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    Il coronavirus fu sequenziato due settimane prima che la Cina ne desse notizia

    Secondo alcuni documenti diffusi da una commissione del Congresso degli Stati Uniti, alla fine del 2019 una ricercatrice cinese pubblicò informazioni sul coronavirus due settimane prima che queste fossero ufficialmente diffuse dal governo della Cina, un probabile indizio del fatto che il governo cinese fosse a conoscenza del SARS-CoV-2 già da diverso tempo prima di comunicarne l’esistenza alle autorità sanitarie internazionali. Il ritardo nella notifica avvenne in un momento cruciale nel quale iniziavano a emergere diversi casi di polmonite in Cina, senza che ci fosse una spiegazione convincente sulle loro cause.Il 28 dicembre 2019 la virologa Lili Ren dell’Accademia delle Scienze mediche cinese inviò un sequenziamento del SARS-CoV-2 (cioè informazioni sulle caratteristiche genetiche del virus) a GenBank, una banca dati sulla quale vengono condivise sequenze di materiale genetico, mantenuta dai National Institutes of Health degli Stati Uniti. Tre giorni dopo, il lavoro di Ren fu segnalato perché incompleto e fu quindi richiesto alla ricercatrice di condividere maggiori informazioni. Secondo la ricostruzione della commissione del Congresso, Ren non rispose e in mancanza di informazioni sufficienti il suo lavoro fu rimosso da GenBank il 16 gennaio 2020. Quattro giorni prima, un altro gruppo di ricerca cinese aveva pubblicato sempre su GenBank un sequenziamento del SARS-CoV-2 sostanzialmente identico a quello proposto da Ren.
    Non è chiaro perché Ren avesse inviato le informazioni a GenBak e avesse poi deciso di non rispondere alle sollecitazioni di chiarimenti. La banca dati contiene oltre 3,8 miliardi di annotazioni, quindi è probabile che in mancanza di altri dettagli i dati forniti da Ren fossero passati inosservati o per lo meno non ricondotti alle prime notizie – al tempo piuttosto confuse – su che cosa stesse accadendo in alcuni ospedali di Wuhan, la città cinese dove furono registrati i primi casi della nuova malattia poi chiamata COVID-19.
    La commissione che ha diffuso la documentazione si sta occupando per conto del Congresso di indagare le origini del SARS-CoV-2, per provare a capire se questo si sviluppò naturalmente nel passaggio da alcuni animali agli esseri umani oppure in seguito a un errore di laboratorio. I lavori della commissione sono sotto la responsabilità di un gruppo di parlamentari Repubblicani, ma le nuove informazioni sul ritardo nella segnalazione non forniscono elementi aggiuntivi sull’origine del coronavirus.
    Secondo i membri della commissione e alcuni osservatori, il mancato riconoscimento dell’importanza della segnalazione di Ren e il ritardo con cui il governo cinese informò la comunità internazionale fecero perdere tempo prezioso, in una fase in cui si iniziavano a registrare i primi morti dovuti alla malattia, sulla quale c’erano ancora pochissime informazioni. Le notizie sul lavoro di Ren potrebbero inoltre dimostrare che alla fine di dicembre 2019 diversi gruppi di ricerca in Cina fossero già impegnati a sequenziare il coronavirus e che avessero provato a condividere le loro scoperte, fino a quando non era intervenuto il governo cinese per limitare la diffusione di informazioni. All’inizio della pandemia la Cina era stata accusata di essere poco trasparente sulla diffusione del coronavirus a Wuhan e in altre aree del paese.
    Il fatto che il sequenziamento fosse disponibile su una banca dati internazionale, e accessibile liberamente, pone inoltre alcune domande sull’efficacia dei sistemi per la rapida identificazione di nuovi patogeni.
    Da tempo si discute di adottare soluzioni per migliorare la condivisione di informazioni su malattie emergenti a livello internazionale, in modo da prevenire nuove pandemie. Se ne parlerà il prossimo maggio nel corso della 77esima Assemblea mondiale della salute, nella quale i 194 paesi membri dell’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) si confronteranno su un nuovo importante trattato sulle pandemie, per adottare linee guida comuni per prevenirle e gestirle meglio partendo anche dalle esperienze e dalle conoscenze maturate negli ultimi anni. LEGGI TUTTO

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    Un nuovo importante risultato nella clonazione delle scimmie

    ReTro è una scimmia della specie macaco rhesus (Macaca mulatta) all’apparenza simile a molti altri, ma detiene un primato: è nato da un processo di clonazione in laboratorio ed è il primo individuo clonato di questa specie ad avere raggiunto l’età adulta. ReTro ha infatti più di due anni e secondo il gruppo di ricerca cinese che lo ha clonato è in buona salute, al punto da poterlo considerare un nuovo importante progresso nelle ricerche sui primati e per la sperimentazione di nuovi farmaci. La tecnica con cui è stato clonato è però ancora complicata e richiede molti tentativi prima di ottenere un risultato come questo.Sono passati quasi trent’anni dalla clonazione della pecora Dolly, una delle primissime esperienze nel settore, e da allora sono state clonate molte specie di animali con grandi successi e molti fallimenti. Soprattutto la clonazione dei primati si è rivelata più difficile e complicata del previsto. Un importante progresso fu raggiunto nel 2018, quando un gruppo di ricerca riuscì a far portare a compimento la gestazione di due macachi di Giava (Macaca fascicularis) dopo avere creato in laboratorio 109 embrioni clonati e averne impiantati la maggior parte nell’utero di 21 scimmie: solo sei di queste avevano poi sviluppato una gravidanza.
    Nel 2022 un tentativo di clonare un macaco rhesus portò alla nascita di una scimmia, ma questa morì dopo poco meno di 12 ore dal parto. Per clonarla, il gruppo di ricerca aveva utilizzato la tecnica sviluppata per la pecora Dolly, che aveva però mostrato di non funzionare come atteso nei primati.
    In generale, in biologia un clone è un organismo che ha lo stesso identico patrimonio genetico di un altro esemplare. La clonazione è un processo che esiste in natura e che interessa soprattutto le piante, alcuni invertebrati e organismi unicellulari. Clonare in laboratorio significa creare un nuovo essere vivente con le stesse informazioni genetiche dell’organismo di partenza. La tecnica (SCNT, da “somatic cell nuclear transfer”) che fu perfezionata con Dolly prevede di effettuare un trapianto di un nucleo da cellula somatica adulta, cioè da una cellula che fa parte di un tessuto e che è specializzata per fare una cosa sola.
    Nel nucleo di ogni cellula è racchiuso il materiale genetico di un organismo, cioè le istruzioni di base che lo fanno funzionare e sviluppare. Il trasferimento di nucleo consiste nel prelevare queste informazioni da una cellula e di inserirle in un ovocita (la cellula uovo in uno stadio non completo), dalla quale è stato rimosso il nucleo originario. La cellula ibrida ottenuta viene indotta in laboratorio – quindi fuori da un organismo vivente – ad avviare la divisione cellulare. Si ottiene in questo modo la blastocisti, una delle prima fasi dell’embrione, e a questo punto è possibile procedere con l’impianto nell’utero della madre surrogata, che porterà avanti la gravidanza fino alla nascita del nuovo individuo.
    La procedura è naturalmente più complessa di così e riuscire a produrre un clone comporta numerosi tentativi e fallimenti, soprattutto nei primati. E proprio per questo un gruppo di ricerca dell’Accademia delle scienze cinese ha provato a comprendere che cosa andasse storto nella clonazione di varie specie di scimmie.
    Come spiegano nel loro studio da poco pubblicato su Nature Communications, i ricercatori hanno messo a confronto 484 embrioni ottenuti con la SCNT (quindi clonati) e 499 embrioni derivanti da normali procedure di fertilizzazione in vitro (quindi non clonati). Osservandoli in laboratorio, hanno notato che i due tipi di embrioni si erano sviluppati più o meno allo stesso modo prima di essere impiantati nelle madri surrogate. Le cose erano però cambiate dopo l’impianto uterino: meno della metà degli embrioni clonati aveva attecchito e pochi di loro erano arrivati al termine della gravidanza.
    Il gruppo di ricerca ha allora condotto alcune analisi genetiche sugli embrioni ottenuti con la SCNT, notando importanti differenze rispetto agli altri embrioni dovute al modo in cui si producevano alcune modifiche importanti nei processi di attivazione o non attivazione dei geni (modifiche epigenetiche). Le differenze erano tali da suggerire che fossero la base dei problemi per il successivo sviluppo degli embrioni, con il conseguente fallimento delle gravidanze.
    Proseguendo nelle analisi, il gruppo di ricerca ha notato che il problema riguardava in particolare le cellule all’interno della placenta, che da un lato si forma da tessuti prodotti dall’embrione e dall’altro da quelli originati dalla gestante. I ricercatori hanno allora provato a utilizzare i tessuti della placenta prodotti dagli embrioni della fertilizzazione in vitro (quindi non clonati), sostituendoli a quelli degli embrioni clonati. In questo modo gli embrioni hanno potuto sviluppare una placenta che non derivava dall’attività di clonazione in vitro, pur mantenendo il resto delle strutture clonate dell’embrione.
    La tecnica è stata impiegata per produrre 113 embrioni clonati, 11 dei quali sono stati impiantati in madri surrogate, ottenendo infine due gravidanze. Una madre surrogata ha infine portato alla nascita di ReTro, mentre per l’altra la gravidanza si è interrotta al 106esimo giorno.
    Il risultato – cioè la nascita e la crescita fino all’età adulta di ReTro – è stato accolto con grande interesse nella comunità scientifica, ma la tecnica è comunque ancora molto complicata e non offre livelli paragonabili al tasso di successo nella clonazione di altre specie, non di primati, utilizzando la SCNT. La quantità di embrioni che deve essere prodotta è molto alta così come è alto il rischio che la gravidanza non vada a termine. Il fatto che ReTro sia sopravvissuto e abbia più di due anni è comunque un risultato positivo e, secondo il gruppo di ricerca, in futuro potrebbero esserci benefici per le attività di sperimentazione che coinvolgono i primati.
    Da quando si è riusciti a clonare alcune specie di primati, vari gruppi di ricerca hanno utilizzato le scimmie per produrre modelli più accurati di alcune malattie o per verificare il funzionamento di alcune sostanze, in vista del loro impiego sugli esseri umani come terapie contro alcune malattie. Disporre di esemplari identici consente infatti di effettuare sperimentazioni più mirate, riducendo la quantità di variabili e rendendo confrontabili più facilmente i risultati. In questo modo si potrebbero anche utilizzare meno animali, una questione dibattuta da tempo e con non pochi risvolti etici.
    Già ai tempi della clonazione di Dolly si aprì un ampio dibattito etico e scientifico sull’opportunità di condurre esperimenti per clonare gli organismi, e naturalmente ci fu chi ipotizzò un futuro nemmeno troppo lontano in cui sarebbe stato possibile clonare un essere umano, con implicazioni senza precedenti nella storia dell’umanità. Nonostante i nuovi progressi, la clonazione umana continua a essere una prospettiva molto distante (per i più scettici impossibile) per gli altissimi rischi che comporta. La ricerca si è inoltre concentrata su altro, e cioè sullo sfruttamento delle conoscenze nate intorno all’esperimento di Dolly e sviluppate negli anni seguenti per trovare nuove cure e terapie per migliorare la vita di milioni di persone. LEGGI TUTTO

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    Come si studia la lava

    Le eruzioni vengono considerate fenomeni interessanti e per certi versi affascinanti anche in paesi come l’Islanda, dove sono molto meno rare che altrove, e continuano a darci informazioni su come funziona l’interno del pianeta nonostante secoli di osservazioni e studi dei vulcani. Per questo anche l’ultima eruzione avvenuta tra domenica e lunedì a Grindavík, nel sud-ovest del paese, è stata seguita con attenzione da vulcanologi e altri scienziati, e non solo per ragioni di sicurezza. Un gruppo di ricerca dell’Università dell’Islanda che si occupa di geochimica e petrologia ad esempio è andato sul sito dell’eruzione per raccogliere dei campioni di lava, per poi analizzare quali sostanze contiene in laboratorio.«La composizione chimica della lava è importante per comprendere i processi magmatici nelle profondità della crosta o del mantello superiore della Terra», spiega Alberto Caracciolo, geologo italiano che fa parte del gruppo, «che sono luoghi normalmente inaccessibili all’osservazione diretta». Sapere quali minerali sono presenti nel magma, cioè nella lava finché si trova sottoterra, permette di determinare a quale pressione era sottoposto lo stesso magma prima dell’eruzione e quindi a quale profondità si trovava. Dunque di capire qualcosa in più sulle ragioni di un’eruzione.
    La lava appena fuoriuscita in superficie ha una temperatura di 1.000-1.200 °C: è per questo che Caracciolo e i suoi colleghi le si avvicinano indossando abiti e guanti resistenti alle alte temperature. «Il calore diventa molto intenso quando ci avviciniamo ai fronti lavici attivi, simile alla sensazione di aprire un forno molto caldo in casa. Nel caso della lava, questa sensazione è costante, cosa che in Islanda, con le sue rigide temperature, viene apprezzata!». Si usano anche caschi protettivi dotati di visiera e, per via dei gas tossici che accompagnano la lava, delle maschere antigas: «Gli odori variano a seconda della quantità di gas rilasciati e della presenza o assenza di vegetazione in combustione. Domenica si percepiva prevalentemente l’odore di zolfo e di erba bruciata».
    Anche la concentrazione di gas viene registrata. Come precauzione di sicurezza si usano misuratori della quantità di diossido di zolfo (SO2) e anidride carbonica (CO2) nell’aria e si ha a portata di mano una bombola di ossigeno, da usare in caso di emergenza.
    La raccolta dei campioni poi si fa mantenendosi a una certa distanza: «Usiamo un palo lungo circa due metri con un “cucchiaio” all’estremità», continua Caracciolo, «ci avviciniamo alla colata di lava e preleviamo campioni di lava ancora fluida con questo lungo cucchiaio, raffreddandoli rapidamente in un secchiello di metallo riempito con acqua del rubinetto». Raffreddandosi la lava si solidifica e quello che si ottiene sono dei pezzi di roccia nera. Gli scienziati cercano di farli raffreddare il più in fretta possibile per limitare le contaminazioni della lava da parte dell’atmosfera: provocando una rapida solidificazione ottengono una buona approssimazione della composizione chimica del magma.

    New volcanic eruption in Svartsengi! Thanks to the civil protection who allowed us to access the area! Today, with @Alberto_Carac, Nico, Céline, Sam and Steini, we collected fresh lava samples and measured volcanic gases. Preliminary geochimical data coming tomorrow! Stay tuned. pic.twitter.com/k2pxJcLgUV
    — Geochemistry and Petrology Group @ Uni. Iceland (@rockhardIES) January 14, 2024

    L’eruzione di Grindavík, e in generale le eruzioni dell’estremo sud-ovest dell’Islanda, cioè nella penisola di Reykjanes, sono diverse da quelle che avvengono in Italia e che sono legate a vulcani che nel corso del tempo hanno creato delle montagne, come Etna e Stromboli. Queste differenze sono dovute al fatto che ciò che succede sotto Reykjanes è diverso da ciò che succede sotto i vulcani italiani. La penisola islandese si trova lungo la dorsale oceanica medio-atlantica, la congiuntura tra due placche della crosta terrestre che si allontanano. I fenomeni vulcanici italiani invece sono legati a una placca che si immerge sotto un’altra. Per via di questa differenza la composizione chimica della lava dell’Etna è diversa da quella della lava di Reykjanes: la prima contiene più sodio e potassio, quella islandese più magnesio.
    Teoricamente, dice Caracciolo, anche vicino a Grindavík «potrebbe formarsi un vulcano a scudo, ossia una montagna. Ma affinché ciò accada, le eruzioni dovrebbero continuare per moltissimo tempo».
    Intanto l’eruzione degli ultimi giorni si sta esaurendo. Potrebbero verificarsene altre nelle prossime settimane o mesi, ma non è possibile prevederlo con certezza. Nella penisola di Reykjanes l’attività vulcanica è ricominciata solo negli ultimi anni dopo quasi 800 anni di quiescenza. Dal 2021 ci sono state quattro eruzioni prima dell’ultima, tutte lontano da infrastrutture o centri abitati. Non è possibile dire quanto durerà il nuovo ciclo di attività. LEGGI TUTTO

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    C’è un preoccupante aumento di tumori giovanili

    I casi di cancro tra i giovani adulti sono in marcato aumento da decenni e al momento gruppi di ricerca ed esperti di oncologia non riescono a spiegarne il motivo. Secondo un’analisi pubblicata lo scorso settembre sulla rivista medica BMJ Oncology, negli ultimi trent’anni l’incidenza di casi di cancro tra le persone con meno di 50 anni di età è aumentata di quasi l’80 per cento a livello globale, ma il problema era già stato segnalato in precedenza da altre ricerche concentrate soprattutto sull’impatto di questi tumori giovanili sui sistemi sanitari.Negli ultimi giorni un articolo del Wall Street Journal ha fatto il punto sulla situazione, integrando i dati raccolti nello studio pubblicato l’anno scorso con altre informazioni raccolte da medici e pazienti negli Stati Uniti. Nel paese, le diagnosi di nuovi tumori tra chi ha meno di 50 anni di età sono passate da 95,6 casi su 100mila persone nel 2000 a 107,8 casi sempre su 100mila persone nel 2019, un aumento di quasi il 13 per cento.
    A livello globale, dal 1990 è aumentata soprattutto tra i giovani adulti l’incidenza (cioè i nuovi casi in un determinato periodo di tempo) di casi di cancro alla trachea e alla prostata, ma sono aumentati anche i casi di tumori al seno, al colon-retto, allo stomaco e ai polmoni. Nel 2019 le diagnosi di tumore giovanile sono state 3,26 milioni con un aumento del 79,1 per cento rispetto alle diagnosi effettuate nel 1990. Almeno in parte, l’aumento è probabilmente dovuto a un miglioramento nelle diagnosi precoci, ma questo non è sufficiente per spiegare una crescita così marcata nell’incidenza di nuovi casi di tumore.
    I tassi più alti riguardano il Nordamerica, l’Europa occidentale e l’Australia. Nei paesi con reddito più basso, le diagnosi di cancro giovanile hanno avuto un impatto maggiore sulle donne, sia in termini di letalità sia di complicazioni e altri problemi di salute (il rischio di morire di tumore in età giovanile in generale si sta comunque riducendo).
    Distribuzione dei casi e dei decessi per i tumori a insorgenza precoce nel 1990 e nel 2019 (BMJ Oncology)
    Esistono numerose forme di tumori e numerose cause possono concorrere al loro sviluppo. In generale la malattia dipende da un comportamento anomalo di alcune cellule che a causa di mutazioni (errori nella decodifica del materiale genetico) iniziano a moltiplicarsi in modo incontrollato, senza che il sistema immunitario riesca a contrastarle. Non tutte le mutazioni determinano questo fenomeno, ma con l’avanzare dell’età le mutazioni si accumulano e può quindi aumentare il rischio di sviluppare un tumore. Per questo motivo l’incidenza dei tumori è solitamente più alta tra le persone anziane, mentre tende a essere più bassa nelle persone giovani, che di solito sono anche più in salute.
    In medicina ogni persona è sostanzialmente un mondo a parte, di conseguenza ci possono essere più combinazioni che determinano l’insorgenza di un tumore: da una certa predisposizione a livello genetico a stili di vita poco salutari, passando per eventi del tutto casuali. È un contesto in cui è difficile muoversi e soprattutto produrre analisi accurate per comprendere come mai in una certa fascia della popolazione aumenti l’incidenza di casi di cancro. È una difficoltà evidente soprattutto in questo caso: i dati indicano un aumento, ma non ci sono ancora elementi chiari per stabilirne le cause.
    Tra i principali sospettati ci sono gli stili di vita e per quanto riguarda i paesi occidentali alcune analisi si sono concentrate sul problema del sovrappeso e dell’obesità, definito dall’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) come una questione di “proporzioni epidemiche” con una stima di circa 4 milioni di morti all’anno. Le cause sono legate sia a una vita lavorativa più sedentaria sia a una dieta meno bilanciata, spesso basata sul consumo di prodotti preconfezionati ricchi di zuccheri e grassi. Altri fattori tenuti in considerazione sono il fumo e il consumo di alcol, soprattutto nei paesi le cui economie si sono sviluppate, rendendo questi prodotti più accessibili a un maggior numero di persone.
    Alcune forme di tumore, come quello al colon-retto, al pancreas e al seno possono avere come concausa l’obesità, che fa aumentare il rischio di sviluppare numerose patologie. In passato erano stati pubblicati studi che avevano provato ad analizzare l’incidenza di tumori giovanili tra le persone obese, con risultati non definitivi, ma che suggerivano comunque alcuni indizi.
    Obesità e stili di vita non sono però sufficienti per spiegare un aumento così significativo di diagnosi di tumore nell’ultimo trentennio tra chi ha meno di cinquant’anni. C’è una porzione rilevante di persone in salute e con buone abitudini alimentari che sviluppa ugualmente una forma di tumore da giovane, rendendo molto difficile l’identificazione di una causa.
    Un’ipotesi di alcuni medici, tutta da dimostrare, è che i pazienti con tumori in giovane età siano stati esposti a una o più sostanze cancerogene da bambini, che avrebbero fatto da causa scatenante. Capire quali possano essere queste sostanze è molto difficile e secondo i più critici questo approccio cerca semplicemente di replicare quanto scoperto nella seconda metà del Novecento, quando ci si accorse che la maggiore incidenza di alcuni tumori come quelli al polmone era causata dall’alto numero di fumatori e fumatrici.
    Per provare a capire qualcosa di più, diversi centri di ricerca – soprattutto negli Stati Uniti – hanno avviato programmi e progetti di monitoraggio della popolazione, concentrandosi sulle persone che sviluppano tumori in giovane età per ricostruire la loro vita dal punto di vista sanitario prima della diagnosi. Condurre questo tipo di analisi non è semplice e occorrono molti partecipanti per ottenere dati statisticamente rilevanti.
    Alcuni gruppi di ricerca si stanno concentrando su altri aspetti, legati per esempio alle pratiche mediche seguite negli ultimi decenni. In particolare si sospetta che il largo uso di antibiotici, che ha effetti sull’insieme dei microrganismi che vivono nell’intestino e favoriscono i processi digestivi e di assimilazione dei nutrienti, possa avere un qualche effetto non ancora misurato. Altri studi si stanno concentrando sull’inquinamento atmosferico, dovuto in particolare all’impiego dei combustibili fossili, e all’esposizione ad altre sostanze chimiche i cui quantitativi sono aumentati nella seconda metà del Novecento.
    Dalle analisi è comunque emerso che alcuni tumori sono in controtendenza, con una sensibile diminuzione della loro incidenza. È per esempio il caso del tumore al fegato, la cui diminuzione è probabilmente dovuta alla diffusione del vaccino contro l’epatite B, che riduce sensibilmente il rischio di sviluppare infiammazioni croniche che potrebbero poi causare il cancro. La maggiore incidenza dei tumori del naso-faringe potrebbe essere in parte legata al virus di Epstein-Barr (Herpesvirus umano 4), noto per essere coinvolto nella formazione di alcuni tumori e contro il quale non esiste ancora un vaccino.
    Comprendere le cause dell’aumento degli ultimi 30 anni non solo potrebbe aiutare a ridurre i nuovi casi di tumore, ma porterebbe anche a importanti benefici per i sistemi sanitari. Soprattutto grazie allo sviluppo di nuove terapie e alle diagnosi precoci, i tumori in giovane età sono relativamente meno letali, ma richiedono comunque screening periodici e analisi per assicurarsi che non si presentino recidive e ricadute. Un paziente giovane avrà probabilmente necessità di assistenza medica più a lungo rispetto a una persona anziana, la cui prospettiva di vita è più limitata. Tutto questo si traduce in costi più alti per i sistemi sanitari, che spesso faticano a soddisfare tutte le richieste anche per gli altri tipi di malattie e problemi di salute. LEGGI TUTTO

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    Le foto della lava che si sta raffreddando, in Islanda

    La seconda eruzione vulcanica di Grindavík, in Islanda, si sta esaurendo, secondo le analisi dell’Agenzia meteorologica islandese. Questa mattina l’esperta di disastri naturali dell’ente Elísabet Pálmadóttir ha detto alla RÚV, la principale rete televisiva del paese, che anche dalla fessura più settentrionale che si era aperta domenica, quella più ampia, si è interrotto il flusso della lava poco dopo l’una di oggi. Nella notte sono stati registrati più di 160 piccoli terremoti dovuti al movimento del magma sotto terra e anche per questo non si può ancora dire che l’eruzione sia finita: c’è ancora la possibilità che si aprano altre fessure nelle prossime ore e per questo attualmente gli abitanti della cittadina non possono tornare nelle proprie abitazioni. LEGGI TUTTO

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    Weekly Beasts

    Sono tutte situazioni abbastanza ordinarie, quelle in cui sono ritratti gli animali fotografati in giro per il mondo nei giorni scorsi: un coniglio in un campo, uno stormo di uccelli al tramonto e daini tra la neve. Incuriosiscono di più il toro circondato da cani a Katmandu, o l’asino addobbato per una sfilata del giorno dell’Epifania, per finire con i fenicotteri dello zoo di Berlino in una stanza al coperto per ripararli dal freddo, e tre scimmie arrampicate su un lampione. LEGGI TUTTO

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    È stata scoperta una rete di antiche città in Amazzonia, abitata quando in Europa c’era l’Impero Romano

    Caricamento playerUn gruppo di archeologi guidati dal francese Stéphen Rostain ha scoperto i resti di una serie di antiche città nella foresta amazzonica dell’Ecuador, grazie a una tecnologia di telerilevamento basata sul laser e a indagini sul campo. L’articolo scientifico che documenta la scoperta, pubblicato sulla rivista Science, spiega che queste città furono abitate circa tra il 500 a.C. e un periodo compreso tra il 300 e il 600 d.C., più o meno quando in Europa c’era l’Impero Romano.
    Appartenevano al cosiddetto popolo Upano, così chiamato dal nome di un fiume che scorre in una regione collinare ai piedi delle Ande: è la più antica società umana amazzonica mai scoperta e studiata. Questi insediamenti infatti hanno almeno mille anni in più dei più antichi trovati in precedenza nell’Amazzonia.
    Rostain è un archeologo esperto di antiche civiltà amazzoniche precolombiane, cioè che vivevano in America prima che ci arrivasse Cristoforo Colombo nel 1492, ed è un ricercatore del Centre national de la recherche scientifique (CNRS), l’analogo francese del Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR) italiano. Aveva iniziato a studiare alcune montagnole del tipo che solitamente nasconde resti di antiche costruzioni nella valle dell’Upano una trentina d’anni fa, ma per molto tempo lui e i suoi colleghi si erano limitati a studiare due siti principali, Sangay e Kilamope, dove sono stati trovati manufatti di ceramica dipinta e incisa.
    Le sue scoperte si sono estese dopo che nel 2015 l’Istituto nazionale per il patrimonio culturale dell’Ecuador realizzò una mappatura aerea della valle dell’Upano con un LIDAR, uno strumento che permette di misurare la distanza di oggetti e superfici attraverso impulsi laser e che per questo può essere usato per rilevare la presenza di strutture umane nascoste in una fitta foresta. Grazie alle informazioni ottenute in questo modo gli archeologi si sono accorti che i siti a loro noti erano collegati ad altri, fino ad allora sconosciuti, attraverso una rete di strade. Complessivamente sono stati trovati cinque grandi insediamenti e dieci più piccoli in una zona di 300 chilometri quadrati. Le strade più grandi misuravano 10 metri di larghezza e si allungavano fino a 20 chilometri.
    La copertina di Science del 12 gennaio 2024, dedicata alla scoperta della rete di antiche città scoperta in Amazzonia
    Sono state trovate le tracce di campi coltivati a mais, patate e manioca (un altro tubero), canali, abitazioni e costruzioni per cerimonie religiose, entrambe realizzate con mattoni di fango, l’unico materiale da costruzione reperibile nella regione. Il gruppo di Rostain ha stimato che nella rete di centri potessero vivere almeno 10mila persone, forse fino a 30mila nei periodi di picco demografico. Sarebbe una popolazione numericamente simile a quella che abitava Londra in epoca romana e capace di organizzare il lavoro in maniera complessa, avendo potuto realizzare una rete urbana di questa estensione.
    La scoperta è una ulteriore conferma del fatto che le popolazioni della foresta amazzonica non vissero sempre in piccoli gruppi più o meno nomadi, come si pensava in passato, ma che nella regione si svilupparono anche altri tipi di società prima dell’arrivo degli europei. LEGGI TUTTO

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    C’è un gigantesco anello nell’Universo

    Un gruppo di ricerca dell’University of Central Lancashire (Regno Unito) ha annunciato di avere scoperto una “struttura a grande scala dell’Universo”, con un diametro stimato di 1,3 miliardi di anni luce. Se confermata, sarebbe una delle più grandi strutture mai osservate e tale da generare qualche dubbio sulle attuali teorie che cercano di spiegare il modo in cui è organizzato l’Universo. In generale, le stelle sono raccolte in galassie che a loro volta formano: gruppi di galassie, ammassi di galassie e superammassi di galassie, ma anche “muri” e “filamenti” (modi diversi in cui ci appare l’organizzazione di più galassie). Queste strutture sono separate tra loro da grandi vuoti, al punto da dare l’impressione che l’Universo osservabile sia una sorta di ragnatela.Rappresentazione della ragnatela cosmica (“Cosmic Web”) con la distribuzione omogenea su grande scala delle galassie (NASA)
    Fino alla fine del Novecento si ipotizzava che alcuni tipi di superammassi fossero le strutture più grandi esistenti, e che fossero distribuite in modo omogeneo e uniforme in ogni direzione. Le cose cambiarono negli anni Ottanta con la scoperta di strutture ancora più grandi e nel 1989 fu confermata l’esistenza della Grande Muraglia CfA2, un grande gruppo di galassie con un’estensione stimata intorno ai 500 milioni di anni luce. La sua esistenza suggerisce una concentrazione di materia che almeno in parte mette in discussione le teorie sulla distribuzione pressoché omogenea dell’Universo su larga scala (e su cui si discute molto anche in termini di materia oscura ed energia oscura, come abbiamo raccontato estesamente qui).
    Nell’aprile del 2003 fu osservato il gigantesco ammasso di galassie noto come Grande Muraglia di Sloan, con una estensione di 1,37 miliardi di anni luce, quasi tre volte più grande della Grande Muraglia CfA2. Nel 2021 fu invece data notizia della scoperta dell’Arco Gigante, che potete immaginare come tante galassie messe in fila a formare un arco con una lunghezza di 3,3 miliardi di anni luce.
    La nuova struttura annunciata dal gruppo di ricerca britannico è stata chiamata Grande Anello e ha un diametro di 1,3 miliardi di anni luce: rientra quindi ai primi posti della classifica. Si trova a circa 9 miliardi di anni luce dalla Terra e non può essere osservata a occhio nudo. La scoperta è stata esposta nel corso di un convegno dell’American Astronomical Society a New Orleans, negli Stati Uniti, e ha fatto discutere perché aggiunge nuovi elementi sulle strutture a grande scala dell’Universo.
    In rosso l’Arco Gigante e in blu il Grande Anello, mostrati nel cielo visibile notturno (University of Lancashire)
    Dopo le prime scoperte di questo tipo, erano state elaborate teorie che ipotizzavano un limite di estensione intorno agli 1,2 miliardi di anni luce, ma sia il Grande Anello sia l’Arco Gigante sembrano contraddire quelle ipotesi e potrebbero non essere una semplice eccezione.
    Se così fosse, dovrebbe essere rivisto il principio cosmologico, cioè l’assunto secondo il quale su una scala molto grande l’Universo è omogeneo e isotropo (cioè si comporta allo stesso modo in ogni direzione che consideriamo). Queste caratteristiche appaiono appunto su grande scala, mentre a un livello più basso – come può essere un gruppo di galassie o l’organizzazione di un sistema solare come il nostro – l’Universo ci appare disomogeneo e più disordinato.
    Il principio cosmologico limita in modo significativo la quantità di teorie cosmologiche, cioè le spiegazioni su come funzioni l’Universo, che possono essere considerate possibili e plausibili. Per questo le novità sulle strutture a grande scala vengono seguite con attenzione perché potrebbero portare a rivedere alcuni assunti di quel principio, un tema molto dibattuto e sul quale non c’è ancora consenso scientifico.
    Nel caso del Grande Anello, l’identificazione è stata possibile grazie alla Sloan Digital Sky Survey (SDSS), un’iniziativa per identificare e catalogare galassie che ha permesso l’individuazione di numerosi quasar (buchi neri attivi altamente luminosi) a grande distanza. Sfruttando la loro luminosità è possibile rivelare la presenza di ammassi di galassie molte distanti, che si trovano tra i quasar e il nostro punto di osservazione, derivando in questo modo informazioni sulle caratteristiche di quegli ammassi. I dati raccolti sono stati poi analizzati utilizzando vari algoritmi per definire, tramite la statistica, l’eventuale presenza di strutture a grande scala.
    Questa tecnica di osservazione è diventata via via più affidabile, grazie ad alcuni importanti progressi sia nelle tecnologie per osservare il cielo sia nei modelli e negli algoritmi per trarre informazioni dai dati raccolti. C’è comunque sempre il rischio che l’osservazione porti a descrivere strutture che sono però diverse da come ci appaiono. Ci possono essere distorsioni legate alle distanze (soprattutto in profondità, rispetto a come ci appaiono gli elementi sullo stesso piano dal nostro punto di osservazione), al modo in cui viene osservata la luce che attraversa i gruppi di galassie e al modo in cui viene riflessa da questi. LEGGI TUTTO