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Le Hawaii sono famose per i vulcani e i grandi resort visitati ogni anno da milioni di turisti, alla ricerca di spiagge incontaminate affacciate sull’oceano Pacifico. Kamilo Beach, nella parte sud-orientale dell’isola più estesa dell’arcipelago, non rientra propriamente nella categoria: è famosa per i frequenti di plastica portati dall’oceano e provenienti dalla “grande chiazza di immondizia del Pacifico”. Non è una spiaggia sempre ideale per prendere il sole e fare il bagno, in compenso è il luogo in cui è stata scoperta una particolare sostanza. Per alcuni è un nuovo tipo di roccia e la dimostrazione dell’impatto delle attività umane nella geologia terrestre, per altri è semplicemente il frutto dell’inquinamento e non ha nulla di paragonabile alle rocce.
Charles Moore, un oceanografo statunitense, aveva per la prima volta la strana sostanza nel 2006 mentre stava effettuando alcune analisi e rilevazioni proprio a Kamilo Beach. Moore aveva notato uno strano oggetto solido formato da alcuni frammenti organici, come conchiglie e legno, tenuti insieme da del materiale plastico. Ipotizzò che si fosse formato a causa dell’accensione di un falò sulla spiaggia, che aveva portato alcuni detriti di plastica provenienti dal mare a fondersi e a inglobare al loro interno sabbia, piccole rocce e altri detriti. Qualche tempo dopo lo spegnimento del falò, la plastica si era solidificata creando un nuovo strato di sedimenti diverso da ciò che c’era prima sulla spiaggia.
Moore aveva raccolto alcuni campioni che erano stati analizzati negli anni seguenti insieme ad altri reperti in particolare da Patricia Corcoran, dell’Università dell’Ontario occidentale (Canada). In una ricerca realizzata nel 2013, Corcoran e il suo gruppo di ricerca avevano segnalato che la sostanza di Kamilo Beach era costituita da frammenti di reti da pesca e per circa metà da piccoli pezzi di plastica, che si erano probabilmente separati da pezzi più grandi nel processo di degradazione del materiale a causa del moto ondoso e degli effetti della luce solare. Lo confermava inoltre l’ipotesi di Moore sulla probabile origine derivante da un fuoco acceso sulla spiaggia, ritenendo meno probabile un’origine derivante da una colata lavica.
Il lavoro di Corcoran si fece soprattutto notare per la sua scelta di chiamare “plastiglomerato” la sostanza osservata alle Hawaii, dal materiale plastico che la compone insieme agli altri detriti che formano un materiale incoerente, un agglomerato appunto. Da alcuni geologi il plastiglomerato viene considerato una roccia sedimentaria clastica, cioè una roccia formata dall’accumulo di frammenti di materiali rocciosi e di altro tipo trasportati dal mare, dal vento o da altri agenti esterni.
La classificazione del plastiglomerato e lo stesso nome sono però ancora molto discussi. Nel corso del tempo ne sono state trovate versioni in almeno una decina di posti diversi dalle Hawaii, con alcune caratteristiche in comune tali da ipotizzare che possano durare molto a lungo nel tempo, come gli altri strati geologici.
Tra i principali sostenitori di questa ipotesi c’è Jan Zalasiewicz, un geologo che lavora all’Università di Leicester (Regno Unito) e che negli ultimi anni ha fatto parte del Gruppo di lavoro sull’Antropocene, dedicato a chiedere il riconoscimento di una nuova era geologica fortemente influenzata dalle attività umane e per questo chiamata “Antropocene” (dalle parole greche ἄνθρωπος,“umano”, e καινός, “tempo”). A fine marzo l’Unione internazionale di scienze geologiche (IUGS) ha confermato che l’Antropocene in cui è suddivisa la storia della Terra. È una decisione che potrà essere rivista in futuro e per questo molti ricercatori – come Zalasiewicz – sono al lavoro sugli indizi che secondo loro indicano una profonda modificazione, anche a livello geologico, portata dalla nostra specie.
Zalasiewicz ha di recente a Slate che l’idea che le rocce debbano risalire a moltissimo tempo fa per essere considerate tali è una «leggenda metropolitana». Alcune rocce si formano praticamente in tempo reale durante le eruzioni vulcaniche, spiega, quando le colate laviche si raffreddano e si solidificano.
Diversi geologi la pensano come Zalasiewicz e ritengono che la plastica debba essere ormai considerata come un materiale sedimentario. Quella dispersa nell’ambiente si disgrega col tempo, soprattutto a causa dell’azione dei raggi solari che la rendono friabile e meno elastica. I frammenti si infiltrano nel suolo e diventano una delle materie prime per la formazione delle rocce, in processi molto lunghi, ma che ormai avvengono da quasi un secolo se si considerano i primi materiali plastici del Novecento. Questo strato distinguibile dagli altri sarebbe uno dei principali indizi dell’esistenza dell’Antropocene.
“Plastica” è naturalmente una parola ombrello usata per indicare prodotti con caratteristiche chimiche molto diverse tra loro: esistono plastiche di ogni tipo e la loro durata anche a livello molecolare può variare molto. Ed è proprio sulla durata che si sta concentrando il confronto tra gli esperti.
I più scettici ritengono che sia ancora troppo presto per determinare se alcuni tipi di plastica abbiano effettivamente una durata compatibile con i processi geologici, che si estendono per migliaia, milioni e miliardi di anni a seconda dei casi. Nei processi geologici che avvengono in profondità nella crosta terrestre, per esempio, alcune plastiche potrebbero cambiare caratteristiche, tanto da non diventare sostanze di lunga durata come avviene con altre sostanze fossili. Non è nemmeno escluso che, dopo un certo periodo di tempo, i frammenti di plastica nei sedimenti si trasformino in petrolio, la sostanza da cui erano stati prodotti.
Al di là dei nomi e della classificazione, i plastiglomerati sono comunque un ulteriore indizio dell’enorme impatto che le attività umane hanno avuto e continuano ad avere sul nostro pianeta. L’inquinamento derivante dalla plastica è una delle più importanti emergenze ambientali del nostro tempo, ma concordare le strategie per affrontarlo globalmente non è semplice. A fine aprile a Ottawa, in Canada, si è una nuova serie di negoziati per formalizzare un trattato internazionale vincolante per ridurre l’inquinamento che deriva dalla plastica. L’iniziativa è da un comitato intergovernativo delle Nazioni Unite, che ha il difficile compito di mettere d’accordo oltre 175 paesi che negli scorsi anni si erano impegnati per trovare una soluzione comune. Tra ritardi e rinvii, non si prevede di avere un trattato definitivo prima del 2025.