intestino, mentre in realtà la causa sono spesso gli stili di vita e una certa sregolatezza nell’alimentazione. C’è poi naturalmente un’ampia serie di eccezioni legate a chi ha problemi di salute, dalle intolleranze a problemi digestivi e di infiammazione intestinale, ma nella maggior parte dei casi le persone vanno in bagno più o meno sempre nello stesso momento della giornata, anche se con esiti e consistenze alterni.
    In viaggio manca spesso la possibilità di mantenere le proprie abitudini e questo si riflette sull’attività intestinale, con il risultato che per qualche giorno si ha difficoltà ad andare in bagno. Si diventa stitici, anche se la stitichezza ha definizioni che variano molto a seconda dei casi e delle circostanze. Il termine definisce in generale la difficoltà a liberarsi parzialmente o completamente, una consistenza delle feci più dura del solito con la conseguente difficoltà a espellerle e una riduzione dei movimenti intestinali, molto importanti per la trasformazione e il transito attraverso l’apparato digerente dei nutrienti e degli scarti.
    L’intestino crasso è lungo in media 170 cm, circa un quinto dell’intero intestino (Wikimedia)
    Non c’è però un solo tipo di stitichezza: quando si verifica, ognuno sperimenta la propria. La riduzione della frequenza con cui si va in bagno, per esempio, può essere un indicatore, ma deve essere rapportato alla frequenza con cui ci si va di solito, considerato che per alcune persone è normale farla più volte al giorno mentre per altre sono sufficienti tre-quattro volte alla settimana.
    Differenze così significative portano di solito i medici a considerare costipato un paziente se questo segnala un certo disagio, la sensazione che qualcosa non sta progredendo come al solito o l’incapacità di liberarsi. Chi soffre di particolari condizioni come celiachia o sindrome dell’intestino irritabile ha maggiori probabilità di passare periodi di stitichezza e di avere qualche disturbo in viaggio.
    Vari fattori legati al cambiamento di abitudini favoriscono la stitichezza del viaggiatore. Tra i più frequenti c’è la disidratazione dovuta a una minore assunzione di acqua o a una maggiore velocità con cui viene dispersa, attraverso la sudorazione o l’urina. L’acqua è importante per la consistenza delle feci e per favorirne il loro passaggio nelle parti finali dell’intestino. In condizioni normali ne rimane a sufficienza, ma se si beve poco l’organismo prova a recuperare più acqua possibile anche dalle feci prima che queste vengano espulse.
    Durante un lungo viaggio spesso si beve meno perché si teme di non avere sempre la possibilità di fermarsi per fare pipì, oppure perché si avverte meno la sete per esempio se si trascorrono diverse ore in un ambiente con l’aria condizionata accesa, come nel caso di un aeroplano. L’aria nella cabina degli aerei è di solito fredda e molto secca, sia per motivi igienici sia per preservare le strumentazioni elettriche, di conseguenza si avverte meno la perdita di liquidi attraverso la traspirazione. Le feci si induriscono e passano meno facilmente attraverso l’ultimo tratto dell’intestino, spesso complicando il resto dell’attività digestiva che rallenta e diventa più laboriosa.

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    Nei lunghi viaggi si sta raramente in piedi e ci si muove poco, due attività che nella vita di tutti i giorni sono molto importanti per favorire la motilità intestinale, cioè i movimenti e gli spasmi che permettono alle sostanze di avanzare lungo il tratto digerente. La digestione avviene più lentamente e in modo meno efficace, cosa che sommata alla minore quantità di acqua rende le feci ancora più dure. Nel caso di un volo aereo è poi probabile che il luogo di arrivo sia in un fuso orario diverso rispetto a quello di partenza: il cambio dell’ora rende inevitabili alcune modifiche nei normali orari per svolgere varie attività, comprese quelle in bagno.
    La combinazione di poca acqua, poco movimento e cambio di orari mette spesso le basi per un certo intasamento che si farà sentire nei primi giorni. L’effetto viene poi acuito dai cambiamenti alla dieta che di solito si fanno durante una vacanza, per esempio per provare i cibi locali oppure semplicemente perché si diventa un po’ più indulgenti nel consumo di alcolici o di caffè, se c’è di mezzo un jet-lag da assorbire. Sia l’alcol sia la caffeina hanno effetti diuretici e possono quindi contribuire alla disidratazione, che come abbiamo visto ha un ruolo importante nella stitichezza.
    (Sara D. Davis/Getty Images)
    Quando si è in viaggio non è inoltre sempre semplice assecondare in poco tempo lo stimolo ad andare in bagno, o per mancanza di un WC nei paraggi o per una certa ritrosia di alcune persone a utilizzare i bagni pubblici per liberarsi delle proprie solide realtà. Rinviare e ritardare, talvolta anche di molto tempo, quel momento può indurre o peggiorare la stitichezza: lo spazio nell’intestino crasso è quello che è, di conseguenza col passare del tempo parte dell’acqua delle feci viene recuperata per ridurre il volume complessivo occupato, portando a un loro ulteriore indurimento.
    Alcune persone vivono inoltre con una certa apprensione il pensiero di mettersi in viaggio e di essere per alcuni giorni lontane da casa. Lo stress di preparare le valigie, di dimenticare qualcosa o la preoccupazione di arrivare in aeroporto in tempo possono generare stati d’ansia che si riflettono anche sull’attività intestinale. Il rapporto cervello-intestino è discusso da tempo e non è stato ancora compreso pienamente, ma la tensione derivante dall’ansia ha effetti di vario tipo, in particolare sui movimenti muscolari e dei tessuti che formano parte del tratto digerente.

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    Non sono necessarie strategie particolarmente elaborate per ridurre il rischio di avere la stitichezza del viaggiatore. Una regola che può essere applicata, consigliata in generale per avere un buon rapporto col proprio intestino, è quella delle “tre F”: fluidi, fibre e fitness. Bere acqua a sufficienza aiuta a prevenire la disidratazione e può essere utile abituarsi ad assumerne un po’ di più a partire dai giorni prima della partenza, così da abituarsi meglio e partire preparati. Il consumo di cibi ricchi di fibre favorisce la formazione di feci di cui liberarsi senza troppo sforzo, quindi ortaggi, legumi e frutta da consumare preferibilmente con la buccia come mele, pere, prugne. Infine, fare attività fisica favorisce la motilità intestinale e il transito delle sostanze nel tratto digerente.
    Il consumo di alcol dovrebbe essere invece moderato proprio per evitare la disidratazione o altri disturbi intestinali, che possono per esempio manifestarsi con il consumo di alcuni alcolici come la birra. Si dovrebbero poi favorire cibi facilmente digeribili evitando le carni troppo grasse, gli alimenti fritti e quelli ricchi di derivati del latte. Questi alimenti richiedono in generale tempi più lunghi per la digestione e potrebbero quindi peggiorare la stitichezza. Rinunciarci quando si è in vacanza potrebbe però non essere semplice per tutti, visto che i periodi di ferie coincidono comprensibilmente con quelli in cui si è più indulgenti soprattutto per quanto riguarda l’alimentazione.
    Infine, cercare di liberarsi il prima possibile quando si avverte lo stimolo può aiutare molto. In alcuni casi ciò implica doversi adattare a condizioni non sempre ideali, specialmente nel caso dei bagni pubblici, che sono percepiti spesso come un’arma biochimica in cui non ci si può che ammalare. In realtà, se utilizzato con qualche cautela è difficile che un WC in cattive condizioni possa causare qualche problema di salute: in alcuni paesi è più probabile che lo faccia un bicchiere d’acqua del rubinetto, limpido e innocuo all’apparenza. A volte l’esatto opposto della stitichezza del viaggiatore, cioè la diarrea del viaggiatore, parte proprio da un po’ di acqua contaminata, ma questa è decisamente un’altra storia. LEGGI TUTTO

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    Come siamo messi con i vaccini contro l’mpox

    Dopo la dichiarazione di un’emergenza sanitaria internazionale per l’mpox (quello che una volta si chiamava vaiolo delle scimmie) da parte dell’Organizzazione mondiale della sanità la settimana scorsa, l’azienda farmaceutica danese Bavarian Nordic ha annunciato la donazione di circa 40mila dosi del proprio vaccino contro la malattia, che saranno consegnate alla Repubblica Democratica del Congo, uno dei paesi africani con il maggior numero di contagi. Il vaccino di Bavarian Nordic è considerato il più promettente per prevenire l’mpox e per questo ci sono grandi attenzioni nei confronti della società, sia dal punto di vista sanitario sia commerciale.L’OMS dichiara un’emergenza sanitaria quando ritiene siano necessarie maggiori attenzioni nei confronti di una malattia soprattutto per fare prevenzione, prima che sia troppo tardi per contenerne la diffusione. In Italia e negli altri paesi europei le infezioni rilevate nell’ultimo anno dai vari tipi di virus che causano l’mpox sono state poche e d’importazione, cioè relative a persone che erano state all’estero, per questo al momento i rischi di una diffusione della malattia in Europa sono relativamente bassi. La situazione è diversa in Africa dove sono stati registrati migliaia di casi, tra presunti e confermati, con una maggiore incidenza nella Repubblica Democratica del Congo dove da inizio anno ai primi giorni di agosto ci sono stati più di 14mila casi (di più che in tutto il 2023) e oltre 500 morti ricondotte alla malattia.
    In molti casi l’mpox è asintomatico, mentre chi sviluppa sintomi segnala la presenza di eruzioni cutanee, febbre, mal di gola, mal di testa, dolori muscolari e alla schiena, spossatezza e linfonodi ingrossati. Come avviene con altre malattie, l’mpox è più pericoloso per le persone con difese immunitarie indebolite, per gli anziani e in alcuni casi per i bambini (molte delle persone decedute nella Repubblica Democratica del Congo erano adolescenti o bambini).
    Il virus che causa l’mpox appartiene al genere Orthopoxvirus, lo stesso di cui fa parte il vaiolo, una malattia molto più pericolosa debellata negli anni Ottanta grazie a una lunga ed efficace campagna vaccinale internazionale (quella per cui le persone con più di 50 anni hanno una cicatrice sul braccio con una forma molto riconoscibile). Il vaiolo fu la prima malattia contro cui fu sviluppato un vaccino nell’Ottocento: la parola “vaccino” deriva da Variolae vaccinae, cioè “vaiolo della mucca”, una forma di vaiolo che interessa i bovini che fu alla base degli studi e delle sperimentazioni per sviluppare il vaccino contro il vaiolo.
    La dichiarazione dell’eradicazione di una malattia implica che venga comunque mantenuta una certa sorveglianza, proprio per evitare che si possano verificare nuovi casi con focolai che potrebbero portare a una nuova diffusione del virus debellato. Per questo motivo, nonostante la dichiarazione degli anni Ottanta, gli studi e lo sviluppo di vaccini di nuova generazione contro il vaiolo erano proseguiti con esiti alterni. Nel 2003 Bavarian Nordic aveva avviato una collaborazione con il governo degli Stati Uniti per sviluppare MVA-BN (da “Modified Vaccinia Ankara-Bavarian Nordic”), un vaccino di terza generazione contro il vaiolo basato su un virus modificato per essere meno virulento e incapace di replicarsi nelle cellule.
    MVA-BN era stato impiegato nelle campagne vaccinali organizzate dall’OMS nei paesi a rischio per evitare un ritorno del vaiolo, utilizzando un vaccino che fosse ancora più sicuro di quelli tradizionalmente impiegati nei decenni precedenti. Nel 2013 il vaccino era diventato disponibile anche in Europa per prevenire il vaiolo e, vista la stretta parentela tra il virus del vaiolo e quello dell’mpox, nell’estate del 2022 era stato autorizzato nell’Unione Europea per prevenire la diffusione della malattia tra le persone a rischio, seguendo quanto era stato deciso tre anni prima dalle autorità di controllo degli Stati Uniti.
    Il nome commerciale del vaccino in Europa è Imvanex, mentre negli Stati Uniti viene venduto con il nome Jynneos e in Canada come Imvamune, ma si tratta del medesimo prodotto anche se c’è qualche differenza nelle tecniche di produzione. In Italia la somministrazione del vaccino era stata autorizzata in forma temporanea nell’estate del 2022, quando era stato rilevato un aumento dei casi di mpox. La vaccinazione era stata consigliata a chi si occupa di effettuare analisi in laboratorio sui virus e agli uomini che hanno rapporti sessuali con uomini (MSM), categoria per i quali erano stati rilevati maggiori fattori di rischio.
    A oggi in Europa come nella maggior parte del resto del mondo non è necessaria una vaccinazione di massa, perché i rischi di contagio nella popolazione generale sono estremamente bassi. L’Istituto superiore di sanità (ISS) consiglia maggiori precauzioni per le persone a rischio, che oltre agli MSM possono anche riguardare le persone che hanno intenzione di effettuare viaggi nelle aree del mondo dove c’è una maggiore incidenza di mpox, a cominciare da alcuni paesi africani.
    Il vaccino viene somministrato solo alle persone adulte, con due dosi a distanza di quattro settimane l’una dall’altra, e l’efficacia stimata è dell’82 per cento (una sola dose fornisce un’efficacia del 76 per cento). Il vaccino può anche essere utilizzato subito dopo il contagio, ma in questo caso l’efficacia scende intorno al 20 per cento. In generale, le persone vaccinate che in seguito contraggono il virus dell’mpox sviluppano sintomi meno gravi rispetto a chi non ha ricevuto il vaccino.
    Negli ultimi anni sono stati svolti test in laboratorio, quindi non direttamente sulle persone vaccinate, per valutare la capacità delle difese immunitarie sviluppate dopo la comune vaccinazione contro il vaiolo di neutralizzare i virus che causano l’mpox. Alcune analisi hanno riscontrato questa capacità anche a più di 40 anni di distanza dalla vaccinazione, mentre altre analisi effettuate sulla popolazione vaccinata contro il vaiolo hanno riscontrato un’alta protezione contro l’mpox. Le persone già vaccinate anni fa contro il vaiolo dovrebbero quindi sviluppare una malattia più lieve nel caso di un contagio con i virus che causano l’mpox.
    Chi non era stato vaccinato contro il vaiolo al momento non corre comunque particolari rischi, per le ragioni che abbiamo visto prima sulla diffusione della malattia, ma per i servizi sanitari è comunque importante non farsi trovare impreparati. In occasione dell’aumento di casi nell’estate del 2022, per esempio, l’Unione Europea aveva acquistato 2 milioni di dosi da Bavarian Nordic e l’azienda ha comunicato di avere la capacità di aumentare sensibilmente la propria produzione già nei prossimi mesi. A seconda della domanda, soprattutto da parte dei paesi africani più interessati, la società danese potrà produrre fino a 2 milioni di dosi entro fine anno, mentre per il 2025 prevede di raggiungere una capacità produttiva di 10 milioni di dosi.
    Al momento dai paesi africani sono state richieste circa 10 milioni di dosi, che saranno fornite sia attraverso le donazioni internazionali sia attraverso l’acquisto di forniture da Bavarian Nordic. L’Unione Europea, per esempio, si è già impegnata a donare oltre 200mila dosi di vaccino ai paesi africani, attingendo dalla propria scorta effettuata nel 2022. La domanda potrebbe aumentare ulteriormente nel caso in cui il vaccino venisse autorizzato anche per l’uso negli adolescenti e nei bambini, come auspicato da vari osservatori dopo i dati sui numerosi decessi nella Repubblica Democratica del Congo tra i più giovani (negli Stati Uniti c’è già un’approvazione di emergenza per gli adolescenti).
    Bavarian Nordic è l’unica azienda farmaceutica ad avere ottenuto autorizzazioni per il proprio vaccino in Europa, negli Stati Uniti e in diversi altri paesi, cosa che si è riflessa molto positivamente sulle sue quotazioni in borsa. Dopo l’annuncio dell’emergenza sanitaria, il valore in borsa delle azioni della società è aumentato del 40 per cento e l’azienda vale sul mercato circa 3 miliardi di dollari. Il successo dell’azienda farmaceutica non è una novità per la Danimarca, che nell’ultimo anno si è fatta notare in tutto il mondo grazie ai successi commerciali di Novo Nordisk, la società che produce i farmaci per il dimagrimento e contro il diabete Ozempic e Wegovy.
    Esistono almeno altri tre vaccini inizialmente sviluppati contro il vaiolo e che hanno mostrato un’efficacia contro l’mpox, o comunque sono ritenuti promettenti. L’azienda farmaceutica giapponese KMB Biologics ha sviluppato LC16 il cui impiego è autorizzato in Giappone, mentre in Russia è stato sviluppato il vaccino OrthopoxVac autorizzato inizialmente contro il vaiolo. Un terzo vaccino, ACAM2000, è disponibile negli Stati Uniti, ma finora non è stato impiegato contro l’mpox. LEGGI TUTTO

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    Le foto della “superluna” di ieri sera

    Nella notte tra lunedì e martedì la Luna è apparsa ad alcuni osservatori un po’ più grande del solito. È successo perché oltre a essere piena si trovava anche nel punto più vicino alla Terra nella sua orbita: un fenomeno che viene informalmente chiamato “superluna”. L’orbita della Luna intorno al nostro pianeta infatti è ellittica, quindi la distanza tra i due corpi celesti varia nel corso dell’anno (se fosse perfettamente circolare, la distanza sarebbe sempre uguale).Avvicinandosi e allontanandosi da noi, la Luna appare quindi più grande o più piccola, ma anche più o meno luminosa: quando è alla distanza minima dalla Terra, al perigeo, è lontana circa 360mila chilometri, mentre alla distanza massima, l’apogeo, è più o meno a 405mila chilometri.

    Il fenomeno si ripete tre o quattro volte in un anno ma quella di ieri era una delle opportunità migliori per osservarlo, nuvole permettendo. La differenza di grandezza percepita è comunque contenuta e non è sempre facile coglierla a occhio nudo, visto che la superluna ha un diametro di circa il 10-15 per cento in più. Fotografie e osservazioni con punti di riferimento fissi all’orizzonte (come palazzi, ponti o montagne) e giochi di prospettiva vengono spesso fatte per far notare l’eccezionalità del fenomeno, a volte accentuandolo: per chi non l’ha vista ieri sera qui ce ne sono un po’, da tutto il mondo. LEGGI TUTTO

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    Weekly Beasts

    A Lido Beach, nello stato di New York, le guardie forestali e i volontari stanno monitorando la popolazione di un uccello marino della stessa famiglia dei gabbiani, il becco a cesoia americano, che catturano, controllano ed etichettano: in questa gallery ce ne sono alcuni sulla spiaggia, e altri in volo sopra l’oceano. Poi c’è la prima apparizione pubblica allo zoo di Berlino di un cucciolo di ippopotamo pigmeo, una particolare specie di ippopotamo di piccole dimensioni, ma anche animali che cercano di rinfrescarsi, una cicogna con le ali spiegate e cavalli al galoppo. Per finire, un piccolo orango di Sumatra, cullato dalla madre. LEGGI TUTTO

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    Cosa sappiamo della nuova variante di mpox

    Caricamento playerIl virus dell’mpox, la malattia a cui un tempo ci si riferiva come “vaiolo delle scimmie” e che il 14 agosto è stata dichiarata un’emergenza sanitaria internazionale dall’Organizzazione mondiale della sanità (OMS), è noto alla comunità scientifica dal 1970. Tra il 2022 e il 2023 si era già diffuso in varie parti del mondo, Europa compresa, a partire dall’Africa centrale e occidentale, dove è endemico. Attualmente è presente soprattutto nella Repubblica Democratica del Congo, dove quest’anno circola una nuova variante più contagiosa e più pericolosa: da gennaio al 7 agosto ci sono stati più di 14mila casi presunti (di più che in tutto il 2023) e 511 morti probabilmente dovute alla malattia.
    In Italia e negli altri paesi europei le infezioni registrate nell’ultimo anno sono state poche e d’importazione, cioè relative a persone che erano state all’estero, per cui per il momento qui non c’è da allarmarsi. Finora fuori dall’Africa è stato riscontrato un unico caso di infezione legata alla nuova variante, il sottotipo chiamato “1b”. È stato trovato in Svezia e le autorità sanitarie del paese hanno fatto sapere che la persona infettata si era contagiata durante un viaggio in Africa.
    Il virus dell’mpox, indicato dalla sigla MPXV, si trasmette stando a lungo molto vicino a una persona infettata (anche solo parlandole faccia a faccia), o attraverso oggetti con cui era stata in contatto, come lenzuola, abiti o aghi per iniezioni. Inoltre può passare da una donna incinta al feto. Contrariamente a quanto credono in molti, non si trasmette unicamente per via sessuale, anche se è una modalità di contagio comune.
    La malattia può essere asintomatica o causare sintomi di diversa gravità, che il più delle volte compaiono entro una settimana dal contagio e durano dalle due alle quattro settimane. I più comuni sono eruzioni cutanee, febbre, mal di gola, mal di testa, dolori muscolari, mal di schiena, spossatezza e linfonodi ingrossati. Le eruzioni cutanee, che possono evolvere in vescicole o pustole piene di un liquido giallastro causa di prurito o dolore, sono una delle caratteristiche che permettono di riconoscere la malattia. Di solito compaiono prima sul viso e successivamente possono diffondersi sul resto del corpo. Le persone malate rimangono contagiose fino a che non sono completamente guarite.
    Come molte altre malattie l’mpox è rischioso soprattutto per chi ha le difese immunitarie già indebolite per altre ragioni e i sintomi variano a seconda del ceppo del virus responsabile del contagio. Esistono due ceppi principali, che l’OMS identifica con le espressioni in inglese “clade I” e “clade II”. Il ceppo indicato con il numero romano I è stato trovato per la prima volta in Africa centrale ed è il più diffuso nella Repubblica Democratica del Congo. Il ceppo indicato con II, inizialmente riscontrato in Africa occidentale, è invece quello a cui si deve l’epidemia del 2022-2023, causata principalmente dal sottotipo IIb. I sintomi causati dal ceppo I sono più gravi rispetto a quelli dovuti al ceppo II.
    La variante individuata più di recente appartiene al ceppo I: tecnicamente avrebbe dovuto essere indicata come Ib, ma si è diffusa la dicitura 1b, col numero arabo. Era stata trovata inizialmente in un focolaio di mpox a Kamituga, una cittadina mineraria nel centro-ovest della Repubblica Democratica del Congo, a circa 270 chilometri dal confine col Ruanda. Poi sono stati trovati dei casi in Burundi, Kenya, Ruanda e Uganda e complessivamente quelli dovuti al sottotipo 1b che sono stati confermati dalle analisi di laboratorio sono più di 100. È tuttavia possibile che il numero reale sia più alto perché i test necessari per appurarlo non sono stati fatti su tutte le persone che mostravano sintomi compatibili con la variante (in Africa centrale i servizi sanitari non hanno le risorse per controllare tutti i presunti casi di mpox).
    Secondo le indagini dell’OMS, il nuovo ceppo virale si sta diffondendo prevalentemente attraverso i rapporti sessuali. L’organizzazione ha deciso di dichiarare l’emergenza sanitaria internazionale perché il virus si sta diffondendo dalla Repubblica Democratica del Congo ai paesi vicini. La nuova variante è ancora poco conosciuta, ma si ritiene che sia particolarmente contagiosa e che causi sintomi più gravi.
    In generale, nell’Africa centrale l’mpox rappresenta una minaccia maggiore rispetto ai paesi europei per via dei limiti delle strutture sanitarie locali: è più facile che i casi più gravi della malattia causino complicanze, come infezioni alle eruzioni cutanee, polmoniti, infezioni alle cornee (con rischi per la vista), diarrea e conseguente disidratazione, encefaliti o miocarditi, anche fino alla morte. È particolarmente rischiosa per i bambini, che nei paesi dell’Africa centrale sono tra le persone più esposte all’infezione.
    Olivia Wigzell, capo dell’Agenzia svedese per la salute pubblica, ha fatto sapere che la persona contagiata dalla variante 1b che si trova in Svezia è ricoverata vicino a Stoccolma e ha sottolineato che il fatto che sia in cura lì non significa che esistano dei rischi di contagio per la popolazione locale. La divisione europea dell’OMS ha invitato gli altri paesi del continente a intervenire velocemente e a segnalare eventuali casi di variante 1b come ha fatto la Svezia, ipotizzando che nei prossimi giorni e settimane potrebbero emergere altri «casi d’importazione».
    Al momento ci sono due vaccini che vengono usati per scongiurare i contagi da MPXV, ma nei paesi più colpiti dall’epidemia non è ancora stato possibile fare delle campagne vaccinali di larga scala. L’OMS sta raccogliendo donazioni e lavorando con le aziende produttrici di vaccini perché arrivino più dosi nelle zone in cui ce n’è maggiormente bisogno. La dichiarazione dello stato di emergenza internazionale dovrebbe anche favorire una maggiore coordinazione nel contrasto alla diffusione del virus.
    In Europa era stata fatta una campagna vaccinale contro l’mpox a partire dall’agosto del 2022, durante la precedente epidemia internazionale. In quell’occasione erano state interessate in modo prioritario le persone che rientravano nelle categorie ritenute più a rischio di contagio: chi lavora in laboratori a contatto con il virus, le persone con comportamenti sessuali considerati a rischio dalle autorità sanitarie, e quelle venute in contatto con persone malate.
    In passato l’mpox era chiamato “vaiolo delle scimmie”. Il virus che lo causa appartiene infatti all’ordine Orthopoxvirus, lo stesso del vaiolo, una malattia molto più rischiosa che però venne debellata nel 1980 grazie a una lunga campagna vaccinale internazionale (quella per cui le persone italiane con più di 47 anni hanno una cicatrice su un braccio). Il riferimento alle scimmie invece derivava dal fatto che inizialmente, nel 1958, era stato scoperto nei campioni biologici di scimmie in cattività, prima che facesse un “salto di specie” e diventasse un virus infettivo anche per gli esseri umani.
    Nel novembre del 2022 l’OMS decise di cambiare il nome ufficiale della malattia, raccomandando prima di tutto alla comunità medica e ai media di non usare più quello vecchio, perché sia su internet che in altri contesti veniva sfruttato per esprimere concetti razzisti e stigmatizzanti. LEGGI TUTTO

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    La megattera più anziana del mondo ha un’età notevole

    Caricamento playerChe le megattere potessero vivere fino a oltre cinquant’anni finora era stato solo ipotizzato, ma adesso ce n’è la prova. A luglio il ricercatore di cetacei all’Università delle Hawaii Adam A. Pack ha individuato durante una spedizione nel sud dell’Alaska quella che si ritiene essere la più anziana megattera vivente di cui si abbia traccia: è un maschio, viene chiamato Old Timer, che si può tradurre come “veterano”, ed era stato avvistato per la prima volta nel 1972.
    Come ha spiegato il New York Times, è sorprendente che sia vissuto così a lungo, visto che qualche decennio fa la popolazione mondiale della specie era stata decimata soprattutto dalla caccia, e che in anni recenti molti altri esemplari non sono sopravvissuti alle diverse minacce a cui sono stati esposti: come il transito delle navi, le reti per la pesca a strascico in cui spesso rimangono impigliati, e poi il cambiamento climatico e le grandi ondate di calore che negli ultimi anni hanno ucciso molti uccelli e mammiferi marini, comprese le megattere.
    Le megattere (Megaptera novaeangliae) sono grandi cetacei diffusi in tutti gli oceani. Si cibano di pesci e piccoli crostacei (krill) in acque fredde, mentre per la riproduzione si spostano in quelle tropicali o subtropicali. Hanno una lunghezza che va dagli 11 ai 17 metri e possono pesare fino a 40 tonnellate; non sono dotate di denti, bensì di una specie di frange, dette fanoni, che servono per filtrare acqua e cibo.
    Un po’ come tutti i cetacei sono difficili da individuare, osservare e studiare, ma si riescono a distinguere grazie ad alcune loro caratteristiche fisiche: in particolare la colorazione del corpo e le cicatrici o i bordi frastagliati della pinna caudale, quella che alcuni pesci hanno sulla coda e che li aiuta a spostarsi nell’acqua. È proprio grazie al confronto tra le foto d’archivio e quelle scattate a luglio nelle acque del Frederick Sound, un fiordo nel sud dell’Alaska, che Pack può dire di aver visto Old Timer. La sua coda è quasi del tutto nera, con una serie di pigmenti bianchi verso le estremità, ed è la stessa che sempre Pack aveva visto nel 2015 nelle acque di Petersburg, non lontano da Frederick Sound.
    Considerando che quando era stato visto per la prima volta era già sviluppato, deve avere almeno 53 anni: questo rende Old Timer «la più vecchia megattera di cui si abbia notizia al mondo» ha detto Pack, che è co-fondatore e presidente del Dolphin Institute, un’organizzazione non profit che si occupa di cetacei.

    Old Timer era stato fotografato per la prima volta nel 1972 nel canale di Lynn, a nord di Juneau, la capitale dell’Alaska, e fa parte di un gruppo che trascorre l’inverno nella zona delle Hawaii e l’estate nel nord-est dell’oceano Pacifico. I cetacei di quest’area sono studiati fin dagli anni Settanta grazie al lavoro di Louis Herman, autore delle migliaia di fotografie che nel tempo hanno permesso ad altri scienziati di individuare gli animali e osservare i loro comportamenti e le loro rotte migratorie.
    Pack, un ex studente di Herman, ha definito il nuovo avvistamento «rincuorante», perché potrebbe significare che anche le megattere più anziane riescono a essere resilienti.

    – Ascolta anche: Sonar. Come il linguaggio costruisce la realtà, anche sott’acqua

    Al momento secondo l’Unione Internazionale per la Conservazione della Natura – l’ente riconosciuto dall’ONU che valuta quali specie animali e vegetali rischiano l’estinzione – esistono circa 84mila individui di megattera, e la popolazione della specie è in crescita. Tuttavia la maggior parte di quelle che ci sono in giro oggi è nata alla fine degli anni Ottanta, quando a causa della caccia erano arrivate a essere meno del 10 per cento di quante fossero nell’Ottocento, correndo il rischio di estinguersi.
    Negli ultimi decenni la popolazione è tornata ad aumentare principalmente per due ragioni. La prima è l’introduzione di una moratoria alla caccia alle balene per fini commerciali che è tuttora in vigore (con l’eccezione di Islanda, Norvegia e Giappone, per fattori storici e culturali). La seconda, almeno in parte, è il riscaldamento globale, che ha aumentato di circa 80 giorni il periodo dell’anno in cui il mare è senza ghiaccio e quindi gli animali possono trovare cibo più facilmente (in parte, appunto: gli effetti più estremi del cambiamento climatico continuano a essere molto dannosi anche per loro).
    In questi anni Pack e altri ricercatori hanno sfruttato uno strumento di riconoscimento messo a disposizione da una piattaforma che raccoglie più di un milione di foto per analizzare l’andamento della popolazione di megattere nel Pacifico settentrionale. Nel 2012 nell’area erano stati individuati circa 33.500 individui, in aumento rispetto a quando il progetto era cominciato, nel 2002. Tra il 2012 e il 2016 tuttavia è stato notato un declino che finora gli scienziati si sono spiegati con una serie di estati in cui l’acqua dell’oceano aveva temperature più alte della norma.
    Ted Cheeseman, uno dei fondatori della piattaforma e coinvolto nelle ricerche, ha detto che il fenomeno deve ancora essere approfondito, ma che in generale «se l’acqua è più calda vuol dire che c’è meno cibo disponibile, e che quello che c’è è più sparso e più in profondità». La situazione sembra essere preoccupante soprattutto alle Hawaii, dove nel 2021 la popolazione di megattere era calata del 34 per cento rispetto al 2013. Tornando a Old Timer, una delle ipotesi di Pack è che «sia stato in giro abbastanza a lungo da riuscire ad adattarsi quando le risorse di cibo sono limitate»: non è comunque chiaro se si possa dire lo stesso anche per altre megattere. LEGGI TUTTO

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    È stato risolto un pezzetto dell’enigma di Kaspar Hauser

    Caricamento playerIl 26 maggio 1828 un ragazzo che indossava abiti trasandati fu visto aggirarsi da solo e confusamente nelle strade di Norimberga, in Germania. Si esprimeva male a parole, sembrava avere un qualche tipo di ritardo cognitivo, ma raccontò di aver passato tutta la propria vita in una stanza buia, dormendo a terra su un giaciglio di paglia e ricevendo solo pane e acqua da uno sconosciuto. Questo racconto affascinò molte persone, alcune delle quali ipotizzarono che Kaspar Hauser (così si chiamava il ragazzo secondo una di due lettere anonime che portava con sé quando fu “trovato”) fosse il legittimo erede del defunto granduca di Baden Karl, rapito e nascosto poco dopo la nascita per un intrigo dinastico.
    La storia di Hauser ebbe grande risonanza sia in Germania che all’estero, perché all’epoca c’era una grande curiosità riguardo ai comportamenti innati, quelli che un essere umano mostrerebbe anche se fosse cresciuto del tutto isolato. Le reali circostanze della vita di Hauser però non furono mai chiarite. L’uomo morì nel 1833 per una ferita al petto che, secondo quanto disse, gli procurò un assalitore ignoto. Secondo altre ricostruzioni, secondo cui fu un impostore mitomane, se la inflisse invece da solo. Nei decenni la sua vicenda ispirò vari libri, una poesia di Paul Verlaine, una canzone di Suzanne Vega e vari film, tra cui il famoso L’enigma di Kaspar Hauser di Werner Herzog (1974). Ora uno studio genetico ha aggiunto un nuovo elemento, escludendo che Hauser fosse l’erede del granduca di Baden.
    Questa conclusione è stata raggiunta attraverso delle analisi del DNA contenuto in tre ciocche di capelli appartenute a Hauser e conservate in alcune collezioni private. Lo studio, pubblicato in versione pre-print sulla rivista iScience, è stato fatto da un gruppo di ricerca internazionale all’Istituto di medicina forense di Innsbruck, in Austria, e all’Università di Potsdam, in Germania, con la collaborazione della genetista britannica Turi King, che nel 2013 identificò i resti del re d’Inghilterra Riccardo III (1452-1485).
    Per la teoria che attribuiva a Hauser un’origine aristocratica, l’uomo sarebbe stato il figlio del granduca Karl e della moglie Stéphanie di Beauharnais, una parente di Giuseppina, la prima moglie di Napoleone. Nel 1812 i due ebbero un figlio maschio, l’unico nato dal loro matrimonio, che però morì dopo 18 giorni di vita. Per questo, alla morte del granduca nel 1818, fu suo zio Ludwig a succedergli e dato che nemmeno lui aveva avuto figli maschi, nel 1830 il trono passò a un altro zio del granduca Karl, Leopold. Secondo la teoria riguardo a Kaspar Hauser, la madre di Leopold, la contessa di Hochberg Luise Karoline, avrebbe scambiato il figlio del granduca Karl con un neonato malato, per favorire l’ascesa al trono del figlio.

    Già due volte in passato erano state fatte delle analisi genetiche a partire da oggetti legati a Kaspar Hauser. Nel 1996 fu esaminata una porzione di tessuto intrisa di sangue ottenuta da un paio di calzoni conservati in un museo di Ansbach, in Baviera, che sarebbero stati indossati da Hauser prima della morte. Dal campione venne estratto del DNA mitocondriale, che contiene informazioni sull’ascendenza da parte di madre, e lo si confrontò con quello di due discendenti viventi di Stéphanie di Beauharnais. Quel primo studio non trovò corrispondenze, dunque escluse la discendenza nobile, ma lasciò un’incertezza perché non era sicuro che i calzoni appartenessero davvero a Hauser.
    Altre analisi vennero fatte tra il 2001 e il 2002, utilizzando un altro indumento del museo di Ansbach e delle ciocche di capelli riconducibili con certezza a Hauser. La sequenza di DNA mitocondriale così ottenuta risultò diversa da quella del 1996 e molto affine al DNA di uno dei discendenti di Stéphanie di Beauharnais, apparentemente confermando la teoria sulle origini nobili di Hauser. La porzione di DNA in questione tuttavia era molto piccola e statisticamente non si poteva escludere che la somiglianza trovata fosse una coincidenza. I metodi di analisi genetica usati fino ai primi anni Duemila del resto funzionavano molto male con i campioni molto piccoli o molto vecchi.
    Dal 2014 il patologo forense Bernd Brinkmann, che aveva già lavorato alle analisi dei primi anni Duemila, cercò di ottenere altri campioni dal museo di Ansbach, per poterli analizzare con tecniche genetiche più aggiornate, ma l’istituto non ha più concesso agli scienziati di esaminare gli oggetti della sua collezione. Così nel 2019 si è deciso di ripetere uno studio genetico sulle ciocche di capelli, aggiungendone una terza a quelle già esaminate. Grazie a una tecnica di sequenziamento del DNA sviluppata solo nel 2017 è stato verificato che tutti i campioni esaminati (sia le varie ciocche di capelli che il sangue sui calzoni del museo) appartenevano alla stessa persona e che questa non era imparentata con Stéphanie di Beauharnais. Le discrepanze tra le analisi precedenti erano dovute esclusivamente ai limiti delle vecchie tecniche di analisi.
    King ha commentato la scoperta chiarendo che comunque quello di Kaspar Hauser resta un mistero, perché il DNA mitocondriale, l’unico che si può ottenere da tracce di sangue antiche e da capelli senza bulbo, non permette di ricostruire interamente il genoma di una persona. Per questo non si può nemmeno fare delle ipotesi sulla regione di provenienza di Hauser, si sa solo genericamente che era probabilmente nato nell’Europa occidentale. Walther Parson dell’Università di Innsbruck, uno degli autori del nuovo studio, ha spiegato che servirebbero dei campioni ossei per ottenere maggiori informazioni.
    Nemmeno quelli tuttavia potrebbero chiarire se la storia raccontata da Hauser a proposito della sua lunga prigionia fosse vera, o se, come nel tempo hanno concluso molti studiosi appassionati alla sua vicenda, l’uomo fosse in realtà un mentitore patologico, desideroso di attirare l’attenzione. LEGGI TUTTO

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    Quando finisce questo caldo?

    Caricamento playerPiù o meno dall’8 agosto l’Italia e vari altri paesi europei sono interessati da un’ondata di calore, cioè da temperature inusualmente più alte rispetto alla media, che ha fatto registrare massime superiori ai 36 o ai 38 °C in molte località. Il caldo è dovuto all’anticiclone sub-tropicale africano, un’area atmosferica di alta pressione proveniente dall’Africa che ha mantenuto il meteo mediamente stabile (lo si può immaginare come una grande montagna di aria calda che impedisce il passaggio di correnti più fresche).
    Nell’ultimo bollettino sulle ondate di calore, il ministero della Salute ha previsto per il 15 agosto il più alto livello di rischio per il caldo in 21 delle 27 città dove vengono fatti i monitoraggi, tra cui Roma, Milano, Napoli, Torino, Firenze e Bologna. Il livello di rischio più alto, che corrisponde al 3 ed è informalmente chiamato “bollino rosso”, segnala le condizioni meteorologiche che possono avere effetti negativi per la salute non solo per le persone più vulnerabili, come anziani, bambini molto piccoli e malati cronici, ma anche per le persone sane. La situazione sarà più o meno invariata anche il 16 agosto; migliorerà però fino al livello 1 a Milano e Torino.
    Nei giorni successivi le cose dovrebbero cambiare perché è previsto l’arrivo di una perturbazione proveniente dall’oceano Atlantico che porterà precipitazioni e un abbassamento delle temperature. Il servizio meteorologico dell’Aeronautica militare ha previsto temperature più o meno stazionarie per le giornate di giovedì (Ferragosto) e venerdì, e un lieve raffrescamento nel corso del fine settimana, in particolare domenica e soprattutto nelle regioni del Centro-Nord.

    Rispetto ad altre zone d’Europa, comunque, in Italia quest’estate non sono stati registrati dei particolari record di temperatura. È andata peggio alla Spagna e alla Grecia, dove le alte temperature degli ultimi giorni hanno favorito l’espansione di un vasto incendio vicino ad Atene.

    – Leggi anche: Perché si muore per il caldo LEGGI TUTTO