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    Cosa ci può dire il cranio di un Neanderthal con disabilità vissuto fino a sei anni

    Caricamento playerVissuti tra 600mila e 40mila anni fa (le stime sono dibattute), i Neanderthal furono l’ultima specie nota del genere Homo a convivere sul pianeta con la nostra (Homo Sapiens), per alcune decine di migliaia di anni. Tra le specie estinte di ominini è in assoluto la più conosciuta e studiata, da quando nel 1856 i primi fossili furono scoperti in una cava nella valle di Neander, in Germania.
    Il 26 giugno la rivista Science Advances ha pubblicato in un articolo i risultati di un’approfondita analisi condotta sul fossile di un Neanderthal da un gruppo di ricerca guidato dalla paleoantropologa spagnola Mercedes Conde-Valverde, insegnante dell’università di Alcalá, in Spagna. L’analisi del fossile, composto da parti del cranio di un individuo di circa sei anni di età, indicherebbe la presenza di una patologia congenita all’orecchio interno comunemente associata alla sindrome di Down e probabilmente debilitante al punto da richiedere le cure e le attenzioni di più adulti. Il fatto che l’individuo sia sopravvissuto fino ai sei anni, secondo le autrici e gli autori dello studio, proverebbe la diffusione di «comportamenti prosociali altamente adattivi» e di una stabile e disinteressata collaborazione di gruppo tra i Neanderthal.
    Sebbene siano stati immaginati, descritti e raffigurati per lungo tempo – e in parte lo siano ancora – come esseri rozzi e non civilizzati, i Neanderthal condividevano con i Sapiens molte caratteristiche. Alcune sono dibattute, come la capacità di costruire strumenti musicali e dipingere, ma molte altre sono assodate, come la sepoltura dei morti, l’uso di strumenti in pietra e indumenti, e del fuoco per cuocere il cibo, scaldarsi e difendersi dai predatori. Diversi studi pubblicati negli ultimi decenni, che hanno contribuito a rivedere precedenti valutazioni del divario socioculturale con i Sapiens, hanno inoltre suggerito che i Neanderthal collaborassero abitualmente e si prendessero cura gli uni degli altri.
    L’idea che fossero anche capaci di provare compassione è dibattuta da tempo, perché diversi studiosi sostengono che la collaborazione avvenisse tra individui in grado di ricambiare il favore, o in ogni caso con fini utilitaristici e con l’aspettativa di un beneficio reciproco, più che per benevolenza. Lo studio pubblicato su Science Advances, secondo il gruppo di ricerca guidato da Conde-Valverde, accresce tuttavia le prove a sostegno dell’esistenza di un sentimento di altruismo disinteressato tra i Neanderthal, esteso oltre la cerchia di familiari più stretti dell’individuo con la disabilità congenita.

    – Leggi anche: Di sicuro i Neanderthal non erano grandi conversatori, ma forse si parlavano

    Il fossile della ricerca uscita su Science Advances, codificato con la sigla CN-46700, è composto dal frammento di un osso temporale destro (la parte laterale inferiore della scatola cranica) e fa parte di un insieme di resti scoperti nel 1989 nel sito archeologico della caverna di Cova Negra nella provincia di Valencia, in Spagna, un’area occupata dai Neanderthal tra 273mila e 146mila anni fa. Per costruire un modello tridimensionale dell’osso completo il gruppo di ricerca ha utilizzato delle microtomografie computerizzate ai raggi X, una tecnica che permette, come le TAC, di ottenere sezioni trasversali di un oggetto fisico senza bisogno di distruggerlo.
    La ricostruzione di un individuo adulto esposta nel museo dei Neanderthal a Mettmann, in Germania (AP Photo/Martin Meissner)
    L’analisi ha mostrato che l’osso apparteneva a un individuo che aveva poco più di sei anni, soprannominato “Tina” dal gruppo di ricerca, sebbene non sia possibile stabilirne il genere. L’osso temporale è una struttura di grande importanza perché contiene e protegge la coclea e altri organi responsabili non soltanto dell’udito ma anche dell’equilibrio. Una serie di anomalie morfologiche riscontrate nel fossile, in attesa di un eventuale futuro esame del DNA che permetta di confermare un’anomalia cromosomica, suggerisce che Tina presentasse deficit invalidanti di vario tipo e critici per la sopravvivenza, tra cui deficit cognitivi, una ridotta capacità di suzione e una mancanza di coordinazione motoria e di equilibrio.
    Considerando lo stile di vita impegnativo e l’intensa mobilità dei Neanderthal, scrive il gruppo di ricerca, è difficile immaginare che la madre di Tina sarebbe stata in grado di fornirle da sola le cure necessarie e nel frattempo svolgere per un periodo di tempo prolungato le normali attività quotidiane tipiche dei gruppi di cacciatori-raccoglitori. È molto più probabile che abbia ricevuto continuamente aiuto da altri membri del gruppo sociale di cui lei e sua figlia facevano parte. «È la spiegazione più semplice per il fatto sorprendente che un individuo con sindrome di Down sia sopravvissuto per almeno sei anni in epoca preistorica», ha detto Conde-Valverde al Washington Post.
    I risultati delle analisi condotte su altri fossili in precedenti studi avevano già sostenuto l’ipotesi che i Neanderthal si prendessero cura dei membri fragili e vulnerabili del gruppo. Una ricerca pubblicata nel 2018 da un gruppo di archeologi e antropologi della University of York, nel Regno Unito, e della Australian National University, a Canberra, analizzò diversi fossili di individui con lesioni traumatiche guarite. Il gruppo concluse che le cure mediche e l’assistenza sanitaria tra i Neanderthal fossero pratiche abituali diffuse, non distintamente diverse da quelle tipiche di contesti sociali successivi, e probabilmente motivate dall’investimento nel benessere dei membri del gruppo.

    – Leggi anche: I modi in cui abbiamo disegnato i Neanderthal dicono più cose di noi che di loro

    Un esempio noto e molto citato di assistenza e collaborazione tra i Neanderthal è uno dei fossili scoperti alla fine degli anni Cinquanta nella grotta Shanidar, nel Kurdistan iracheno, e denominato Shanidar 1. È composto dai resti di un individuo con segni di deformazioni degli arti associate a gravi lesioni traumatiche al cranio subite in giovane età e poi guarite, che probabilmente avevano provocato problemi di vista e di udito. Le analisi del fossile mostrarono che l’individuo era sopravvissuto fino all’età di circa 40 anni: un periodo di tempo che diversi ricercatori si spiegano soltanto ammettendo l’assistenza e le cure consapevoli da parte di un gruppo sociale.
    Conde-Valverde ha spiegato alla rivista Science che la scoperta della probabile disabilità dell’individuo ricostruito a partire dal fossile CN-46700 è importante «perché finora nel dibattito sull’assistenza tra i Neanderthal avevamo soltanto individui adulti». L’ipotesi formulata per spiegare la sopravvivenza di Tina fino ai sei anni dimostrerebbe che il valore attribuito dai Neanderthal agli individui fosse esteso ai membri di ogni fascia d’età. Suggerisce inoltre che l’accudimento e la genitorialità collaborativa facessero parte di un complesso adattamento sociale molto simile a quello dei Sapiens, e con origini probabilmente molto antiche all’interno del genere Homo.
    Altri studiosi sostengono che la compassione e l’altruismo incondizionato dei Neanderthal non siano deducibili con certezza sulla base delle analisi dei fossili. Analisi simili svolte in passato su resti scoperti in tre diversi siti nell’Europa del Nord hanno permesso tra l’altro di ricavare prove di cannibalismo tra i Neanderthal, come concluso in uno studio nel 2016. Il che non è comunque incompatibile con l’ipotesi della solidarietà e dell’assistenza abituale agli individui vulnerabili, dal momento che non esistono prove che il cannibalismo fosse una pratica comune (è più probabile che fosse associato, come del resto anche nella storia umana, a periodi di estrema scarsità di cibo).
    L’archeologa spagnola Sofia C. Samper Carro, insegnante all’Australian National University ed esperta di comportamento dei Neanderthal, ha detto al Washington Post che in generale il legame tra le lesioni o le patologie e le relazioni di assistenza tra gli individui è difficile da dimostrare negli studi sui fossili. Ma ha aggiunto che lo studio pubblicato su Science Advances fornisce prove sufficienti per dimostrare un chiaro legame tra una disabilità infantile e un impegno nelle cure da parte di individui adulti.
    Anche se probabilmente non saremo in grado di dimostrare inequivocabilmente che i Neanderthal avessero questa capacità, «studi come questo sono certamente un passo avanti nella giusta direzione per demistificare la nostra unicità e il presunto comportamento meno “umano” dei Neanderthal», ha detto Samper Carro. More

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    Weekly Beasts

    Qualche anno fa in Sudafrica è stato avviato un progetto sperimentale che prevede di iniettare un materiale radioattivo nei corni dei rinoceronti, che consentirebbe di individuare più facilmente le parti di corno che vengono asportate dagli animali e trafficate illegalmente (rilevandole in appositi sensori installati ad esempio negli aeroporti ai confini nazionali), nella speranza di limitare il fenomeno. Tra le foto di animali della settimana c’è un rinoceronte nella zona del Limpopo a cui è stato appena effettuato il procedimento. Poi orsi che fanno la doccia – questi sono in uno zoo, ma sapreste cosa fare se ne incontraste uno? –, il salto di una megattera, due procioni che si fanno cercare, un cane brutto e uno famoso sui social network. More

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    Cosa fare se si incontra un orso

    Caricamento playerSi stima che in Italia ci siano circa 139 orsi liberi: 98 orsi bruni in Trentino e 41 orsi bruni marsicani tra Abruzzo, Lazio e Molise. Dato che i boschi in cui vivono sono attraversati da strade e confinano con paesi, case e altre strutture usate dalle persone, e visto che possono essere frequentati da escursionisti, capita ogni tanto che qualcuno incontri un orso. Nella maggior parte dei casi noti non ci sono state conseguenze negative per le persone, ma nel 2023 per la prima volta c’è stata un’aggressione mortale in Trentino.
    Per evitare ogni forma di scontro con gli orsi sia la provincia autonoma di Trento che il Parco nazionale d’Abruzzo, Lazio e Molise danno una serie di raccomandazioni su cosa fare in caso di incontri con uno o più orsi, disponibili online e riportate su cartelli e altro materiale informativo nel territorio in cui gli orsi possono trovarsi. In Trentino sono in corso di installazione più di 680 nuovi cartelli che segnalano la possibile presenza di orsi in aree frequentate dagli escursionisti e circa 80 cartelli che riportano tutte le principali norme di comportamento. Sono anche state stampate 150mila brochure da distribuire per informare residenti e turisti.
    Le “regole di coesistenza” della provincia di Trento, su cui si basano le indicazioni in questo articolo, sono validate dall’International Association for Bear Research and Management (IBA), una ong di esperti di orsi di 45 paesi del mondo.
    PremesseLa premessa fondamentale è che salvo eccezioni gli orsi bruni europei, che sono animali onnivori ma mangiano prevalentemente vegetali, temono le persone e tendono a evitarle. Possono però comportarsi in modo aggressivo se percepiscono una minaccia per sé o per i propri piccoli, nel caso delle orse. Per questo gli incontri a distanza ravvicinata, che possono spaventare gli orsi, devono essere evitati. Quando si passeggia in montagna in zone dove vivono gli orsi è una buona precauzione parlare a voce alta o fare altri rumori per segnalare la propria presenza: sentendo dei rumori un eventuale orso nelle vicinanze si allontanerà spontaneamente.
    Un’altra buona abitudine è spostarsi in gruppi di persone, che sono più rumorosi (e odorosi): per gli animali è più facile notarli e tenersene alla larga. Per chi fa delle escursioni insieme a uno o più cani, è fondamentale tenerli legati al guinzaglio, per evitare che possano avvicinarsi a un orso e poi spingerlo ad avvicinarsi.
    Le interazioni tra una persona e un orso sono comunque rare in Italia e nella maggior parte dei casi l’orso si dimostra indifferente o si allontana. L’ultimo Rapporto Grandi Carnivori della provincia di Trento dice che dal 2008 al 2023 sono state registrate 213 «interazioni uomo-orso»: nel 71 per cento dei casi l’orso si è allontanato o si è mostrato indifferente; nel restante 29 per cento dei casi (62 episodi in 15 anni) ha avuto un comportamento aggressivo. Sempre secondo la provincia il numero di interazioni in cui l’orso si allontana spontaneamente è probabilmente maggiore: in questi casi spesso si ritiene superfluo segnalare gli incontri alle autorità. Anche tra i comportamenti aggressivi comunque rientrano cose diverse: solo nel 10 per cento dei casi di comportamenti aggressivi gli orsi hanno inseguito le persone e solo nel 13 per cento dei casi di comportamenti aggressivi c’è stato un contatto fisico.
    Cosa fare in caso di incontro con un orso1. Se l’orso non ci ha visti, torniamo silenziosamente e lentamente sui nostri passi, senza perderlo di vista. Se l’orso è un piccolo, è probabile che nelle vicinanze ci sia la madre, quindi bisogna fare maggiore attenzione. Non bisogna avvicinarsi, né gridare per chiamare qualcun altro o fermarsi per fotografare l’orso.
    2. Se l’orso nota la nostra presenza e si allontana (è il caso più comune), aspettiamo prima di proseguire sul nostro cammino, evitando di muoverci nella sua stessa direzione. Non bisogna seguirlo (nemmeno in automobile).
    3. Se l’orso nota la nostra presenza e si alza sulle zampe posteriori, rimaniamo fermi e parliamo con tono di voce calmo. Gli orsi non si alzano sulle zampe posteriori per aggredire, ma per capire meglio cos’hanno davanti: il loro senso della vista non è particolarmente sviluppato, a differenza dell’olfatto, e alzandosi hanno una percezione migliore di ciò che li circonda.
    Uno dei cartelli che spiegano cosa fare in caso di incontro con un orso installati in Trentino nel giugno del 2024 (Ufficio stampa della Provincia autonoma di Trento)
    4. Se l’orso resta fermo, allontaniamoci lentamente, senza correre e senza perdere di vista l’animale, parlando sempre con tono di voce calmo. Non ha senso rifugiarsi su un albero perché gli orsi sono molto abili ad arrampicarsi.
    5. Se l’orso ci segue mentre ci stiamo allontanando, continuiamo a retrocedere lentamente senza voltargli le spalle, parlando con tono calmo.
    6. Se l’orso mostra segni di aggressività attraverso vocalizzi, soffi o zampate a terra, vuole farci allontanare. Anche in questo caso retrocediamo lentamente senza perdere di vista l’animale, senza correre.
    7. Se però l’orso ha un atteggiamento aggressivo e si avvicina, anche correndo, restiamo fermi, senza gridare.
    8. Se avviene un attacco con contatto fisico (un’eventualità molto rara), stendiamoci al suolo a faccia in giù, con le dita delle mani intrecciate dietro il collo e le braccia a proteggere la testa, restando immobili finché l’orso interrompe l’azione e si allontana. Non gridiamo e non tentiamo di colpire l’orso. Se indossiamo uno zaino, non tentiamo di liberarcene, potrebbe essere utile per proteggersi.
    9. La provincia di Trento raccomanda di avvisare le autorità dell’incontro con l’orso appena possibile, chiamando il numero di emergenza 112.
    Le raccomandazioni cambiano con altri orsi?In Nord America vivono orsi diversi da quelli europei, gli orsi neri (Ursus americanus) e varie sottospecie di orsi bruni, tra cui la più numerosa è quella dei grizzly (Ursus arctos horribilis). Il National Park Service degli Stati Uniti raccomanda di chiedere istruzioni su come comportarsi in caso di incontro con un orso alle autorità del parco che si sta visitando, perché i comportamenti degli orsi possono variare in base al territorio. In linea generale dà indicazioni analoghe a quelle italiane.
    L’unica differenza rilevante riguarda l’atteggiamento da tenere nel raro caso in cui si sia attaccati da un orso nero, la specie di dimensioni minori e più diffusa negli Stati Uniti: non bisogna sdraiarsi a terra e fingersi morti ma tentare di scappare, o reagire all’attacco se non è possibile allontanarsi.

    – Leggi anche: L’uomo che sparò all’orsa Amarena è accusato di uccisione di animali aggravata dalla crudeltà More

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    Forse sull’isola di Pasqua non ci fu un “ecocidio”

    Caricamento playerL’isola di Pasqua (Rapa Nui), che si trova a circa 3.600 chilometri dalla costa del Cile nell’oceano Pacifico meridionale, è famosa per almeno due cose: i “moai”, i grandi busti in pietra alti fino a 10 metri che spuntano dal terreno, e la brutta fine che fece la popolazione che li costruì. Si ipotizza infatti che secoli fa gli isolani commisero un ecocidio: sfruttarono a fondo le risorse dell’isola, abbattendo tutti gli alberi ed esaurendo le risorse del suolo rendendolo poco fertile, al punto da patire carestie che li decimarono portando la popolazione da 25mila abitanti a poche migliaia.
    L’ipotesi è discussa da tempo, ma non tutti sono convinti e nel tempo sono stati pubblicati vari studi che provano a spiegare in modo diverso l’ascesa e il declino dell’isola di Pasqua. Una ricerca da poco pubblicata sulla rivista Science Advances, per esempio, ha segnalato che probabilmente gli isolani disponevano di meno terreni da coltivare rispetto a quanto ipotizzato in precedenza. Secondo il gruppo di ricerca la quantità di abitanti fu quindi sempre contenuta sull’isola e non ci fu mai un suo calo drastico dopo un certo periodo di tempo a causa di un consumo non sostenibile delle risorse dell’isola.
    Le popolazioni della Polinesia si stabilirono sull’isola di Pasqua circa mille anni fa, ma non ci sono molte testimonianze per ricostruire la loro storia nei primi secoli di vita sull’isola. Rapa Nui è di origine vulcanica e in poco tempo i nuovi arrivati si dovettero confrontare con le difficoltà nel coltivarla e sulla quantità ridotta di sorgenti di acqua dolce. Per avere una resa migliore dei campi, per lo meno per la coltivazione dei tuberi, gli abitanti perfezionarono una tecnica che si era già rivelata utile altrove: ricoprivano i campi con frammenti di pietre, in modo da mantenere il suolo più fresco di giorno e caldo di notte, favorendo l’accumulo dell’umidità necessaria per far crescere le piante.
    Nel diciottesimo secolo sull’isola di Pasqua arrivarono gli europei e vi trovarono una popolazione di circa 3mila persone, il primo dato affidabile sulla quantità di isolani. Partendo da quel censimento, alcuni studi conclusero che secoli prima dell’arrivo degli europei l’isola potesse avere avuto tra i 17mila e i 25mila abitanti. Per arrivare a quella stima, a lungo condivisa in ambiente accademico, era stato stimato che fino al 20 per cento dei terreni dell’isola di Pasqua fosse coltivabile, seppure con qualche difficoltà. Quelle stime avevano portato alcune ricerche a concludere che la popolazione fosse stata decimata prima dell’arrivo degli europei, forse a causa di un uso eccessivo del suolo per l’agricoltura.
    La nuova ricerca mette però in dubbio le stime sui terreni coltivabili dell’isola di Pasqua fatte in precedenza, segnalando come nei calcoli furono comprese zone coperte da frammenti di pietra che non erano però effettivamente usate come campi. Il gruppo di ricerca ha provato a censire i terreni analizzando varie immagini satellitari e mettendole a confronto con sistemi di intelligenza artificiale. Dalle analisi è emerso che solo un quinto dei terreni delle stime più conservative fatte in precedenza era effettivamente impiegato per l’agricoltura. Anche tenendo in considerazione altre risorse alimentari, derivanti dalla pesca e dalla caccia ad alcuni uccelli, sembra improbabile che sull’isola di Pasqua potessero vivere così tante persone come ipotizzato in precedenza.
    Mappa delle aree urbanizzate e agricole in relazione alla densità calcolata degli orti rocciosi (Science Advances)
    Dylan Davis, uno degli autori della ricerca, ha detto al Guardian: «Il nostro studio conferma che l’isola non avrebbe potuto sostenere più di qualche migliaio di persone. Di conseguenza, a differenza della versione sull’ecocidio, la popolazione presente all’arrivo degli europei non era ciò che restava della società di Rapa Nui, ma era più probabilmente la società al proprio picco, che viveva a un livello sostenibile per le risorse dell’isola».
    La nuova ricerca ha aggiunto elementi a una questione che viene dibattuta da tempo e sulla quale non c’è ancora un consenso scientifico. Secondo alcuni esperti lo studio ha sottostimato l’effettiva quantità di campi di cui potevano disporre gli abitanti dell’isola secoli fa, arrivando di conseguenza a una stima troppo conservativa della popolazione. Altri hanno segnalato come sia difficile fare una stima precisa sul numero di abitanti in una certa fase storica solo sulla base dei campi che si ritiene avessero utilizzato, visto che le tracce di quelli più antichi sono difficili da confermare.
    Dopo l’arrivo degli europei la popolazione dell’isola di Pasqua dovette affrontare molte difficoltà legate alla diffusione di malattie contro cui non era immune, che contribuirono a decimare la popolazione. Nella seconda metà dell’Ottocento molti abitanti furono deportati nell’ambito delle ricerche di nuovi schiavi da parte del Perù e ci furono poi grandi flussi migratori verso altre isole come Tahiti. Verso la fine dell’Ottocento a Rapa Nui viveva solo un centinaio di persone di discendenza polinesiana.
    L’isola di Pasqua fu annessa dal Cile nel 1888, ma solo nel 1966 gli abitanti dell’isola ottennero la cittadinanza cilena e maggiori garanzie di assistenza economica da parte del paese. Dal 2007 l’isola è un “territorio especial” con proprie autonomie e ha una popolazione complessiva di circa 7.800 persone. More

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    Che cosa sono OGM e TEA

    Caricamento playerLa distruzione di una piccola coltivazione sperimentale di riso ottenuto con “tecniche di evoluzione assistita” (TEA), avvenuta la settimana scorsa in provincia di Pavia, ha riportato una certa attenzione sui sistemi utilizzati in agricoltura per intervenire sul materiale genetico delle piante, seppure con qualche confusione. Nel corso degli anni sono state introdotte sigle e categorie per differenziare le nuove tecniche da quelle meno recenti, in un tentativo di mettere ordine e fare distinzioni soprattutto a livello legislativo per rendere possibile la sperimentazione e l’impiego di nuove soluzioni che nei prossimi anni avranno un forte impatto sulla produzione agricola.
    La sigla OGM, che sta per “organismi geneticamente modificati”, è sicuramente la più conosciuta e quella che viene più spesso in mente quando si pensa alle modifiche genetiche nelle coltivazioni. Eppure, l’umanità modifica praticamente da sempre le piante anche intervenendo sul loro materiale genetico. Lo ha fatto per millenni in modo inconsapevole, selezionando le varietà di piante più resistenti o che per esempio producevano più frutti, o che ancora si rivelavano più adatte a crescere in un determinato ambiente. In seguito, lo ha fatto in modo sempre più mirato, attuando incroci di vario tipo, e infine nel Novecento con interventi diretti sul DNA.
    Per diverso tempo si sono per esempio utilizzate sostanze chimiche e radiazioni, in modo da indurre mutazioni nel materiale genetico di certe piante selezionando poi quelle rese più produttive o resistenti. In seguito si è passati all’uso di manipolazioni per aumentare il numero dei cromosomi o per far fondere l’intero materiale genetico (il genoma) da più fonti.
    Le tecniche divennero via via più raffinate fino ai grandi progressi alla fine del Novecento, quando furono sviluppate tecniche di ingegneria genetica che consentono di intervenire sul DNA in modo estremamente mirato. I progressi furono tali da rendere necessaria una regolamentazione di queste tecniche, creando una nuova categoria: gli OGM. Nell’Unione Europea le regole furono formalizzate all’interno della Direttiva 2001/18/CE, soprattutto per quanto riguardava la diffusione nell’ambiente degli organismi geneticamente modificati.
    La direttiva indica formalmente come OGM i prodotti derivanti da una sola tecnica, che prevede di estrarre un pezzo di DNA da un genoma e di inserirlo in un altro (ci sono ulteriori complessità, spiegate estesamente qui). È quindi una definizione prettamente giuridica e non scientifica: ciò che oggi viene definito OGM potrebbe non esserlo domani e viceversa, a seconda di come si interviene sulla legge stessa.
    Al centro di quella definizione di OGM c’è una tecnica che consiste nell’inserire in un organismo un gene proveniente da un altro, più o meno distante sul piano evolutivo. Secondo la direttiva europea, chi vuole vendere prodotti transgenici deve offrire garanzie di sicurezza aggiuntive e deve segnalare nelle proprie etichette la presenza di OGM. All’epoca le regole sugli organismi geneticamente modificati fecero molto discutere, soprattutto a causa di una certa diffidenza nei confronti di coltivazioni contenenti “pezzi di DNA a loro estranei”, come venivano spesso definite da associazioni e attivisti contrari agli OGM. Il dibattito fu molto sentito in Italia e portò a recepire la direttiva europea in modo molto restrittivo vietando del tutto la coltivazione commerciale degli OGM e limitando fortemente la ricerca nel settore.
    In Italia non è formalmente vietato fare ricerca sugli OGM, perché questi possono essere sviluppati in laboratorio e possono essere poi sperimentati in serre isolate. È invece molto più difficile effettuare sperimentazioni in campo aperto, quindi alle condizioni in cui solitamente cresce una pianta esposta ai parassiti e alle intemperie, perché sono previste procedure molto complicate con numerose limitazioni. In circa venti anni nessun centro di ricerca italiano ha quindi potuto fare sperimentazione in campo di un certo rilievo, rendendo difficile lo sviluppo di nuovi filoni di ricerca per rendere per esempio le piante più resistenti a particolari parassiti senza dover ricorrere a grandi quantità di fitofarmaci.
    Negli ultimi vent’anni la ricerca a livello globale non si è però fermata e ha portato allo sviluppo di nuove tecniche di modifica del materiale genetico, ormai molto diverse da quella identificata dalla direttiva del 2001 che aveva portato alla definizione di OGM. I progressi più importanti sono stati raggiunti con lo sviluppo di CRISPR/Cas9, una tecnica di editing genomico che nel 2020 è valsa il Premio Nobel per la Chimica alle ricercatrici Jennifer Doudna ed Emmanuelle Charpentier, le due principali sviluppatrici del sistema.
    CRISPR/Cas9 è uno strumento molto versatile con grandi potenzialità in molti ambiti della medicina, in agricoltura e non solo. Il sistema dà la possibilità di intervenire con precisione su specifiche sezioni del DNA e di modificarle, con un taglia/copia e incolla simile a quello che si fa quando si scrive un documento su un software per comporre testi. In questo modo possono essere per esempio “spenti” specifici geni della pianta, senza dover attendere che ciò avvenga (ammesso che succeda) in natura in tempi molto più lunghi attraverso la selezione delle piante come abbiamo fatto per millenni.
    Oltre a CRISPR/Cas9 esistono diverse tecniche per ottenere questi risultati, alcune più esplorate di altre, che vengono generalmente ricondotte nella definizione di “nuove tecniche genomiche” con la sigla NGT. In Italia si è scelto di chiamarle “tecniche di evoluzione assistita”, cioè TEA, per evitare riferimenti diretti alla genetica che avrebbero potuto generare qualche confusione rispetto alla classica definizione di OGM. Si è ritenuto inoltre che in questo modo potesse essere evitato lo stigma che gli OGM si sono a lungo portati dietro a causa del dibattito molto polarizzato sul tema alla fine degli anni Novanta.
    TEA non è comunque una definizione scientifica, anche se probabilmente sarà via via utilizzata nelle ricerche scientifiche, e soprattutto a livello europeo si parla quasi sempre di NGT. E se ne sta parlando molto perché da più di un anno nell’Unione Europea si discute e ci si confronta sulla necessità di fare una revisione dei regolamenti finora adottati, visto che si devono regolamentare le nuove tecniche genomiche emerse nell’ultimo periodo.
    Lo scorso 7 febbraio il Parlamento europeo ha votato una proposta di revisione presentata dalla Commissione a luglio 2023 che, tra le altre cose, prevede che se il prodotto ottenuto con le NGT è indistinguibile da un prodotto presente anche “in natura” o con le precedenti tecniche di modifica genetica allora quel prodotto rientra nel gruppo NGT di tipo 1 e non deve essere considerato un OGM. Nel caso in cui invece sia distinguibile, il prodotto ricade nel tipo 2 e viene classificato come OGM, soggetto quindi a tutte le verifiche e maggiori limitazioni previste dal 2001. La proposta è ancora in fase di discussione e potrebbe subire ulteriori modifiche prima di essere approvata.
    In Italia dalla scorso anno è consentita la sperimentazione in campo aperto a scopo di ricerca delle TEA, con una riduzione delle complicazioni rispetto a quanto era avvenuto in precedenza con gli OGM. Non è una liberalizzazione totale e incondizionata: devono comunque essere seguiti protocolli molto rigidi, con il rispetto di regole severe per evitare “contaminazioni” di piante vicine mentre è in corso la sperimentazione. È stato grazie a questa modifica delle regole che l’Università di Milano ha potuto avviare la sperimentazione in campo del “RIS8imo”, il riso le cui piantine sono state distrutte la scorsa settimana. Erano state ottenute con sistemi di editing genetico per renderle resistenti al brusone, un fungo che causa una grave malattia della pianta, riducendo in questo modo il ricorso a fitofarmaci.
    E quindi?È difficile stabilire un confine netto tra gli OGM e gli NTG/TEA, al di là delle definizioni giuridiche attuali e di quelle che dovrebbero essere adottate a breve. Ciò deriva dall’estrema varietà di risultati che si possono ottenere con NGT/TEA: in alcuni casi le differenze rispetto ai prodotti non modificati sono minime, mentre in altri possono essere molto marcate. Nel primo caso i prodotti sono pressoché identici a quelli ottenuti con i normali metodi di miglioramento genetico (selezione, incrocio, mutagenesi), nel secondo sono marcatamente diversi come potrebbe esserlo un prodotto ottenuto con le tecniche di modifica genetica usate in precedenza (cioè gli OGM transgenici). Le nuove regole in fase di approvazione sono orientate a dare maggior peso al risultato finale, più che alle tecniche realizzate per ottenerlo e che potranno ancora cambiare con i progressi nella ricerca. More

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    La missione spaziale cinese Chang’e 6 ha portato sulla Terra alcuni campioni di suolo lunare

    Poco dopo le 8 del mattino di martedì 25 giugno la missione lunare cinese senza equipaggio Chang’e 6 è tornata sulla Terra, portando con sé alcuni frammenti di suolo della Luna raccolti dal suo emisfero nascosto. La capsula contenente i campioni è atterrata nella Mongolia Interna, una regione autonoma della Cina, rallentata nella sua discesa da un paracadute. I campioni saranno ora recuperati e analizzati per verificare le caratteristiche del suolo lunare in un’area raramente esplorata. È la prima volta che del suolo della faccia nascosta della Luna viene trasportato sulla Terra.Operazioni di recupero della capsula spaziale contenente i campioni di suolo lunare (CNSA)
    Chang’e 6 è la sesta missione del Programma cinese per l’esplorazione lunare iniziato nel 2007 con Chang’e 1, la prima iniziativa per raggiungere l’orbita lunare. Chang’e è il nome della dea della Luna in diverse mitologie cinesi e, missione dopo missione, l’iniziativa ha permesso alla Cina di compiere grandi progressi nelle complicate attività per raggiungere il suolo lunare. L’obiettivo fu raggiunto una prima volta da Chang’e 3 nel 2013, rendendo la Cina il terzo paese nella storia a compiere un allunaggio controllato dopo gli Stati Uniti e la Russia ai tempi dell’Unione Sovietica. More

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    Cercasi pianta femmina per pianta maschio in via di estinzione

    Caricamento playerAnche le specie vegetali possono estinguersi e anche delle specie vegetali può succedere che sia rimasto un unico individuo sul pianeta. È il caso della cicas di Wood, un albero originario del Sudafrica, che è stato soprannominato “la pianta più sola nel mondo”. Ce ne sono circa 110 all’interno di giardini botanici di vari paesi, ma geneticamente si tratta della stessa pianta, che è stata propagata staccando steli dall’unica cicas di Wood trovata in natura finora. C’è però chi sta cercando di trovarne un’altra, e così evitare l’estinzione della specie, usando droni in volo sopra una foresta e un algoritmo per il riconoscimento delle immagini.
    La cicas di Wood dei Kew Gardens di Londra, nel Regno Unito, nel 2019; venne propagata dall’individuo trovato in Sudafrica nel 1899 (il Post)
    La cicas di Wood è, come suggerisce il nome, un tipo di cicas, un gruppo di specie di piante diverse. Apparentemente le cicas sono simili alle palme, ma in realtà sono molto distanti a livello evolutivo, e sono molto più antiche – esistevano già 270 milioni di anni fa, nel Mesozoico, detto anche “era delle cicas”. Sono piante dioiche, di cui cioè esistono individui femminili e individui maschili. La cicas di Wood di cui siamo a conoscenza è un individuo maschile, per questa ragione per preservare la specie non basterebbe trovare una cicas di Wood qualsiasi, ma un individuo femminile.
    Il nome scientifico della cicas di Wood è Encephalartos woodii: la specie deve il suo nome a John Medley Wood, un botanico sudafricano vissuto tra il 1827 e il 1915. Nel 1895 Wood trovò l’individuo di cicas a noi noto nella foresta di Ngoye, un’area boscosa nell’est del Sudafrica che attualmente ha un’estensione di 40 chilometri quadrati. Dal 1916 quell’albero si trova a Pretoria, in un’area recintata e protetta, dove è stato portato perché il dipartimento forestale del Sudafrica temeva che potesse essere distrutto.
    Dopo il 1895 vari esploratori hanno cercato altre cicas di Wood nella foresta di Ngoye, ma senza successo. La foresta però non è mai stata esplorata del tutto. Ispirato dalla “solitudine” della cicas di Wood maschio C-LAB, un collettivo di ricerca artistica che impiega metodi scientifici per i propri progetti, ha deciso di provare a cercare una femmina usando tecnologie contemporanee, a cominciare da droni e algoritmi.
    La cicas di Wood trovata da John Medley Wood nella foresta di Ngoye nel 1907 (James Wylie)
    Laura Cinti, ricercatrice dell’Università di Southampton e una dei fondatori di C-LAB, spiega che per il collettivo l’arte e la scienza sono «discipline interconnesse che possono ispirarsi a vicenda». «Nella nostra attività usiamo metodi sofisticati e materiali intricati, e lavoriamo a stretto contatto con scienziati ed esperti. Questa combinazione offre prospettive uniche sul modo con cui vediamo, capiamo e sperimentiamo il mondo», dice.
    Per provare a trovare la cicas di Wood femmina, all’inizio del 2024 C-LAB ha fatto volare dei droni su una piccola porzione della foresta di Ngoye, meno di un chilometro quadrato, raccogliendo più di 15mila fotografie. Tutte insieme le immagini formano una mappa molto dettagliata della porzione di foresta esaminata.
    Mosaico di immagini di cicas usate per addestrare l’algoritmo di C-LAB (Laura Cinti & Howard Boland © C-LAB)
    La mappa è poi stata fatta analizzare a un algoritmo per il riconoscimento delle immagini precedentemente “addestrato” a riconoscere le cicas usando sia fotografie reali di diverse cicas, sia immagini di diverse cicas di Wood prodotte con un software di intelligenza artificiale. L’idea è di ottenere un sistema informatico in grado di individuare altre cicas di Wood nella foresta di Ngoye grazie alle fotografie fatte dall’alto coi droni.
    Per ora non sono state trovate altre cicas, ma resta da esaminare ancora la stragrande maggioranza della foresta, e col procedere delle ricerche l’algoritmo di C-LAB dovrebbe migliorare le proprie prestazioni. Intanto il collettivo artistico sta avviando un’ulteriore ricerca per capire se utilizzando degli stimoli chimici o fisici si potrebbe far cambiare sesso a una delle cicas di Wood presenti nei giardini botanici. Infatti secondo alcuni studi è già successo che individui di altre specie di cicas abbiamo cambiato sesso in seguito a cambiamenti nel loro ambiente.

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    La NASA è responsabile dei danni causati dai detriti dei suoi satelliti?

    Caricamento playerA marzo un oggetto bizzarro, caduto dal cielo, ha squarciato il tetto di un’abitazione della città di Naples, in Florida, negli Stati Uniti. Non ha causato feriti, ma per gli abitanti della casa è stato causa di un grosso spavento: il proprietario, Alejandro Otero, ha raccontato al Washington Post di aver ricevuto una chiamata dal figlio «in preda al panico», e di essere tornato rapidamente a casa per capire cosa fosse successo, trovando «un buco nel tetto e nel pavimento del secondo piano» e «un insolito proiettile – un pezzo denso e cilindrico di metallo carbonizzato, poco più piccolo di una lattina di zuppa – conficcato in un muro». Otero ha detto di essersi reso subito conto che non si trattava di un oggetto qualunque, ma che era una cosa che «veniva dallo Spazio».
    La NASA – acronimo che sta per National Aeronautics and Space Administration, ovvero l’agenzia aerospaziale statunitense – ha poi confermato che l’oggetto cilindrico faceva parte di un carico di vecchie batterie, partito dalla Stazione spaziale internazionale nel marzo del 2021. L’oggetto, che fa parte della più ampia categoria di “spazzatura spaziale”, sarebbe normalmente dovuto bruciare e quindi scomparire nel momento del rientro nell’atmosfera terrestre, ma è invece rimasto abbastanza intatto da perforare il tetto degli Otero, che ora hanno chiesto un risarcimento per danni, principalmente per motivi psicologici, alla NASA stessa.
    La NASA ha sei mesi per decidere se rimborsare la famiglia o se aprire un caso legale al riguardo: in ogni caso si tratta di una decisione che creerebbe un precedente, dato che non è mai successo prima che un oggetto lanciato in orbita dagli Stati Uniti e poi caduto dallo Spazio abbia causato qualche tipo di danno a cittadini statunitensi.
    La distinzione del paese di lancio dell’oggetto e della nazionalità delle persone coinvolte è importante perché in realtà esiste un accordo internazionale che regolamenta quel che succede in questi casi (il Trattato sullo Spazio extratmosferico del 1967), ma si applica soltanto nei casi in cui un oggetto lanciato nello Spazio da un paese caschi nel territorio di un altro stato. In quel caso, lo stato di lancio è responsabile di qualsiasi compensazione finanziaria che potrebbe derivare dai costi di danneggiamento o di bonifica.
    In questo caso, invece, è una questione interna agli Stati Uniti – è un oggetto statunitense che danneggia proprietà statunitensi – che viene però osservata con attenzione dagli esperti. Il forte aumento di rifiuti nello Spazio negli ultimi anni, infatti, ha fatto aumentare le preoccupazioni attorno al fatto che questi casi in futuro possano diventare un po’ più frequenti. Già nel 2021 la professoressa Timiebi Aganaba, che si occupa del rapporto tra Spazio e società all’Università dell’Arizona, scriveva che «l’attuale legge spaziale ha funzionato finora perché i casi erano pochi e rari, e sono stati affrontati in modo diplomatico. Man mano che un numero crescente di oggetti viene mandato in orbita, però, i rischi aumenteranno inevitabilmente».
    Tecnicamente, tutti gli oggetti che si trovano nell’orbita terrestre stanno sempre cadendo verso la Terra. I satelliti attivi hanno dei sistemi che permettono loro di rimanere nell’orbita prevista, e quindi di rimanere sostanzialmente in equilibrio, mentre i satelliti inattivi (quelli che smettono di funzionare o vengono disabilitati per qualche motivo) non hanno più modo di opporsi alla gravità, e cadono fino a rientrare nell’atmosfera terrestre. Nel 2023 i satelliti attivi in orbita attorno alla Terra erano oltre 7.700, e quelli inattivi circa 3.300.
    Ci sono principalmente due cose che si possono fare per gestire un satellite inattivo. La prima è spostarli in un’orbita più alta, la cosiddetta “orbita cimitero”, abbastanza lontana dalla Terra che l’oggetto ci metterà centinaia di anni a raggiungere l’atmosfera. La seconda è orientare il satellite in modo che bruci del tutto nell’atmosfera o possa comunque causare danni minimi nell’impatto con il suolo.
    Può capitare però che alcuni rifiuti spaziali rientrino in modo incontrollato nell’atmosfera terrestre: anche in questo caso, raramente sopravvivono alle altissime temperature raggiunte prima di arrivare al suolo. È successo per esempio nel 1979, quando i detriti dello Skylab, la prima stazione spaziale statunitense, precipitarono nell’Australia occidentale senza però causare danni. Nel 1978, invece, i resti del satellite sovietico a propulsione nucleare Cosmos 954 caddero sul Canada settentrionale, diffondendo detriti radioattivi: è l’unico caso in cui un paese (il Canada) ha chiesto di essere rimborsato da un altro (l’Unione Sovietica) in base al Trattato sullo Spazio extratmosferico.
    «Se l’incidente fosse avvenuto all’estero e qualcuno in un altro paese fosse stato danneggiato dagli stessi detriti spaziali che hanno colpito gli Otero, gli Stati Uniti sarebbero assolutamente stati tenuti a rimborsarlo per i danni», ha detto l’avvocata della famiglia Mica Nguyen Worthy. «Peraltro, se i detriti fossero caduti qualche metro più in là avrebbero potuto esserci lesioni gravi o mortali». La famiglia ha chiesto un indennizzo che comprende i danni materiali causati dal buco nel tetto, i costi per l’assistenza di terzi e i danni causati dall’angoscia emotiva e mentale provocata da un evento così imprevisto. More