More stories

  • in

    Qual è la posizione migliore per dormire?

    All’inizio del secondo capitolo dei Promessi sposi, Alessandro Manzoni scrive che «il principe di Condè dormì profondamente la notte avanti la giornata di Rocroi», una delle battaglie più importanti della Guerra dei trent’anni tra Francia e Spagna nel Seicento. L’autore ricorda che il principe riuscì a dormire nonostante lo attendesse una battaglia decisiva perché «in primo luogo, era molto affaticato» e perché aveva già «stabilito ciò che dovesse fare, la mattina», mentre non fornisce informazioni sulla posizione che Condè mantenne a letto. A dirla tutta, anche se Manzoni ce lo avesse raccontato, ce ne saremmo fatti ben poco: a oggi non c’è infatti un consenso unanime sulla posizione migliore per dormire.Studiare il modo in cui le persone dormono non è semplice: non si possono ricostruire fedelmente in laboratorio le condizioni in cui normalmente una persona riposa come a casa propria, i sensori da indossare per tenere traccia dei movimenti a letto possono turbare il sonno e le persone in generale non sono molto affidabili nel raccontare le loro abitudini notturne. I vari gruppi di ricerca che se ne sono occupati hanno dovuto quindi confrontarsi con questi problemi e ciò spiega, almeno in parte, perché non si trovino molte ricerche solide nella letteratura scientifica.
    La posizione più usataLa pratica più semplice, ma non sempre affidabile, consiste nel chiedere a un gruppo selezionato di persone quali posizioni assumono di preferenza a letto quando si mettono a dormire. È un approccio che può offrire molti spunti, ma ha un grande difetto: mentre quasi tutti si ricordano l’ultima posizione prima di addormentarsi, nessuno ha davvero consapevolezza di quali posizioni assuma nel corso della notte, quando subentra l’alterazione della coscienza. Alcuni dicono di avere un vago ricordo, per esempio se si sono svegliati per qualche istante nottetempo, magari perché avevano un crampo o dovevano andare a fare pipì, ma anche in questo caso i ricordi sono confusi e talvolta contraddittori.
    Un approccio che offre qualche risultato più affidabile consiste nel riprendere gruppi di volontari mentre dormono, utilizzando telecamere a infrarossi che permettono di effettuare riprese anche al buio. Il sistema funziona bene se le persone dormono scoperte, mentre è meno affidabile se per ricreare il più fedelmente possibile le condizioni del normale riposo si utilizzano anche le coperte (il cui peso sembra influire sul modo in cui dormiamo e ci muoviamo a letto). Per questo da qualche tempo vengono sperimentati sistemi con telecamere con sensori che permettono di ricostruire tridimensionalmente le riprese, in modo da rilevare meglio i movimenti durante il sonno.
    Le immagini mostrano le posizioni assunte durante il riposo, anche nel caso di utilizzo di coperte (Sensors)
    Alle telecamere vengono talvolta aggiunti sensori di movimento da indossare, che possono fornire indicazioni più precise sulla posizione assunta nel corso della notte. Utilizzando questo sistema, uno studio ha ricostruito che in media una persona adulta trascorre circa metà del sonno sui fianchi, il 40 per cento dormendo sulla schiena (posizione supina) e il resto del tempo a pancia in giù (posizione prona).
    La stessa ricerca ha rilevato che più le persone invecchiano più tendono a preferire la posizione su un fianco. Per i bambini con più di tre anni di età le cose funzionano invece diversamente e il sonno sul fianco, supino e prono si distribuisce più o meno equamente. I neonati dormono quasi esclusivamente sulla schiena, sia perché hanno meno mobilità sia perché di solito hanno meno possibilità di muoversi, per come vengono messi nella culla anche per ridurre il rischio di soffocamento.
    Qualità del sonno e posizioneIl fatto che una posizione sia mantenuta senza costrizioni per la maggior parte del tempo potrebbe indicare che si tratti della migliore possibile, per ottenere un sonno di qualità e riposante, ma anche in questo caso trovare conferme non è semplice. Come racconta BBC Future, alcuni gruppi di ricerca hanno provato a valutare il rapporto tra posizione e qualità del sonno su alcuni volontari. Gli studi in tema non sono però molti e hanno coinvolto una quantità piuttosto limitata di persone.
    Uno studio osservazionale (cioè basato sulla semplice osservazione di ciò che accade senza interventi da parte di chi effettua la sperimentazione) è consistito nel far dormire alcune persone prendendo nota delle loro posizioni e chiedendo poi come si sentissero dopo avere dormito. Alla fine del test, le persone che avevano trascorso la maggior parte del tempo sul fianco destro avevano riferito di avere riposato un po’ meglio rispetto alle persone che avevano dormito sul fianco sinistro o in posizione supina.
    Una possibile spiegazione è che la maggior parte delle persone respira meglio quando dorme su un fianco, perché le vie aeree rimangono più distese e si riducono i rischi di piccole strozzature che potrebbero rallentare il flusso dell’aria. Per esempio: dormendo sul fianco ci sono meno probabilità che la lingua, l’ugola e gli altri tessuti molli del palato ostruiscano il passaggio dell’aria.
    (William Vanderson/Fox Photos/Getty Images)
    Sono proprio i tessuti molli la principale causa del russare e delle apnee notturne, le fasi dove per qualche istante si smette di respirare e che col tempo possono essere rischiose per il sistema cardiocircolatorio. Non è del resto un caso se alle persone che russano viene consigliato di dormire il più possibile su un fianco, proprio per ridurre il fenomeno, il rischio delle apnee e per dare un po’ di tregua alle persone che dormono con loro.
    Destra o sinistra?Non è comunque chiaro se un fianco sia meglio dell’altro e le testimonianze nelle ricerche variano molto. Per le persone che soffrono di reflusso gastroesofageo, cioè del passaggio ricorrente degli acidi gastrici dallo stomaco verso l’esofago con bruciori e infiammazioni (che a lungo andare possono avere conseguenze importanti sulla salute e che di solito peggiora quando ci si stende a letto), sembra essere più indicato dormire sul fianco sinistro. È stato osservato che in alcune persone che dormono in questa posizione il reflusso diminuisce, probabilmente per via dell’orientamento che assume lo stomaco e in particolare lo sfintere esofageo, che insieme al cardias regola il passaggio delle sostanze tra esofago e stomaco.
    Alle persone con reflusso viene spesso consigliato di dormire utilizzando un paio di cuscini o comunque inclinando verso l’alto il materasso dalla parte della testa, in modo da ridurre la risalita dei succhi gastrici. È un accorgimento di solito efficace, anche se può risultare scomodo per alcuni e può incidere sulla qualità del sonno. Il fatto che nel medioevo si dormisse praticamente seduti non è di grande consolazione.
    Dormire sul fianco potrebbe comunque non essere molto indicato per chi ha problemi alle articolazioni delle gambe e in particolare alle anche. Per ridurre il rischio di ulteriori infiammazioni viene consigliato di inserire un cuscino tra le gambe, più o meno all’altezza delle ginocchia, in modo da ridurre il carico in particolare in prossimità della testa del femore, che si innesta nel bacino.
    Segni e rugheSul dormire o meno sul fianco potrebbero influire anche valutazioni non legate direttamente alla qualità del sonno, salvo non si abbia il terrore di avere qualche ruga. Una decina di anni fa un gruppo di chirurghi estetici scrisse un’analisi della letteratura scientifica disponibile sulle distorsioni che la pelle subisce mentre si dorme, in particolare quella del viso che rimane per molte ore compresso tra cuscini, coperte e materasso.
    L’analisi segnalava la possibilità di distinguere tra rughe di espressione e dovute a sollecitazioni meccaniche esterne, come tenere la faccia appoggiata a lungo su un cuscino, ma indicava comunque una certa difficoltà nel ricondurre alcuni tipi di rughe alla posizione assunta a letto. Mentre le rughe di espressione sono legate a una riduzione della tenuta dell’impalcatura della pelle (costituita per lo più da collagene) e della muscolatura del viso, le rughe da sonno hanno cause diverse e potrebbero quindi rispondere meno ai trattamenti più utilizzati per nasconderle, come l’impiego di neurotossine (come il botulino).
    Schema dei segni sulla pelle che potrebbero derivare dalla compressione del viso a letto (Aesthet Surg J)
    Il gruppo di chirurghi estetici aveva concluso la ricerca suggerendo la posizione supina per ridurre il rischio di avere molte rughe da sonno, pur riconoscendo la difficoltà di mantenere la medesima posizione durante tutta la fase del sonno: «La nostra posizione iniziale deriva da una scelta, ma inconsciamente cambiamo poi posizione nel corso della notte. La posizione supina potrebbe essere ideale per l’estetica del viso, ma potrebbe peggiorare condizioni come le apnee notturne, il reflusso gastroesofageo e il forte russamento».
    Schiena e torcicolloAl di là dell’estetica, la posizione sul fianco può rivelarsi problematica per le persone che soffrono di torcicollo. Analizzando il sonno di un gruppo di volontari, uno studio ha notato che chi segnalava di svegliarsi con problemi al collo trascorreva almeno una parte della notte in una posizione contorta: iniziava dormendo normalmente sul fianco, ma dopo un po’ ruotava il bacino comportando una torsione della colonna vertebrale. In quella posizione tendini e muscoli del collo possono subire stiramenti e maggiori sollecitazioni, dai quali derivano poi i problemi alla cervicale al risveglio. Più notti trascorse in una posizione contorta possono causare una maggiore infiammazione del collo, al punto da richiedere l’uso di antidolorifici o di fisioterapia per risolvere il problema.
    Anche in questo caso lo studio deve essere comunque preso con le molle. Non è infatti chiaro se i volontari assumessero quella posizione casualmente procurandosi poi il male al collo, o se invece finissero per assumerla per non sentire il dolore di un torcicollo già presente (“posizione antalgica”). In questo secondo caso, il problema non sarebbe stato causato dalla posizione sul fianco, ma da altri fattori preesistenti.
    Sempre BBC Future segnala uno studio che fu realizzato alcuni anni fa in Portogallo, con un gruppo di volontari che soffrivano di mal di schiena o di torcicollo. Ai primi fu detto di dormire su un fianco, mentre agli altri di dormire supini. Dopo un mese, il gruppo di ricerca effettuò un sondaggio tra i partecipanti e il 90 per cento di loro disse di avere notato un miglioramento, con la riduzione del dolore. Lo studio era però stato svolto su appena una ventina di persone, quindi un campione ridotto per trarre conclusioni in generale. Non era inoltre stato possibile verificare più di tanto il rispetto delle indicazioni sulla posizione da assumere, senza contare che comunque questa varia durante il riposo.
    Altre ricerche su posizione e qualità del sonno si sono concentrare sui cuscini e le loro caratteristiche, partendo dal presupposto che un sostegno per la testa e il collo sia importante per ridurre gli stress a carico della colonna vertebrale. La mancanza di un sostegno può interferire negativamente sull’allineamento delle vertebre, causando dolori muscolari al collo, alle spalle e fino all’area lombare.
    Cuscini e materassiIl materiale con cui è fatto il cuscino sembra non incidere più di tanto sulla salute della schiena e in particolare della cervicale. Altre ricerche hanno invece segnalato come la forma del cuscino sia importante, ma comunque con un certo grado di soggettività come spesso avviene con le cose tra salute e comfort. Un cuscino con un’infossatura al centro sembra favorire un sonno di maggiore qualità, ma anche in questo caso sarebbero necessari altri studi per tenere in considerazione tutte le variabili.
    Per quanto riguarda i materassi, quelli semirigidi offrono maggiore sostegno alla schiena e riducono il rischio di assumere posizioni troppo contorte. Girare e ruotare almeno un paio di volte all’anno il materasso aiuta a mantenerlo più confortevole e a farlo durare di più, visto che la pressione esercitata dal corpo varia molto dalla testa alle gambe.
    AbitudiniIn conclusione, non c’è in assoluto una posizione migliore delle altre per dormire, ma in alcuni casi può essere utile e salutare provare a cambiare abitudine, anche se può risultare molto difficile per chi è da sempre abituato ad addormentarsi in una certa posizione. Inoltre, si stima che ogni persona si sposti tra le 10 e le 40 volte nel corso di una notte, con una certa tendenza a tornare istintivamente nella propria posizione di abitudine dopo un po’ di tempo.
    Per provare a cambiare abitudine, gli esperti consigliano di utilizzare qualche ostacolo fisico che induca a mantenere la posizione consigliata, che nella maggior parte dei casi è quella su un fianco (specialmente per chi ha problemi di reflusso o di apnee notturne, come abbiamo visto). La tecnica più suggerita consiste nel cucire una pallina da tennis nel proprio pigiama, all’altezza della schiena o del torso, a seconda se si tende a dormire molto supini o proni. In questo modo quando si prova a cambiare posizione da addormentati si eviterà di rimanere sulla schiena o a pancia in giù, tornando a dormire su un fianco. Dopo qualche notte si perde l’abitudine a dormire nella posizione da evitare, ma è stato osservato che dopo un po’ di tempo il problema tende a ripresentarsi, rendendo necessarie nuove sessioni con la pallina da tennis.
    Negli ultimi anni sono stati sviluppati particolari dispositivi da indossare che rilevano la posizione e, nel caso sia quella scorretta, inviano una lieve scossa o una vibrazione che induce a sistemarsi meglio a letto. Il sistema sembra funzionare, ma nei primi tempi potrebbe ridurre la qualità del sonno a causa dei microrisvegli dovuti alle scosse o alle vibrazioni.
    Una via di mezzo senza palline da tennis e scosse prevede di utilizzare semplicemente un cuscino, oppure un cuneo di gommapiuma, da tenere alle spalle quando si dorme sul fianco, in modo da rendere meno probabile il ritorno in una posizione prona o supina. LEGGI TUTTO

  • in

    Un rettile quasi fantastico

    Venerdì un gruppo internazionale di ricerca ha pubblicato sulla rivista Earth and Environmental Science Transactions of the Royal Society of Edinburgh una ricerca che descrive per la prima volta la struttura dello scheletro del Dinocephalosaurus orientalis, un rettile che visse circa 240 milioni di anni fa, durante il Triassico, e che ha un aspetto piuttosto sorprendente che ha portato molti a paragonarlo a un piccolo drago.Tra le altre cose, i ricercatori hanno mostrato per la prima volta il fossile di un esemplare conservato in condizioni piuttosto eccezionali: lo hanno descritto come il «più completo e articolato» fossile di Dinocephalosaurus orientalis scoperto finora, dato che raffigura uno di questi rettili nella sua interezza.
    Il primo fossile di questa specie fu scoperto nel 2003 nella provincia di Guizhou, nel sud della Cina, ma era incompleto: presentava soltanto il cranio e le prime tre vertebre cervicali. Da allora nella stessa zona sono stati scoperti altri 6 fossili di altri esemplari (5 dei quali mostrati per la prima volta all’interno della ricerca). I ricercatori, provenienti da Scozia, Germania, Stati Uniti e Cina, hanno confrontato i 7 fossili di Dinocephalosaurus orientalis scoperti finora per descrivere nel dettaglio la struttura dello scheletro: per completare gli studi sono stati necessari dieci anni.
    Il Dinocephalosaurus orientalis aveva un collo straordinariamente lungo, con 32 vertebre cervicali (per fare un paragone, l’essere umano ne ha 7), e una lunghezza complessiva di circa 5 metri. I suoi arti erano palmati, e sono stati trovati dei fossili di pesci in buono stato di conservazione nella regione dello stomaco di alcuni esemplari: questi dettagli fanno supporre che fosse un rettile marino, «adatto a uno stile di vita oceanico». «Siamo certi che stimolerà l’immaginazione di tutto il mondo grazie al suo aspetto così sorprendente, che ricorda il mitico drago cinese» ha detto Nick Fraser, uno degli scienziati coinvolti nel progetto.
    Scotland National Museums
    Negli scorsi anni il collo lungo del Dinocephalosaurus orientalis era stato paragonato a quello del Tanystropheus hydroides, un altro rettile marino che visse nel periodo del Triassico. Tuttavia, il Dinocephalosaurus ha un numero più alto di vertebre sia nel collo che nel busto, e a differenza del Tanystropheus ha un aspetto che ricorda quello di un serpente.
    La ricostruzione dello scheletro del Tanystropheus (Museum of Natural History Zurich)
    Ricostruzione in 3D del probabile aspetto del Dinocephalosaurus orientalis (National Scotland Museums)
    Gli studi sono stati condotti presso l’istituto di Paleontologia dei vertebrati e Paleoantropologia di Pechino, parte dell’Accademia cinese delle scienze.

    – Leggi anche: Il “più antico fossile italiano” non è quello che sembrava LEGGI TUTTO

  • in

    È stata trovata una nuova sottospecie di Xylella in provincia di Bari

    Caricamento playerA Triggiano, in provincia di Bari, è stata trovata una nuova sottospecie del batterio Xylella fastidiosa, quello che negli ultimi anni ha causato la morte e l’abbattimento di milioni di ulivi. La nuova specie è stata trovata su sei mandorli. Donato Pentassuglia, assessore all’Agricoltura della Puglia, ha detto all’agenzia di stampa ANSA che gli alberi su cui il batterio è stato trovato saranno abbattuti e verranno fatte analisi sulle piante presenti in un’area di 800 metri di raggio intorno. Il nome della sottospecie individuata sui mandorli è Xylella fastidiosa fastidiosa, mentre la sottospecie già ben nota è la Xylella fastidiosa pauca.
    La Xylella è la causa del “disseccamento rapido”, una malattia che se colpisce gli ulivi li porta a non produrre più olive e a morire in poco tempo. Si trasmette da un albero all’altro grazie ad alcuni insetti vettori, e principalmente attraverso il Philaenus spumarius, noto con il nome comune di “sputacchina”. È stato ricostruito che il batterio arrivò in Salento, nel sud della Puglia, nel 2008, trasportato da una pianta di caffè proveniente dal Costa Rica. Della sua presenza ci accorgemmo solo nel 2013, quando in Salento molti ulivi cominciarono a morire per il disseccamento rapido, per cui non esiste una cura. Da allora il batterio ha continuato a diffondersi verso nord e negli ultimi due anni è arrivato in provincia di Bari.
    Da anni la Regione Puglia contrasta la diffusione del batterio facendo ripetuti controlli su ampie aree di territorio agricolo. Il Piano d’azione per contrastare la diffusione di Xylella fastidiosa in Puglia 2023-2024 prevede zone dette “cuscinetto” e “di contenimento” a nord delle zone infette in cui vengono fatte analisi a campione sugli insetti vettori e, se è confermata la presenza della Xylella, su piante della zona. È stato così che è stato trovato il batterio nei mandorli, dopo una raccolta di campioni fatta a gennaio.

    Dall’inizio dell’anno le operazioni di monitoraggio hanno già interessato 2.614 ettari di terreno, cioè circa 26 chilometri quadrati; le piante ispezionate sono state più di 17mila. Tra gennaio e febbraio gli abbattimenti sono stati 237, ma finora nessuno ha riguardato piante infette: sono state abbattute anche quelle valutate a rischio per contenere la diffusione del batterio.
    «Non dobbiamo creare allarmismi», ha detto Pentassuglia, «ma nemmeno abbassare la guardia». L’assessore ha poi aggiunto che non si sa ancora se la sottospecie di Xylella sia più o meno dannosa per gli ulivi o altre piante, ma ha ricordato che la sputacchina si nutre anche della linfa della vite, un’altra pianta fondamentale per l’economia agricola non solo pugliese, e anche per questo bisogna continuare a fare attenzione alla diffusione del batterio. LEGGI TUTTO

  • in

    Uno storico satellite sta precipitando verso la Terra, ma non c’è da preoccuparsi

    Caricamento playerIl satellite ERS-2, grande più o meno quanto un minibus, sta precipitando verso la Terra. Ma non c’è da preoccuparsi: il suo rientro incontrollato nell’atmosfera avverrà nella serata di oggi e buona parte del satellite si disintegrerà ad altissima quota, con solo qualche possibilità che alcuni frammenti raggiungano il suolo.
    Non è la prima volta che succede, ma l’evento è a suo modo storico perché segna la fine dei uno dei primi satelliti europei per lo studio del clima lanciato a metà degli anni Novanta, con tecnologie all’epoca ancora poco utilizzate in orbita e che ora fanno parte di molti satelliti per l’osservazione del suolo, degli oceani e delle caratteristiche dell’atmosfera.
    Il satellite era stato sviluppato grazie a una collaborazione gestita dall’Agenzia spaziale europea (ESA) nell’ambito del programma European Remote Sensing (ERS) per lo studio della Terra all’inizio degli anni Novanta. L’ESA aveva inviato in orbita ERS-1 nel 1991 e quattro anni dopo aveva lanciato ERS-2, il satellite che ora sta tornando verso il nostro pianeta.
    La missione scientifica di ERS-2 era durata fino al 2011: anche se dopo 16 anni il satellite era ancora funzionante, l’ESA aveva deciso di fermarne le attività e di farlo distruggere nell’atmosfera, in modo da ridurre la presenza dei rifiuti spaziali in orbita, un problema sempre più sentito e con notevoli rischi per il funzionamento delle altre migliaia di satelliti che girano intorno alla Terra.
    Dopo aver fatto alcune manovre, il satellite era stato portato dai 780 chilometri dove effettuava buona parte delle proprie rilevazioni a 573 chilometri di altitudine e disattivato, in modo che lentamente perdesse quota fino a compiere un ingresso nell’atmosfera in una quindicina di anni. La previsione era abbastanza accurata e ora ERS-2 sta perdendo quota più velocemente e secondo le previsioni terminerà il proprio viaggio nella serata di mercoledì.
    Il satellite ERS-2 nelle fasi di preparazione prima del lancio (ESA)
    Non è però semplice stabilire con certezza su quale porzione del pianeta avverrà la distruzione, perché molto dipende dalla velocità del rientro e dalla densità dell’atmosfera, che varia a seconda di numerose variabili compresa l’attività solare. La traiettoria seguita da ERS-2 è comunque tenuta sotto controllo dall’ESA e da diverse altre organizzazioni, in modo da poter fare stime più accurate quando il satellite sarà intorno agli 80 chilometri di altitudine, il probabile momento in cui avverrà la distruzione.
    ERS-2 ha una massa di 2,5 tonnellate, comparabile con quella di diversi altri satelliti e detriti spaziali che in media rientrano nell’atmosfera con una frequenza di 7-15 giorni. A differenza dei satelliti più recenti, solitamente progettati per produrre la minor quantità possibile di detriti, ERS-2 ha alcuni componenti che potrebbero resistere alle sollecitazioni e alle alte temperature che si sviluppano nel rientro nell’atmosfera. La sua antenna principale era stata costruita in fibra di carbonio, un materiale molto resistente, di conseguenza alcune sue parti potrebbero arrivare al suolo.
    Anche se così fosse il rischio per la popolazione sarebbe comunque minimo, come ha spiegato l’ESA:
    Il rischio su base annua per un essere umano di essere ferito da un detrito spaziale è inferiore a 1 su 100 miliardi. Per fare un confronto, è un rischio: circa 1,5 milioni di volte inferiore rispetto a quello di morire in un incidente domestico; circa 65mila volta inferiore rispetto al rischio di essere colpiti da un fulmine; circa tre volte inferiore rispetto al rischio di essere colpiti da un meteorite.
    Il rischio è molto basso per un semplice motivo: buona parte della Terra è disabitata, considerato che gli oceani da soli ne ricoprono il 70 per cento e che ci sono enormi porzioni di territorio in cui non vive nessuno. La maggior parte degli esseri umani vive in aree densamente popolate e questo può creare una percezione distorta sull’effettiva presenza umana in tutto il pianeta.
    Rappresentazione schematica della carriera di ERS-2 nello Spazio (ESA)
    Quando furono lanciati nella prima metà degli anni Novanta, ERS-1 ed ERS-2 contenevano alcune delle tecnologie più avanzate disponibili all’epoca per l’osservazione e lo studio della Terra. I sensori di ERS-2 permisero di effettuare in modo più accurato la misurazione della temperatura superficiale del suolo e degli oceani, raccogliendo dati fondamentali per la costruzione dei modelli per lo studio del cambiamento climatico. ERS-2 fu anche molto importante per osservare l’assottigliamento dello strato di ozono in alcune parti dell’atmosfera, il cosiddetto “buco nell’ozono”, così come per analizzare alcuni andamenti atmosferici per migliorare l’affidabilità delle previsioni meteorologiche.
    Nel corso dei suoi 16 anni di utilizzo, ERS-2 fu inoltre impiegato per analizzare gli effetti di alcuni disastri naturali, come grandi inondazioni su alcune porzioni di territorio, e per studiare la salute delle foreste e identificare i casi di deforestazione illegale. Insieme a ERS-1, rese possibili oltre 5mila progetti scientifici e i dati raccolti in quegli anni sono ancora oggi preziosi per studiare andamenti e variazioni al suolo, negli oceani e nell’atmosfera.
    Lo stretto di Messina ripreso in varie date da ERS-2 (ESA)
    Per questi motivi ERS-1 ed ERS-2 sono considerati «i pionieri europei dell’osservazione della Terra» e le conoscenze accumulate con il loro sviluppo, e il loro utilizzo, ha reso poi possibile la produzione di satelliti di nuova generazione. Nel marzo del 2002 l’Agenzia spaziale europea inviò in orbita Envisat, un satellite che conteneva strumenti sperimentati nel programma ERS e aggiornati con nuove funzionalità. Alcuni dei sensori impiegati su ERS-2 avrebbero poi reso possibile il perfezionamento di strumenti molto importanti per valutare le variazioni nella conformazione del territorio (InSAR), oggi impiegati da Copernicus, l’iniziativa satellitare europea per lo studio della Terra.
    A differenza di ERS-2, ERS-1 smise di rispondere ai comandi prima di poter essere collocato a una quota che garantisse la sua fine nell’atmosfera entro pochi anni. Attualmente il satellite si trova a 700 chilometri di distanza dalla Terra e potrebbe impiegare fino a un secolo prima di raggiungere nuovamente il nostro pianeta.
    Difficilmente oggi si potrebbe verificare un imprevisto di questo tipo, per lo meno con i satelliti sotto la responsabilità dell’ESA. L’Agenzia ha infatti adottato nel 2022 il “Zero Debris Charter”, un trattato che prevede numerosi vincoli nella realizzazione e nella gestione dei satelliti, proprio per ridurre il problema dei rifiuti spaziali. L’ESA si è impegnata a utilizzare satelliti che possano essere manovrati per essere spostati in orbite che ne assicurino la fine nell’atmosfera, dove si potranno polverizzare senza causare problemi. Il trattato prevede inoltre che non passino più di cinque anni dal momento in cui un satellite viene disattivato al momento in cui viene distrutto.
    In quasi 70 anni di attività spaziali, sono stati trasportati in orbita migliaia di satelliti, molti dei quali non sono più funzionanti. Mentre i satelliti più recenti hanno spesso sistemi per modificare la loro orbita quando non servono più, in modo che si disintegrino al loro rientro nell’atmosfera o per essere parcheggiati in orbita a debita distanza dal nostro pianeta, i satelliti più vecchi sono impossibili da controllare dalla Terra e non possono essere smaltiti.
    [embedded content]
    La presenza di così tanti detriti spaziali fa aumentare sensibilmente il rischio di collisioni con satelliti attivi. Incidenti di questo tipo possono portare alla produzione di nuovi detriti, che a loro volta diventano rifiuti spaziali rischiosi per altri satelliti e così via.
    Alla fine degli anni Settanta, il consulente della NASA Donald J. Kessler ipotizzò che un tale effetto domino potesse portare ad avere talmente tanti detriti nell’orbita bassa intorno alla Terra (a una quota tra 300 e 1.000 chilometri) da rendere impossibile l’esplorazione spaziale e l’impiego di nuovi satelliti per generazioni. La “sindrome di Kessler” viene evocata sempre più di frequente come un rischio da esperti e responsabili delle agenzie spaziali, che da anni lavorano alla sperimentazione di sistemi per ridurre la quantità di rifiuti spaziali intorno alla Terra. LEGGI TUTTO

  • in

    Mascherine e depuratori per l’aria proteggono dall’inquinamento?

    Caricamento playerLa pessima qualità dell’aria di questi giorni nella Pianura Padana non ha soluzioni semplici e immediate perché è legata alle condizioni meteorologiche, alla geografia e alla presenza di numerose città, industrie e allevamenti nella regione. Chi si preoccupa dei rischi per la salute legati a questa forma di inquinamento può comunque adottare alcune abitudini come prevenzione: ad esempio usare mascherine per bocca e naso quando sta all’esterno e usare dispositivi per depurare l’aria negli ambienti chiusi.
    L’inquinamento atmosferico è una delle principali cause di malattie cardiovascolari e di un generale accorciamento delle aspettative di vita secondo l’Organizzazione mondiale della sanità (OMS). In particolare l’Agenzia europea per l’ambiente (AEA) ha stimato che nel 2021 almeno 253mila persone siano morte a causa dell’esposizione cronica alle micropolveri, anche note come particolato o PM, e almeno 52mila per l’esposizione cronica al biossido di azoto, un gas prodotto soprattutto dai motori diesel ma anche dagli impianti di riscaldamento e dalle industrie, che è il principale gas inquinante dannoso per la salute.
    Le misure di prevenzione per la salute personale che si possono applicare usando mascherine e depuratori riguardano il particolato. Entrambi questi strumenti infatti funzionano grazie a filtri per l’aria che trattengono le piccole particelle solide o liquide presenti nell’aria: le mascherine sono essenzialmente dei filtri per naso e bocca, mentre i depuratori contengono dei filtri al loro interno attraverso cui viene fatta passare l’aria presente in un ambiente chiuso. Non possono invece far nulla per i gas inquinanti perché le dimensioni delle particelle gassose sono dello stesso ordine di grandezza di quelle dei componenti dell’aria che invece dobbiamo respirare per vivere: una mascherina che li bloccasse sarebbe piuttosto dannosa per la salute.

    – Leggi anche: Ha senso confrontare l’inquinamento di Milano con quello di Delhi?

    Non sono ancora state fatte ricerche scientifiche che dicano qualcosa sugli effetti a lungo termine dell’uso metodico di mascherine per il viso per proteggersi dall’inquinamento dell’aria, dunque non è possibile dire in che misura garantiscano protezione dai rischi per la salute. Tuttavia vari studi hanno dimostrato che le mascherine sono efficaci nel trattenere il particolato, in particolare il PM10, quello composto da particelle di dimensioni maggiori, cioè con un diametro fino a un centesimo di millimetro (10 micrometri).
    Uno studio pubblicato nel 2021 ha riscontrato che praticamente qualsiasi tipo di mascherina per il viso (comprese quelle di cotone) rappresenta una qualche forma di filtro per il particolato. Realizzato da un gruppo di scienziati del Colorado, negli Stati Uniti, per valutare l’utilità delle mascherine più diffuse contro l’inquinamento da incendi boschivi, questo studio dice che però quelle più efficaci sono le N95, le cui caratteristiche corrispondono più o meno a quelle delle FFP2 in uso in Europa. Tali mascherine, secondo le analisi del gruppo di ricerca, proteggono dal particolato urbano tre volte di più rispetto alle mascherine chirurgiche, anche se l’efficacia diminuisce con le particelle di diametro inferiore al micrometro. Bisogna inoltre ricordare che si tratta di dispositivi usa e getta.
    Le mascherine chirurgiche potrebbero essere filtri efficaci se non fosse che non aderiscono bene al viso. Infatti per bloccare davvero il particolato le mascherine non devono lasciare spazi per il passaggio di aria non filtrata. La loro efficacia diminuisce se chi le indossa ha la barba o fa dei movimenti a causa dei quali le mascherine si spostano molto sulla pelle, come quelli che si possono fare mentre si va in bici.
    Un’altra precauzione che si può applicare in giorni di alto inquinamento dell’aria cittadina è evitare di fare attività sportiva all’aperto.
    Per quanto riguarda gli ambienti chiusi, l’inquinamento dell’aria può essere anche maggiore rispetto all’esterno. Negli interni infatti le fonti di sostanze inquinanti sono moltissime: a quelle dell’aria esterna si uniscono le particelle prodotte da esseri umani e animali (l’anidride carbonica che espiriamo, ma anche piccole gocce di saliva di quando tossiamo o starnutiamo, peli, forfora, eccetera), le sostanze rilasciate da processi di combustione come la cottura dei cibi, il riscaldamento, il fumo di sigaretta, incensi, candele e altro, e quelle rilasciate dai prodotti per la pulizia e altri.
    La misura più efficace per ripulire l’aria degli ambienti chiusi, anche se può sembrare controintuitivo in giornate di pessima qualità dell’aria, è aprire le finestre con una certa frequenza. «Almeno 2 o 3 volte al giorno per almeno 5 minuti», aveva spiegato alcuni anni fa al Post Alessandro Miani, presidente della Società Italiana di Medicina Ambientale: «L’apertura delle finestre porta a una dispersione e diluizione delle sostanze concentrate nell’aria delle case anche in giorni in cui l’aria esterna è particolarmente inquinata. Se vivete in città, meglio aprire le finestre che affacciano su vie poco trafficate o su cortili interni, in orari in cui ci sono meno macchine in giro come la sera, la mattina presto o l’ora di pranzo».
    In aggiunta si possono poi utilizzare dei dispositivi per filtrare l’aria spesso usati dalle persone allergiche ai pollini. Questi dispositivi sono efficaci per filtrare il particolato se contengono i cosiddetti filtri HEPA (dall’inglese High Efficiency Particulate Air filter), che spesso sono presenti negli impianti di condizionamento industriale ma non in quelli domestici, e sono in grado di trattenere anche il PM2,5 o “particolato fine”, quello formato da particelle con diametro inferiore a 2,5 micrometri.
    Come per le mascherine, non sono disponibili studi a lungo termine che diano informazioni sui benefici per la salute dell’uso di depuratori con filtri HEPA. Una rassegna delle ricerche fatte fino al 2020 su questi dispositivi ha però concluso che i depuratori riducano effettivamente la concentrazione di PM2,5 nell’aria degli ambienti chiusi e che siano una buona soluzione familiare per proteggersi da fonti di inquinamento esterne, se utilizzati correttamente e ben manutenuti. Si tratta di dispositivi che però costano alcune centinaia di euro. LEGGI TUTTO

  • in

    Ha senso paragonare l’inquinamento di Milano a quello di Delhi?

    Caricamento playerNegli ultimi giorni la qualità dell’aria molto bassa nella Pianura Padana è stata paragonata a quella di alcune grandi città note per essere molto inquinate, come Delhi in India e Pechino in Cina. Il confronto in molti casi si basa su alcune classifiche che circolano online, ma è in realtà difficile avere dati coerenti e affidabili da varie parti del mondo che permettano di fare un confronto completo. La qualità dell’aria viene calcolata con metodi diversi e non c’è un unico standard per farlo.
    La questione è diventata particolarmente discussa all’inizio della settimana dopo che il sindaco di Milano, Beppe Sala, ha risposto spazientito a un giornalista che gli aveva chiesto che cosa ne pensasse di una classifica che aveva indicato Milano come una delle tre città più inquinate al mondo, davanti a Delhi. Sala ha invitato a non fare affidamento su classifiche gestite da società private, contestando il dato e invitando a tenere in considerazione le rilevazioni ufficiali effettuate dall’Azienda regionale per la protezione ambientale (ARPA) della Lombardia.
    La classifica in questione è compilata da IQAir, una società svizzera che, oltre a vendere prodotti come rilevatori e purificatori per l’inquinamento, offre sul proprio sito una mappa interattiva per farsi un’idea della qualità dell’aria in buona parte del mondo. La mappa è realizzata utilizzando sia i dati forniti dalle istituzioni, sia dai sensori che la società vende e che possono essere collegati online per tenere sotto controllo i livelli di inquinamento dell’area geografica in cui si vive.
    Nel caso di Milano, IQAir impiega una decina di stazioni: la maggior parte è gestita da privati, mentre un paio è mantenuto da ARPA Lombardia, che pubblica i dati in tempo reale. Se si osserva una stazione di un privato in prossimità di una di quelle “ufficiali”, i dati delle rilevazioni non sono molto diversi per alcuni specifici parametri come per esempio la misurazione dei PM2,5, un tipo di polveri sottili molto presente nelle giornate con tanto inquinamento e che può causare vari problemi di salute. La valutazione delle qualità dell’aria tiene però in considerazione molti altri parametri, senza uno standard definito e condiviso a livello globale.
    Il cosiddetto “indice di qualità dell’aria” (IQA) è un indicatore utile per farsi un’idea immediata, per quanto approssimativa, dello stato dell’aria. Di solito prevede tra i 5 e i 6 livelli dal migliore (“qualità dell’aria buona”) al peggiore (“qualità dell’aria estremamente scarsa”), in modo da dare indicazioni alla popolazione su eventuali precauzioni da assumere, come per esempio ridurre l’attività fisica all’aperto e stare il più possibile al chiuso.
    Dopo anni in cui ogni stato membro usava IQA lievemente diversi, l’Unione Europea ha lavorato per uniformare il più possibile il calcolo della qualità dell’aria in modo da avere valori comparabili in tutto il proprio territorio. L’iniziativa ha portato nel 2017 alla realizzazione dell’Indice Europeo della Qualità dell’Aria, basato sui valori concentrazione di PM10, PM2,5, biossido di azoto, ozono e anidride solforosa, tra le principali sostanze inquinanti presenti in sospensione nell’aria.
    La realizzazione dell’IQA europeo ha reso più facilmente confrontabili le varie aree geografiche dell’Unione in termini di inquinamento, aggiungendosi alle classifiche che vengono pubblicate periodicamente sulla base di alcuni inquinanti. La più recente e completa è riferita agli anni 2021 e 2022 ed è stata realizzata tenendo soprattutto in considerazione i PM2,5, che vengono rilevati con maggiore frequenza e più diffusamente dagli stati membri: più una città è in basso, maggiore è il livello rilevato di questi inquinanti.
    Al fondo della classifica ci sono diverse città italiane a cominciare da Cremona, 372esima su 375, preceduta da: Padova (367), Vicenza (362), Venezia (359), Brescia (358), Piacenza (357), Bergamo (357), Alessandria (353), Asti (352), Verona (351), Treviso (350), Milano (349), Pavia (348) e Torino (347). Il risultato è in linea con le rilevazioni sulla Pianura Padana, una delle aree più inquinate di tutta Europa a causa delle sue caratteristiche geografiche e della presenza di numerosi centri urbani e industriali. È bene ricordare che la classifica tiene in considerazione i valori dei PM2,5 e avrebbe probabilmente città in posizioni diverse se fosse basata sull’intero IQA.

    L’IQA europeo utilizza soglie diverse rispetto al National Air Quality Index dell’India, di conseguenza le stime sulla qualità dell’aria non sono sempre facilmente confrontabili. I singoli valori che vengono impiegati per fare la stima sono comunque disponibili e da quelli si possono fare valutazioni più ampie, per esempio tenendo in considerazione i limiti indicati dalle principali istituzioni sanitarie come l’Organizzazione mondiale della sanità (OMS).
    Per quanto riguarda i PM2,5, per esempio, l’OMS indica che la media della concentrazione nell’arco di un intero anno non dovrebbe essere superiore a 5 microgrammi per metro cubo. Non si dovrebbero inoltre superare i 15 microgrammi per metro cubo per più di 3-4 giorni consecutivi, sempre secondo l’OMS. In alcune stazioni di rilevamento di ARPA Lombardia a Milano nei giorni scorsi sono stati rilevati in più casi valori ben al di sopra degli 80 microgrammi per metro cubo; negli stessi giorni in un’area centrale di New Delhi i livelli di PM2,5 sono stati di circa 100 microgrammi per metro cubo. LEGGI TUTTO

  • in

    Gli animali domestici possono essere un problema per le scene del crimine

    Caricamento playerUn recente studio pubblicato sulla rivista di medicina forense Forensic Science, Medicine and Pathology ha fornito una serie di suggerimenti e indicazioni metodologiche per investigatori, medici legali e anatomopatologi nei casi di ritrovamento di un cadavere in case in cui siano presenti cani o gatti domestici.
    Insieme ad altre ricerche dello stesso tipo pubblicate negli ultimi anni, lo studio è considerato una conferma di un fatto noto ai professionisti del settore ma in alcuni casi ignorato per via della tendenza di molti ad attribuire agli animali domestici sentimenti e comportamenti tipicamente umani: se costretti senza cibo in ambienti chiusi, gli animali domestici possono finire col nutrirsi dei corpi in decomposizione dei propri padroni, alterandoli in modo significativo e complicando le indagini.
    La frequenza di questi comportamenti da parte degli animali domestici verso i loro proprietari dipende da diversi fattori: principalmente dalle eventuali condizioni di isolamento sociale di quelle persone e, di conseguenza, dalla quantità di tempo in cui l’animale domestico rimane con il cadavere in mancanza di fonti di nutrimento alternative. Ma, per quanto sporadici, questi comportamenti hanno implicazioni importanti per la scienza forense e le indagini. La presenza di animali domestici costituisce infatti un fattore rilevante da tenere in considerazione nell’analisi dei traumi e delle lesioni presenti sui cadaveri, nella valutazione delle cause e nella stima dell’ora approssimativa della morte, e nel recupero della salma intera.
    Lo studio è stato condotto da due ricercatrici e un ricercatore dell’Istituto di medicina forense dell’Università di Berna, in Svizzera, che hanno revisionato la letteratura scientifica esistente e hanno preso in esame sette casi svizzeri mai studiati in precedenza. Il gruppo ha descritto, schematizzandoli in un diagramma di flusso, i comportamenti professionali più adatti a garantire una raccolta sistematica e completa dei dati durante sopralluoghi in ambienti chiusi in cui ci sia il sospetto che cani o gatti abbiano interferito nella scena in cui viene trovato un cadavere.
    (Attenzione: i link presenti nell’articolo rimandano a studi che contengono immagini di corpi mutilati e in avanzato stato di decomposizione, che possono risultare impressionanti e sgradevoli)
    La tendenza molto comune ad attribuire agli animali domestici percezioni, comportamenti e sentimenti tipicamente umani può in alcuni casi indurre le persone a trascurare o ignorare altre considerazioni: in breve, a pensare che un animale che ha passato tutta la vita con una persona si asterrà, per affetto, dall’approfittare del suo cadavere per saziarsi in assenza di cibo. Una maggiore consapevolezza del fatto che in particolari circostanze cani e gatti considerino i cadaveri una fonte di nutrimento dovrebbe invece indurre gli investigatori a raccogliere più informazioni sugli animali presenti sulla scena o nelle vicinanze, anche quando la loro presenza non sembra rilevante.
    La comprensione dei casi di necrofagia come parte di fenomeni naturali, secondo molte persone che li studiano, permetterebbe di ridurre gli errori nelle indagini e in generale di prendere decisioni più avvedute. E un approccio più scrupoloso da parte dei professionisti che si occupano di fare riscontri, ha scritto il gruppo, permetterebbe di accrescere un tipo di documentazione che attualmente nella pratica forense è limitata, per ragioni di negligenza o superficialità nella raccolta storica dei dati.
    Una condizione piuttosto comune tra le persone il cui cadavere viene trovato in uno stato alterato da animali domestici è la sindrome di Diogene, un disturbo caratterizzato dall’isolamento sociale e da un’estrema trascuratezza nell’igiene del proprio corpo e del proprio ambiente domestico. La valutazione forense di questi casi di morte è spesso resa molto difficile proprio dallo stato di abbandono e degrado della casa della persona morta e dalla presenza di animali da compagnia mai o raramente portati all’esterno.
    In un caso riportato in uno studio del 2015 il cadavere di una signora di 83 anni con la mandibola scarnificata fu trovato diversi giorni dopo la morte, causata da una cardiopatia ischemica, in una casa piena di cumuli di spazzatura e feci di cane, a Córdoba, in Argentina. Le mutilazioni post-mortem erano state causate da due cani domestici di razza mista, in mancanza di cibo a loro disposizione. Nonostante i cani fossero coinvolti nel caso soltanto indirettamente, le autorità ordinarono di sopprimerli entrambi per evitare che potessero mostrare quel comportamento alimentare in occasioni successive.
    La necrofagia da parte di animali domestici non riguarda soltanto cani e gatti, che sono comunque i casi più studiati, per quanto rari. Uno studio pubblicato nel 1995 riportò il caso di una donna di 43 anni trovata morta nel suo appartamento, seminuda e con estese lesioni dei tessuti molli del volto. I riscontri portarono inizialmente a pensare a una violenza sessuale, ma i risultati dell’autopsia indicarono che la morte era stata provocata dalle conseguenze di una polmonite lobare e una pleurite in stadio avanzato, e che i segni sul volto erano stati causati dopo la morte dai morsi di un roditore. Nella gabbia di un criceto che la donna teneva in casa furono successivamente trovati numerosi pezzetti di pelle, grasso e tessuto muscolare, poi associati alla donna tramite tipizzazione del DNA.
    A volte, se tessuti e organi interni da analizzare mancano perché sono stati mangiati, può essere difficile stabilire se la morte sia stata provocata da un’intossicazione da sostanze, oppure da un trauma. Come riportato nel recente studio uscito su Forensic Science, Medicine and Pathology, diversi casi oggetto della revisione scientifica mancano di informazioni fondamentali, perché gli investigatori che se ne occuparono non documentarono dettagliatamente la presenza di un animale domestico sulla scena. Quelle informazioni aiuterebbero, per esempio, a capire se certi rosicchiamenti e altre alterazioni presenti sui cadaveri siano stati provocati all’epoca da gatti o da cani: una distinzione non facilissima da fare soltanto sulla base dell’aspetto delle lesioni.
    Come ha detto alla rivista Science Carolyn Rando, antropologa forense dell’University College di Londra, la limitata letteratura scientifica sui comportamenti necrofagi degli animali domestici verso i loro proprietari suggerisce che i cani si concentrano su faccia e gola, mentre i gatti su naso, labbro superiore e dita. L’ipotesi più condivisa tra i ricercatori è che la fame sia la motivazione principale dei comportamenti necrofagi, ma non è necessario che l’animale trascorra molto tempo affamato prima di assumerli, anche se «tutti vogliono pensarlo», ha detto Rando. Gli animali domestici tendono a preoccuparsi se il proprietario o la proprietaria non risponde agli stimoli, soprattutto in caso di morte violenta o improvvisa: leccare il viso in cerca di conforto, secondo Rando, può quindi rapidamente trasformarsi in una ricerca di nutrimento.
    Il consiglio generale condiviso dal gruppo di ricerca dell’Università di Berna agli investigatori è di annotare le dimensioni, la razza e il numero di animali che trovano durante i sopralluoghi, anche quando non sembra importante farlo per comprendere il singolo caso (non lo è, nella maggior parte dei casi in cui è presente un animale domestico). Questo tipo di raccolta dei dati potrebbe comunque servire in un secondo momento per capire se un eventuale morso di un animale ha alterato una ferita, per esempio, influenzando altri fattori che servono a determinare l’ora della morte (la presenza di certi insetti che colonizzano le ferite, per esempio).
    Secondo Gabriel Fonseca, odontologo forense della Universidad de La Frontera a Temuco, in Cile, e uno degli autori dello studio del 2015, le indicazioni del gruppo dell’Università di Berna è utile ad attirare l’attenzione verso informazioni spesso ignorate da molte persone. «Si possono avere strumenti favolosi, medici legali affermati e formati, o antropologi forensi, ma se non sono formati i primi soccorritori, la possibilità di perdere fonti di prova può essere elevata», ha detto Fonseca a Science.
    Le indicazioni condivise nello studio recente sarebbero state di grande aiuto, secondo Fonseca, in un caso recente avvenuto in Cile in cui una donna anziana, apparentemente morta per cause naturali, è stata trovata con la faccia in parte mangiata dal suo cane. I risultati di una successiva TAC eseguita sul cadavere hanno mostrato un trauma profondo, fornendo agli investigatori informazioni fondamentali per arrivare a concludere sulla base di altre prove che la donna era stata colpita in faccia durante una rapina e che i morsi del cane avevano nascosto le ferite. LEGGI TUTTO

  • in

    Weekly Beasts

    Ci sono due storie curiose, tra gli animali fotografati in settimana. La prima è quella di un cinghiale di 80 chili che vive con due persone e un cane in Belgio, la seconda è quella del cosiddetto “Snettisham Spectacular”, un periodo in cui le maree particolarmente alte spingono migliaia di uccelli acquatici ad alzarsi in volo per poi posarsi altrove e aspettare che la marea si ritiri, prima di tornare nelle strisce di terra fangose dove cercano cibo. Tra gli altri animali da fotografare c’erano poi un condor delle Ande, lontre giganti e impala. LEGGI TUTTO