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    Tragedia a Pavia: 17enne trovata morta in strada, grave l’amica

    Il dramma si è registrato in via Bonomi, periferia del capoluogo lombardo. Quando i sanitari del 118 sono giunti sul posto, per la vittima non c’era più nulla da fare.Tragedia a Pavia: 17enne trovata morta in strada, grave l’amica – Nanopress.itAl momento sono in corso gli accertamenti delle forze dell’ordine. Nessuna ipotesi viene esclusa, dall’incidente stradale all’assunzione di sostanze stupefacenti. Pavia, 17enne trovata morta in strada: grave l’amicaNella notte tra domenica 4 e lunedì 5 agosto, una ragazza di 17 anni è stata trovata morta in via Bonomi, alla periferia di Pavia. Accanto a lei, un’amica di 18 anni è stata trovata in arresto cardiaco; la ragazza è stata rianimata sul posto e trasportata al Policlinico San Matteo, dove si trova in condizioni gravi.La polizia ha trovato un monopattino vicino alle due ragazze, ma non ci sarebbero segni di incidente stradale. Gli investigatori stanno effettuando accertamenti per chiarire le cause del decesso della 17enne e del malore della sua amica. Al momento sono in corso gli accertamenti delle forze dell’ordine. Nessuna ipotesi viene esclusa, dall’incidente stradale all’assunzione di sostanze stupefacenti. LEGGI TUTTO

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    Crollato un seracco sul Monte Bianco, un morto e quattro feriti

    Stando ai primi accertamenti, il crollo sarebbe dovuto a cause naturali. L’incidente si è registrato la notte scorsa lungo il versante francese del Monte Bianco. Crollato un seracco sul Monte Bianco, un morto e quattro feriti – Nanopress.itTra i feriti, c’è una persona in condizioni molto gravi. Le operazioni di soccorso sono tuttora in corso. Crollato un seracco sul Monte Bianco, un morto e quattro feritiUn grave incidente si è registrato nelle scorse ore sul versante francese del Monte Bianco. Un seracco è precipitato, causando una vittima e quattro feriti, di cui uno in condizioni molto gravi. L’incidente è avvenuto intorno alle 3 del mattino nel settore del Mont Blanc du Tacul, a 4.100 metri di quota.Sono stati coinvolti 15 alpinisti, tutti soccorsi e trasportati negli ospedali di Sallanches e Annecy. Le operazioni di soccorso sono ancora in corso, con l’intervento di elicotteri della gendarmeria nazionale e della protezione civile francese, squadre cinofile, vigili del fuoco e il Peloton de gendarmerie de haute montagne di Chamonix. Stando ai primi accertamenti, il crollo sarebbe dovuto a cause naturali.Cos’è un seraccoUn seracco – come quello precipitato nelle scorse ore sul Monte Bianco – altro non è che un grande blocco di ghiaccio che si forma sui ghiacciai a causa della fratturazione del ghiaccio stesso. Questa fratturazione avviene quando il ghiaccio supera il suo limite di plasticità, spesso in corrispondenza di bruschi cambiamenti di pendenza del letto del ghiacciaio. I seracchi possono avere dimensioni variabili, da pochi metri a centinaia di metri, e sono tipicamente a forma di torre o pinnacolo. LEGGI TUTTO

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    Condannato per stalking, dopo 5 ore torna a minacciare l’ex compagna: “A cosa è servito denunciare?”

    La vittima ha raccontato di essere stata costretta a cambiare città e lavoro per due volte, ma questo non è bastato a far desistere il suo ex compagno.Condannato per stalking, dopo 5 ore torna a minacciare l’ex compagna: “A cosa è servito denunciare?” – Nanopress.itLa donna ha raccontato di non sentirsi tutelata dallo Stato, perché – nonostante la denuncia e la condanna – poco o nulla è cambiato. Condannato per stalking, dopo 5 ore torna a minacciare l’ex compagnaUna vicenda drammatica quella che arriva dal Cremonese e che mette bene in luce la difficoltà nel proteggere le vittime di stalking e violenza domestica e quanto ancora occorra fare per offrire maggiori tutele. Dopo essere stato condannato a due anni di reclusione per atti persecutori e revenge porn, un uomo di 53 anni, fotografo di origine turca, è stato rilasciato con la condizionale. Tuttavia, appena cinque ore dopo la sua scarcerazione, ha ripreso a perseguitare la sua ex compagna, una donna di 33 anni.Nonostante la condanna e i mesi trascorsi in custodia cautelare, l’uomo ha continuato a tormentare la sua ex, creando profili falsi sui social media, contattando i suoi amici e diffondendo insulti attraverso una finta pagina di giornale. La vittima ha cambiato lavoro e città due volte, ma lui è riuscito a rintracciarla ogni volta. In un’intervista al Corriere della Sera, la donna ha espresso il suo senso di impotenza e frustrazione, sentendosi non tutelata nonostante le denunce e il supporto ricevuto da parte delle persone a lei vicine. “Sono andata dallapsichiatra, ho avuto vicino persone che mi hanno sostenuto, ma non è stata una passeggiata. E poi succede questo? A che cosa è servito denunciare?” è stato il duro sfogo della vittima. LEGGI TUTTO

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    Weekly Beasts

    Questa settimana il parlamento della Turchia ha approvato una discussa legge sulla gestione e il contenimento dei milioni di cani randagi presenti sul suo territorio, che prevede che le amministrazioni locali li catturino e li portino in strutture dove saranno sterilizzati, eventualmente curati e infine resi disponibili per l’adozione, in alcuni casi consentendone l’eutanasia. Tra le foto di animali della settimana c’è uno di questi cani randagi che riposa su uno striscione a una manifestazione contro la legge. Poi ci sono piccole lontre marine, un gambero meccanico, elefanti che si mimetizzano, un maiale di fiume rosso e cavalli da dressage. LEGGI TUTTO

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    Rapì il piccolo Tommaso Onofri, concessa la semilibertà a Salvatore Raimondi: “È un’ingiustizia”

    Da diversi mesi, Salvatore Raimondi esce dal carcere di Forlì per lavorare come magazziniere. L’uomo è stato condannato a vent’anni di reclusione per aver partecipato al rapimento del piccolo Tommaso Onofri.Sequestro Tommaso Onofri, concessa la semilibertà a Salvatore Raimondi – Nanopress.itPaola Pellinghelli, madre della vittima, ha espresso profonda amarezza per la concessione di permessi premio e semilibertà a Raimondi.Il rapimento di Tommaso OnofriIl rapimento di Tommaso Onofri è uno delle pagine di cronaca nera più drammatiche del nostro Paese. Il 2 marzo 2006, nella frazione di Casalbaroncolo, vicino Parma, due uomini mascherati fecero irruzione nella casa della famiglia Onofri. Dopo aver legato e imbavagliato i genitori, Paolo e Paola, e il fratello maggiore Sebastiano, i rapitori portarono via il piccolo Tommaso, di soli 17 mesi. Le forze dell’ordine iniziarono immediatamente le ricerche, ma per circa un mese non ci furono sviluppi significativi. I genitori fecero diversi appelli pubblici, sperando nel ritorno del loro bambino. Il 2 aprile 2006, Mario Alessi, uno dei rapitori, confessò il crimine e indicò il luogo dove il corpo di Tommaso era stato nascosto. Il bambino era stato ucciso poco dopo il rapimento, probabilmente per paura di essere scoperti. Mario Alessi fu condannato all’ergastolo per l’omicidio, mentre la sua compagna, Antonella Conserva, ricevette una condanna a 24 anni di carcere. Salvatore Raimondi, che partecipò al rapimento ma non all’omicidio, fu condannato a 20 anni di reclusione.Concessa la semilibertà a Salvatore RaimondiProprio Salvatore Raimondi, coinvolto nel rapimento del piccolo Tommaso Onofri, è attualmente in regime di semilibertà. Ogni mattina esce dal carcere di Forlì per lavorare come magazziniere. Raimondi sta finendo di scontare una condanna a 20 anni per il rapimento, durante il quale il piccolo Tommaso fu tragicamente ucciso a badilate. Raimondi – Nanopress.itNonostante Raimondi abbia già scontato 16 anni e mezzo di carcere, non è ancora completamente libero a causa di una condanna aggiuntiva di tre anni per estorsione nei confronti di un altro detenuto nel 2018. Durante il processo per la morte di Tommaso Onofri, i giudici hanno creduto alla versione di Raimondi, secondo cui lui partecipò al rapimento ma non all’omicidio, che fu commesso da Mario Alessi.La madre del piccolo Tommy, Paola Pellinghelli, ha espresso profonda amarezza riguardo ai permessi e alla semilibertà concessi a Raimondi, definendoli un’ingiustizia. “Questa non è giustizia, è ingiustizia” ha detto la donna in un’intervista alla Gazzetta di Parma. LEGGI TUTTO

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    Come si comporta il cervello nei momenti da ricordare

    Diverse ricerche di neuroscienze pubblicate negli ultimi decenni hanno permesso di scoprire che la conversione delle esperienze quotidiane in ricordi permanenti avviene per una sua parte significativa quando dormiamo. Il sonno agisce sul cervello come una specie di pulizia della memoria, utile a stabilire quali pensieri trattenere e quali scartare. Se una selezione del genere non fosse normale, in una certa misura, ricorderemmo qualsiasi cosa: come il protagonista del racconto Funes el memorioso, dello scrittore argentino Jorge Luis Borges.Un importante studio pubblicato a marzo sulla rivista Science e seguito da altri studi sullo stesso argomento ha descritto un processo neurofisiologico osservato nei topi, che potrebbe spiegare come il cervello dei mammiferi riconosce, tra le molte attività quotidiane, quelle che diventeranno ricordi a lungo termine. Le “contrassegna” con improvvise e potenti onde cerebrali ad alta frequenza, che vengono poi attivate in momenti successivi di riposo e durante il sonno. Lo studio è stato condotto da un gruppo di ricerca della New York University, guidato dall’influente neuroscienziato ungherese György Buzsáki, che si occupa da oltre trent’anni di studi sull’ippocampo, una delle aree del cervello responsabili della memoria.
    Le onde cerebrali sono oscillazioni di vario tipo prodotte dall’attività elettrica del tessuto nervoso nel sistema nervoso centrale, di solito rappresentate attraverso tracciati ottenuti tramite l’elettroencefalogramma poligrafico, che possono anche essere convertite in suoni (e persino in composizioni). Il tipo particolare di attività cerebrale studiato da Buzsáki e da altri è detto «increspature delle onde acute» (sharp wave ripples, SWR), secondo una definizione data alla fine degli anni Settanta dal neuroscienziato inglese e premio Nobel John O’Keefe, che le aveva osservate mentre studiava la memoria spaziale dei ratti.
    Le increspature delle onde acute sono generate dall’attivazione di molte migliaia di neuroni con una frequenza di pochi millisecondi: si verificano principalmente durante il sonno, ma anche in stato di veglia, quando il cervello riposa tra un’attività e un’altra. Che fossero coinvolte nel consolidamento e nella conservazione dei ricordi era noto da precedenti studi del gruppo di Buzsáki e di altri gruppi. Quello pubblicato a marzo su Science è però il primo studio a suggerire che queste specifiche oscillazioni siano coinvolte anche nel processo di selezione delle esperienze da fissare nella memoria a lungo termine.

    – Leggi anche: Ogni giorno facciamo un sacco di cose senza pensarci

    Per condurre lo studio il gruppo di ricerca guidato da Buzsáki ha impiantato degli elettrodi nell’ippocampo di un gruppo di topi in laboratorio, in modo da registrare le loro onde cerebrali mentre completavano una serie di percorsi in un labirinto, intervallati da pause indotte nella loro attività esplorativa (uno zuccherino diluito in una soluzione). Di ciascun individuo hanno registrato l’attività cerebrale di diverse centinaia di neuroni simultaneamente. Sebbene le increspature delle onde acute dell’ippocampo siano uno degli eventi cerebrali più simultanei in assoluto tra quelli osservati nel cervello dei mammiferi, i neuroni che le generano non si attivano tutti nello stesso momento ma in sequenza.
    Per provare a capire il funzionamento di queste particolari oscillazioni è utile immaginare «una melodia al pianoforte», ha detto a Quanta Magazine Daniel Bendor, un neuroscienziato della University College London non coinvolto nello studio del gruppo di Buzsáki. Una sequenza specifica di neuroni si attiva per registrare un’esperienza, più o meno come un pianista batte i tasti della tastiera in un certo ordine. Poi, durante il sonno, il cervello ripete quella sequenza ma più velocemente, centinaia o migliaia di volte. E le increspature delle onde acute si propagano dall’ippocampo, che è una specie di stazione di passaggio per i ricordi episodici di particolari esperienze, verso la corteccia, che è coinvolta nella memoria a lungo termine.

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    Il gruppo di ricerca guidato da Buzsáki ha scoperto che ogni sequenza, cioè ogni ordine specifico di attivazione dei neuroni, «codificava» una particolare sezione del labirinto attraversata dai topi. E ha scoperto che i neuroni si attivavano poi secondo la stessa sequenza ma a velocità maggiore in momenti in cui i topi riposavano tra un’attività e un’altra, e mentre dormivano.
    I percorsi compiuti dai topi nel labirinto e subito seguiti da 5-20 increspature delle onde acute, durante la momentanea inattività indotta, erano quelli che venivano riprodotti di più anche durante il sonno, attraverso serie di 2-4mila increspature. Il giorno successivo i topi mostravano di ricordare di più le sezioni di labirinto associati alle increspature, mentre i percorsi seguiti da pochissime o nessuna increspatura – sia durante le pause momentanee che durante il sonno – non erano diventati ricordi duraturi.
    Il nuovo studio ha prima di tutto confermato un modello noto da tempo: gli esseri umani e gli altri mammiferi fanno esperienza dell’ambiente per alcuni istanti, poi si fermano, poi riprendono l’esplorazione, poi si fermano ancora, e così via. Dopo aver prestato attenzione a qualcosa, scrivono gli autori e le autrici dello studio, il cervello passa spesso a una modalità di provvisoria rivalutazione «inattiva», sia durante il giorno che nel sonno, in modo da rafforzare le connessioni tra le cellule coinvolte nel processo di memorizzazione.

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    Lo studio più recente di Buzsáki e dei suoi colleghi è il primo loro studio a mostrare increspature delle onde acute nella fase di esplorazione attiva, suggerendo l’ipotesi che siano parte di un meccanismo innato e inconscio di «etichettatura» delle esperienze con schemi neuronali che si attivano poi in un secondo momento. «Molte parti della nostra esperienza di veglia vengono ritagliate e legate insieme ad altre esperienze utilizzando questo schema nell’ippocampo», ha detto Buzsáki a Discover Magazine.
    È come se il cervello avesse due diverse modalità: una di acquisizione e una di archiviazione. Non è del tutto a riposo quando siamo inattivi, perché rielabora ciò che è stato «contrassegnato» durante l’attività. «Le increspature delle onde acute si verificano quando non siamo attenti, ma sono importanti quanto lo è la modalità attiva», ha detto Buzsáki. Ed è questa la ragione per cui le pause sono necessarie per il funzionamento del cervello e della memoria, come mostrano da tempo diversi studi, anche molto recenti, sugli effetti della privazione del sonno su vari processi neurofisiologici e sui comportamenti.
    Non è chiaro come né perché questo sistema si sia evoluto nei mammiferi, ha detto la ricercatrice Wannan Yang, coautrice dello studio, in un comunicato stampa diffuso dal centro ospedaliero universitario della New York University. «Future ricerche potrebbero tuttavia mostrare che dispositivi o terapie in grado di regolare le increspature delle onde acute possono migliorare la memoria o addirittura ridurre il ricordo di eventi traumatici», ha aggiunto Yang. Interrompere le increspature potrebbe diventare, per esempio, parte di un trattamento per condizioni come il disturbo da stress post-traumatico (PTSD), in cui le persone ricordano determinate esperienze in modo troppo vivido.

    – Leggi anche: La musica e i ricordi

    Lo studio pubblicato a marzo su Science ha fornito informazioni rilevanti sugli schemi di attivazione neuronale attraverso cui il cervello, non soltanto durante il sonno ma anche durante le pause, rafforza il ricordo di determinate esperienze. Lascia tuttavia inevasa la domanda sul perché alcune esperienze siano conservate e altre no. A volte le esperienze che ricordiamo sembrano del tutto casuali o irrilevanti, e comunque diverse da ciò che selezioneremmo se potessimo scegliere, perché è come se il cervello stabilisse priorità diverse, ha detto a Quanta Magazine Loren Frank, neuroscienziato della University of California.
    Dal momento che le esperienze nuove e quelle di grande impatto emotivo tendono a essere ricordate meglio, secondo Frank è possibile che siano le oscillazioni interne dei livelli di determinati neuromodulatori e neurotrasmettitori, come la dopamina o l’adrenalina, a influenzare i neuroni responsabili della selezione delle esperienze da ricordare. LEGGI TUTTO

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    Come riconoscere le costellazioni in queste notti d’estate

    Caricamento player«Guarda come si vede bene l’Orsa maggiore!», e non vedete niente. «Ma sì, lo vedi quel punto luminoso? Parti da lì poi vieni giù un po’ a destra e vedi il primo pezzo della costellazione» e ancora nulla. L’amico insiste, la notte è tersa e limpida, ideale per osservare le stelle, ma un’Orsa tanto più maggiore in cielo proprio non riuscite a vederla. Non resta che fingere, fare contento l’amico e sperare almeno in una stella cadente per cambiare discorso.
    Ogni notte in cielo sono visibili centinaia se non migliaia di stelle, a seconda del luogo in cui ci si trova, delle condizioni del cielo e della quantità di inquinamento luminoso, il principale ostacolo all’osservazione della volta celeste soprattutto in Europa. Eppure la maggior parte delle persone ha poca dimestichezza con l’osservazione e il riconoscimento di pianeti, stelle e costellazioni, nonostante i nomi di alcune di queste ultime siano ricorrenti come Orsa maggiore, Cassiopea o Lira, per non parlare di tutte quelle dell’oroscopo.
    Una costellazione è un modo convenzionale di raggruppare insieme alcune stelle visibili in cielo, che idealmente formano particolari figure mitologiche, animali o oggetti. Sono raggruppamenti puramente visivi e non hanno alcuna rilevanza da un punto di vista fisico e più in generale scientifico. Le stelle che le costituiscono sono infatti molto diverse tra loro, non interagiscono le une con le altre e si trovano a distanze enormi in tutte le direzioni dello Spazio. Ma a causa degli effetti prospettici, dal nostro punto di osservazione ci appaiono come se fossero sullo stesso piano, anche se non lo sono, e possiamo quindi raggrupparle insieme per riconoscerle più facilmente.
    Quasi un secolo fa, nel 1930, l’Unione Astronomica Internazionale formalizzò un elenco di 88 costellazioni, utilizzate poi per dividere la sfera celeste in 88 settori con confini ben determinati, in modo da poter identificare facilmente ogni stella in una certa costellazione. La sfera celeste è una sfera immaginaria, nel nostro caso una sorta di guscio esterno della Terra, su cui sono visibili le stelle e gli altri corpi celesti. È un modo per avere punti di riferimento condivisi quando si osserva la volta celeste, cioè come appaiono le stelle in cielo guardando da un punto di osservazione della Terra.
    La sfera celeste che “ingloba” la Terra, con le principali costellazioni disegnate (Wikimedia)
    Le costellazioni hanno quasi sempre nomi legati alla mitologia classica, per lo più dell’antica Grecia, per quanto riguarda quelle boreali – cioè osservabili dall’emisfero terrestre in cui ci troviamo – mentre le costellazioni australi hanno nomi più creativi e attribuiti da astronomi e navigatori moderni. Le costellazioni dello zodiaco sono presenti in una banda immaginaria posta intorno al cammino apparente del Sole nel cielo nel corso di un anno (“piano dell’eclittica”), area dove sono visibili anche i pianeti e per questo molto studiata già a partire dall’antichità.
    I pianeti sono molto più piccoli delle stelle, ma sono più vicini a noi, di conseguenza appaiono in cielo come puntini luminosi tali e quali alle stelle che sono invece enormemente distanti. Possono comunque essere riconosciuti per una particolarità: proprio perché sono più vicini e non emettono direttamente la luce, ma riflettono quella del Sole, i pianeti appaiono come punti luminosi “stabili”, rispetto alle stelle che per via della loro distanza e di altri fattori appaiono tremolanti (si dice che “baluginano”). A seconda dell’ora della notte, i pianeti visibili a occhio nudo sono Mercurio, Marte, Venere, Giove e Saturno.
    CostellazioniLe stelle, e di conseguenza le costellazioni, non appaiono fisse nel cielo a causa della rotazione della Terra attorno al proprio asse. Ogni minuto che passa, l’intera sfera celeste si sposta con un moto apparente: la maggior parte delle stelle sorge a est e tramonta a ovest, proprio come fa il Sole ogni giorno. Osservare alcune costellazioni significa quindi inseguirle nel corso della notte, man mano che si spostano verso ovest fino a scomparire alla stessa vista. Ma non tutte le costellazioni si muovono in questo modo.

    Le costellazioni circumpolari sono infatti particolari gruppi di stelle sempre visibili, perché sono in prossimità del nord celeste, cioè il punto nel cielo verso il quale è orientato l’asse di rotazione terrestre nell’emisfero nord (ce n’è naturalmente uno anche nell’emisfero sud). Nel loro moto apparente, queste costellazioni appaiono molto in alto nella volta celeste, di conseguenza non spariscono sotto l’orizzonte durante il loro moto apparente insieme a tutto il resto del cielo. Queste costellazioni sono state a lungo essenziali per orientarsi nel cielo notturno, proprio perché rappresentano dei punti quasi fermi.
    L’osservazione delle costellazioni è però complicata da un altro fattore, legato sempre ai movimenti del nostro pianeta. Oltre a girare su sé stessa, la Terra gira anche intorno al Sole e questo fa sì che il cielo notturno cambi un poco ogni notte nel corso dell’anno. Una costellazione osservabile in una certa posizione questa notte, per esempio, sarà lievemente spostata domani notte e lo sarà ancora di più tra uno o due mesi. È proprio a causa del movimento della Terra intorno al Sole che le costellazioni diventano più o meno osservabili nelle varie stagioni: non spariscono completamente, ma ci sono periodi dell’anno in cui sono visibili per più tempo in cielo nel corso di una notte.
    Orsa maggioreÈ forse la costellazione più citata e conosciuta tra quelle circumpolari, proprio perché alle nostre latitudini è sempre visibile. Le sue sette stelle più luminose formano il Grande Carro, il modo più semplice (“asterismo”) per identificare parte della costellazione stessa. È sufficiente guardare verso nord (potete aiutarvi con la bussola dello smartphone) e cercare alcune stelle particolarmente luminose che collegate idealmente tra loro formano una specie di mestolo, come nell’immagine qui sotto.
    Il “Grande Carro” è formato dalle stelle Dubhe, Merak, Phecda, Megrez, Alioth, Mizar e Alkaid (Wikimedia)
    Il Grande Carro è un ottimo punto di riferimento per scoprire un’altra importante stella della volta celeste. Se infatti si usano le due stelle più esterne a destra, Dubhe e Merak e si immagina di farle attraversare da una linea che prosegue poi per cinque volte la loro distanza apparente si arriva alla Stella polare, la stella più brillante nei pressi del polo nord celeste e importante punto di riferimento per l’orientamento.
    (Wikimedia)
    Orsa minoreUsando la Stella polare come riferimento si può osservare l’Orsa minore, altra costellazione che contiene al suo interno il Piccolo Carro, simile al Grande Carro dell’Orsa maggiore, ma di dimensioni più contenute come suggerisce il nome. La Stella polare è all’estremo dell’asterismo, può essere immaginata come il punto terminale del carro, e il resto della costellazione è osservabile al di sopra della stella stessa.
    (Wikimedia)
    CassiopeaAnche Cassiopea come le due orse è una costellazione circumpolare alle nostre latitudini ed è molto vicina al polo celeste, intorno al quale ruota nel suo moto apparente in verso antiorario. Rispetto alla stella polare si trova dalla parte opposta all’Orsa maggiore e ha una forma abbastanza riconoscibile che ricorda una “M” o una “W” a seconda del periodo di osservazione. È attraversata dalla Via Lattea, la galassia in cui ci troviamo, e per questo è ricca di ammassi stellari che rendono relativamente più luminosa quella porzione di cielo.
    (Wikimedia)
    Costellazioni d’estatePer l’osservazione delle costellazioni in estate di solito si utilizza come riferimento il “triangolo estivo”, un triangolo rettangolo i cui vertici sono tre stelle che in questo periodo dell’anno appaiono molto luminose: Altair, Deneb e Vega. Quest’ultima è la quinta stella più luminosa del cielo a occhio nudo e appare bianco-azzurra: d’estate è molto alta, quasi allo zenit, cioè visibile direttamente sopra la propria testa, leggermente spostata verso sud. Una volta identificata Vega è abbastanza semplice notare Altair e Deneb, disposte come nello schema qui sotto. Imparare a riconoscere il triangolo estivo è molto importante per trovare le altre costellazioni visibili nel cielo notturno d’estate.
    (Wikimedia)
    CignoDeneb, che come abbiamo visto è uno dei vertici del “triangolo estivo”, quello nord-occidentale, è la stella più brillante della costellazione del Cigno. D’estate alle nostre latitudini culmina intorno a mezzanotte allo zenit, cioè è visibile molto alta nel cielo. Idealmente la costellazione ha la forma di un uccello in volo verso sud, che si estende lungo la Via Lattea e per questo contiene moltissimi oggetti come ammassi stellari e nebulose, studiati per le loro caratteristiche. La stella Albireo è il becco del cigno, mentre la coda è Deneb, dall’arabo dhanab che significa appunto “coda”.
    (Wikimedia)
    LiraÈ in proporzione molto più piccola del Cigno, ma è spesso citata perché è facilmente riconoscibile grazie alla presenza di Vega e al fatto che raggiunge la posizione più alta in cielo a mezzanotte nel mese di luglio. Per osservarla si possono tenere come riferimenti Vega a est e la costellazione del Cigno a ovest. Il becco stesso del Cigno appare poco distante da uno dei vertici della Lira, visibile come un parallelepipedo con un piccolo manico alla cui estremità c’è Vega. Idealmente la forma ricorda quella di una lira, strumento musicale che per la mitologia greca e romana era usata da Mercurio e in seguito da Orfeo.
    (Wikimedia)
    AquilaAnche l’Aquila non è difficile da identificare tenendo sempre come riferimento il “triangolo estivo”, proprio perché una delle sue stelle principali è Altair, che forma uno dei vertici del triangolo. Altair dista appena 16 anni luce dalla Terra, contro i 1.600 anni luce di Deneb, dove termina la coda del Cigno. La costellazione appare idealmente come un’aquila in volo e Altair può essere identificata nella sua parte nord-orientale, poco distante dagli ammassi stellari e di polveri visibili formati da parte della Via Lattea.
    (Wikimedia)
    MappeIdentificare le costellazioni non è sempre semplice: oltre a un cielo limpido e con poco inquinamento luminoso (l’ideale è in alta montagna nelle notti senza Luna), occorrono pazienza, una certa resistenza per rimanere svegli fino a tardi e qualche riferimento per non perdersi tra gli astri. Esistono guide e libri che aiutano a orientarsi e a scoprire le costellazioni più famose, da usare direttamente durante le osservazioni, magari usando una torcia possibilmente con una luce poco intensa o con un filtro colorato rosso, in modo da lasciare che i propri occhi si abituino al buio.
    Da diversi anni alle mappe tradizionali si sono affiancate quelle digitali, attraverso applicazioni che permettono di puntare lo smartphone verso il cielo e di ottenere indicazioni sullo schermo per trovare le costellazioni. Una delle app più longeve e apprezzate si chiama Star Walk e ha varie funzioni non solo per cercare le costellazioni, ma anche per identificare diversi altri corpi celesti e tenere traccia del passaggio di alcuni satelliti visibili dalla Terra e della Stazione Spaziale Internazionale. Per le stelle principali oltre al nome sono disponibili descrizioni delle caratteristiche e ulteriori approfondimenti.
    Un’altra applicazione molto apprezzata tra gli astrofili è SkySafari, che oltre a fornire guide per le osservazioni permette a chi ha un telescopio di tenere traccia in tempo reale degli astri e dei loro spostamenti, in modo da semplificare la loro osservazione. L’app viene aggiornata di frequente, ma a causa delle numerose funzionalità può risultare meno intuitiva rispetto ad altre applicazioni per l’osservazione del cielo. LEGGI TUTTO

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    Gli smartphone possono capire quando siamo depressi

    Caricamento playerLa possibilità di utilizzare gli smartphone per raccogliere informazioni e dati biometrici utili in ambito clinico fu estesamente discussa all’inizio della pandemia. All’epoca se ne parlò soprattutto in relazione ad alcuni progetti sperimentali, sostenuti perlopiù da finanziamenti privati, che ambivano a semplificare la diagnosi del Covid monitorando parametri come la respirazione e la voce delle persone. Ma da tempo diversi gruppi di ricerca e aziende interessate stanno studiando la possibilità di utilizzare gli smartphone per cogliere eventuali segni di malattie mentali facilitando sia le diagnosi che la prevenzione.
    La diagnostica dei disturbi mentali tramite app per smartphone è un settore in grande espansione, in cui un certo ottimismo trainato dalla fiducia nei progressi dell’intelligenza artificiale si contrappone alle molte preoccupazioni per i rischi di violazione della privacy degli utenti e di utilizzo improprio o non autorizzato dei loro dati. Indipendentemente dalle questioni problematiche, di recente il dibattito si è concentrato sui vari modi in cui gli smartphone possono servire nel caso di diagnosi che richiedono valutazioni più articolate e complesse del semplice controllo di un valore biometrico come la frequenza cardiaca o la pressione sanguigna.
    Tra le persone che lavorano alla ricerca e allo sviluppo di software per la diagnosi dei disturbi mentali, la tecnologia degli smartphone e di dispositivi indossabili come gli smartwatch è considerata una risorsa preziosa, tanto più in un periodo storico contraddistinto da un netto aumento dei disturbi e dall’urgenza di trovare soluzioni. L’ampissima diffusione di questi dispositivi è considerato un vantaggio, prima di tutto, perché rende disponibile uno strumento diagnostico aggiuntivo – con tutti i limiti e le cautele del caso – per le molte persone che vivono in contesti in cui la quantità di servizi e professionisti della salute mentale è ancora insufficiente.
    Inoltre, anche in contesti meglio attrezzati, gli smartphone potrebbero rendere disponibile un tipo e una quantità di informazioni che i professionisti stessi difficilmente potrebbero ottenere dai pazienti in un modo diverso. Le riflessioni sul genere di dati che potrebbe aver senso raccogliere dagli utenti attraverso gli smartphone per facilitare la diagnosi di alcuni disturbi, in particolare la depressione, contribuiscono peraltro a migliorare la qualità del dibattito mostrando in generale quanto siano incerti e di volta in volta difficili da tracciare i confini tra la salute fisica e quella mentale, e quelli tra il diritto alla privacy e quello alla salute.

    – Leggi anche: Sono gli smartphone il problema degli adolescenti?

    L’obiettivo degli sviluppatori di software di intelligenza artificiale per la diagnosi della depressione, molti dei quali lavorano in collaborazione con diverse università e istituti di ricerca, è utilizzare modelli predittivi per analizzare grandi quantità di informazioni e individuare lievi cambiamenti, nel corpo o nel comportamento delle persone, che potrebbero indicare la malattia. È un settore che tra il 2020 e il 2022, secondo una stima della società di analisi di mercato CB Insights, ha ricevuto oltre 10 miliardi di dollari di finanziamenti in tutto il mondo.
    Per il momento molte app sono utilizzate soltanto per la ricerca in ambito accademico, ha scritto il sito di news Vox, ma altre forme di raccolta e analisi di grandi quantità di dati sono utilizzate già da tempo da alcune piattaforme di social media per segnalare agli operatori sanitari possibili comportamenti autolesionisti degli utenti.
    Un ragazzo in attesa in una stazione della metropolitana di New York (Drew Angerer/Getty Images)
    Secondo l’edizione più recente del Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali (DSM), che è il testo fondamentale a livello internazionale per la classificazione dei disturbi psichici, la diagnosi di depressione richiede la presenza di sintomi specifici (almeno cinque su nove) per un periodo minimo di due settimane. Tra i sintomi ci sono la perdita di interesse o piacere per le attività quotidiane, l’umore depresso e l’insonnia, o l’ipersonnia. «Ma i sintomi della depressione cambiano molto rapidamente», e potrebbero non essere correttamente notati e riferiti dai pazienti, ha detto a Vox lo psichiatra Nicholas Jacobson, professore alla Geisel School of Medicine del Dartmouth College.
    Insieme alle informazioni ottenute dal medico tramite l’anamnesi, altri dati sul sonno o sull’uso dei social registrati tramite app per smartphone, secondo Jacobson, potrebbero permettere di avere un quadro più completo della salute mentale di una persona. Uno degli obiettivi della ricerca è appunto estendere e rendere più eterogenea la raccolta di dati attraverso i dispositivi, e addestrare modelli predittivi di intelligenza artificiale a cogliere in quei dati segni di un peggioramento dell’umore che potrebbero sfuggire a una valutazione umana.

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    Per uno studio pubblicato a febbraio in formato preprint e condotto su un campione di pazienti che avevano già ricevuto una diagnosi di depressione, Jacobson e altri ricercatori e ricercatrici del Dartmouth College hanno utilizzato un’app sperimentale chiamata MoodCapture. Lo studio prevedeva che i partecipanti aprissero la app tre volte al giorno, in momenti prestabiliti, per rispondere alle domande di un sondaggio mentre la fotocamera frontale dello smartphone scattava loro dei selfie automaticamente.
    Un modello di intelligenza artificiale ha quindi correlato le varie immagini dei partecipanti – centinaia di foto scattate ogni giorno – alle risposte del sondaggio, valutando di volta in volta i sentimenti descritti al momento della compilazione, come la tristezza e la disperazione. Ha quindi utilizzato sia le caratteristiche somatiche dei volti sia altri indizi contestuali, come il tipo di illuminazione nella stanza o gli oggetti presenti sullo sfondo, per prevedere i primi sintomi di depressione. Se un partecipante era sdraiato sul letto ogni volta che compilava il sondaggio, per esempio, il modello stimava come più probabile che fosse depresso.
    Una ragazza in una strada del centro a Berlino (Sean Gallup/Getty Images)
    L’obiettivo del modello utilizzato per lo studio non era associare la depressione a determinate caratteristiche del viso, ma registrare di volta in volta eventuali lievi cambiamenti nelle espressioni facciali di ciascun utente, o anche solo nel luogo e nel modo in cui ciascuno di loro reggeva lo smartphone. Secondo una stima ottenuta valutando i risultati finali dello studio, il sistema potrebbe essere in grado di individuare in modo attendibile i sintomi della depressione con una precisione di circa il 75 per cento. I dati su ciascun utente potrebbero essere combinati con altri dati raccolti passivamente, per esempio sulle ore di sonno o di uso dei social media, per permettere agli specialisti di valutare anche informazioni obiettive e non filtrate dai pazienti.

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    Come vale anche per i software di riconoscimento facciale, da tempo molto discussi, l’utilizzo di MoodCapture pone una serie di problemi noti, sia di privacy degli utenti che di malfunzionamenti dovuti a pregiudizi riconducibili ai dati usati per l’addestramento del sistema. Per esempio l’accuratezza nel prevedere la depressione era maggiore nel caso degli utenti bianchi, che formavano la maggior parte del campione, e minore nel caso degli utenti non bianchi. Potrebbe inoltre essere complicato ottenere in futuro dalle persone il particolare tipo di consenso informato necessario per questo genere di studi, che sono supervisionati da comitati etici indipendenti di revisione (Institutional review board, IRB, che analizzano e valutano procedure e metodi della ricerca scientifica per assicurarsi che i diritti degli esseri umani siano rispettati).
    Molte app per la salute mentale disponibili per il download – ne esistono migliaia – sono di un tipo diverso rispetto a MoodCapture e non riguardano propriamente la diagnostica. Alcune molto popolari e apprezzate, tra cui Bearable, sono pensate per persone con malattie croniche (non solo mentali) e prevedono una raccolta dei dati attraverso i dispositivi indossabili in modo da registrare l’evoluzione dei sintomi del tempo. Sono cioè più simili alle app che permettono di controllare l’alimentazione, una specie di diari digitali, ma mostrano nel complesso informazioni che possono anche servire a capire meglio come il proprio stile di vita influenzi i sintomi della malattia di cui si vuole tenere traccia.
    Una ragazza in una strada di un centro commerciale a Pechino (Kevin Frayer/Getty Images)
    I progressi nello sviluppo dei software di intelligenza artificiale permettono tuttavia di ipotizzare che nei prossimi anni esisteranno molte app in grado di prevedere con relativa precisione l’evoluzione dei disturbi mentali, non solo di registrarne i sintomi. Uno studio pubblicato nel 2021 sulla rivista Journal of Medical Internet Research esaminò la capacità di prevedere il rischio di depressione in una popolazione di 267 adulti in salute, sulla base delle loro risposte a un sondaggio e dei dati registrati da ciascuno di loro attraverso un popolare fitness tracker indossabile (il Fitbit). Lo studio concluse che i modelli di apprendimento automatico alla base di questo approccio potrebbero migliorare in futuro lo screening della depressione, permettendo di individuare le persone ad alto rischio.

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    In generale, sia tra i ricercatori che tra gli sviluppatori, l’ottimismo nel settore delle app per la diagnostica delle malattie mentali è alimentato dalla convinzione che i sistemi di intelligenza artificiale potrebbero un giorno servire a notare aspetti della vita dei pazienti che altrimenti sfuggirebbero sia a loro che alle persone che li hanno in cura. L’ottimismo è però in parte frenato dalla consapevolezza che sarà difficile mediare tra il diritto pubblico alla salute e gli interessi privati delle aziende, che una volta ottenuti i dati degli utenti potrebbero trattarli con maggiore disinvoltura rispetto a quanta ce ne sia di solito in una relazione tra specialista e paziente. «Nessun terapista metterà mai i tuoi dati a disposizione degli inserzionisti», ha detto a Vox Stevie Chancellor, professoressa di informatica e ingegneria della University of Minnesota.
    Uno dei rischi principali, in altre parole, è che informazioni ottenute tramite strumenti diagnostici basati sull’uso delle app e dei sistemi di intelligenza artificiale possano essere indirettamente acquisite da società con interessi diversi dalla salute pubblica. Alcune aziende potrebbero utilizzarle per la selezione del personale, per esempio, o per decidere se concedere o no assicurazioni e finanziamenti.
    Questo conflitto di interessi potrebbe condizionare anche la ricerca, in un settore in cui servono ancora molte prove empiriche del beneficio clinico che strumenti di questo tipo potrebbero procurare nel trattamento dei problemi di salute mentale. Se le società mostreranno un interesse maggiore «per le prove che per la redditività, allora staremo andando nella direzione giusta», disse nel 2023 allo Smithsonian Magazine Judith Law, CEO di Anxiety Canada, un’organizzazione non profit che si occupa di strumenti e servizi per il trattamento dei disturbi d’ansia.
    Il dibattito sulle possibilità di agevolare e migliorare tramite specifiche app il lavoro necessario per la diagnosi dei problemi mentali offre diversi spunti per pensare agli smartphone non soltanto come possibile – e discussa – causa dei problemi, ma anche come possibile parte della soluzione. Ma secondo diversi esperti questo sarà possibile solo a patto di creare una tecnologia affidabile e regolamentarla in modo da ridurre il rischio di danni involontari. E a patto di non intendere l’approccio basato sulla tecnologia come sostitutivo della relazione interpersonale, dal momento che «uno dei fattori più importanti per il successo della terapia è la qualità della relazione tra l’individuo e il terapeuta», disse allo Smithsonian la psicologa clinica Vara Saripalli. LEGGI TUTTO