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Il 2024 è stato dichiarato , dopo che appena un anno fa lo stesso primato era stato attribuito al 2023. La temperatura media globale continua ad aumentare, con più anomalie del previsto che stanno portando i gruppi di ricerca a chiedersi se ci sia qualcosa da rivedere nei complessi modelli scientifici utilizzati per fare previsioni sul cambiamento climatico. Buona parte della scienza intorno al riscaldamento globale dipende non solo dal modo in cui sono fatti quei modelli, ma anche da come sono aggiornati e gestiti per avere proiezioni coerenti su fenomeni per loro natura caotici e difficili da prevedere.
Se oggi possiamo simulare gli andamenti e fare previsioni sul clima è soprattutto merito di un’intuizione che ebbe il meteorologo statunitense nella seconda metà degli anni Cinquanta. Phillips si era appassionato allo studio dei fenomeni che avvengono nell’atmosfera mentre era alle Azzorre, dove effettuava rilevazioni e previsioni per conto delle forze Alleate nel corso della Seconda guerra mondiale. In seguito si era interessato alle opportunità di calcolo offerte dai primi computer e ne aveva ipotizzato l’utilizzo per descrivere matematicamente ciò che avviene stagionalmente nell’atmosfera. Nel 1956 pubblicò uno dove esponeva il proprio modello matematico, dimostrando la possibilità di calcolare e prevedere eventi meteorologici (quindi nel breve periodo) e andamenti climatici di lungo periodo.
Prima di Phillips appariva improbabile applicare modelli scientifici per lo studio su larga scala dei fenomeni atmosferici, a causa della loro complessità e variabilità. Sviluppare un modello, infatti, significa identificare le relazioni che determinano un fenomeno e applicare equazioni matematiche per spiegare il funzionamento del sistema. Si parte dalla raccolta di dati sul fenomeno per comprendere le interazioni che avvengono tra le varie parti del sistema, se ne derivano delle informazioni e infine si utilizzano queste per fare proiezioni su cosa potrebbe accadere al variare di alcune condizioni. Se quelle variazioni sono riferite a possibili scenari futuri, si possono fare previsioni su ciò che potrà accadere o per lo meno su quali scenari si verificheranno con maggiore probabilità.
Un modello matematico può partire da un fenomeno estremamente semplice, come la caduta di una mela sulla testa di uno scienziato inglese seduto sotto un albero, derivando poi da questo evento informazioni più generali sul moto dei pianeti. I modelli partono dalle condizioni iniziali del sistema, prendono poi in considerazione gli eventi che modificano quella condizione di partenza e le interazioni all’interno del sistema, portando infine a un esito di un certo tipo.
I modelli climatici, o ), tengono in considerazione tanti fattori come la quantità di specifici gas presenti nell’atmosfera, a partire dall’anidride carbonica, il vapore acqueo, il calore proveniente dal Sole e quello disperso dalla Terra, la rotazione del nostro pianeta e la temperatura dei mari, solo per citarne alcuni. I dati raccolti vengono impiegati per calcolare come specifici fenomeni interagiscono tra loro, con effetti sul suolo, sugli oceani e naturalmente sull’aria che abbiamo intorno.
Proprio come aveva intuito Phillips quasi 70 anni fa, i dei giorni nostri sono complessi programmi per computer contenenti centinaia di migliaia di righe di codice. Il loro sviluppo tiene impegnati grandi gruppi di ricerca, che partono da dati reali per riprodurre in una simulazione informatica ciò che avviene nella realtà. Verificano che questa sia il più possibile corrispondente alla realtà e la usano poi per cambiare alcuni parametri, per vedere come reagirebbe il sistema per esempio all’aumentare della temperatura a livello globale o locale.
Anche se ci sono alcune somiglianze, un modello climatico funziona su tempi più lunghi rispetto a un modello utilizzato per le normali previsioni del meteo. In altre parole, i modelli climatici non possono dire se domani pioverà a Bologna, ma possono invece prevedere con un buon margine di errore che tra vent’anni in quella zona la temperatura sarà mediamente più alta rispetto a oggi.
I modelli climatici si occupano delle interazioni tra quattro componenti fondamentali del nostro pianeta: il suolo, l’atmosfera, gli oceani e il ghiaccio marino. I dati che vengono raccolti e su cui si basa il loro funzionamento sono soprattutto la temperatura dell’aria, la pressione atmosferica, l’umidità dell’aria e la forza dei venti.
La complessità di ciò che avviene in ogni istante sulla Terra rende molto difficile la rappresentazione di questi fenomeni in un modello. Per quanto dallo Spazio ci appaia come una palla relativamente uniforme e omogenea, il pianeta reagisce in modo diverso alle sollecitazioni e ai fenomeni a seconda delle zone. Le terre si scaldano e si raffreddano più velocemente rispetto agli oceani per esempio, così come alcuni fenomeni atmosferici sono più marcati ai poli o all’equatore. Insomma, aree diverse hanno climi diversi e questo deve essere tenuto in considerazione se si vuole capire come stanno cambiando le condizioni climatiche in una certa zona.
Per rispondere a questa esigenza, i modelli climatici dividono la Terra in una grande griglia tridimensionale, fatta di cubi che coprono una certa porzione della superficie del pianeta e che si spingono in altezza sia negli strati atmosferici sia in quelli al di sotto della superficie del mare. Nei modelli più recenti questi cubi sono di circa 4,6 chilometri per lato (occupano quindi un volume di 100 chilometri cubi), ma ce ne possono essere di altre dimensioni e con maggiori o minori possibilità di impilarne più di uno sopra l’altro, producendo griglie tridimensionali più elaborate.
Come per le tesserine di un mosaico, più i cubi sono piccoli e maggiore è la risoluzione e quindi la possibilità di vedere gli effetti dei cambiamenti climatici su un’area specifica. I primi modelli avevano una risoluzione di 500 chilometri cubi ed era quindi difficile fare proiezioni significative a livello regionale. La minore risoluzione era in parte dovuta alla capacità di calcolo dei computer qualche decennio fa, decisamente inferiore rispetto all’attuale: più si riducono le dimensioni dei cubi, più la griglia diventa fitta e aumentano i dati che il sistema deve prendere in considerazione e gestire.
Avere raggiunto i 100 chilometri cubi di risoluzione è stato un importante progresso, ma per molte analisi sono necessarie proiezioni climatiche su scale più piccole e locali. In questo caso si effettua una riduzione di scala, o “” del modello: lo si può fare in modo dinamico, partendo dai risultati globali e usandoli come punti di partenza per modelli più piccoli con maggiori dati sulle caratteristiche locali (la presenza di alture, masse d’acqua, ecc), oppure si può effettuare un downscaling statistico utilizzando gli andamenti su larga scala per calcolare i loro effetti localmente. Entrambi gli approcci servono per rendere più dettagliati i modelli climatici su base locale, ma non intervengono necessariamente sulla loro accuratezza.
Nello studio del riscaldamento globale i modelli sono importanti, sia per simulare con una certa approssimazione scenari futuri sia per valutare gli sviluppi più recenti di certi fenomeni rispetto a ciò che ci si attendeva. In una simulazione si possono per esempio aumentare i livelli di emissioni di anidride carbonica (il principale gas serra, che immettiamo in enormi quantità bruciando combustibili fossili) per vedere come questi influiscono sui fenomeni che regolano il clima.
Dai modelli si possono ottenere proiezioni sulle caratteristiche dei vari strati dell’atmosfera, sulla variazione della temperatura, sulle piogge e sull’umidità. I risultati prodotti dai modelli possono essere impiegati a loro volta per comprendere che cosa può accadere alle foreste, alle calotte polari, alle aree costiere esposte all’innalzamento dei mari o ancora ai campi dedicati alle attività agricole.
Per quanto sempre più accurati, i modelli climatici (come molti altri modelli scientifici che descrivono fenomeni complessi) mantengono un certo livello di incertezza. Molti dei processi che avvengono nell’atmosfera, come negli oceani o al suolo sono caotici, cioè piccolissime modifiche nelle condizioni iniziali possono portare a grandi variazioni negli effetti finali, e con gli attuali sistemi è impossibile modellarli. È un limite noto e con cui si confrontano costantemente i gruppi di ricerca, chiedendosi quali sistemi adottare per ridurre il più possibile l’incertezza e avere simulazioni più affidabili.
Il confronto sulla qualità dei modelli può diventare molto acceso, soprattutto nei periodi in cui i dati via via raccolti si discostano da quanto era stato proiettato con le simulazioni. Da qualche anno se ne ancora di più perché alcune analisi hanno segnalato un’accelerazione del riscaldamento globale, che non trova spiegazioni nei modelli climatici. Intorno a questa non c’è ancora un consenso scientifico (che è basato naturalmente sulle ricerche e sui dati, non sulle opinioni di chi se ne occupa), e per questo sono in corso analisi e ipotesi di revisione dei modelli più condivisi.
Per ridurre, o per lo meno gestire, l’incertezza i gruppi di ricerca ricorrono a uno dei pilastri del metodo scientifico: la riproducibilità. Non esiste infatti un solo modello climatico, ma vari modelli sviluppati da istituzioni e centri di ricerca diversi, sia globali sia locali, a seconda delle necessità. I modelli utilizzano una lingua condivisa, cioè alcuni standard e approcci riconosciuti, in modo che i loro risultati siano confrontabili e che concorrano alla costruzione del consenso scientifico per avere proiezioni sul futuro che siano plausibili.
Il coordinamento tra chi fa ricerca, soprattutto grazie al lavoro del delle Nazioni Unite, ha permesso di ottenere nel tempo modelli accurati a sufficienza. Diversi studi hanno segnalato la loro affidabilità in retrospettiva, con una corrispondenza tra le simulazioni sul passato e come erano andate le cose, e anche nella previsione degli anni successivi alla loro elaborazione. Mettere alla prova i modelli con ciò che sappiamo già essere successo è del resto uno dei modi migliori per verificare la loro affidabilità nel fare previsioni.
Ci si aspetta che i modelli diventino ancora più affidabili grazie ai progressi nelle capacità di calcolo dei computer e alla crescente possibilità di raccogliere dati, sia grazie alle rilevazioni al suolo sia alle osservazioni dallo Spazio. La crescente quantità di satelliti portati in orbita per raccogliere dati sulla Terra ha permesso di estendere le conoscenze sullo stato di salute delle foreste, sulla temperatura degli oceani e sulla composizione dell’atmosfera, dove si accumulano i gas serra. Le opportunità offerte dai sistemi di intelligenza artificiale potrebbero portare a ulteriori progressi, soprattutto nella gestione della crescente quantità di dati sui quali costruire i nuovi modelli.
Migliori simulazioni saranno sempre più importanti per conoscere prima gli effetti del riscaldamento globale sul pianeta e di conseguenza sulle nostre esistenze, ma come ricordano spesso i climatologi le proiezioni non sono la soluzione, ma la presentazione di un problema. Dovrebbero poi essere i governi e le altre istituzioni a decidere le politiche per affrontare il cambiamento climatico e mitigarne gli effetti.