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    Produrre cibo dalla plastica, o almeno provarci

    Ogni anno vengono prodotti oltre 400 milioni di tonnellate di rifiuti derivanti dall’impiego dei vari tipi di plastica usati per gli imballaggi, i contenitori, gli abiti sintetici e molti altri prodotti. Una percentuale crescente di questi rifiuti viene riciclata, ma l’impatto della plastica è ancora oggi una delle principali preoccupazioni legate alla contaminazione degli ecosistemi e alla tutela della nostra salute. Mentre si fatica a concordare nuovi trattati internazionali per ridurre la produzione e gli sprechi di plastica c’è chi sta sperimentando una via alternativa un po’ più creativa: renderla commestibile.L’idea non è completamente nuova, ma negli ultimi anni ha avuto qualche maggiore attenzione in seguito a una iniziativa della Defense Advanced Research Projects Agency (DARPA), l’agenzia del dipartimento della Difesa degli Stati Uniti che si occupa dello sviluppo di nuove tecnologie da utilizzare in ambito militare. Nel 2019, la DARPA invitò i gruppi di ricerca interessati a proporre nuovi sistemi per ridurre la quantità di rifiuti prodotti dai soldati quando sono in guerra o lavorano per dare sostegno alla popolazione in seguito a emergenze e disastri naturali. L’agenzia era interessata a trovare sistemi per convertire gli imballaggi in nuovi prodotti, possibilmente sul posto, in modo da ridurre la produzione di rifiuti e rendere meno onerosa la loro gestione.
    La richiesta portò alla presentazione di progetti da vari centri di ricerca e al finanziamento da parte della DARPA di alcuni di quelli più promettenti. Uno di questi è gestito dalla Michigan Technological University (MTU) e consiste nell’impiegare sostanze e microorganismi per degradare la plastica e trasformarla in qualcos’altro. Il sistema per ora è dedicato a ricavare materiale organico che sia commestibile, mentre solo in un secondo momento si penserà ai modi in cui utilizzarlo.
    La plastica viene triturata e successivamente inserita in un reattore dove viene aggiunto l’idrossido di ammonio (il composto chimico che in soluzione acquosa chiamiamo ammoniaca) ad alta temperatura. Non tutta la plastica è uguale, la parola stessa è un termine ombrello che usiamo per riferirci a materiali molto diversi tra loro, di conseguenza non tutto ciò che viene sottoposto al trattamento reagisce allo stesso modo.

    Alcuni tipi di plastica come il polietilene tereftalato (PET), il materiale con cui sono solitamente fatte le bottiglie, si disgrega dopo questo primo passaggio, mentre altre plastiche hanno necessità di ulteriori trattamenti ad alte temperature e in assenza di ossigeno, che vengono effettuati in un reattore a parte. Le plastiche di questo tipo possono essere convertite in carburante oppure in sostanze lubrificanti, entrambe utili in un ipotetico scenario in cui il processo possa essere eseguito direttamente sul campo dai soldati come richiesto dalla DARPA.
    Ciò che si è ottenuto dal PET con il passaggio nel reattore viene invece dato in pasto a colonie di batteri, in grado di nutrirsi della plastica, che ha tra i propri componenti anche composti organici. Come ha raccontato al sito Undark, il gruppo di ricerca della MTU inizialmente riteneva che trovare i batteri più adatti per nutrirsi della plastica processata avrebbe richiesto molto tempo, ma le cose sono andate diversamente. In breve tempo, il gruppo di ricerca ha infatti notato che i batteri che normalmente degradano il compost (fatto per lo più di rifiuti e scarti alimentari) si adattano facilmente alla plastica trattata nel reattore. L’ipotesi è che la struttura a livello molecolare di alcuni composti delle piante abbia alcune caratteristiche in comune con ciò che viene processato con l’idrossido di ammonio, favorendo il banchetto dei batteri.
    Dopo che i batteri hanno consumato e trasformato la plastica, la poltiglia che si ottiene viene fatta essiccare fino a ottenere una polvere che contiene i principali macronutrienti: proteine, carboidrati e grassi. Il gruppo di ricerca ne ha elencato le caratteristiche in uno studio pubblicato lo scorso anno sulla rivista Trends in Biotechnology, ma il passaggio dal bidone della plastica alle razioni dei soldati o dei piatti in qualche ristorante non sarà così immediata.
    Da tempo si discute sull’opportunità di utilizzare particolari batteri e altri microrganismi come fonte di proteine e di altre sostanze nutrienti. La loro coltivazione richiede meno risorse e acqua rispetto a ciò che viene coltivato nei campi e per questo c’è chi sostiene che potrebbero affiancare la produzione di cibo più tradizionale riducendo l’impatto ambientale dell’intera catena alimentare. Le stime variano sensibilmente, ma si ritiene che circa un terzo di tutte le emissioni di gas serra sia prodotto dal settore alimentare.
    La polvere ottenuta dal processo messo a punto dalla MTU è stata testata senza trovare per ora sostanze note per essere tossiche. Il preparato è stato dato in pasto ad alcuni nematodi (vermi cilindrici) senza conseguenze e sono stati avviati test sui ratti, per effettuare osservazioni in periodi di tempo più lunghi rispetto alle settimane di vita dei nematodi. I risultati dai test sui ratti saranno essenziali per procedere con una prima richiesta alla Food and Drug Administration (FDA), l’agenzia governativa statunitense che tra le altre cose si occupa di sicurezza alimentare, per dichiarare il consumo della plastica trasformata in cibo sicuro per gli esseri umani.
    Non è comunque ancora detto che la sperimentazione porti a qualche risultato concreto, come del resto spesso avviene con i progetti finanziati dalla DARPA. L’agenzia è nota per promuovere iniziative di ricerca molto ambiziose se non impossibili da realizzare, confidando che almeno alcune delle sperimentazioni avviate portino da qualche parte. Il cibo dalla plastica potrebbe rivelarsi molto utile per migliorare la gestione della logistica, considerato che il trasferimento di cibo e rifornimenti è uno degli aspetti più onerosi per gli eserciti soprattutto se attivi in territori lontani dal loro paese, come avviene quasi sempre nel caso degli Stati Uniti.
    Se dovesse rivelarsi sicuro e affidabile, il sistema per convertire alcuni tipi di plastica in cibo potrebbe essere adottato in futuro per scopi civili, ma lo stesso gruppo di ricerca della MTU ha qualche dubbio in proposito. Stephen Techtmann, uno dei responsabili del progetto, ha detto sempre a Undark che potrebbe essere molto difficile convincere le persone a mangiare qualcosa che è stato ottenuto mettendo all’ingrasso dei batteri con la plastica, mentre ci potrebbero essere maggiori opportunità in particolari circostanze legate a strette necessità di sopravvivenza nelle emergenze: «Penso ci possa essere qualche preoccupazione in meno sul fattore disgusto nel caso in cui si tratti di un: “Questo mi terrà in vita per un altro paio di giorni”».
    I batteri sono comunque strettamente legati alla nostra alimentazione, come alcuni tipi di funghi e altri microrganismi. Li ingeriamo quando mangiamo un vasetto di yogurt, assaggiamo un formaggio o proviamo del kimchi e altri cibi fermentati. Oltre a rendere più semplici e sicuri da conservare alcuni elementi, contribuiscono alla salute del microbiota, cioè l’insieme dei microrganismi che vivono nel nostro intestino e che ci aiutano a digerire gli alimenti e a regolare numerose altre attività dell’organismo. Naturalmente non tutti i batteri sono commestibili (alcuni possono causare gravi danni) e per questo sono necessarie verifiche sulla sicurezza alimentare.
    I batteri impiegati da millenni per la produzione dello yogurt partono dal latte, quindi da una sostanza che sappiamo essere commestibile e l’idea di usarli fa sicuramente un effetto diverso rispetto alla trasformazione in alimenti della plastica, di cui sono noti gli effetti inquinanti e tossici. Ma in chimica una sostanza può sparire nel corso di una reazione, semplicemente perché si trasforma in qualcosa di diverso, che in questo caso secondo il gruppo di ricerca potrebbe aiutare almeno in parte a sfamare il mondo. LEGGI TUTTO

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    Animali fotografati benissimo

    © Jason Gulley/Wildlife Photographer of the YearIl Wildlife Photographer of the Year è un importante concorso di fotografia naturalistica organizzato dal Museo di storia naturale di Londra, che ogni anno premia le migliori tra le decine di migliaia di immagini che vengono inviate da fotografi professionisti e non. Nei giorni scorsi l’organizzazione ha diffuso alcune tra le foto degne di nota – le cosiddette highly commended – in attesa di annunciare le vincitrici, che saranno comunicate a ottobre. Questa è la 60esima edizione del concorso e tra le immagini che si possono già vedere ci sono due leoni durante l’accoppiamento, un giaguaro che afferra un caimano, la cattura di uno squalo, il salto di un ermellino e una suggestiva foto di due pavoni, scattata da una bambina. LEGGI TUTTO

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    Weekly Beasts

    Una collaborazione iniziata nel 2020 tra lo zoo di Miami, in California, e lo zoo di San Antonio, in Texas, ha permesso di far nascere una settantina di nuove lucertole cornute del Texas – una specie in via di estinzione chiamata anche frinosoma cornuto o rospo corneo – nello zoo di Miami, che ne ha creato una sorta di colonia incubandone le uova. Ora che la maggior parte di esse si è schiusa saranno trasportate allo zoo di San Antonio e rilasciate in habitat selezionati del Texas per garantirne una maggiore diffusione. Nella raccolta animalesca delle settimana vediamo uno di questi individui, grande quanto una moneta. Poi troviamo migliaia di pittime reali, un ragno-granchio e un panda appena nato, insieme a uno che fa vent’anni. Per finire con un grande classico: un’ape piena di polline vicino a un fiore. LEGGI TUTTO

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    Il cambiamento climatico fa allungare le giornate

    Caricamento playerLa fusione dei ghiacci e altri effetti collegati al cambiamento climatico stanno contribuendo a fare aumentare lievemente la durata dei giorni sulla Terra. Il fenomeno è noto da tempo, ma una ricerca pubblicata nel corso dell’estate ha segnalato che le giornate si stanno allungando più velocemente rispetto a quanto calcolato in passato, cosa che potrebbe avere conseguenze sulle tecnologie che si basano sull’ora esatta come per esempio i sistemi di navigazione satellitare.
    Il moto di rotazione della Terra non è regolare – a causa dell’influenza della Luna e di altri fattori – e ciò comporta che con il passare del tempo il nostro pianeta accumuli un certo ritardo, rispetto agli orologi atomici con i quali calcoliamo con maggiore precisione il trascorrere del tempo. Il rallentamento è in parte prevedibile e calcolabile, ma può cambiare nel caso in cui cambino alcune variabili.
    Per questo un gruppo internazionale di ricerca finanziato in parte dalla NASA ha utilizzato dati storici e osservazioni satellitari per valutare i cambiamenti nella distribuzione delle masse d’acqua nella Terra. Lo studio si è concentrato in particolare sui cambiamenti determinati dalla fusione dei ghiacci polari, che porta nuove masse d’acqua a distribuirsi intorno all’equatore facendo sì che il nostro pianeta, che non è una sfera perfetta, appaia lievemente schiacciato ai poli.
    Questa diversa distribuzione delle masse d’acqua, insieme ad altri fattori, fa sì che la Terra rallenti lievemente il proprio moto di rotazione e che le giornate si allunghino. Per intendersi, è un fenomeno simile a quello che avviene quando i pattinatori su ghiaccio si abbassano e allargano le braccia per ridurre la loro velocità di rotazione, o quando si gira su se stessi stando seduti su una sedia da ufficio e si allargano o chiudono le braccia modificando la velocità di rotazione.

    Lo studio ha valutato le variazioni prendendo in considerazione il periodo tra il 1900 e il 2018 e ha notato un’accelerazione nell’allungamento delle giornate a partire dal 2000. Negli ultimi 18 anni si è arrivati a una media di allungamento della durata del giorno di 1,33 millisecondi per secolo, il dato più alto mai registrato rispetto ai cento anni precedenti quando la variazione oscillava tra 0,3 e 1 millisecondi (la variazione non è costante e ci sono oscillazioni nel corso del tempo).
    Secondo il gruppo di ricerca il lieve allungamento delle giornate dovuto alla fusione dei ghiacci e alla ridistribuzione delle masse d’acqua, che si aggiunge agli altri fattori che determinano il fenomeno, potrebbe decelerare entro il 2100 nel caso dell’adozione di politiche efficaci per ridurre le emissioni di gas serra. Come per altri fenomeni legati al cambiamento climatico, infatti, anche se smettessimo oggi di immettere nell’atmosfera nuova anidride carbonica e altri gas serra sarebbero comunque necessari decenni prima di riscontrare benefici significativi, a causa di una certa inerzia del sistema.
    Lo studio ha inoltre calcolato che, nel caso di ulteriori aumenti delle emissioni, l’allungamento del giorno dovuto al cambiamento climatico potrebbe arrivare a 2,62 millisecondi per secolo, superando quindi gli effetti della Luna e degli altri fattori che contribuiscono al rallentamento del moto di rotazione. LEGGI TUTTO

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    Quando un secolo fa si pensò di aver captato i marziani

    Caricamento playerNegli ultimi giorni di agosto di un secolo fa, nel cielo sopra Washington, DC molte persone osservarono un dirigibile. Era stato collocato a circa 3mila metri di altitudine sopra allo United States Naval Observatory, una delle più importanti istituzioni scientifiche del paese, per provare a captare un messaggio radio proveniente da Marte in modo da confermare le ipotesi sull’esistenza di una popolazione aliena nel nostro sistema solare.
    L’esperimento in un certo senso funzionò: qualcosa fu effettivamente captato, ma nessuno fu in grado di comprenderne la fonte e ancora oggi quella trasmissione rimane per molti un mistero. Ciò che avvenne in quell’estate del 1924 contribuì comunque a rinfocolare una certa curiosità nei confronti di Marte e dei suoi presunti occupanti, condizionando parte del dibattito sulla domanda che ci facciamo praticamente da sempre: siamo soli nell’Universo?
    L’idea di realizzare una grande antenna da collegare a un dirigibile per captare messaggi provenienti dallo Spazio era venuta a Charles Francis Jenkins, un inventore ricordato soprattutto per i suoi prototipi per lo sviluppo della televisione, e ad alcuni suoi colleghi. La fine di agosto del 1924 sembrava il momento ideale per farlo: nel loro errare periodico nel cosmo seguendo le proprie rispettive orbite, Marte e la Terra non erano mai stati così vicini dall’estate del 1845 e non lo sarebbero più stati per almeno ottant’anni. Se c’era qualcosa su Marte da scoprire, quello era il momento buono e Jenkins non era stato certo l’unico ad avere quell’intuizione.
    Complici le dichiarazioni di alcuni scienziati e di semplici appassionati, che avevano trovato ampio spazio sui giornali soprattutto negli Stati Uniti, si era generata una certa frenesia per quello che era stato definito uno degli eventi astronomici più rilevanti dell’epoca. La Terra e Marte si sarebbero trovati a circa 54,7 milioni di chilometri di distanza rispetto alla media di 225 milioni di chilometri. Molti osservatori organizzarono eventi notturni e iniziative per osservare Marte con i loro telescopi, mentre altri si dedicarono a una delle tecnologie del momento: la radio.
    Marte e la Terra alla fine di agosto 1924 (Solar System Scope)
    La Marina militare statunitense aveva proposto e ottenuto che tra il 21 e il 24 agosto di quell’anno fosse mantenuto un silenzio radio per cinque minuti ogni ora, in modo da poter intercettare più facilmente eventuali messaggi marziani. L’idea era intrigante, considerato che all’epoca si sapevano pochissime cose su Marte e che mancavano più di trent’anni all’inizio delle esplorazioni spaziali, ma come captare efficacemente un segnale fu oggetto di numerose discussioni e speculazioni.
    L’astronomo statunitense David Peck Todd, diventato famoso soprattutto per le sue osservazioni di Venere, pensò che la persona giusta per provarci fosse Jenkins, che con le sue invenzioni aveva ottenuto progressi nelle tecnologie per le comunicazioni radio. Nel suo laboratorio, Jenkins disponeva di una radio SE-950, costruita nel 1918 e pensata come un dispositivo portatile che avrebbero potuto usare i soldati statunitensi per comunicare sui campi di battaglia. La radio non era mai stata testata per questi scopi ed era diventata uno degli strumenti utilizzati da Jenkins per i suoi esperimenti.
    Radio SE-950 (Henry Ford Museum)
    Sollecitato da Todd, Jenkins ipotizzò insieme ad altri che per captare segnali provenienti da un altro mondo fosse necessaria un’antenna più grande del solito e fu quindi elaborato il piano del dirigibile. L’idea è che fosse parte integrante dell’antenna stessa orientata verso Marte e che inviasse poi un segnale alla SE-950 nel laboratorio di Jenkins in modo da riceverlo, amplificarlo e trasferirlo su carta.
    Jenkins insieme ad altri collaboratori aveva infatti costruito una “radio fotocamera” per convertire i segnali radio in impulsi luminosi, che lasciavano poi una traccia su un rullino di carta fotografica. Appena un anno dopo Jenkins avrebbe ottenuto uno dei primissimi brevetti per la trasmissione di immagini e suoni in contemporanea, diventando uno dei pionieri della televisione, ma in quell’estate del 1924 la sua “radio fotocamera” era ancora rudimentale e soprattutto non era detto che i marziani volessero trasmettere qualche immagine.
    Qualcosa fece comunque imprimere sulla carta fotografica un’immagine. Tra le 13:00 del 22 agosto e le 17:00 del 23 agosto 1924, l’antenna-dirigibile captò un segnale che fu trasmesso alla radio SE-950 e poi tradotto in una serie di immagini dalla “radio fotocamera”. Era una sorta di spettrogramma (una rappresentazione grafica dell’intensità e della frequenza di un suono nel tempo), ma tale era il desiderio di avere un messaggio da Marte che fu interpretato da molti come la rappresentazione di un viso.

    Non è chiaro se esista ancora l’originale di quel segnale tradotto in immagini, ma grazie a diverse copie e citazioni in studi e ricerche successive possiamo ancora oggi vedere come era fatto. Intravedere un viso tra la combinazione di punti e linee più scure richiede una certa dose di immaginazione, ma è importante ricordare che un secolo fa non c’erano le conoscenze scientifiche di oggi, che il mondo era meno connesso e che per diverso tempo si era creduto genuinamente all’esistenza dei marziani, anche a causa di un italiano.
    Nella seconda metà dell’Ottocento l’astronomo Giovanni Schiaparelli aveva osservato Marte in un’altra occasione in cui si trovava particolarmente vicino alla Terra. Notò alcune linee sulla superficie del pianeta e ipotizzò che si trattasse di corsi d’acqua naturali, dei “canali” come li definì nei suoi studi. Per un errore di traduzione in inglese i canali divennero “canals”, parola solitamente usata per indicare i canali artificiali, e non “channels” che si usa invece per definire i canali derivanti da fenomeni naturali. Negli anni seguenti l’astronomo statunitense Percival Lowell fu tra i primi a proporre che Marte fosse popolato da una civiltà evoluta, sostenendo che se c’erano effettivamente dei canali artificiali qualcuno doveva pur averli costruiti.
    La questione dei canali divenne centrale nel costruire il mito dei marziani e più in generale di mondi lontani dal nostro popolati da altre civiltà. Intorno agli anni Dieci del Novecento quella convinzione era stata ormai smentita grazie a nuove osservazioni, ma l’idea che Marte fosse popolato aveva fatto presa nell’immaginario collettivo e non stupisce quindi che nel 1924 così tante persone fossero alla ricerca di segnali radio marziani. Captarli sarebbe stato difficilissimo, ma valeva la pena provare.
    Fu in quel contesto che nella striscia di carta fotosensibile di Jenkins molti videro un volto e che si costruì il mistero intorno al segnale che lo aveva generato. È vero che non sapremo mai per certo che cosa fosse quel segnale, ma è altrettanto vero che disponiamo di spiegazioni convincenti, come ha ricordato al New York Times Kristen Gallerneaux, una delle curatrici dell’Henry Ford Museum dove è conservata la radio SE-950: «Si era alla ricerca di un segnale indirizzato verso di noi dentro una cosa che non era mai stata progettata per essere una rappresentazione visiva riconoscibile. È rumore di fondo. Eppure le persone ci vedono ancora delle cose dentro e pensano che si tratti di un tipo di comunicazione intelligente».
    L’antenna sul dirigibile aveva probabilmente captato del rumore di fondo, cioè interferenze dovute ad altre trasmissioni o alle condizioni ambientali, inoltre gli strumenti stessi per captare e amplificare i segnali radio possono produrlo alterando ulteriormente la ricezione. È un problema con cui si confrontano ancora oggi i gruppi di ricerca che usano i radiotelescopi e più banalmente chi ascolta musica alla radio. Un secolo fa gli strumenti di ricezione e ascolto erano meno raffinati e avanzati, di conseguenza è probabile che fossero ancora più soggetti ad alcuni tipi di interferenze.
    Una mappa di Marte derivata dagli studi di Schiaparelli (Wikimedia)
    L’esperimento di Jenkins e Todd non fu comunque l’unico e in varie altre parti del mondo furono usate strumentazioni radio per provare a captare qualcosa. Nella British Columbia, nel Canada occidentale, si pensò che alcuni segnali radio potessero indicare la volontà da parte di alcuni marziani di provare a comunicare con la Terra. In Inghilterra furono invece captati rumori ritenuti estranei alle normali comunicazioni radio prodotte sulla Terra.
    Le presunte rivelazioni alimentarono ulteriormente il confronto già molto acceso sull’esistenza o meno dei marziani, tirando in mezzo anche Jenkins rimasto sorpreso dalle interpretazioni creative di quanto aveva registrato. Preoccupato dalla possibilità che le ipotesi più fantasiose potessero danneggiare la sua reputazione scientifica, qualche giorno dopo le osservazioni pubblicò un articolo nel quale chiariva di non ritenere che «i risultati abbiano a che fare con Marte». Già all’epoca Jenkins scrisse che la spiegazione più probabile per il segnale erano semplici interferenze dovute ad alcune attività terrestri e non marziane.
    Charles Francis Jenkins nel 1928 (Courtesy Everett Collection/ Contrasto)
    Jenkins e gli altri scienziati e appassionati del 1924 non avevano ancora i mezzi adeguati, ma avevano intuito che un modo per cercare eventuali civiltà aliene fosse mettersi in ascolto. Una decina di anni dopo i loro tentativi nacque formalmente la radioastronomia, cioè lo studio dei corpi celesti attraverso le frequenze radio, con il primo rilevamento da un corpo celeste.
    La radioastronomia si è rivelata fondamentale per studiare le stelle e le galassie, i modi in cui evolvono e compongono l’Universo, ma non solo. I radiotelescopi sono stati utilizzati e vengono ancora oggi impiegati per provare a cogliere particolari segnali radio, diversi da quelli che conosciamo e che potrebbero fornire indizi su civiltà lontane che come noi provano a capire se siano effettivamente sole.
    Quanto a Marte, negli ultimi decenni abbiamo scoperto molte cose sulla sua storia, trovando indizi sulla possibilità che un tempo avesse ospitato qualche forma di vita. Manca ancora la prova definitiva, ma disponiamo di robot che ogni giorno esplorano la superficie marziana per fotografarla e analizzarla. I loro sono gli unici segnali radio che riceviamo da Marte. LEGGI TUTTO

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    Un miliardario vuole passeggiare nello Spazio

    Caricamento playerJared Isaacman ha 41 anni, è statunitense, ha messo insieme una fortuna con Shift4 Payments, la sua società per gestire i pagamenti elettronici, e tra qualche giorno sarà il miliardario a essersi allontanato di più dalla Terra da quando esistono i miliardari. Salvo rinvii, alle 9:38 (ora italiana) di mercoledì, Isaacman partirà per un viaggio oltre l’orbita terrestre insieme a tre compagni di viaggio con la missione Polaris Dawn, che ha in buona parte finanziato lui stesso in collaborazione con SpaceX, la società spaziale di Elon Musk, un altro miliardario.
    La capsula spaziale Crew Dragon si spingerà dove non si erano più avventurati gli esseri umani dopo le missioni Apollo, quelle per raggiungere la Luna, e se tutto procederà secondo i piani renderà possibile la prima “passeggiata spaziale” interamente gestita da privati. Al di là dei due primati, la missione servirà per sperimentare numerose attrezzature sviluppate negli ultimi anni da SpaceX, al lavoro per preparare nuove missioni lunari con equipaggio e per portare un giorno i primi astronauti su Marte, almeno nelle intenzioni molto ottimistiche di Musk.
    Per Isaacman non sarà comunque la prima volta nello Spazio. Nel settembre del 2021 aveva già raggiunto l’orbita con la missione Inspiration4, sempre gestita da SpaceX e in compagnia di altre tre persone, nessuna delle quali faceva l’astronauta di professione per conto dei governi e di istituzioni pubbliche, come è quasi sempre avvenuto dagli albori delle esplorazioni spaziali oltre 60 anni fa. Come era accaduto con Inspiration4, anche per Polaris Dawn né Isaacman né SpaceX hanno fatto sapere i costi dell’iniziativa, comunque nell’ordine di decine di milioni di dollari, senza contare i costi per lo sviluppo di alcune nuove tecnologie da parte di SpaceX.
    La società spaziale ha infatti lavorato negli ultimi anni allo sviluppo di tute spaziali che possano essere utilizzate per le attività extraveicolari (EVA, quelle che informalmente vengono chiamate “passeggiate spaziali”). A oggi solamente alcuni astronauti della NASA, dell’Agenzia spaziale europea (ESA) e di quelle del Canada, della Russia e della Cina hanno effettuato un’EVA, per esempio per la costruzione e la manutenzione delle stazioni orbitali costruite nel tempo intorno alla Terra, superando grandi difficoltà tecniche e gestendo i molti rischi che derivano dal trovarsi nel vuoto pressoché totale dello Spazio. Le tute per farlo sono in sostanza delle piccole astronavi da indossare, ce ne sono poche e sono estremamente costose, ma SpaceX come altre aziende private vuole cambiare le cose.
    Gli astronauti Robert L. Curbeam Jr. e Christer Fuglesang durante un’attività extraveicolare per l’assemblaggio di un modulo della Stazione Spaziale Internazionale nel 2006 (NASA.gov)
    La società sta sviluppando e sperimentando una nuova generazione di tute più leggere e pratiche da usare rispetto a quelle tipicamente impiegate dalla NASA, quando gli astronauti fanno per esempio manutenzione all’esterno della Stazione Spaziale Internazionale (ISS). I gruppi di ricerca e sviluppo di SpaceX sono quindi partiti dalle tute che utilizzano gli astronauti a bordo della sua capsula spaziale Crew Dragon, quando viaggiano verso e dalla ISS, per renderle ancora più resistenti e adatte al loro impiego all’esterno della capsula stessa.
    SpaceX aveva svelato ufficialmente di essere al lavoro sulle tute per le EVA all’inizio dello scorso maggio e da allora ha fornito qualche informazione in più, anche se mancano ancora numerosi dettagli che saranno probabilmente svelati almeno in parte durante Polaris Dawn. Le nuove tute sono progettate per essere impiegate sia all’interno di Crew Dragon, quando forniscono un’ulteriore protezione agli astronauti durante le turbolente fasi del lancio, sia all’esterno quando la capsula è ormai in orbita. Le tute vengono pressurizzate a seconda delle necessità, in pratica chi le indossa è come se si trovasse all’interno di un palloncino, e per le EVA si raggiungono i 35 kilopascal, equivalenti più o meno alla pressione atmosferica che si sperimenta in cima all’Everest, circa un terzo di quella sul mare.
    (SpaceX)
    Di solito le EVA richiedono tempi lunghi di preparazione proprio perché gli astronauti devono abituarsi a condizioni di pressione diverse da quelle tipicamente presenti all’interno dei veicoli spaziali (nella tuta la pressione è inferiore per evitare che questa sia troppo gonfia, al punto da ostacolare i movimenti). Sulla ISS chi deve compiere l’attività extraveicolare, per esempio, passa attraverso una camera d’equilibrio (airlock) in modo che ci sia un ambiente intermedio tra la Stazione e lo Spazio. L’astronauta si chiude alle spalle il portellone della ISS e apre un secondo portellone verso l’esterno, in modo che la Stazione continui a essere isolata dall’ambiente spaziale (altrimenti perderebbe ossigeno e pressurizzazione con esiti catastrofici per gli altri occupanti).
    Su Crew Dragon non c’è un airlock, quindi tutti i quattro membri di Polaris Dawn dovranno indossare le tute per rimanere isolati dall’esterno. Solo due partecipanti si affacceranno a turno all’esterno della capsula per 15-20 minuti, in modo da effettuare ulteriori test sulla tenuta e le funzionalità delle nuove tute. Nonostante alcune illustrazioni grafiche suggerissero il contrario, non è previsto che i partecipanti all’EVA si allontanino dalla capsula rimanendo collegati con un cavo e un tubo per l’ossigeno. Al termine del test e dopo la chiusura del portellone impiegato per l’EVA, la pressione all’interno di Crew Dragon sarà ripristinata insieme alla giusta concentrazione di ossigeno per permettere ai suoi occupanti di togliere le tute e proseguire la missione.
    Una rappresentazione grafica dell’EVA di Polaris Dawn
    L’EVA sarà la parte più importante dell’intera missione e ha richiesto anni di preparazione sia per la costruzione delle tute sia per l’addestramento di Isaacman e dei suoi tre compagni di viaggio. Anche se temporaneamente, Crew Dragon perderà buona parte dei propri supporti vitali in una procedura mai sperimentata prima con esseri umani a bordo di quella capsula in orbita. Bill Gerstenmaier, ex responsabile dei voli con esseri umani per la NASA e ora vicepresidente di SpaceX, ha ammesso che: «Una EVA è un’avventura rischiosa, ma – di nuovo – abbiamo fatto tutta la preparazione necessaria. La effettueremo nel modo più sicuro possibile, abbiamo elaborato i giusti protocolli e abbiamo fatto tutti i test per essere pronti».
    Oltre a Isaacman a bordo di Crew Dragon ci saranno due impiegati di SpaceX, a conferma della particolare collaborazione tra il miliardario e l’azienda: Sarah Gillis, preparatrice degli astronauti per le missioni solitamente realizzate per conto della NASA, e Anna Menon, a capo delle operazioni spaziali. Il quarto membro dell’equipaggio sarà Scott Poteet, ex pilota dell’aeronautica statunitense e amico di lunga data di Isaacman.
    L’equipaggio di Polaris Dawn – Jared Isaacman, Sarah Gillis, Anna Menon e Scott Poteet – e sullo sfondo Crew Dragon collegata al Falcon 9 (SpaceX)
    Dopo il lancio da Cape Canaveral (Florida, Stati Uniti) spinta da un razzo Falcon 9, la capsula spaziale sarà collocata in un’orbita il cui punto di maggior distanza (apogeo) dalla Terra sarà di 1.200 chilometri. In seguito, la distanza massima sarà aumentata fino a 1.400 chilometri, rendendo Polaris Dawn la prima missione con un equipaggio ad allontanarsi così tanto dalla Terra dai tempi di Apollo 17, l’ultima missione del programma lunare statunitense che raggiunse la Luna nel 1972, a quasi 400mila chilometri dalla Terra.
    Nel farlo, attraverserà la cosiddetta “anomalia del Sud Atlantico”, una zona in cui il campo magnetico terrestre ha un’intensità inferiore rispetto alla media e che per questo rende possibile un maggiore avvicinamento delle particelle cariche altamente energetiche provenienti dal vento solare (fasce di Van Allen). In poche ore l’equipaggio sarà esposto a una dose di radiazioni equivalente a quella che in media ricevono gli astronauti dopo tre mesi di permanenza sulla Stazione spaziale internazionale. Sono dosi comunque minime: anche gli astronauti delle missioni Apollo dovettero fare i conti con le fasce di Van Allen, senza conseguenze per la loro salute.
    Dopo una decina di ore, l’orbita sarà ridotta in modo da raggiungere una distanza massima dalla Terra di 700 chilometri ai quali sarà effettuata l’attività extraveicolare. Sarà il test più importante, ma nei cinque giorni della missione sarà eseguita una quarantina di esperimenti, molti dei quali orientati a valutare gli effetti della permanenza nello Spazio sull’organismo – come si fa da anni sulla ISS – e a sperimentare nuove tecnologie che potrebbero essere impiegate in futuro nelle missioni di lunga durata verso la Luna e forse un giorno Marte.
    Alcuni esperimenti saranno più creativi di altri, come un test per verificare se si possano effettuare radiografie sfruttando direttamente le radiazioni presenti nell’ambiente spaziale. Poteet si era inoltre sottoposto a un piccolo intervento chirurgico al cranio per farsi installare un dispositivo per misurare la pressione del fluido in cui è immerso il cervello. Le differenti condizioni di gravità fanno sì che i fluidi nel corpo tendano a fluire verso l’alto più di quanto facciano sulla Terra e questo può avere conseguenze di vario tipo. È il motivo per cui gli astronauti nei primi giorni in orbita appaiono spesso paonazzi, proprio per il maggiore afflusso di sangue verso la testa, e si sospetta possa essere una delle cause del lieve schiacciamento dei bulbi oculari che talvolta porta ad alcuni problemi di vista.
    Il dispositivo avrebbe dovuto permettere di rilevare le variazioni nel corso dell’intera missione, ma dopo l’intervento si è visto che non funzionava come previsto ed è stato rimosso dalla testa di Poteet. Difficilmente sarebbe accaduto qualcosa di analogo con un esperimento della NASA o dell’ESA, ma SpaceX lavora diversamente e si può prendere qualche rischio in più, come sta ampiamente dimostrando con lo sviluppo della sua enorme astronave Starship.
    Polaris Dawn finirà dopo cinque giorni con un tuffo di Crew Dragon al largo della costa della Florida, dove una squadra di recupero si occuperà di riportare sulla terraferma la capsula e i suoi quattro occupanti. Isaacman e SpaceX hanno in programma almeno altre due missioni, ma non hanno ancora fornito informazioni sulle modalità e i tempi che in parte dipenderanno dai risultati ottenuti con questa missione. LEGGI TUTTO

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    Weekly Beasts

    Ogni anno allo zoo di Londra è prevista una pesatura degli animali: ne vengono controllati e misurati diversi (non tutti: circa 400 sugli oltre 14.000) e i dati raccolti vengono registrati in uno specifico database. È un’operazione utile sia ai custodi dello zoo e ai veterinari per il monitoraggio della crescita, sia agli altri zoo del mondo che possono confrontare le varie informazioni attraverso un database condiviso. Tra le bestie più fotogeniche della settimana ci sono anche alcuni di questi animali, come una giraffa a cui viene misurata l’altezza e una piccola civetta su una bilancia. Ma anche molti fenicotteri allo zoo di Berlino e ancora più leoni marini su una spiaggia californiana. LEGGI TUTTO

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    Una decisione molto difficile per la NASA

    Caricamento playerLo scorso 5 giugno due astronauti della NASA sono partiti verso la Stazione Spaziale Internazionale (ISS) per una missione che sarebbe dovuta durare poco più di una settimana: nonostante di giorni ne siano passati quasi 80, non sono ancora tornati sulla Terra.
    Starliner, la capsula di Boeing che li aveva trasportati oltre l’atmosfera terrestre, ha avuto alcuni problemi tecnici e da più di due mesi la NASA si chiede se sia sicura a sufficienza per riportare indietro i suoi due astronauti. Dopo numerosi rinvii e tentennamenti, in una riunione in programma per sabato 24 agosto i responsabili dell’agenzia spaziale dovranno concordare un piano di recupero: una delle decisioni più difficili sulla sicurezza dei sistemi di trasporto per astronauti dal tempo degli Shuttle.
    Il lancio di Starliner a inizio giugno era andato secondo i piani, ma prima che la capsula raggiungesse la ISS erano emersi problemi ai sistemi di manovra. Cinque dei 28 propulsori utilizzati per orientare la capsula e regolare la sua rotta avevano smesso di funzionare, richiedendo alcune attività aggiuntive per rendere possibile l’attracco con la Stazione a circa 400 chilometri di altitudine.
    Per Starliner era il primo volo con astronauti a bordo – Butch Wilmore e Suni Williams – dopo anni di prove e ritardi sulle consegne costati finora a Boeing e alla NASA circa 6,7 miliardi di dollari. Il test, che formalmente è ancora in corso, era fondamentale per dimostrare l’affidabilità e la sicurezza di Starliner nell’ambito del programma della NASA per affidare i viaggi verso la ISS ai privati, come già fatto in precedenza e con successo con SpaceX, la società spaziale di Elon Musk.
    Dopo l’arrivo di Wilmore e Williams sulla ISS, i tecnici avevano provato a capire le cause del malfunzionamento dei propulsori. Per farlo, avevano effettuato alcuni test qui sulla Terra identificando un potenziale problema nella parte in Teflon (il materiale plastico che rende antiaderenti le padelle) delle valvole dei propulsori, che al passaggio del propellente si era deformata lievemente impedendo al propellente stesso di fluire nelle giuste quantità. Analisi svolte in seguito hanno però portato a mettere in dubbio quelle valutazioni: il Teflon una volta deformato difficilmente recupera la forma iniziale, eppure test svolti in orbita hanno mostrato che ora i propulsori sembrano funzionare normalmente. Il sospetto è che sia qualcos’altro che occlude temporaneamente le valvole e che il problema possa ripresentarsi nelle fasi di rientro di Starliner, con esiti che potrebbero essere catastrofici nel caso in cui un propulsore otturato causasse un’esplosione.
    Le incertezze sulle effettive cause del malfunzionamento dei propulsori hanno portato a un lungo confronto tra i tecnici di Boeing e della NASA, che continua ancora oggi e che ha determinato la prolungata permanenza di Williams e Wilmore sulla ISS. Sulla Stazione ci sono risorse più che sufficienti per provvedere ai due ospiti aggiuntivi, ma se dovessero rimanere ancora a lungo ci potrebbero essere conseguenze su altre missioni, perché i posti sulla ISS sono comunque limitati.
    Gli astronauti della NASA Butch Wilmore e Suni Williams a bordo della Stazione Spaziale Internazionale (NASA via AP)
    Alcune conseguenze sulle attività in orbita ci sono del resto già state. Nelle settimane dopo il lancio di Starliner, la NASA ha rinviato di almeno un mese il lancio della prossima missione con astronauti verso la ISS e gestita da SpaceX. La partenza non avverrà prima del 24 settembre, ma i tempi sono comunque stretti: SpaceX deve sapere a breve se dovrà inviare quattro astronauti come inizialmente previsto o solamente due, in modo da poter accogliere nel viaggio di ritorno Williams e Wilmore. La necessità di saperlo con un certo anticipo deriva dai tempi che occorrono per configurare la capsula da trasporto Crew Dragon in base al numero di occupanti. La NASA dovrà quindi decidere che cosa fare entro pochi giorni e non sarà una scelta semplice.
    Nel caso in cui la decisione sia di non far rientrare Williams e Wilmore con Starliner, i due astronauti dovranno rimanere sulla ISS fino al prossimo febbraio, quando potranno effettuare il viaggio di ritorno con una capsula Crew Dragon. In questo scenario Williams e Wilmore rimarrebbero quindi a bordo della Stazione per otto mesi, una notevole estensione per una missione che sarebbe dovuta durare otto giorni. Prima dell’arrivo di Crew Dragon a fine settembre, Starliner dovrà comunque lasciare la ISS in modo da liberare lo spazio di attracco per la capsula di SpaceX. Starliner dovrebbe quindi essere configurata per effettuare un rientro in automatico sulla Terra, senza equipaggio a bordo, altra attività che richiede tempo e che rende necessaria al più presto una decisione da parte della NASA.
    La scelta finale dovrebbe spettare a Kenneth Bowersox, a capo della divisione dell’agenzia spaziale che si occupa delle operazioni di volo. Ex astronauta, nel 2003 Bowersox si trovava sulla Stazione Spaziale Internazionale quando avvenne il disastro dello Space Shuttle Columbia, che si disintegrò al proprio rientro nell’atmosfera terrestre determinando la morte delle sette persone a bordo, come ha ricordato Stephen Clark su Ars Technica. All’epoca erano stati sottostimati i danni causati allo scudo termico dello Shuttle da un detrito nella fase di lancio, una sottovalutazione che influì fortemente sul programma spaziale statunitense e sui criteri di sicurezza adottati dalla NASA da allora.
    Lo Space Shuttle Columbia si disintegra durante il rientro nell’atmosfera terrestre, 1 febbraio 2003 (Mario Tama/Getty Images)
    Bowersox deciderà basandosi sulle informazioni e sui pareri forniti dai gruppi di lavoro che si occupano della revisione dei voli spaziali, della sicurezza, delle missioni spaziali e si consulterà anche con i rappresentanti degli astronauti. Nel caso in cui dovessero emergere pareri discordanti, la decisione finale potrebbe essere affidata a Bill Nelson, l’amministratore della NASA (a sua volta ex astronauta). Lo stesso Nelson di recente ha cercato a suo modo di rassicurare sul processo decisionale: «Sono fiducioso, soprattutto perché spetta a me la decisione finale».
    Le persone che insieme a Bowersox dovranno decidere che cosa fare lavoravano già tutte alla NASA ai tempi del disastro del Columbia, cosa che secondo diversi esperti influirà sulle scelte dei prossimi giorni. I responsabili di Starliner, che dipendono da Boeing e con forti interessi nella decisione, hanno mostrato di essere un poco più propensi al rischio, ribadendo comunque che la sicurezza degli astronauti è prioritaria e che la scelta finale spetta ai responsabili della NASA.
    L’attuale direttore di missione di Starliner per conto di Boeing, LeRoy Cain, era direttore di volo quando il Columbia si disintegrò nel corso del suo rientro nell’atmosfera. All’epoca lavorava nel centro di controllo del Johnson Space Center della NASA e assistette in tempo reale all’incidente, ricevendo aggiornamenti sui sensori dello Shuttle che stavano rilevando vari cedimenti strutturali nella sua ala sinistra, che avrebbero poi portato alla distruzione dell’astronave. Ancora prima del lancio di Starliner, quando erano emersi altri problemi tecnici, Cain aveva promesso di non far partire la capsula fino a quando non fosse stata pronta.
    Proprio per il coinvolgimento di persone come Bowersox e Cain, nelle ultime settimane sono stati effettuati numerosi paralleli tra Columbia e Starliner, anche se le due astronavi hanno caratteristiche e storie molto diverse. Nel 2003 i danni effettivamente subiti dal Columbia al lancio non erano completamente chiari e, con le conoscenze dell’epoca, l’astronave sembrava avere tutti i requisiti per effettuare un rientro; non c’erano inoltre molte alternative e possibilità di studiare piani di recupero degli astronauti con altri mezzi. I problemi di Starliner sono invece ampiamente noti e si aggiungono a quelli emersi nella lunga fase di sviluppo, che ha richiesto molti più anni del previsto.
    Il lancio di Starliner sulla sommità di un razzo Atlas V il 5 giugno 2024 da Cape Canaveral, Florida, Stati Uniti (AP Photo/Chris O’Meara)
    La maggiore frequenza dei lanci spaziali con astronauti necessaria per gli avvicendamenti degli equipaggi sulla ISS hanno portato in questi anni a una percezione delle attività spaziali routinaria, al punto da essere per alcuni quasi scontato il fatto che ci siano esseri umani che superano l’atmosfera terrestre e vivono per alcuni mesi in orbita. In realtà raggiungere l’orbita è ancora oggi una delle attività più rischiose che si possano fare: gli astronauti e le astronaute ne sono consapevoli e sanno che i rischi fanno parte del loro mestiere e che le agenzie spaziali fanno il possibile per ridurli.
    Questo spiega le grandi precauzioni e i frequenti rinvii dei lanci spaziali con equipaggi, ma anche le cautele che la NASA sta mantenendo su Starliner, nonostante i ritardi e la prospettiva di dover rivedere alcuni piani non solo nel breve, ma anche nel lungo periodo.
    Se Starliner dovesse tornare sulla Terra senza equipaggio, potrebbe rendersi necessario un nuovo volo sperimentale per certificare la capsula spaziale per le missioni con esseri umani. I tempi si allungherebbero ulteriormente e Boeing potrebbe non essere in grado di garantire i sei lanci previsti da contratto entro il 2030, anno in cui la ISS smetterà di essere utilizzata. Per Boeing sarebbe inoltre un ulteriore danno di immagine, dopo quelli legati ai problemi di sicurezza emersi con alcuni dei propri aeroplani negli anni scorsi e che hanno fatto mettere in dubbio in generale l’affidabilità dell’azienda in termini di sicurezza.
    A prescindere dalla scelta di sabato della NASA, Boeing ha comunque perso la propria corsa allo Spazio con SpaceX. Dopo il pensionamento degli Shuttle nel 2011, nel 2014 la NASA affidò alle due aziende il compito di trasportare gli equipaggi in orbita, con un finanziamento di 2,6 miliardi di dollari per SpaceX e di 4,2 miliardi di dollari per Boeing. Mentre quest’ultima non ha ancora completato un volo di test, SpaceX in quattro anni ha inviato 11 equipaggi verso la ISS e si prepara per la dodicesima missione. LEGGI TUTTO