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    Weekly Beasts

    C’è tutta una varietà di nomi interessanti, tra gli animali fotografati nei giorni scorsi: un guanaco, due basilischi piumati, un nyala e alcuni tsessebe (o sassaby comune, se vi aiuta). E poi c’è la solita folcloristica storia della marmotta Phil e delle sue previsioni per il Giorno della Marmotta, insieme a delfini in fuga da un’orca, una gallina in strada durante una protesta degli agricoltori in Francia e un geco tigre. LEGGI TUTTO

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    E se fossimo lo “zoo” di una specie aliena?

    Nel 1973, in un articolo intitolato L’ipotesi dello zoo, pubblicato sulla rivista di scienze planetarie Icarus, l’astrofisico della Harvard University John Allen Ball teorizzò che l’assenza di interazioni con forme di vita intelligente extraterrestre, ammesso che esistano, fosse spiegabile ipotizzando una loro volontà di rimanere nascoste. In pratica civiltà extraterrestri più evolute e antiche della nostra eviterebbero deliberatamente qualsiasi interazione, rendendo la parte dell’Universo in cui viviamo una sorta di area protetta. «L’ipotesi dello zoo prevede che non li troveremo mai perché non vogliono essere trovati, e hanno la capacità tecnologica di assicurarsene», scrisse Ball.L’ipotesi di Ball, che in seguito lavorò all’osservatorio Haystack del Massachusetts Institute of Technology fino alla pensione, nel 2006, è la stessa alla base di diverse storie di fantascienza, raccontate anche molto prima che lui la formulasse nel 1973. Ma per quanto bizzarra possa apparire, è una delle molte ipotesi di spiegazione del cosiddetto paradosso di Fermi: un dibattito in corso da oltre settant’anni sulla discrepanza tra le alte aspettative di vita intelligente extraterrestre e l’assenza di qualsiasi prova a sostegno. L’ipotesi dello zoo è stata recentemente ripresa in un articolo pubblicato sul numero di gennaio della rivista Nature Astronomy.
    Scritto dall’astrobiologo inglese Ian Andrew Crawford e dall’astrofisico tedesco Dirk Schulze-Makuch, l’articolo esamina alcuni dei più noti tentativi di spiegazione del paradosso di Fermi proposti nel corso degli anni. Suggerisce che le civiltà tecnologiche extraterrestri siano estremamente rare (o assenti) nella galassia, o esistano ma si nascondano da noi. E conclude che, considerando il nostro impegno nella continua esplorazione dello Spazio, potremmo essere in grado di escludere una delle due possibilità in un futuro non troppo lontano: qualche decennio.
    Crawford è un professore di scienze planetarie e astrobiologia alla Birkbeck University of London: si è occupato a lungo di esplorazioni lunari, ha lavorato con l’Agenzia Spaziale Europea (ESA) e nel 2023 ha ricevuto dalla NASA il premio “Michael J. Wargo”, assegnato a scienziati che si siano distinti per la ricerca nel campo dell’esplorazione spaziale. Schulze-Makuch è un professore del centro di astronomia e astrofisica dell’Università Tecnica di Berlino e professore a contratto del dipartimento di scienze della Terra e dell’ambiente della Washington State University ed è noto soprattutto per le sue pubblicazioni sulla vita extraterrestre, tra cui il libro del 2017 The cosmic zoo: complex life on many worlds.
    Il paradosso di Fermi prende il nome da un aneddoto secondo cui nel 1950 il famoso scienziato italiano Enrico Fermi, premio Nobel per la fisica nel 1938, a un certo punto disse «Dove sono tutti quanti?» in una conversazione sulla mancanza di prove di vita extraterrestre. Lo chiese mentre era a pranzo con altri scienziati durante una visita a Los Alamos (la città del New Mexico sede del centro di ricerca che aveva sviluppato la prima bomba atomica statunitense).

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    La domanda attribuita a Fermi, scrivono Crawford e Schulze-Makuch, può essere considerata un paradosso soltanto se si presuppone che esistano forme di vita extraterrestre tecnologicamente evolute: se non esistono, non c’è alcun paradosso. La possibilità che non esistano tende tuttavia a essere difficile da ammettere per moltissime persone: probabilmente, secondo Crawford e Schulze-Makuch, perché è vista come una violazione del principio copernicano secondo cui né la Terra né l’umanità sono in una posizione di privilegio nell’Universo. La recente scoperta di esopianeti potenzialmente abitabili in sistemi solari diversi dal nostro ha ulteriormente rafforzato una certa diffusa convinzione che possano esistere forme di vita su altri mondi.
    L’esopianeta Ross 128 b, in orbita attorno alla stella Ross 128 a circa 11 anni luce dal Sole, in una rappresentazione dell’Osservatorio europeo australe (M. Kornmesser/ESO via AP)
    Tra gli anni Settanta e Ottanta il dibattito sul paradosso di Fermi fu approfondito in particolare negli Stati Uniti dall’astrofisico Michael Hart e dal fisico e matematico Frank J. Tipler. La maggior parte dei tentativi di spiegare il paradosso, secondo Hart, rientra in tre grandi categorie: spiegazioni fisiche, temporali e sociologiche.
    Le spiegazioni fisiche suggeriscono che i viaggi interstellari siano impossibili, a causa delle distanze siderali e delle enormi quantità di energia eventualmente richiesta per raggiungere una velocità vicina a quella della luce (quasi 300mila km al secondo). Ma per quanto difficile sul piano ingegneristico, scrisse Hart, compiere viaggi spaziali di questo tipo per una civiltà tecnologicamente molto evoluta non sarebbe fisicamente impossibile. Come ipotizzato in seguito da Tipler, che su questo era d’accordo con Hart, non è nemmeno possibile escludere che alcune civiltà dispongano di speciali mezzi spaziali auto-replicanti, in grado di viaggiare nello Spazio e nel frattempo creare copie di sé stessi, spostandosi di pianeta in pianeta.
    Le spiegazioni temporali fanno invece riferimento all’età della Via Lattea, la galassia in cui si trova il nostro sistema solare: circa 13 miliardi di anni. Secondo i sostenitori di questa spiegazione, è un tempo così lungo da rendere molto basse le probabilità di una coesistenza di più forme di vita intelligenti nello stesso momento, a meno che non siano estremamente longeve o estremamente diffuse nell’Universo. Ma nemmeno questa è una spiegazione plausibile, secondo Hart: perché almeno una civiltà, tra quelle con sufficienti possibilità tecnologiche e con l’intenzione di farlo, avrebbe potuto visitare e potenzialmente colonizzare pianeti abitabili della Galassia in un lasso di tempo più breve rispetto all’età complessiva della Galassia.
    Pur non potendo sapere con certezza se forme di vita extraterrestre abbiano visitato oppure no la Terra milioni o miliardi di anni fa, scrisse Hart, il filo ininterrotto dell’evoluzione biologica sulla Terra permette di escludere che sia stata «colonizzata»: vedremmo altrimenti tracce di questo condizionamento nella nostra stessa evoluzione. E il fatto che non ci siano prove di un’interferenza di questo tipo in circa 4 miliardi di storia della Terra lascia supporre che eventuali interazioni con il nostro pianeta, ammesso che ci siano state, siano in ogni caso un evento rarissimo.
    Restano le spiegazioni sociologiche, cioè quelle molto speculative che fanno riferimento a ipotetici comportamenti delle forme di vita extraterrestre tecnologicamente evolute, soltanto immaginabili. Spiegazioni del genere comprendono l’ipotesi che le civiltà esauriscano le loro risorse energetiche prima di potersi fare vive nell’Universo, per esempio, o che non abbiano alcun desiderio di estendere la loro influenza oltre l’area in cui si sono sviluppate. Il problema fondamentale di queste spiegazioni è che possono risolvere il paradosso solo ammettendo che un determinato comportamento sia comune a tutte le forme di vita extraterrestre tecnologicamente evolute nella storia della Galassia. Che è però una condizione la cui plausibilità, per ragioni di distribuzione di probabilità, diminuisce al crescere del numero di forme di vita di cui siamo disposti a ipotizzare l’esistenza.
    Le spiegazioni sociologiche del paradosso, in sostanza, funzionano soltanto se immaginiamo che le forme di vita extraterrestre tecnologicamente evolute siano rare. Ma in quel caso non ci sarebbe alcun paradosso da spiegare, perché i «tutti quanti» della domanda attribuita a Fermi sarebbero, in definitiva, molto pochi.

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    L’idea condivisa da Hart e Tripler sulla base delle loro considerazioni, anche nota come congettura di Hart-Tripler, è che l’assenza di prove di un’interazione di qualsiasi tipo con una civiltà extraterrestre sia più facilmente spiegabile, rispetto a qualsiasi altra spiegazione, attraverso l’ipotesi che non esistano civiltà extraterrestri abbastanza evolute nella nostra galassia. In un celebre articolo pubblicato nel 1983 e intitolato The Solipsist Approach to Extraterrestrial Intelligence l’astronomo e divulgatore scientifico Carl Sagan e il fisico William Newman suggerirono tuttavia un approccio più prudente e paziente alla questione del paradosso di Fermi, affermando che «l’assenza di prove non è prova dell’assenza».
    Esiste del resto un certo ottimismo crescente riguardo alla possibilità che altri mondi diversi dal nostro possano ospitare qualche forma di vita: mondi troppo distanti per pensare di poterli raggiungere, ma che possono comunque essere studiati per cercare eventuali “firme biologiche”, cioè sostanze o fenomeni che possono rivelare la presenza della vita. Diverso è il discorso per le “firme tecnologiche”, che per loro natura dovrebbero essere più facilmente rilevabili e meno ambigue di quelle biologiche, ma rispetto alle quali percepiamo nell’Universo solo un «grande silenzio», come lo definì nel 1983 l’astronomo statunitense e scrittore di fantascienza Glen Brin.
    Secondo Crawford e Schulze-Makuch, autori del recente articolo su Nature Astronomy, il grande silenzio può significare prima di tutto che l’ipotesi di Hart e Tipler sull’inesistenza di civiltà extraterrestri tecnologicamente evolute fosse corretta. O tuttalpiù che quelle civiltà siano molto rare nell’Universo – e assenti, dal nostro punto di vista – a causa di limiti di qualche tipo che ne ostacolano lo sviluppo o la manifestazione. È una possibilità nota anche come teoria del “grande filtro”, definita negli anni Novanta dall’economista e ricercatore statunitense della University of Oxford Robin Hanson, ma in parte ammessa anche da Hart già nel 1975.
    Se nessuna di queste due ipotesi fosse corretta, secondo Crawford e Schulze-Makuch, l’assenza di prove dell’esistenza di civiltà extraterrestri tecnologicamente evolute potrebbe a quel punto avere un’altra sola spiegazione, del tipo sociologico: l’ipotesi dello zoo. Eventuali civiltà si terrebbero cioè a distanza di proposito, per evitare di essere rilevate, sebbene non sia chiaro con quali motivazioni.

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    Già prima che Ball ne scrivesse su Icarus nel 1973, l’idea alla base dell’ipotesi dello zoo era stata citata dallo scrittore inglese Olaf Stapledon nel romanzo del 1937 Il costruttore di stelle. Era inoltre stata resa familiare fin dalla seconda metà degli anni Sessanta dalla serie televisiva Star Trek, nel cui universo immaginario la Prima direttiva vieta ai pianeti della Federazione di interferire nello sviluppo naturale di civiltà aliene, per evitare a quelle ancora impreparate i pericoli di un’eventuale introduzione esterna della tecnologia dei viaggi interstellari. In tempi più recenti una specie di ipotesi dello zoo è stata ripresa anche dallo scrittore cinese di fantascienza Liu Cixin, il cui romanzo La materia del cosmo immagina l’Universo come una «foresta oscura» abitata da feroci predatori che si nascondono per ragioni di sopravvivenza.
    Un modellino della USS Enterprise, un’astronave immaginaria dell’universo di Star Trek, a una mostra alla casa d’aste Christie’s a Londra, il 2 agosto 2006 (Bruno Vincent/Getty Images)
    Come ha recentemente detto Crawford al sito Universe Today, «esistono due sole possibilità: o le intelligenze extraterrestri esistono, o no». Entrambe le risposte sarebbero sorprendenti, ma soltanto una delle due può essere vera. Al momento l’unica certezza che abbiamo, ha detto, è l’assenza di prove di quel tipo di forme di vita, nonostante la quantità incalcolabile di pianeti e nonostante l’età dell’Universo: una discrepanza che è alla base del paradosso di Fermi, appunto.
    Per rafforzare il paradosso, Crawford e Schulze-Makuch hanno citato alcuni recenti modelli dei possibili processi di evoluzione della vita secondo cui l’abitabilità nella Galassia sarebbe sostanzialmente aumentata soltanto negli ultimi miliardi di anni. Anche in un caso del genere, secondo loro, i tempi necessari per l’evoluzione di una civiltà e quelli plausibilmente necessari per una colonizzazione interstellare sarebbero molto più brevi rispetto all’evoluzione della Galassia: così tanto più brevi che dovremmo comunque aspettarci che più civiltà tecnologiche siano sorte prima della nostra.
    «Ci sono voluti circa due miliardi di anni prima che la Terra sviluppasse un’atmosfera ricca di ossigeno che consentisse agli animali complessi di evolversi. Se ciò fosse successo solo l’1 per cento più velocemente su qualche altro pianeta, cosa possibile a causa di una moltitudine di processi biologici e geologici, un’intelligenza tecnologica sarebbe presumibilmente apparsa 20 milioni di anni prima di noi», hanno scritto Crawford e Schulze-Makuch. Se accettiamo quindi che esistano intelligenze extraterrestri e accettiamo che siano tecnologicamente in grado di raggiungere sistemi stellari diversi da quelli in cui si sono sviluppate, la totale mancanza di prove della loro esistenza si spiegherebbe secondo Crawford e Schulze-Makuch soltanto con una loro volontà di rimanere nascoste.
    Una delle critiche all’ipotesi dello zoo riguarda il principale limite di tutte le spiegazioni sociologiche: la scarsa probabilità che uno stesso comportamento sia condiviso per centinaia di milioni di anni da tutte le eventuali forme di vita extraterrestre tecnologicamente evolute. Come osservato dall’astrofisico scozzese Duncan Forgan, membro fondatore del programma SETI (Search for Extra-Terrestrial Intelligence) nel Regno Unito, basterebbe un singolo gruppo di dissidenti in un’eventuale civiltà aliena, oppure l’esistenza di «cricche galattiche» indipendenti anziché un singolo gruppo conforme, per ottenere un comportamento divergente rispetto al presupposto dell’ipotesi dello zoo: che ogni civiltà tecnologicamente evoluta si stiano nascondendo.
    Altri scienziati affermano in generale che l’ipotesi dello zoo, benché potenzialmente corretta, sia inutile in un senso scientifico pratico e più vicina a un modo di pensare teologico. Per questo motivo sostengono che nel campo delle spiegazioni sociologiche del paradosso di Fermi siano più meritevoli di attenzione altre ipotesi, come quella dell’esaurimento delle risorse o quella dell’autodistruzione.

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    Rispetto a queste obiezioni note Crawford e Schulze-Makuch sostengono che le ridotte probabilità che uno stesso comportamento sia unanimemente condiviso da più intelligenze extraterrestri non nega di per sé l’ipotesi dello zoo. Riduce piuttosto la probabilità che quelle intelligenze in grado di manifestarsi ma non intenzionate a farlo siano molte. Quanto alla critica riguardo all’approccio teologico, l’opinione di Crawford e Schulze-Makuch è che l’ipotesi dello zoo sia molto diversa da altre teorie puramente speculative, come l’ipotesi del planetario dello scrittore e matematico inglese Stephen Baxter, secondo cui le nostre osservazioni sarebbero un’illusione generata da una civiltà in grado di manipolare la materia e l’energia su scala galattica.
    La differenza fondamentale, ha spiegato Schulze-Makuch a Universe Today, è che «se viviamo in una sorta di simulazione, potremmo non scoprirlo mai», mentre possiamo invece scoprire se l’ipotesi dello zoo sia corretta oppure no. Man mano che le nostre capacità tecnologiche aumentano, potrebbero infatti raggiungere o superare quelle di eventuali altre civiltà che sarebbero a quel punto non più in grado di nascondere ogni loro traccia.
    Sebbene Schulze-Makuch sia un po’ più possibilista rispetto a Crawford, in generale l’ipotesi dello zoo è un argomento utilizzato da entrambi per sostenere soprattutto l’altra possibilità: che non esistano intelligenze extraterrestri tecnologicamente evolute, oppure che siano molto rare. Nell’articolo scrivono che «se non riusciamo a identificare soluzioni plausibili al paradosso di Fermi, con la possibile eccezione dell’ipotesi dello zoo, ne consegue che o la vita stessa è rara e/o esistono colli di bottiglia tra l’origine della vita e l’avvento della tecnologia». Dal momento che l’esistenza di pianeti potenzialmente abitabili sembra più probabile rispetto a qualche decennio fa, per spiegare «dove sono tutti quanti» dovremmo prendere in considerazione l’esistenza di una serie di “grandi filtri” evolutivi che complicano o ostacolano la transizione dall’origine della vita (abiogenesi) alla civiltà tecnologica.
    Ulteriori approfondimenti riguardo all’eventuale esistenza di intelligenze extraterrestri, concludono Crawford e Schulze-Makuch, potranno derivare soltanto da un’esplorazione sistematica dell’Universo. La ricerca di firme biologiche in esopianeti a noi vicini potrebbe entro i prossimi decenni limitare le probabilità sia della complessità biologica che delle intelligenze: perché se dovessimo scoprire che le biosfere extraterrestri sono rare, allora le intelligenze lo saranno presumibilmente ancora di più. E questo indebolirebbe progressivamente il paradosso di Fermi: non avremmo prove perché non esistono.
    Se invece dovessimo scoprire che le biosfere complesse sono comuni in almeno una parte dell’Universo da noi osservata, allora la vita tecnologica potrebbe comunque essere rara a causa di filtri evolutivi difficili da superare. In assenza di filtri, l’ipotesi dello zoo resterebbe l’ultima plausibile: ma a un certo punto anche questa potrebbe essere verificata. «Se si nascondono attivamente da noi, potrebbero trovare difficoltà sempre maggiori di fronte alle nostre stesse capacità in rapido aumento», osservano Crawford e Schulze-Makuch. E se anche quelle civiltà riuscissero a nascondere le prove della loro tecnologia, alla lunga sarebbe per noi difficile non osservare il gran numero di pianeti abitati, implicito in uno scenario del genere.
    Altre ragioni che indeboliscono l’ipotesi che civiltà tecnologiche possano a lungo rimanere nascoste è che quelle dotate di grandi riserve energetiche avrebbero comunque difficoltà a nascondere tutti i segni degli effetti termodinamici della produzione di calore di scarto: segni che sono infatti alla base di alcune attuali ricerche di firme tecnologiche. È inoltre molto probabile che civiltà in grado di viaggiare nello Spazio generino grandi quantità di detriti spaziali, e maggiore è il numero di civiltà di questo tipo esistite nella storia della Galassia, maggiori saranno la quantità di detriti che finiranno nel Sistema Solare e le probabilità di scoprirne le prove.
    La conclusione di Crawford e Schulze-Makuch è che «più a lungo non rileviamo alcun segno di vita intelligente avanzata intorno a noi, meno probabile diventa la spiegazione dell’ipotesi dello zoo, costringendoci a concludere che la vita intelligente tecnologica è rara nell’Universo». LEGGI TUTTO

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    Quanto caffè è troppo caffè?

    Ogni giorno miliardi di persone in tutto il mondo iniziano la loro giornata bevendo una o più tazze di caffè. Per molte di loro è un’abitudine, per altre una necessità per sentirsi più attive e scrollarsi di dosso la sonnolenza rimasta dopo il risveglio. C’è poi chi ripete il rito in diversi altri momenti della giornata, per semplice piacere e golosità oppure per allontanare una certa sensazione di torpore e continuare a sentirsi attivo. Il caffè è del resto una delle bevande più popolari e di conseguenza la caffeina – il suo stimolante principale – è la sostanza psicoattiva più diffusa e consumata al mondo.Proprio per queste sue caratteristiche in molti si chiedono se ci sia un limite oltre il quale è meglio non andare con il consumo di caffè. Come spesso accade con le sostanze che danno una certa dipendenza, è una domanda che ci si fa quando ci si ferma a pensare al numero di tazzine già bevute in una giornata, ma trovare una risposta soddisfacente non è semplice.
    Il nome chimico della caffeina è un po’ meno abbordabile rispetto a quello che usiamo comunemente: 1,3,7-trimetilxantina. Questa sostanza è alla lontana imparentata con la morfina e fa parte degli alcaloidi, un grande gruppo di sostanze naturali che comprende per esempio la cocaina e la nicotina. La tossicità di queste due sostanze è relativamente alta se confrontata con quella della caffeina, che ha un effetto tossico e potenzialmente letale per una persona adulta solo nel caso di un consumo enorme di caffè.

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    La caffeina è presente naturalmente in molte parti di piante come i chicchi del caffè e del cacao, le bacche di guaranà e nelle foglie di tè. La sua presenza fu identificata separatamente nel caffè e nel tè nella prima metà dell’Ottocento, di conseguenza per un po’ di tempo si pensò che la caffeina fosse tipica del caffè mentre la teina del tè. In seguito si scoprì che si trattava della stessa molecola e che quella distinzione non aveva quindi senso. La scoperta contribuì inoltre a chiarire che la caffeina non ha un ruolo specifico nel gusto del caffè: questo deriva in buona parte dal metodo utilizzato per tostare i chicchi, che porta a sapori più o meno intensi. È spesso la miscela di caffè di varietà diverse tostati in modo diverso a rendere il gusto di un espresso diverso da un altro.
    La molecola della caffeina ha una struttura simile a quella dell’adenosina, una sostanza importante per il sistema nervoso e che tra le altre cose causa sonnolenza se si lega a un recettore di una cellula nervosa. Quando beviamo un caffè, il nostro organismo assorbe rapidamente e completamente la caffeina che finisce in circolazione e inganna le cellule nervose, che credono di avere a che fare con l’adenosina. Il risultato è un aumento dei livelli di adrenalina e di altre sostanze che fanno da stimolanti per il sistema nervoso, con effetti come un aumento del battito cardiaco e un maggiore afflusso di sangue ai muscoli.
    Di solito questo effetto stimolante si produce tra i 15 e i 30 minuti dopo avere bevuto il caffè, quindi quella sensazione di sentirsi “da subito” più attive che riferiscono molte persone è quasi sempre un effetto indotto dalle aspettative positive (effetto placebo) su ciò che la caffeina potrà fare per farle sentire più sveglie e presenti a loro stesse. Una volta che si è verificato, l’effetto stimolante dura per qualche ora, prima di iniziare a svanire gradualmente.
    Si stima che in una persona adulta l’emivita, cioè il tempo che l’organismo impiega per eliminare il 50 per cento di una sostanza, della caffeina sia in media di circa quattro ore. Ci sono però molte variabili da tenere in considerazione come l’età, il peso corporeo, l’assunzione in concomitanza di farmaci e le condizioni generali di salute che possono influire sull’emivita, che comunque raramente supera le otto ore.
    Calcolare il consumo di caffeina nella popolazione non è semplice, sia per la difficoltà di raccolta dei dati, sia perché le abitudini variano molto da paese a paese. Alcuni anni fa l’Autorità europea per la sicurezza alimentare (EFSA) aveva condotto una propria valutazione del rischio sulla caffeina e aveva pubblicato i dati sulle assunzioni quotidiane medie negli stati membri dell’Unione Europea. Dall’analisi era emerso che le persone adulte (18-65 anni) consumano mediamente tra i 37 e i 319 milligrammi di questa sostanza, con valori massimi lievemente più alti negli anziani e maggiori nelle persone molto anziane.
    (EFSA)
    La fonte principale di caffeina era il caffè, che rappresentava tra il 40 e il 94 per cento dell’assunzione totale; facevano eccezione Irlanda e Regno Unito (all’epoca dell’indagine ancora nell’UE) dove la fonte principale risultava essere il tè. Le differenze più marcate tra i vari paesi erano state rilevate nella fascia degli adolescenti (10-18 anni) a causa delle numerose fonti alternative di caffeina, come alcuni tipi di cioccolato e bevande a base di cacao, oppure bevande a base di cola o di tè. Tra gli adolescenti era inoltre diffuso il consumo delle cosiddette “bevande energetiche”, che spesso oltre a contenere grandi quantità di zucchero hanno una concentrazione importante di caffeina.
    Per quanto riguarda il caffè inteso come bevanda, le differenze rilevate dall’EFSA tra i vari stati membri erano per lo più legate al modo in cui viene preparato e alle miscele utilizzate. In alcuni paesi come il nostro è molto diffuso l’espresso, mentre in altri sono consumati soprattutto caffè “lunghi” realizzati con percolatori e altri sistemi. Nella preparazione di un espresso l’acqua passa rapidamente attraverso il caffè, di conseguenza la quantità di caffeina che finisce nella tazzina è inferiore rispetto ad altri sistemi, naturalmente a parità di quantità di caffè. Quello preparato con la moka, per esempio, ha di solito una maggiore concentrazione di caffeina.
    In una tazzina di espresso (60 ml in media, spesso in Italia la quantità è ancora più ridotta) ci sono circa 80 milligrammi di caffeina, contro i circa 90 milligrammi in una tazza di caffè americano percolato (200 ml). In una tazza di tè (220 ml) ci sono poco meno di 50 milligrammi di caffeina, mentre in una lattina di Coca-Cola (330 ml) i milligrammi sono circa 40. I dati sono inevitabilmente approssimativi, perché molto dipende dal modo in cui viene preparato il caffè o il tè e dalla tipologia di materia prima utilizzata.
    (EFSA)
    L’EFSA nella sua valutazione del rischio indica il consumo di singole dosi di caffeina fino a 200 milligrammi come non preoccupante «in termini di sicurezza per la popolazione adulta e sana in generale». Nelle analisi ha comunque rilevato come una dose più bassa, intorno ai 100 milligrammi, possa avere qualche effetto sulla durata e la qualità del sonno in alcune persone, specialmente se il consumo avviene poco prima di dormire. La reazione è però altamente soggettiva e varia molto da individuo a individuo, quindi stabilire una soglia in generale non è molto semplice.
    Se si valuta l’assunzione totale di caffeina nel corso di una giornata, l’EFSA dice che le persone adulte e sane non corrono particolari rischi fino a 400 milligrammi. Questa quantità equivale in media a circa 5 tazzine di caffè espresso e a poco più di quattro tazze di caffè americano. Per le donne in gravidanza la valutazione del rischio è diversa e si assesta su un consumo giornaliero fino a 200 milligrammi.
    Le quantità indicate dall’EFSA sono riferite a un consumo responsabile e per ridurre i rischi di avere complicazioni, temporanee o nel lungo periodo, legate agli effetti tossici della caffeina. Le dosi stimate alle quali questa sostanza diventa letale sono comunque molto più alte, anche se non c’è grande consenso nella letteratura scientifica. Indicativamente, si ritiene che il consumo di 10 grammi (cioè 10mila milligrammi) di caffeina in un’unica soluzione possa rivelarsi letale. A seconda delle modalità di preparazione, si dovrebbero quindi assumere tra le 100 e le 150 tazzine di caffè espresso in un giorno. LEGGI TUTTO

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    Vivere tra microbi e sporcizia da bambini rende più resistenti alle malattie?

    I primi anni di vita per i bambini sono una costante scoperta, non solo di suoni, forme, sapori e colori, ma anche di microbi che entrano di continuo in contatto con il loro organismo. I bambini infatti toccano qualsiasi cosa, camminano tenendo le mani a terra, che poi si portano alla bocca quando provano ad assaggiare gli oggetti più disparati. Alcuni genitori cercano di ridurre il più possibile questi incontri ravvicinati con superfici e oggetti sporchi, altri se ne preoccupano meno e seguono un modo di dire che si sente spesso: “Niente di male, sono tutti anticorpi in più”.È una convinzione che deriva da un’ipotesi dibattuta da tempo in ambito medico, secondo cui l’esposizione a particolari microrganismi nei primi anni di vita è essenziale per sviluppare meglio il sistema immunitario ed evitare alcuni disturbi in età adulta come allergie e asma, che derivano da un sua reazione anomala. Capire se sia davvero così non è però semplice.
    Tra i primi a esporre quella che sarebbe poi diventata nota come “ipotesi dell’igiene” ci fu l’epidemiologo britannico David P. Strachan, che nel 1989 scrisse un articolo sul British Medical Journal nel quale esplorava il rapporto tra le condizioni igieniche in cui crescevano i bambini e la loro salute in età adulta. Lo studio di Strachan si inseriva in un dibattito più ampio sulla cosiddetta “rivoluzione dell’igiene” iniziata circa due secoli fa specialmente in Europa e nel Nord America.
    L’introduzione degli impianti fognari, la periodica pulizia degli ambienti urbani, maggiori attenzioni nella preparazione dei cibi evitando contaminazioni e una crescente promozione dell’igiene personale avevano portato a un netto miglioramento delle condizioni di vita, anche grazie alla scoperta delle cause di malattie ancora molto comuni e letali nell’Ottocento come il colera e il tifo. Le nuove conoscenze permisero soprattutto nella prima metà del Novecento di ridurre sensibilmente i casi di numerose malattie infettive, ma secondo l’ipotesi dell’igiene privarono il nostro organismo di incontri con alcuni microorganismi importanti per il sistema immunitario.
    Rifacendosi ad analisi precedenti, Strachan aveva segnalato come nella prima metà del secolo scorso fosse emersa una quantità crescente di allergie e malattie infiammatore croniche, che erano meno presenti nel periodo prima della rivoluzione dell’igiene. Nel suo articolo, prese in considerazione soprattutto la rinite allergica (quella che viene chiamata a volte “raffreddore da fieno”) e alcune forme di eczema di natura allergica. Strachan osservò che queste malattie erano meno frequenti nelle famiglie con molti figli rispetto a quelle con figli unici, ipotizzando che fosse la prolungata convivenza tra bambini a rendere più probabili contaminazioni e contagi, con esiti positivi per le difese immunitarie.
    Come abbiamo ampiamente sperimentato negli ultimi anni di pandemia, le capacità del sistema immunitario cambiano di continuo a seconda dei patogeni (come virus e batteri) che entrano nel nostro organismo, causando disturbi e malattie. In presenza di un patogeno nuovo, la prima risposta immunitaria è generica e talvolta eccessiva, mentre col tempo il sistema immunitario si specializza e sviluppa capacità di difese più specifiche, che può impiegare con maggiore efficacia nel caso avvenga una nuova infezione con lo stesso patogeno, o con un qualcosa che gli somiglia molto come una variante. I vaccini, come quelli che si fanno contro le malattie infantili o l’influenza, servono a innescare questo meccanismo di specializzazione, evitando di farlo ammalandosi con tutti i rischi che potrebbero derivarne.
    In altri casi il sistema immunitario non funziona invece come previsto e attacca tessuti dell’organismo, causando varie tipologie di malattie definite “autoimmuni” o “immunomediate” a seconda delle circostanze. Molte allergie derivano da una reazione anomala a una sostanza normalmente innocua, che viene invece ritenuta pericolosa.
    Nei primi anni di vita, il sistema immunitario è relativamente più reattivo e versatile, di conseguenza riesce ad adattarsi più velocemente e a sviluppare le difese contro i patogeni. Per questo Strachan riteneva che alcune malattie allergiche potessero svilupparsi più facilmente tra i bambini che facevano esercitare meno il loro sistema immunitario, semplicemente perché vivevano poco con altri bambini e in condizioni che favorissero il contatto con patogeni, come i virus del raffreddore e altri microrganismi.
    Dopo la pubblicazione del proprio studio alla fine degli anni Ottanta, l’ipotesi di Strachan ottenne un certo successo, ma come spesso avviene in questi casi fu in parte travisata applicandola a molte altre malattie e spinta da alcuni verso eccessi rischiosi. Le persone contrarie alle vaccinazioni, per esempio, sfruttarono a modo loro l’ipotesi dell’igiene per giustificare la pratica di mettere insieme bambini sani e malati, in modo da rendere più probabile il contagio di malattie infantili come morbillo, parotite (gli “orecchioni”), rosolia e varicella. È una cosa che alcuni fanno ancora oggi, ma è rischiosa considerato che quelle malattie possono portare a gravi complicazioni, talvolta letali, che non si verificano invece attraverso la vaccinazione.
    Una ventina di anni fa l’ipotesi dell’igiene fu aggiornata, o per meglio dire integrata, con quella che fu poi definita “ipotesi dei vecchi amici”: dice che nei primi anni di vita i benefici per il sistema immunitario non derivano tanto dall’esposizione ai virus delle malattie più conosciute e diffuse, nella maggior parte dei casi risalenti a circa diecimila anni fa, quanto dal contatto con microrganismi che esistevano già ai tempi dei cacciatori-raccoglitori. Cacciare e raccogliere ciò che si trovava fu per lunghissimo tempo l’unica forma di sussistenza per le specie umane, compresi gli Homo sapiens comparsi circa 200mila anni fa. In quella lunga fase il sistema immunitario era in piena evoluzione e sviluppò una forte interdipendenza con alcuni microrganismi, senza i quali non può funzionare adeguatamente.
    Tra i principali sostenitori di questa ipotesi c’è l’immunologo britannico Graham Rook, che ha dedicato molti studi e ricerche per ricostruire il modo in cui si è evoluto e si sviluppa il sistema immunitario in ogni persona. Nei suoi lavori, Rook ha segnalato che probabilmente i microrganismi che hanno un ruolo importante per sviluppare le difese immunitarie sono quelli che vivono sulla pelle, nell’apparato respiratorio e nell’intestino, oltre a quelli che si trovano naturalmente negli ambienti popolati dagli esseri umani e ad alcuni virus. Alcuni di questi causano infezioni croniche verso le quali c’è stato un adattamento da parte del sistema immunitario nel corso dell’evoluzione, rendendo possibile lo sviluppo di alcune nuove importanti capacità di difesa.
    L’ipotesi dei vecchi amici ha ricevuto una decina di anni fa un’ulteriore integrazione con la cosiddetta “ipotesi della diversità microbica”, secondo cui è la varietà di batteri, funghi e virus che popolano il nostro intestino e altre parti dell’organismo (il cosiddetto “microbiota”) a essere un fattore chiave nello stimolare il sistema immunitario. I numerosi incontri con i microbi nei primi anni di vita aiuterebbero le nostre difese immunitarie a diventare più abili nell’identificare le minacce, sviluppando una memoria immunitaria e la capacità di affrontarle in modo più specifico ed efficiente nel caso di nuove infezioni.
    È comunque difficile ricostruire come si sia evoluto il nostro sistema immunitario nel corso di centinaia di migliaia di anni, considerato anche che ancora oggi non conosciamo perfettamente tutti i meccanismi che lo fanno funzionare. Ci sono indizi sul fatto che possa comunque esserci un legame tra l’esposizione ai microbi e l’avere o meno allergie e altri problemi di salute. Ci sono però moltissime variabili da tenere in considerazione ed è complicato trovare indizi e fare misurazioni.
    Pur consapevoli di queste limitazioni, nel tempo alcuni gruppi di ricerca si sono dedicati all’analisi di indicatori come le condizioni economiche e gli stili di vita. È per esempio emerso che allergie e malattie autoimmuni tendono a essere meno presenti nei paesi in via di sviluppo, dove le condizioni igieniche sono spesso diverse da quelle dei paesi più ricchi nei quali di solito le famiglie sono anche meno numerose. Alcuni studi hanno segnalato che le persone che migrano dai paesi meno ricchi a quelli più sviluppati tendono a sviluppare malattie legate a uno scorretto funzionamento del sistema immunitario, che aumentano all’aumentare del tempo trascorso lontano dal paese di origine. Si ipotizza che questo aumento sia dovuto al cambiamento della dieta e a una modifica del microbiota, ma ci sono ancora molti aspetti da chiarire, anche perché i dati sono spesso carenti e potrebbero semplicemente esserci meno diagnosi di allergie.
    Per diverso tempo si è inoltre ipotizzato che un uso eccessivo degli antibiotici favorisse una riduzione nella versatilità del sistema immunitario ad affrontare le minacce. Gli antibiotici hanno spesso un effetto ad ampio spettro, di conseguenza distruggono parte dei batteri che vivono nel nostro intestino e che hanno un ruolo fondamentale nei processi di digestione e di assimilazione dei nutrienti. Alcuni studi notarono che tra chi aveva utilizzato antibiotici in giovane età c’era una maggiore quantità di casi di asma, ma l’effetto osservato potrebbe essere stato falsato dal fatto che gli antibiotici sono talvolta usati con maggiore frequenza tra i bambini asmatici, che avevano quindi già questo problema di salute.
    Trovare conferme o smentite all’ipotesi dell’igiene non è semplice, nemmeno se si prova a ridurre la quantità di variabili, per esempio studiando il fenomeno su modelli diversi dagli esseri umani, ma che potrebbero offrire qualche nuovo elemento. Un gruppo di ricerca svedese ci ha provato con i topi, come ha raccontato lo scorso anno sulla rivista scientifica Science Immunology.
    Per lo studio erano stati selezionati due gruppi di topi. Il primo era costituito unicamente da topi di laboratorio, che vivevano quindi in un ambiente pulito ed erano nutriti con cibo controllato e privo di contaminazioni. Il secondo gruppo era invece costituito da topi nati da impianti embrionali di topi di laboratorio in madri prelevate da contesti selvatici. Il gruppo di ricerca voleva ridurre il più possibile le variabili e non lo avrebbe potuto fare se avesse raccolto direttamente i topi dall’ambiente esterno, visto che avrebbero avuto tutti precedenti diversi. Si era quindi pensato di mitigare il problema ricorrendo a madri surrogate, in modo da riprodurre comunque la trasmissione di microrganismi importanti che avviene dalla madre ai figli con il parto.
    I topi del secondo gruppo erano stati allevati in un contesto meno asettico rispetto ai topi del primo gruppo, con gabbie contenenti paglia, compost e altri materiali dove abbondano i microrganismi. I topi allevati in questo modo avevano inoltre varie occasioni di incontro tra loro, per aumentare ulteriormente la probabilità di scambi di microbi e germi.
    Raggiunta l’età adulta, i topi del secondo gruppo avevano un microbiota molto più simile a quello che si osserva tipicamente nei loro simili in contesto selvatico, rispetto ai topi del primo gruppo tenuti in ambienti più asettici del laboratorio. Eppure, nonostante questa marcata diversità, il gruppo di ricerca non aveva riscontrato una minore ricorrenza delle allergie tra i due gruppi. I topi del secondo gruppo avevano inoltre mostrato di sviluppare una risposta immunitaria molto più forte alle sostanze per le quali erano allergici, con una maggiore produzione di infiammazione delle loro vie aeree e una più alta produzione di muco.
    L’esperimento è stato accolto con interesse, ma va comunque inserito nel contesto più ampio degli studi sull’ipotesi dell’igiene e del dibattito che si porta dietro. I topi sono un valido modello per condurre test di questo tipo, ma non sono esseri umani e hanno ovviamente caratteristiche diverse che riguardano anche i meccanismi del loro sistema immunitario.
    Venticinque anni dopo avere pubblicato la propria ipotesi sull’igiene, Strachan scrisse un commento sul British Medical Journal per ricordare che alcune delle idee che aveva espresso nel suo studio erano state travisate e che l’uso stesso della formulazione “ipotesi dell’igiene” era improprio. Segnalò che nonostante fossero passati molti anni non erano ancora emersi elementi a sufficienza per approfondire le conoscenze su allergie e condizioni ambientali nei primi anni di vita, in modo da trovare eventuali legami tra i due fenomeni.
    A distanza di molti anni, luoghi comuni e informazioni scorrette su cosa sia davvero l’ipotesi dell’igiene hanno in alcuni casi portato a sottovalutare l’importanza dell’igiene in molti contesti. Alcuni esperti hanno sollevato il problema di un minore controllo delle condizioni igieniche negli ambienti domestici dove crescono i bambini, per esempio, mettendo a rischio pratiche che negli ultimi due secoli hanno contribuito in modo significativo a ridurre alcuni tipi di infezioni.
    A oggi non ci sono infatti elementi per ritenere che le buone pratiche per mantenere puliti gli ambienti possano avere un certo effetto nel ridurre allergie e altri problemi di salute cronici legati al sistema immunitario. Ci sono invece elementi per ritenere che minori attenzioni all’igiene, iniziando con un lavaggio non adeguato delle mani e uno scarso ricambio d’aria negli ambienti chiusi, facciano aumentare il rischio di trasmissione di malattie infettive, anche molto pericolose. LEGGI TUTTO

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    Le sigarette elettroniche fanno fumare di più?

    Caricamento playerNegli ultimi giorni la notizia sul divieto in preparazione nel Regno Unito per le sigarette elettroniche usa e getta ha portato nuove attenzioni sui dispositivi per fumare, o provare a smettere di fumare, alternativi alle classiche sigarette. Come altri governi, anche quello inglese ritiene che in questo modo se ne possa limitare l’impiego tra gli adolescenti con benefici per la salute, ma in molti hanno sollevato dubbi sull’efficacia del provvedimento nel diminuire in generale il fumo nella popolazione. Da tempo si discute infatti non solo sugli effetti delle sigarette elettroniche sulla salute, ma anche sulla loro utilità per smettere di fumare e di consumare i normali prodotti a base di tabacco.

    – Ascolta anche: Svapare aiuta a smettere di fumare?

    Una sigaretta elettronica, che sia usa e getta o meno, scalda attraverso una resistenza elettrica una soluzione contenuta in una piccola ampolla, producendo il vapore che viene poi inalato da chi la utilizza. A seconda delle versioni e dei produttori la composizione del liquido cambia, ma di solito tra gli ingredienti più ricorrenti ci sono: glicole propilenico, cioè un additivo che viene spesso impiegato per diluire varie soluzioni; glicerolo, una sostanza oleosa come la glicerina (che altro non è che glicerolo a una certa concentrazione) e infine aromi che servono a dare al vapore un profumo e per farne percepire il sapore in bocca, quando viene inalato.
    Nell’ampolla può anche essere disciolta della nicotina, il composto che contribuisce alla dipendenza dal tabacco. Questa sostanza è presente in concentrazioni diverse a seconda delle preferenze e dei motivi per cui si è deciso di utilizzare una sigaretta elettronica. Per esempio, chi fuma le normali sigarette e vuole provare a smettere spesso inizia con soluzioni con una maggiore concentrazione di nicotina, passando nel tempo a concentrazioni più basse fino ad arrivare a consumare prodotti privi di nicotina.
    Chi non vuole smettere di fumare vede invece le sigarette elettroniche come un’alternativa più sana rispetto alle sigarette, che bruciando il tabacco portano all’inalazione di oltre 4mila sostanze come nicotina, catrame, benzene, cadmio, acetone, formaldeide, acido cianidrico e monossido di carbonio. Molte di queste sono cancerogene, fanno cioè aumentare il rischio di sviluppare alcuni tumori soprattutto (ma non solo) a carico del sistema respiratorio. Il fumo di sigaretta ha inoltre effetti dannosi per il cuore e in generale per la circolazione sanguigna.
    Le sigarette elettroniche propriamente dette, quelle che impiegano un liquido, non devono essere confuse con i cosiddetti “dispositivi a tabacco riscaldato non bruciato” (HTP, dall’inglese “heated tobacco product”). Questi prodotti si sono diffusi negli ultimi anni, sono realizzati quasi sempre dalle grandi aziende del tabacco, e offrono un’alternativa alla normale sigaretta. Invece di utilizzare un liquido da vaporizzare, impiegano direttamente il tabacco essiccato, che però non viene bruciato, ma solamente riscaldato riducendo di conseguenza la produzione di polveri e fumi nocivi rispetto a una classica sigaretta.
    Gli HTP esistono da tempo, ma sono diventati molto diffusi negli ultimi anni in seguito ai grandi investimenti delle aziende del tabacco, soprattutto per promuoverli come alternativa meno rischiosa rispetto alle normali sigarette. Gli effetti di questi dispositivi non sono però ancora completamente noti. Nel 2016 un rapporto dell’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) segnalò di non avere trovato indizi che potessero giustificare le dichiarazioni sui minori rischi rispetto alle classiche sigarette. Alcune analisi successive condotte in alcuni paesi, come il Regno Unito, hanno portato a rilevare una possibile riduzione del rischio, ma gli HTP sono comunque considerati più dannosi rispetto alle sigarette elettroniche, quando utilizzate correttamente.
    (Christopher Furlong/Getty Images)
    Uno studio svolto nel 2017 sempre nel Regno Unito su un gruppo di ex fumatori di normali sigarette aveva, per esempio, rilevato una riduzione importante delle sostanze cancerogene presenti nel loro organismo nei sei mesi in cui erano passati alle sigarette elettroniche. Altri studi hanno però sollevato dubbi sulla sicurezza di alcune sostanze presenti nei liquidi. La glicerina e il glicole propilenico, per esempio, possono portare alla produzione di acetaldeide e formaldeide, sostanze certamente cancerogene; le quantità sono relativamente basse, ma il rischio non deve comunque essere sottovalutato.
    Altre incertezze sono legate all’impiego di alcuni aromi. Molti di questi sono normalmente utilizzati dall’industria alimentare e sono quindi sicuri per l’ingestione, ma nel momento in cui vengono scaldati per essere inalati cambiano alcune delle loro caratteristiche chimiche e fisiche. A oggi non ci sono studi a sufficienza su molti degli eventuali effetti derivanti dall’inalazione di queste sostanze e si stima che manchino dati chiari sui rischi di cancerogenicità per circa 7mila di loro.
    I rischi non derivano solamente dalle sostanze contenute nelle ampolle, ma anche dal modo in cui viene utilizzata la sigaretta elettronica. Alcuni suoi componenti devono essere puliti periodicamente, perché parte del vapore condensa e si formano ristagni in alcuni punti della sigaretta, senza contare quelli prodotti dalla saliva che entra in contatto con il dispositivo a ogni boccata. Le sigarette elettroniche sono inoltre sottoposte a una certa usura, soprattutto nella parte dove si produce il vapore, che col tempo può compromettere il normale funzionamento portando alla produzione di temperature troppo alte o al rilascio di sostanze ulteriormente dannose per la salute.
    Per tutti questi motivi è difficile valutare gli effetti delle sigarette elettroniche sull’organismo. Negli anni scorsi erano stati segnalati casi di infiammazioni al sistema respiratorio negli Stati Uniti, dove questo tipo di dispositivi si era diffuso molto velocemente, ma erano anche emerse difficoltà nel fare valutazioni su eventuali altri effetti.
    Tra le analisi più citate sull’argomento c’è la revisione che fu pubblicata alla fine del 2022 dall’associazione internazionale senza scopo di lucro Cochrane, che effettua studi molto approfonditi sui temi sanitari partendo dalla letteratura scientifica a disposizione. L’analisi aveva riguardato la comparazione di 78 studi che avevano coinvolto complessivamente oltre 22mila persone e aveva portato a rilevare solo effetti nel breve-medio periodo legati all’utilizzo delle sigarette elettroniche. Le principali conseguenze riguardano irritazioni alla gola e alla bocca, mal di testa, tosse e nausea, che sembrano però diminuire con il tempo. Altri effetti non sono stati segnalati semplicemente perché l’impiego delle sigarette elettroniche è un fenomeno relativamente recente, di conseguenza saranno necessari anni per avere elementi più concreti.
    Dal rapporto Cochrane era invece emerso che le sigarette elettroniche possono aiutare le persone a smettere di fumare meglio di quanto facciano le tradizionali terapie, che di solito si basano sull’impiego di prodotti sostitutivi per assumere nicotina, come cerotti e gomme da masticare. Secondo gli esperti dell’organizzazione gli indizi trovati nella letteratura scientifica sono molto solidi, anche se non è ancora chiaro se ci sia una particolare differenza tra sigarette elettroniche con e senza nicotina nell’aiutare a smettere di fumare.
    Parte dell’incertezza deriva dal fatto che la dipendenza dal fumo non è data solamente dalla nicotina, ma anche dall’abitudine e dalla gestualità che accompagna il momento in cui si fuma. Prendere una sigaretta, accenderla, inalarne il fumo, tenerla tra le dita e infine spegnerla sono gesti che psicologicamente hanno un ruolo importante nell’esperienza complessiva del fumo, e sono spesso un’abitudine molto difficile da perdere.
    (Leon Neal/Getty Images)
    Circa un anno prima dell’analisi Cochrane, il Comitato sulla salute, l’ambiente e i rischi emergenti (SCHEER) della Commissione europea aveva pubblicato un proprio rapporto sulle sigarette elettroniche. Sulla base della letteratura scientifica analizzata, lo SCHEER era arrivato a conclusioni meno nette, segnando che le prove sull’utilità delle sigarette elettroniche per smettere di fumare fossero deboli. Secondo il comitato, comunque, c’erano prove deboli-moderate sull’utilità di questi dispositivi per ridurre per lo meno il consumo di tabacco. In molti casi, infatti, i fumatori delle normali sigarette diventano anche utilizzatori delle sigarette elettroniche, ma senza rinunciare totalmente alle prime.
    Lo SCHEER aveva infine segnalato che per i ragazzi le sigarette elettroniche possono rappresentare un incentivo per passare a quelle classiche. Gli aromi hanno un ruolo importante nell’attrarre potenziali consumatori nelle fasce più giovani della popolazione, come del resto si era già visto in passato con gli aromi per le sigarette tradizionali, vietati da una direttiva europea nel 2020. I risultati di un sondaggio svolto negli Stati Uniti e pubblicato lo scorso anno sembrano però ridimensionare la conclusione dello SCHEER. Dal sondaggio è emerso un netto passaggio dal fumo di tabacco all’uso delle sigarette elettroniche, senza che si registrasse un aumento significativo di nuovi fumatori di sigarette tradizionali.
    Secondo i dati forniti dall’Istituto superiore di sanità (ISS), l’utilizzo delle sigarette elettroniche in Italia riguarda tra il 2 e il 4 per cento della popolazione, in un contesto in cui circa il 24 per cento delle persone nella fascia di età tra i 18 e i 69 anni si definisce fumatore. L’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) ha stimato che circa il 22 per cento della popolazione mondiale faccia uso di tabacco. In termini statistici, circa la metà circa degli utilizzatori muore per le conseguenze dirette del fumo. LEGGI TUTTO

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    Neuralink ha installato il suo primo impianto cerebrale in un essere umano

    Caricamento playerLunedì l’imprenditore statunitense Elon Musk ha annunciato che Neuralink, la sua azienda che si occupa di ricerca e sviluppo di impianti cerebrali da collegare a un computer, ha installato per la prima volta un dispositivo in un essere umano. Musk non ha fornito molti dettagli su come sia andata l’operazione: si è limitato a dire che è stata effettuata domenica e che il paziente si sta riprendendo con risultati iniziali promettenti, anche se saranno necessari mesi per avere i primi dati. Neuralink non è la prima società a praticare impianti cerebrali, ma utilizza alcune nuove tecnologie che almeno teoricamente potrebbero cambiare il settore.
    Negli scorsi anni Neuralink aveva già fatto diversi test sugli animali, e lo scorso maggio era stata autorizzata dalla Food and Drug Administration (FDA), l’agenzia federale degli Stati Uniti che si occupa di farmaci e dispositivi medici, a effettuare test anche sugli esseri umani. L’impianto effettuato domenica rientra quindi nei test clinici consentiti dalla FDA, che dovranno poi essere comunque sottoposti a controlli da parte delle autorità. Se gli esperimenti funzioneranno e si riveleranno sicuri per i pazienti, Neuralink nei prossimi anni potrà chiedere alla FDA di autorizzare la commercializzazione dei propri dispositivi.

    The first human received an implant from @Neuralink yesterday and is recovering well.
    Initial results show promising neuron spike detection.
    — Elon Musk (@elonmusk) January 29, 2024

    – Leggi anche: Cosa ci insegnano questi pappagalli, oltre alle parolacce

    Neuralink esiste dal 2016 e ha come obiettivo quello di sviluppare nuove interfacce neurali, cioè sistemi per mettere in comunicazione diretta il cervello con un dispositivo esterno, come un computer. Le interfacce neurali sono viste come un’importante opportunità per consentire ai pazienti con paralisi e altre malattie debilitanti di recuperare le loro funzionalità, tornando per esempio a muovere gli arti.
    In questa prima fase di esperimenti e test la società ha comunque obiettivi meno ambiziosi. Se tutto procederà come previsto, il paziente affetto da paralisi potrà controllare il cursore di un computer con la propria mente attraverso l’impianto. Ciò dovrebbe consentirgli di comunicare meglio con l’ambiente circostante, per esempio componendo testi più velocemente.
    Neuralink non è la prima azienda a sperimentare queste soluzioni, ma i suoi ricercatori sono riusciti a realizzare elettrodi di minuscole dimensioni, che possono essere impiantati con un’operazione che secondo l’azienda è meno invasiva. La procedura prevede l’impiego di un sistema robotizzato ad alta precisione, in modo da inserire l’impianto nella giusta area del cervello e realizzare i collegamenti con i neuroni. Gli elettrodi di Neuralink sono più flessibili rispetto a quelli sperimentati in altri laboratori e ciò dovrebbe ridurre sensibilmente il rischio di microtraumi e danni nelle aree in cui viene effettuato l’impianto.
    La sperimentazione aveva riguardato finora altri animali, soprattutto maiali e alcune scimmie. Grazie ad alcune inchieste giornalistiche, nei mesi scorsi erano emersi dettagli sulla morte nei laboratori di alcune scimmie. Musk aveva negato che la causa fossero state le sperimentazioni di Neuralink, ma dalle indagini era emersa una situazione più complicata sulla quale stavano indagando le autorità sanitarie statunitensi.
    A oggi non è chiaro se i sistemi progettati da Neuralink funzionino come sostiene Musk, per questo le prime sperimentazioni come quella avviata domenica stanno suscitando grande interesse. La società ha del resto obiettivi ancora più ambiziosi: oltre agli impianti nel cervello per trattare le paralisi, Neuralink lavora a sistemi che un giorno potrebbero potenziare le attività del cervello umano, per esempio per accedere istantaneamente alle informazioni memorizzate su un computer e alle sue capacità di calcolo. È un risultato che al momento appare fantascientifico, ma come ha ricordato spesso Musk e di recente la stessa società: «Vogliamo andare oltre le capacità di un normale corpo umano con la nostra tecnologia».

    – Leggi anche: Come l’olfatto influenza le nostre relazioni sociali LEGGI TUTTO

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    Il lander giapponese SLIM sulla Luna ha ripreso a funzionare

    L’Agenzia spaziale giapponese (JAXA) ha fatto sapere che il veicolo spaziale (lander) SLIM che era arrivato sulla Luna venerdì 19 gennaio ha ripreso a funzionare. Dopo la riuscita dell’allunaggio erano emersi parecchi dubbi sulla possibilità che SLIM potesse continuare a funzionare, dato che i pannelli solari del lander avevano smesso di generare energia elettrica e di conseguenza non potevano caricarne le batterie. Domenica JAXA ha detto di essere riuscita a ristabilire le comunicazioni con il lander, quasi nove giorni dopo l’allunaggio. Secondo l’Agenzia spaziale giapponese probabilmente il lander è stato in grado di tornare a generare energia non appena la luce del Sole lo ha illuminato.Per l’allunaggio il lander (il cui nome è un acronimo per Smart Lander for Investigating Moon) aveva utilizzato un sistema di navigazione autonomo ad alta precisione. Era stato lanciato il 6 settembre 2023 dal Giappone e aveva poi trascorso alcuni mesi per avvicinarsi alla Luna ed entrare in un’orbita intorno al nostro satellite naturale il 25 dicembre scorso. In seguito aveva compiuto alcune manovre per predisporre l’attività di discesa sulla superficie. Intorno alle 16 italiane del 19 gennaio SLIM aveva acceso i motori per rallentare la propria velocità, sganciarsi dall’orbita e iniziare a perdere quota. I suoi sistemi di navigazione automatici avevano poi localizzato il punto scelto in precedenza per l’allunaggio e avevano controllato il lander per evitare collisioni con eventuali ostacoli lungo la traiettoria.

    Communication with SLIM was successfully established last night, and operations resumed! Science observations were immediately started with the MBC, and we obtained first light for the 10-band observation. This figure shows the “toy poodle” observed in the multi-band observation. pic.twitter.com/WYD4NlYDaG
    — 小型月着陸実証機SLIM (@SLIM_JAXA) January 29, 2024 LEGGI TUTTO

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    Forse riusciremo a far nascere altri rinoceronti bianchi settentrionali

    Lo scorso settembre un gruppo di scienziati è riuscito a fare una cosa che potrebbe consentire la nascita di altri rinoceronti bianchi settentrionali, cioè di una specie il cui ultimo individuo maschio è morto nel 2018 e di cui restano solo due femmine. Gli scienziati hanno impiantato un embrione di rinoceronte bianco meridionale, la specie più simile a quella quasi estinta, in una femmina adulta della stessa specie che non ne era la madre biologica, ottenendo che si sviluppasse una gravidanza. Questo risultato lascia sperare che in futuro si potranno far nascere dei rinoceronti bianchi settentrionali, di cui esistono 30 embrioni conservati a basse temperature, usando delle rinoceronti bianche meridionali come madri surrogate.Questo tipo di procedura è comunemente usata per gli animali domestici ma non per quelli selvatici. Gli scienziati di BioRescue, il progetto internazionale che ha come obiettivo non fare estinguere i rinoceronti bianchi settentrionali, ci sono riusciti al tredicesimo tentativo. A novembre la rinoceronte incinta, che era chiamata Curra, è morta a causa di un’infezione senza legami con la gravidanza, ma l’autopsia sul suo corpo ha dimostrato che il feto che le era stato impiantato, e che a quel punto aveva 70 giorni, stava crescendo bene.
    I rinoceronti bianchi settentrionali e meridionali sono molto simili tra loro perché sono sottospecie molto vicine. Si sono differenziate vivendo in habitat diversi, probabilmente dopo essere state separate durante una glaciazione. L’habitat naturale dei rinoceronti bianchi settentrionali sono praterie con l’erba alta, in parte paludose; per questo avevano sviluppato zampe più larghe, adatte a camminare nel fango. I rinoceronti bianchi meridionali invece vivono nella savana.
    Negli ultimi secoli le attività umane hanno notevolmente ridotto l’estensione dell’habitat dei rinoceronti, peraltro danneggiati dalla caccia illegale: è per questo che oggi tutte le specie di rinoceronti sono in una qualche misura a rischio di estinzione. Dei rinoceronti bianchi meridionali si stima ce ne siano circa 10mila.
    Nessuna specie però è messa male come i rinoceronti bianchi settentrionali: si pensa che negli anni Settanta ne fossero rimasti circa 700 e a metà degli anni Ottanta erano solo 15. Nel 2008 non si trovarono più gli ultimi quattro esemplari che negli anni precedenti erano stati avvistati in natura: probabilmente furono uccisi da bracconieri. A quel punto erano rimasti solo gli esemplari presenti negli zoo e tra questi solo quattro potevano ancora riprodursi: le femmine Najin e Fatu e i maschi Sudan e Suni, dello zoo di Dvůr Králové, in Repubblica Ceca. Oggi solo Najin e Fatu, che sono madre e figlia, sono vive, ma non possono portare avanti una gravidanza per questioni di età (hanno 34 e 23 anni) e di salute.

    – Leggi anche: Cosa fai tutto il giorno quando la tua specie si è estinta: la vita di Najin e Fatu

    La speranza di far nascere nuovi rinoceronti bianchi settentrionali è legata al fatto che disponiamo di cellule vive di 12 diversi individui della specie. Dal 2019 gli scienziati di BioRescue hanno utilizzato delle cellule uovo di Fatu e lo sperma di Sudan e Suni per creare trenta embrioni di rinoceronti bianchi settentrionali che sono conservati a una temperatura di -196 °C all’Istituto Leibniz per la ricerca zoologica di Berlino, in Germania, e nel laboratorio di Avantea, un’azienda di biotecnologia specializzata nella riproduzione animale che si trova a Cremona, in Lombardia.
    Un altro ente italiano, l’Università di Padova, si occupa di analizzare gli aspetti etici dell’uso di femmine di rinoceronte bianco meridionale come madri surrogate e delle procedure seguite per farlo. Non sono semplici, anche per via delle dimensioni dei rinoceronti bianchi, che sono tra gli animali terrestri più grandi al mondo: gli adulti hanno una lunghezza compresa tra 3 e 4,5 metri e per impiantare un embrione in una femmina bisogna raggiungere un punto del suo apparato riproduttivo che è «2 metri dentro l’animale», ha spiegato Susanne Holtze dell’Istituto Leibniz a BBC News.
    Il feto di rinoceronte bianco meridionale di cui era incinta Curra, il 29 novembre 2023; la gravidanza dei rinoceronti dura 15-16 mesi (Jon A. Juárez)
    Per assicurarsi che la femmina sia pronta a portare avanti una gravidanza bisogna poi che ci siano determinate condizioni. Curra, che viveva nella riserva naturale di Ol Pejeta, in Kenya, come Najin e Fatu, era stata messa all’interno di una zona recintata insieme a Ouwan, un maschio su cui era stata praticata una vasectomia, cioè un intervento in cui si incide lo scroto e si recidono i due vasi che collegano i testicoli ai dotti eiaculatori e permettono il passaggio degli spermatozoi attraverso il pene. I maschi sottoposti a questa operazione hanno istinti e comportamenti sessuali come gli altri, ma non possono fecondare una femmina.
    Qualche giorno dopo l’accoppiamento tra i due rinoceronti, gli scienziati hanno addormentato Curra e hanno proceduto all’impianto di due embrioni di rinoceronte bianco meridionali ottenuti con la fecondazione in vitro nel laboratorio di Avantea (ne avevano usati due per avere maggiori probabilità di successo).
    Successivamente Ouwan aveva smesso di mostrare interesse nei confronti di Curra, cosa che faceva supporre che la femmina fosse incinta. BioRescue avrebbe dovuto accertarsene con maggiore sicurezza il 28 novembre, ma nei giorni precedenti sia Curra che Ouwan erano stati trovati morti: è stato ricostruito che le intense piogge di quel periodo avevano allagato il recinto in cui si trovavano, attivando le spore di un batterio che si trovava nel suolo. L’autopsia di Curra ha comunque dimostrato che la gravidanza era effettivamente cominciata e che un feto stava crescendo: secondo le analisi c’era il 95 per cento delle probabilità che sarebbe nato vivo dopo i 15-16 mesi necessari alla gravidanza nei rinoceronti. Un test del DNA eseguito questo mese all’Istituto Leibniz ha confermato che derivava da uno dei due embrioni impiantati.
    Ora BioRescue progetta di scegliere e preparare due altri rinoceronti bianchi meridionali, maschio e femmina, per ripetere l’operazione. Poi tenterà un nuovo trasferimento di embrioni, questa volta usando quelli di rinoceronte bianco settentrionale. Finora non è mai stata tentata una maternità surrogata con animali di due sottospecie diverse, quindi non è detto che funzionerà, ma gli scienziati sono ottimisti. Vorrebbero riuscire a far nascere un rinoceronte bianco settentrionale finché Najin e Fatu sono ancora vive, in modo che il piccolo possa vedere i comportamenti della sua specie e imparare il loro modo di comunicare.
    Se anche il progetto dovesse riuscire non è detto che la specie continuerà a esistere in futuro perché gli embrioni attualmente disponibili sono stati ottenuti da soli tre animali, quindi senza una sufficiente variabilità genetica per garantire la sopravvivenza di una eventuale popolazione sana. Tuttavia BioRescue sta anche lavorando per cercare di ottenere in laboratorio cellule uovo e spermatozoi che contengano il DNA degli altri rinoceronti bianchi settentrionali di cui conserviamo cellule vive.
    L’intero lavoro è considerato uno spreco di risorse da parte della comunità scientifica che ritiene che ci si dovrebbe concentrare sulla salvaguardia di specie che non sono già quasi estinte. Tuttavia i membri di BioRescue sostengono che l’umanità sia in debito con i rinoceronti bianchi settentrionali perché sarebbe responsabile della loro estinzione. LEGGI TUTTO