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    Perché si parla di un’allerta dengue

    Caricamento playerMartedì il ministero della Salute ha innalzato il livello di allerta legato alla diffusione della dengue dall’estero, soprattutto in seguito al significativo aumento di casi di questa malattia in Brasile e in altri paesi del Sudamerica. L’innalzamento dell’allerta è stato segnalato da alcuni giornali talvolta con toni allarmati, ma al momento non ci sono particolari rischi per la diffusione in Italia della malattia, che viene trasmessa da alcune specie di zanzare.
    SudamericaSecondo i dati diffusi all’inizio della settimana dal ministero della Salute brasiliano, nel paese sono stati rilevati oltre 512mila casi di dengue (tra confermati e probabili) da inizio anno, e almeno 75 morti causati dalla malattia. Le autorità sanitarie stanno inoltre effettuando verifiche su altri 340 decessi che potrebbero essere ricondotti a infezioni di dengue. Il maggior numero di casi rispetto alla popolazione è stato registrato nella capitale Brasilia, con quasi 2.300 infezioni da dengue ogni 100mila abitanti. La situazione è stata definita preoccupante da esperti e osservatori, ma il problema non riguarda unicamente il Brasile.
    In Sudamerica è estate e c’è di conseguenza una maggiore circolazione di zanzare (nei paesi tropicali dove il clima è mite per buona parte dell’anno il problema è sentito anche in altri periodi). Nelle ultime settimane i casi di dengue sono sensibilmente aumentati anche in Argentina, Uruguay e Paraguay. Il ministero della Salute argentino ha segnalato quasi 40mila casi da metà dello scorso anno a inizio febbraio, e 29 morti dovute alla malattia nel medesimo periodo. L’incidenza è stata di 86 casi ogni 100mila persone ed è stata confermata la presenza della malattia in buona parte delle regioni del paese.
    La dengue è tra le malattie più diffuse nei climi tropicali e subtropicali. Fare una stima accurata di quanti casi ci siano ogni anno a livello globale è molto difficile, perché nella maggior parte dei casi la malattia non causa sintomi e chi contrae l’infezione non si accorge di averla. L’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) stima che ci siano tra i 100 e i 400 milioni di infezioni da dengue all’anno, ma ultimamente ha segnalato un aumento dei casi e il rischio concreto che la malattia diventi un problema globale anche a causa dell’aumento della temperatura legato al cambiamento climatico. Più aree geografiche diventano calde e umide e di conseguenza in più zone aumentano le popolazioni di zanzare, responsabili della trasmissione della malattia.
    Dengue e zanzareCi sono almeno quattro virus simili tra loro (più un quinto che si sta valutando di aggiungere alla lista) che causano la dengue. La trasmissione del virus avviene attraverso le punture delle zanzare, mentre non sono noti casi di contagio diretto tra esseri umani. Una persona infetta viene quindi punta da una zanzara che pungerà poi un’altra persona, trasmettendo in questo modo il virus.
    Nei casi in cui la dengue causa sintomi, si hanno di solito febbre, mal di testa, dolori muscolari e intorno agli occhi; alcune persone sviluppano anche nausea e vomito, o ancora uno sfogo cutaneo con irritazioni in varie parti del corpo. La diagnosi non è sempre semplice, soprattutto nei paesi dove la malattia non è normalmente presente e viene quindi ritenuta meno probabile rispetto ad altre, ma ci sono test che possono essere effettuati per cercare tracce del virus nel sangue oppure gli anticorpi specifici che il sistema immunitario sviluppa per contrastarlo.
    Non essendoci una cura vera e propria, la dengue viene trattata con una “terapia di sostegno”: si lascia che siano le difese dell’organismo a superare l’infezione, aiutandolo con un’adeguata somministrazione di liquidi e se necessario di farmaci per ridurre l’entità dei sintomi. In casi molto rari si può sviluppare una febbre emorragica, che può portare a pericolose emorragie interne con uno shock circolatorio ed eventualmente la morte. È stato riscontrato un maggior rischio di avere complicazioni per chi si era già ammalato di dengue in passato, ma con un tipo di virus diverso da quello della nuova infezione.
    Le specie di zanzara note per fare da vettore della dengue sono Aedes aegypti e Aedes albopictus. La prima viene spesso chiamata “zanzara della febbre gialla” ed è la causa anche della trasmissione della malattia Zika, della chikungunya e della febbre gialla; la seconda è conosciuta soprattutto come “zanzara tigre” per via delle sue striature bianche e nere: è indigena delle aree tropicali e subtropicali, ma si è ormai adattata a vivere in zone relativamente più fredde ed è diffusa in diversi paesi europei.
    Dengue in ItaliaDi dengue in Italia si era parlato molto all’inizio di settembre del 2023 in seguito ad alcuni casi autoctoni rilevati in provincia di Lodi e in seguito in altre zone della Lombardia. I casi erano stati osservati con attenzione perché non derivavano da persone ritornate da un viaggio all’estero, dove può accadere che si contragga un’infezione, ma da persone che erano state infettate mentre si trovavano nella zona. A scopo di prevenzione, erano state effettuate attività di bonifica per ridurre le popolazioni di zanzare e il rischio di nuovi casi.
    VaccinoOltre al controllo della popolazione di zanzare e all’impiego di rimedi per ridurre il rischio di essere punti, da qualche tempo sono disponibili alcuni vaccini contro la malattia. Lo sviluppo di un vaccino ha richiesto diverso tempo, perché era difficile ottenere un prodotto che fosse efficace contro la maggior parte dei virus che possono causare la malattia. Il più recente e che si è dimostrato efficace contro i quattro tipi di virus è stato sviluppato e prodotto dall’azienda farmaceutica giapponese Takeda. In seguito ai risultati positivi ottenuti nei test clinici, nel 2022 è stato autorizzato per il suo impiego nell’Unione Europea e ha ricevuto l’approvazione anche in Brasile e Argentina, ora impegnati a vaccinare la popolazione visto l’aumento notevole dei casi degli ultimi mesi.
    In Italia il vaccino prodotto da Takeda sarà messo a disposizione della popolazione dalla prossima settimana, tramite l’Istituto Spallanzani di Roma, centro di riferimento per le malattie infettive nel nostro paese. Sarà somministrato nell’ambulatorio di malattie tropicali, ma solo su richiesta e attraverso un sistema di prenotazione.
    AllertaAl momento il vaccino è indicato per chi abbia intenzione di recarsi in luoghi dove c’è una forte presenza di dengue, mentre non ci sono motivi per la popolazione generale per vaccinarsi visto che i casi autoctoni nel nostro paese sono stati finora rari. L’innalzamento dell’allerta deciso dal ministero della Salute riguarda le procedure che vengono attuate soprattutto nei porti e negli aeroporti per ridurre la presenza delle zanzare, in modo che non ci siano insetti infetti provenienti dai paesi attualmente più a rischio.
    Molte procedure sono già normalmente previste per evitare contaminazioni di vario tipo, ma la circolare invita a «vigilare attentamente sulla disinsettazione degli aeromobili» e di «valutare l’opportunità di emettere ordinanze per l’effettuazione di interventi straordinari di sorveglianza delle popolazioni di vettori ed altri infestanti e di disinfestazione». L’invito è rivolto agli Uffici di sanità marittima aerea e di frontiera, che sono competenti per la vigilanza su ciò che arriva attraverso i cosiddetti “Punti di ingresso italiani”.
    Il fatto che sia stata alzata l’allerta riguarda quindi una riduzione del rischio su eventuali contagi provenienti dall’estero, in una fase in cui la dengue è molto diffusa soprattutto in alcuni paesi del Sudamerica. È una procedura prevista in casi come questi, ma non implica che ci siano pericoli immediati per la popolazione nel nostro paese. LEGGI TUTTO

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    Le politiche ambientali danneggiano davvero gli agricoltori?

    Caricamento playerIl 6 febbraio la Commissione Europea ha annunciato un nuovo ambizioso obiettivo che prevede la riduzione del 90 per cento delle emissioni di gas serra entro il 2040, rispetto ai livelli del 1990. La raccomandazione, che non è vincolante e sarà discussa in futuro dalle altre istituzioni europee, contiene riferimenti molto vaghi al settore agricolo nonostante questo produca circa il 14 per cento di tutte le emissioni nell’Unione Europea. La mancanza di indicazioni chiare non è passata inosservata e, secondo vari osservatori, è dovuta alla volontà della Commissione di non esacerbare ulteriormente i rapporti con gli agricoltori, diventati tesissimi nelle ultime settimane in parte proprio per le iniziative legate alla riduzione delle emissioni dei gas serra.
    Da settimane in Italia, Francia, Germania, Spagna e in vari altri paesi europei gli agricoltori protestano contro le politiche nazionali e dell’Unione applicate al loro settore. Le ragioni delle proteste cambiano a seconda dei paesi, con rivendicazioni non sempre semplici da comprendere e coerenti, ma in un modo o nell’altro hanno comunque tutte a che fare con il modo in cui sono assegnati i sussidi per sostenere le attività agricole, i vincoli da rispettare per ottenerli e le nuove norme per ridurre le emissioni.

    – Ascolta anche: Le proteste degli agricoltori sono un pezzo di una storia più grande, che sfama il mondo

    Nelle semplificazioni che spesso accompagnano le cronache delle proteste è passato il concetto che gli agricoltori siano contro alcune delle più importanti politiche per contrastare il cambiamento climatico, e che di conseguenza siano più interessati al proprio tornaconto che all’ambiente e al suo futuro. In realtà, la questione è molto più complessa e le proteste degli ultimi giorni sono il risultato di anni di difficoltà economiche, proposte sul clima difficili da raggiungere in poco tempo e meccanismi non sempre efficienti nell’attribuzione dei sussidi.
    L’agricoltura in EuropaIl settore agricolo nell’Unione Europea ha un ruolo importante sia dal punto di vista economico sia per i servizi che offre, visto che produce il cibo consumato da centinaia di milioni di persone. I dati completi più recenti riferiti al 2022 dicono che agricoltura e allevamento costituiscono circa l’1,5 per cento del prodotto interno lordo dell’Unione. È una quota relativamente contenuta rispetto ad altri settori molto più grandi, ma in termini assoluti è comunque rilevante, intorno ai 221 miliardi di euro sempre nel 2022. Se si considera il valore generato da tutte le attività agricole, compreso l’indotto, si arriva a quasi 540 miliardi di euro, la maggior parte dei quali è derivata direttamente dalle coltivazioni (circa 290 miliardi di euro).
    Quattro paesi da soli producono circa il 57 per del valore di tutto ciò che è legato al settore agricolo europeo: Francia con 97 miliardi di euro, Germania con 76, Italia con 71,5 e infine Spagna con 63. Il maggior peso di queste nazioni nella produzione agricola spiega almeno in parte perché alcune delle proteste più grandi si siano verificate proprio in quei paesi.

    SussidiPer ragioni storiche e di funzionamento del mercato, è molto raro che il settore agricolo riesca a sostenersi senza aiuti pubblici. È un problema diffuso che riguarda molte aree del mondo e che viene quasi sempre affrontato dai governi con agevolazioni fiscali e sussidi, tesi per esempio a far costare meno i carburanti per i mezzi agricoli o a favorire investimenti in sistemi per rendere più efficiente la produzione agricola. Spesso ai sussidi per obiettivi si affiancano finanziamenti “a pioggia”, che vengono quindi attribuiti senza che sia richiesto qualcosa in cambio.
    Nell’Unione Europea l’insieme delle norme che regolano l’erogazione dei fondi europei si chiama “Politica agricola comune” (PAC) e viene aggiornata ogni cinque anni. Quella attualmente in vigore risale al 2023, sarà valida fino alla fine del 2027 e prevede lo stanziamento di circa 387 miliardi di euro, divisi in due grandi fondi: il Fondo europeo agricolo di garanzia (FEAGA) e il Fondo europeo agricolo per lo sviluppo rurale (FEASR). La maggior parte del denaro sarà distribuita attraverso sussidi diretti per gli agricoltori, con una spesa intorno a 190 miliardi di euro.
    Con la precedente PAC, si stima che la maggior parte degli agricoltori ricevette nel 2019 circa 5mila euro, mentre una piccola parte costituita da aziende molto più grandi incassò più di 50mila euro. I criteri di assegnazione della nuova PAC sono stati rivisti, con nuove modalità di accesso ai fondi e maggiori vincoli legati soprattutto alla tutela dell’ambiente: gli agricoltori che non rispettano alcune richieste necessarie per accedere ai fondi possono perdere diversi pagamenti.
    Nel corso degli anni i sussidi si sono rivelati molto importanti per mantenere un settore spesso esposto alle oscillazioni dei prezzi, dovute a come cambia la domanda in base all’offerta dai paesi esteri, ma anche a grandi imprevisti come si è per esempio visto nel 2022 con l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia. Come in altri settori dove sono previsti, i sussidi possono condizionare negativamente il sistema, per esempio mantenendo in vita aziende non efficienti, che non si sentono incentivate a migliorarsi visto che tanto i fondi riducono il rischio di non essere redditizie.
    Se accompagnati da incentivi, i sussidi possono però fare la differenza e indurre le aziende ad adottare comportamenti virtuosi, investendo per esempio in nuovi macchinari e tecnologie per aumentare la resa delle coltivazioni e ridurre il loro impatto ambientale. I sussidi sono inoltre importanti per tenere sotto controllo i prezzi di beni di prima necessità, che devono essere il più possibile accessibili a tutte le fasce della popolazione. Trovare il giusto equilibrio non è mai stato semplice e le cose si sono ulteriormente complicate circa cinque anni fa in seguito all’avvio di un enorme, e necessario, piano per ripensare l’economia europea e renderla più sostenibile: il “Green Deal”.
    Dalla fattoria alla forchettaAvviato nel 2020, il Green Deal è la serie di iniziative politiche proposte dalla Commissione europea per raggiungere in Europa entro il 2050 la neutralità carbonica (ovvero riuscire a rimuovere tanta anidride carbonica, o altri gas serra, quanta quella immessa nell’atmosfera). Il piano coinvolge tutti i settori produttivi, da quelli dell’industria all’energia passando per la mobilità, e riguarda naturalmente anche il settore agricolo. Tra le soluzioni da adottare ci sono l’efficientamento energetico, la riduzione del consumo di combustibili fossili e la tutela dell’ambiente attraverso iniziative per creare nuove foreste e ripristinare gli ecosistemi naturali.
    Il progetto più importante all’interno del Green Deal per il settore agricolo è il cosiddetto “Farm to Fork”, letteralmente “dalla fattoria alla forchetta” in inglese. È anche in questo caso un piano estremamente ambizioso per:
    Avere un impatto ambientale neutro o positivo, contribuire a mitigare il cambiamento climatico e ad adattarsi ai suoi impatti, invertire la perdita di biodiversità, garantire la sicurezza alimentare, la nutrizione e la salute pubblica, assicurando che tutti abbiano accesso a cibo sufficiente, sicuro, nutriente e sostenibile, preservare l’accessibilità economica dei prodotti alimentari generando ritorni economici più equi, favorendo la competitività del settore dell’approvvigionamento dell’UE e promuovendo il commercio equo.
    Sulla base di queste dichiarazioni di indirizzo è previsto che le istituzioni europee producano leggi e direttive per il settore agricolo, utilizzando il meccanismo dei sussidi (la PAC) come principale strumento pratico per incentivare i produttori a comportamenti virtuosi o per sanzionare eventuali comportamenti scorretti.
    Nelle intenzioni, il Farm to Fork aveva obiettivi molto ambiziosi come una forte riduzione dei fertilizzanti e dei pesticidi (che hanno effetti su molte specie importanti per gli ecosistemi), la conversione di un quarto dei terreni alle colture biologiche e la piantumazione di almeno 3 miliardi di alberi. Alcune proposte sono rimaste, mentre altre sono state via via riviste e ridotte di portata per venire incontro alle richieste del settore agricolo. In alcuni casi si è trattato di scelte obbligate perché alcuni provvedimenti erano impraticabili, in altri casi di cedimenti alle pressioni degli agricoltori, che riescono a esercitare molto bene la loro capacità di influenza a livello nazionale ed europeo soprattutto negli anni elettorali.
    Cedimenti e concessioniIl caso più evidente e discusso negli ultimi giorni è stato quello della Sustainable Use Regulation (SUR), che nell’ambito del Green Deal prevedeva una progressiva riduzione dei pesticidi entro il 2030. Martedì 6 febbraio la Commissione Europea ha deciso di rinunciare alla SUR, dopo che a novembre dello scorso anno la proposta sulla riduzione era già stata respinta dal Parlamento Europeo ed era quindi già esposta a una probabile cancellazione o comunque a una sua profonda revisione.
    I pesticidi riducono il rischio di perdere interi raccolti a causa dei parassiti, ma il loro impiego su larga scala ha un forte impatto sugli ecosistemi e in particolare su una grandissima quantità di specie di insetti, che ne patiscono ugualmente gli effetti. Tra i più colpiti ci sono spesso gli insetti impollinatori, che hanno un ruolo centrale nella fecondazione di molte varietà di piante. Meno insetti significa anche meno cibo per molte specie di uccelli e di altri piccoli predatori, con un progressivo impoverimento della biodiversità, cioè di quanto è diversificato un certo ambiente naturale.
    (Sean Gallup/Getty Images)
    La rinuncia alla SUR, che era stata proposta nel giugno del 2022, è stata vista come una concessione agli agricoltori in vista delle imminenti elezioni europee che si terranno il prossimo giugno. La decisione è stata fortemente criticata da scienziati e scienziate che da anni studiano gli effetti dei pesticidi sull’ambiente, scoprendo spesso ricadute che danneggiano lo stesso settore agricolo. Lo scorso anno 6mila scienziati avevano firmato una lettera a sostegno della SUR, segnalando l’importanza di non rinviare ulteriormente la decisione sui pesticidi.
    La notizia sull’abbandono della SUR è stata velocemente messa in secondo piano dall’annuncio della Commissione europea sulla riduzione del 90 per cento delle emissioni di gas serra entro il 2040, rispetto ai livelli del 1990. Ciò che però ha colpito diversi analisti è che il piano, ampiamente anticipato nelle scorse settimane, non contiene nessun riferimento specifico all’agricoltura, a differenza di alcune bozze circolate in precedenza. Il documento si limita a ricordare l’importanza del settore agricolo nel ridurre le emissioni di gas serra, ma non contiene informazioni più specifiche.
    Anche se si tratta di una raccomandazione, quindi non vincolante e in un certo senso indirizzata alla futura Commissione che sarà scelta dopo le elezioni europee, le modifiche alle regole per il settore agricolo proprio mentre dilagavano le proteste con i trattori in molti paesi europei sono state notate da molti. Bas Eickhout, tra i parlamentari europei più in vista del gruppo dei Verdi, ha commentato in aula il documento dicendo: «Avete cancellato tutte le cose sull’agricoltura. Nascondere queste cose nella vostra comunicazione non fa certo sparire il problema».
    Dalle comunicazioni della Commissione sono stati rimossi alcuni riferimenti a una riduzione entro il 2040 del 30 per cento del metano e di alcuni gas (NOS) prodotti dai motori termici, così come sono stati eliminati i passaggi sulla necessità di cambiare stili e abitudini di vita. In precedenza veniva per esempio raccomandato di consumare meno carne e prodotti caseari, visto che una quota importante dei gas serra deriva dalle attività degli allevamenti di animali. Oltre ai riferimenti sulla riduzione dei pesticidi, altre ipotesi riguardavano la riduzione dei sussidi per l’acquisto dei combustibili fossili, in modo da favorire il passaggio a macchinari agricoli meno inquinanti e più efficienti.
    A fine gennaio la Commissione europea aveva anche annunciato una deroga all’applicazione di una regola molto contestata, ma ritenuta importante per favorire la biodiversità (che in ultima istanza ha comunque effetti positivi anche nelle coltivazioni). La regola prevede che gli agricoltori lascino incolto il 4 per cento dei propri terreni ogni anno, in modo da favorire una rigenerazione del terreno, la crescita di piante selvatiche e di piccoli ecosistemi popolati da una grande varietà di specie. Deroghe simili erano già state applicate in passato, rispondendo alle richieste degli agricoltori che avevano segnalato difficoltà legate alla produzione.
    Ambiente e agricolturaLe richieste e le rimostranze degli agricoltori variano molto e non è sempre semplice comprenderne la fondatezza, ma in questi anni è diventato evidente un certo disallineamento tra le scelte legate alle politiche agricole e quelle ambientali. Sono state adottate regole più rigide e spesso complesse per ridurre l’impatto ambientale del settore, senza che fossero affrontati fino in fondo alcuni dei problemi più rilevanti soprattutto per i produttori medio-piccoli, che hanno più difficoltà a fare investimenti e a mantenersi al passo con le nuove regole.
    I progressi tecnologici per rendere più sostenibile il settore agricolo esistono, in alcuni casi anche da diverso tempo, ma alcuni di questi rimangono inaccessibili in particolare nell’Unione Europea. Le forti limitazioni all’impiego degli organismi geneticamente modificati (OGM), per esempio, possono rendere più necessario il ricorso ai pesticidi perché le coltivazioni sono meno resistenti ai parassiti. La richiesta di usarne meno potrebbe quindi avere un forte impatto sulla resa delle coltivazioni, già inferiori rispetto a quelle realizzate nei paesi dove gli OGM sono liberamente utilizzabili.
    Buona parte dei paesi europei utilizza i semi di soia e mais OGM importati da Brasile, Argentina, Stati Uniti e Canada per gli animali da allevamento, spesso meno costosi dei loro analoghi non OGM prodotti internamente. Si determina in questo modo una sensibile disparità sul mercato, che finisce per favorire prodotti provenienti dall’estero e contro i quali è difficile competere.
    Una protesta degli agricoltori in Bulgaria, il 6 febbraio (AP Photo/Valentina Petrova)
    Come dimostra l’andamento del Green Deal fino a qui, gestire la transizione ecologica richiede enormi quantità di risorse e ha innumerevoli implicazioni, difficili da tenere sotto controllo in un’economia globale. Alcune ci sono più evidenti semplicemente perché ne abbiamo esperienza diretta nella vita di tutti i giorni, altre come quelle del settore agricolo ci appaiono più distanti o tendiamo proprio a ignorarle. Nelle nostre società il cibo è sempre disponibile e accessibile, in un modo o nell’altro, al punto da non portarci a pensare a cosa abbia reso possibile la sua esistenza sullo scaffale di un supermercato o sulla bancarella di un mercato.
    Grazie alle maggiori conoscenze scientifiche e ai progressi tecnologici dell’ultimo secolo, non è mai esistito tanto cibo quanto oggi. Ma l’attuale modo di produrlo non è più sostenibile e deve essere ripensato nei suoi fondamentali. Molte delle tecnologie per farlo esistono già e in alcuni contesti sono già ampiamente utilizzate, ma la transizione verso questi sistemi e un modo diverso di pensare l’agricoltura richiede tempo, denaro e una certa capacità nel comunicare l’importanza del cambiamento a chi materialmente coltiva la terra.
    Cedere a ogni rivendicazione e protesta, per quanto comprensibile in un quadro così complesso, potrebbe rivelarsi deleterio o per lo meno rischioso per un pezzo importante della transizione ecologica. Come ha spiegato Alan Matthews, esperto di economia agricola del Trinity College di Dublino: «Perché gli agricoltori dovrebbero fermarsi a questo punto, se vedono che i governi corrono ai ripari? I governi devono mantenere le loro posizioni e spiegare che dobbiamo raggiungere gli obiettivi ambientali. Parliamo piuttosto di questo, senza arrenderci». LEGGI TUTTO

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    Le categorie per classificare gli uragani non bastano più?

    Caricamento playerDagli anni Settanta gli uragani che suscitano maggiori preoccupazioni quando si avvicinano alle coste dell’America del Nord sono quelli «di categoria 5». Questa descrizione fa riferimento alla scala Saffir-Simpson, un sistema di classificazione per le tempeste tropicali più forti che si formano nel nord dell’oceano Atlantico o nel nord-est dell’oceano Pacifico basata sulla misura della velocità dei venti. Rientrano nella categoria 1, quella associata a danni limitati, le tempeste con venti di velocità compresa tra 119 e 153 chilometri orari. La categoria 5 invece è quella degli uragani i cui venti superano i 252 chilometri orari, ed è associata a danni «catastrofici».
    La scala non contempla una velocità massima oltre la quale non si può più parlare di categoria 5, perché già con venti di 252 chilometri orari si possono avere danni gravissimi. Tuttavia secondo due scienziati statunitensi potrebbe esserci una buona ragione per aggiungere una “categoria 6” alla scala o almeno discutere l’idea. In un articolo pubblicato la settimana scorsa sull’autorevole rivista Proceedings of the National Academy of Sciences Michael Wehner e James Kossin lo hanno proposto perché il cambiamento climatico sta causando un aumento della frequenza delle tempeste tropicali più intense. Secondo loro distinguerle dalle altre aiuterebbe a far conoscere questo problema ed eviterebbe di sottostimare i rischi per la sicurezza di infrastrutture e persone.
    La “categoria 6” ipotizzata da Wehner e Kossin comprenderebbe le tempeste tropicali con venti di velocità superiore a 309 chilometri orari. Dal 2013 a oggi ce ne sono state cinque, un uragano e quattro tifoni, come sono chiamati gli uragani del nord-ovest del Pacifico, a cui sono esposte le coste del sud-est asiatico: il tifone Haiyan, che nel novembre del 2013 uccise migliaia di persone nelle Filippine; l’uragano Patricia, che ha riguardò l’ovest del Messico nell’ottobre del 2015 e i cui venti arrivarono a 346 chilometri orari di velocità; il tifone Meranti del 2016, il tifone Goni del 2020 e il tifone Surigae del 2021.

    – Leggi anche: Che differenza c’è tra uragani e tifoni

    In generale la frequenza delle tempeste tropicali più intense è aumentata. Se si considerano i 42 anni tra il 1980 e il 2021, quelli per cui si hanno dati affidabili, le tempeste tropicali classificabili come di categoria 5 sono state 197: la metà è stata registrata negli ultimi 17 anni del periodo e i cinque più forti, già citati, sono avvenuti tutti negli ultimi nove anni.
    Questo fenomeno è legato all’aumento della temperatura degli oceani, che si stanno scaldando a livello globale come l’atmosfera, anche se più lentamente: semplificando, tanto più sono caldi gli strati superficiali dell’acqua, maggiore è l’energia che può generare precipitazioni particolarmente intense. E secondo le stime di Wehner e Kossin nello scenario in cui la temperatura media globale aumenterà di 2 °C rispetto ai livelli preindustriali il rischio tempeste “di categoria 6” raddoppierà.
    Non è la prima volta che degli scienziati mettono in discussione la scala Saffir-Simpson, che ha vari limiti e peraltro è usata solo in Nord America e non in Asia, dove si verificano tifoni e cicloni. Il suo difetto principale è che è basata unicamente sulla velocità del vento, e non sulla forza delle onde che si abbattono sulle coste all’arrivo di una tempesta e delle inondazioni che può causare, sebbene la maggior parte dei danni dovuti agli uragani sia causata proprio dall’acqua e non dall’aria.
    Tuttavia già in passato e anche in questa occasione alcuni scienziati si sono detti contrari all’ampliamento della scala con una “categoria 6”. Michael Fischer del laboratorio oceanografico e meteorologico dell’Atlantico della National Oceanic and Atmospheric Administration (NOAA), l’agenzia statunitense che si occupa degli studi meteorologici e oceanici, ha detto al Washington Post che potrebbe essere controproducente perché potrebbe far sottostimare gli uragani di categoria 5.
    Le agenzie statali statunitensi che si occupano di meteorologia e dei rischi legati agli uragani in ogni caso non hanno in programma di modificare l’uso della scala Saffir-Simpson al momento. Già oggi in realtà le associano delle previsioni sulle inondazioni, che però sono meno note, soprattutto dove solitamente non arrivano uragani. Deirdre Byrne, un’oceanografa della NOAA, si è espressa abbastanza positivamente sulla proposta di una “categoria 6” («non sarebbe inappropriata») ma ha detto che forse sarebbe più utile associare la scala Saffir-Simpson a un sistema simili che classifichi i rischi legati alle alluvioni, ad esempio con una scala da A a E.
    Gli stessi Kossin e Wehner hanno detto che per decidere se estendere la scala esistente bisognerebbe prima commissionare una ricerca sociologica per verificare come modificherebbe la percezione del rischio delle persone. LEGGI TUTTO

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    Weekly Beasts

    I campi da golf sono spesso un buon posto dove avvistare animali: a questo giro in uno a Bela-Bela, in Sudafrica, c’erano zebre, manguste e scimmie, mentre in un altro a Panama una fila di uccelli in ombra. Poi un cane lavato nella toelettatura che ha aperto da poco in una prigione femminile di La Paz, in Bolivia, un servalo, due vari rossi, un pitone verde e piccolissimi pesci rilasciati in natura. LEGGI TUTTO

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    Che animali sono davvero gli ermellini

    Caricamento playerMercoledì sera, durante il Festival di Sanremo, sono state presentate le mascotte per le Olimpiadi e Paralimpiadi di Milano-Cortina del 2026: sono due ermellini e si chiamano Tina e Milo, dai nomi delle città coinvolte nella manifestazione. Tina rappresenta le Olimpiadi e ha la pelliccia bianca; suo fratello Milo rappresenta le Paralimpiadi – è nato senza una zampa, ma cammina usando la coda – e ha la pelliccia marrone.
    Nella realtà gli ermellini sono bianchi d’inverno e marroni d’estate. In tutte le stagioni sono piuttosto difficili da vedere, non solo perché in Italia vivono solo sulle Alpi, ma anche perché sono piuttosto piccoli (massimo 30 centimetri di lunghezza), vivono soprattutto sotto terra o sotto la neve e si mimetizzano. Sono tra le specie italiane di mammiferi selvatici di cui sappiamo meno cose perché la loro elusività rende difficile studiarli e perché, anche tra i biologi, sono spesso ignorati a vantaggio di specie che si notano di più, come lupi e orsi tra i carnivori, e cinghiali, cervi e stambecchi tra gli erbivori. Meriterebbero più attenzione però: ci sono buone ragioni per pensare che la diminuzione della neve sulle Alpi dovuta al cambiamento climatico non complichi solo la pratica degli sport invernali ma metta a grosso rischio la conservazione della specie.
    «Vederli nella trasmissione più seguita d’Italia mi è sembrata un’allucinazione», racconta Marco Granata, biologo e dottorando dell’Università di Torino che è una delle poche persone a studiarli in Europa: «È una specie molto trascurata: per chi dedica la sua vita alla conservazione degli ermellini e cerca di farli conoscere è davvero strano vederli in televisione».
    Nella primavera del 2023 Granata ha iniziato un progetto di ricerca nelle Aree Protette Alpi Marittime, nel Piemonte sud-occidentale, per capire sul campo quale sia il metodo migliore per monitorare la presenza degli ermellini dato che «c’è un disperato bisogno di dati» che permettano di stimare quanti siano e in che misura siano danneggiati dagli effetti del riscaldamento globale. Tra i metodi testati ci sono le fototrappole, cioè quelle fotocamere che scattano quando rilevano un movimento e che si usano anche per altri animali selvatici, e le cosiddette Mostela, delle scatole con dei buchi contenenti fototrappole che possono essere interessanti come nascondigli per alcuni piccoli animali.

    Gli ermellini (Mustela erminea) sono mustelidi, cioè appartengono a quella famiglia di mammiferi carnivori in cui rientrano anche le lontre, i tassi, i visoni, le donnole, le puzzole (da cui derivano i domesticati furetti), le faine e le meno conosciute martore. In Italia si trovano solo sulle Alpi, mentre a latitudini più settentrionali vivono anche in zone di pianura. A differenza degli orsi, ma anche delle volpi e dei lupi che mangiano anche vegetali, gli ermellini e gli altri mustelidi sono esclusivamente carnivori. Gli ermellini in particolare cacciano soprattutto roditori, come le arvicole, e occasionalmente uccelli. Sulle Alpi si stima che abbiano un’aspettativa di vita attorno all’anno e mezzo, mentre in cattività possono vivere anche dieci anni.
    Studiare gli ermellini è complicato anche perché non ce ne sono tanti in un unico posto, piuttosto il contrario: sono animali solitari che, essendo cacciatori, si fanno competizione tra loro e che per questo non possono condividere il proprio territorio con loro simili. Per tutte queste ragioni, sebbene sappiamo che sono presenti più o meno su tutto l’arco alpino, negli anni sono stati pubblicati solo tre studi scientifici italiani sugli ermellini: uno è del 1995, il secondo del 2001 (ha come primo autore lo zoologo Adriano Martinoli, una delle voci del podcast del Post sulle specie aliene Vicini e lontani) e il terzo del 2006. Tutti e tre avevano limiti geografici e di finalità, e non permettono di stimare quanti ermellini possano esserci in Italia. «Abbiamo zero informazioni su questo», conferma Granata.

    «A lungo termine mi piacerebbe costruire una rete di monitoraggio per conservare la specie sull’arco alpino», continua il biologo. Dato che anche negli altri paesi non ci sono molti dati, gli ermellini non sono considerati in pericolo dall’Unione Internazionale per la Conservazione della Natura (IUCN, cioè l’ente internazionale riconosciuto dall’ONU che valuta quali specie animali e vegetali rischiano l’estinzione) tuttavia siamo piuttosto sicuri che siano danneggiati dal cambiamento climatico. In Nord America, dove la specie è a sua volta presente, è stato stimato che gli ermellini e le donnole siano diminuiti di più dell’80 per cento negli ultimi 60 anni.
    Tale diminuzione della loro popolazione è stata ricondotta al riscaldamento globale per diverse ragioni e una ha a che fare con la neve. Per via delle loro dimensioni gli ermellini sono prede di altri animali, come volpi e uccelli rapaci, e il cambiamento del colore della loro pelliccia nel corso dell’anno è funzionale proprio a nascondersi dai predatori. Se c’è meno neve però la pelliccia bianca invernale li rende al contrario molto visibili e più facili da cacciare.
    Sempre in Nord America la loro diminuzione ha anche altre probabili cause, tra cui la caccia praticata dagli esseri umani. Sulle Alpi anche la presenza delle piste da sci potrebbe danneggiarli: uno studio del 2013 fatto tra Piemonte e Valle d’Aosta ha mostrato che le piste creano problemi a vari piccoli mammiferi, comprese le principali prede degli ermellini, perché ne frammentano l’habitat, e per questo potrebbero danneggiare anche loro, sia indirettamente che direttamente.
    Le mascotte delle Olimpiadi e Paralimpiadi di Milano-Cortina 2026; per Granata sono abbastanza precise come rappresentazione degli animali, anche se i veri ermellini non hanno il naso rosa e una coda in proporzione più corta rispetto al resto del corpo (Ufficio Stampa Milano Cortina 2026, ANSA)
    «Io sono un po’ ossessionato dai fantasmi», dice Granata per spiegare come mai si sta dedicando a questo campo della biologia, «e studio questi animali così elusivi, che sono come dei fantasmi selvatici perché non li vedi mai, perché vorrei che non diventassero dei fantasmi veri e propri, cioè che scomparissero del tutto».

    – Leggi anche: In Nuova Zelanda invece gli ermellini sono invasivi e molto dannosi, per questo c’è un piano per eliminarli LEGGI TUTTO

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    Un malfunzionamento ai freezer ha distrutto decenni di ricerca di un’importante università svedese

    Il Karolinska Institutet, una delle più importanti università di medicina al mondo con sede a Stoccolma, in Svezia, ha reso noto questa settimana che un malfunzionamento ad alcuni dei suoi freezer durante le vacanze di Natale ha distrutto moltissimi campioni raccolti in decenni di ricerca. Il Karolinska Institutet – che è anche l’ente che ogni anno assegna il premio Nobel per la medicina – è uno dei più importanti centri di ricerca al mondo per le discipline biomediche.Non è ancora del tutto chiaro il motivo del malfunzionamento. I campioni erano conservati in vasche raffreddate con azoto liquido, a una temperatura di -190°C, quando fra il 22 e il 23 dicembre si è verificata un’interruzione nella fornitura di azoto liquido a 16 serbatoi. Questi contenitori possono resistere per quattro giorni senza azoto liquido aggiuntivo, ma anche a causa delle vacanze di Natale ne sono rimasti sforniti per cinque. L’innalzamento della temperatura al loro interno ha causato la distruzione dei campioni.
    I campioni distrutti provenivano da diverse istituzioni di ricerca, che spesso inviano il loro materiale a enti con macchinari più sofisticati per condurre alcuni test, ed erano principalmente quelli utilizzati per la ricerca sulla leucemia. La raccolta di alcuni gruppi di campioni durava da 30 anni, con l’obiettivo anche di studiare l’evoluzione della malattia e la risposta del corpo umano ai trattamenti.
    Alcuni giornali svedesi hanno scritto che il valore stimato dei campioni distrutti era di circa 500 milioni di corone (circa 44 milioni di euro). La polizia, che sta indagando sull’accaduto, ha detto che la perdita è sicuramente nell’ordine dei milioni, ma non è ancora stata fatta una stima ufficiale.
    Matti Sällberg, che è stato a capo del laboratorio di medicina del Karolinska Institutet per undici anni ed è tuttora un professore all’università, ha detto al Guardian che la denuncia alla polizia è stata fatta per poter prendere in considerazione qualsiasi ipotesi, ma che «al momento non ci sono indicazioni che l’incidente sia dovuto a un intervento esterno». Si sta tuttavia cercando di capire come sia stato possibile che nessuno si sia accorto del malfunzionamento per così tanti giorni. Sällberg ha aggiunto che i campioni distrutti erano tutti relativi al dipartimento di ricerca e che quindi la loro perdita non influirà sulle cure dei pazienti che sono al momento ricoverati nell’ospedale legato all’istituto. Tuttavia, la perdita in termini di materiale di studio è grandissima. LEGGI TUTTO

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    Avremo farmaci sviluppati dalle intelligenze artificiali?

    Sviluppare un nuovo farmaco è un po’ come fare una scommessa: si investono tempo e moltissimo denaro nella ricerca e nella sperimentazione di qualcosa che non si sa se davvero funzionerà e che potrebbe rivelarsi un costosissimo fallimento. Una nuova molecola molto promettente in laboratorio può mostrarsi inefficace nella sperimentazione animale o nei test clinici sugli esseri umani e prevederlo prima è spesso impossibile. Per ridurre uno dei rischi di impresa più grandi che esistano, negli ultimi tempi le aziende farmaceutiche hanno iniziato a esplorare le nuove possibilità offerte dai sistemi di intelligenza artificiale (AI), i cui progressi sono diventati evidenti anche ai meno esperti nell’ultimo anno soprattutto grazie al successo di ChatGPT di OpenAI.Alcune aziende hanno iniziato a utilizzare le AI per provare a prevedere efficacia e sicurezza di nuovi principi attivi, altre per rendere più semplice e rapido il complicato processo di selezione dei volontari che partecipano ai test clinici. Lo hanno fatto sia sviluppando al proprio interno nuove divisioni dedicate ai sistemi di intelligenza artificiale, sia appoggiandosi alle società e startup nate di recente proprio per applicare le AI al settore dei farmaci.
    A inizio gennaio le due aziende farmaceutiche Eli Lilly e Novartis hanno stretto un accordo con Isomorphic Labs, una società controllata da Alphabet (la holding di Google) e nata da una divisione di DeepMind, una delle più innovative aziende nel settore delle AI. Trattandosi di accordi per un valore complessivo di 3 miliardi di dollari se ne è parlato molto e non solo tra gli addetti ai lavori, ma le condizioni prevedono investimenti piuttosto misurati nel tempo. Eli Lilly anticiperà 45 milioni di dollari, ma i restanti 1,7 miliardi di dollari dell’accordo saranno pagati solo al raggiungimento di alcuni risultati ambiziosi, come l’avvio dei test clinici o l’approvazione dei nuovi principi attivi. Qualcosa di analogo riguarda anche Novartis che anticiperà 37,5 milioni di dollari e investirà altri 1,2 miliardi di dollari nel tempo, sulla base di un sistema basato su incentivi e risultati.
    DeepMind è tra le società che più hanno sperimentato l’impiego delle AI in ambito scientifico e in particolare nell’analisi e nella previsione delle caratteristiche delle proteine. La forma di una proteina determina infatti anche la sua funzione, di conseguenza lo studio e la previsione della sua struttura sono fondamentali nello sviluppo di molti farmaci. Isomorphic Labs parte da quelle conoscenze e ha l’obiettivo di accelerare in modo significativo la fase di scoperta di nuove molecole per i farmaci che attualmente dura diversi anni e richiede molte risorse, portandola dalla media di cinque anni a due.
    Sfruttando diversi modelli di apprendimento automatico, Isomorphic Labs ha sviluppato una piattaforma per prevedere le caratteristiche delle molecole e il modo in cui potranno interagire con l’organismo. Avere la possibilità di fare queste valutazioni in maniera più accurata consente di orientare la ricerca, riducendo il rischio di un fallimento nelle fasi successive quando dalla sperimentazione in laboratorio si passa ai test clinici con le persone. Il sistema naturalmente non garantisce sempre la produzione di molecole efficaci e sicure, ma secondo i responsabili dell’azienda può limitare sensibilmente gli insuccessi e soprattutto potrebbe accelerare le fasi di sviluppo.
    In un certo senso i sistemi di Isomorphic Labs hanno qualcosa in comune con i modelli generativi come ChatGPT, che tra le altre cose riescono a comporre testi come in una normale conversazione utilizzando la statistica per prevedere qualche parola da inserire dopo quella che hanno appena prodotto. Le AI per lo sviluppo dei farmaci fanno qualcosa di simile, ma per progettare le strutture molecolari rispettando alcune regole e limitazioni che vengono scelte dagli operatori. In poco tempo, il sistema è in grado di produrre numerose varianti della stessa molecola, affinando man mano il risultato in base agli effetti previsti sull’organismo.
    Sanofi, un’altra grande azienda farmaceutica, ha avviato una collaborazione con la società Exscientia che nella sua documentazione si presenta con frasi alquanto audaci come: “In futuro tutti i farmaci saranno progettati con le AI. Il futuro è ora con Exscientia”. Anche questa azienda ha l’obiettivo di scoprire nuovi principi attivi e di prevederne le caratteristiche e le interazioni con l’organismo, ancora prima di avviarne lo sviluppo e la sperimentazione.
    L’azienda farmaceutica italiana Menarini ha invece avviato una collaborazione con Insilico Medicine, società fondata tra Hong Kong e New York che sostiene di avere già sviluppato 17 potenziali nuovi farmaci sui quali effettuare i test clinici. L’accordo ha un valore stimato intorno ai 500 milioni di dollari e coinvolge Stemline Therapeutics, una delle controllate di Menarini, che avrà l’esclusiva per lo sviluppo, la sperimentazione e l’eventuale vendita di un nuovo principio attivo per il trattamento di alcune forme di tumore. Le possibilità di successo, però, sono ancora tutte da dimostrare.
    Per questo motivo ha suscitato una certa attenzione nel settore l’avvio dei test clinici su un nuovo farmaco sperimentale di Genentech per trattare la colite ulcerosa, una malattia cronica che comporta una forte infiammazione del colon, tale da far aumentare nel tempo il rischio di tumore rispetto a chi non ha questa condizione. Il principio attivo era stato sviluppato per trattare altri problemi di salute, ma da alcune simulazioni con sistemi di intelligenza artificiale è emerso che avrebbe potuto dare qualche risultato contro la colite ulcerosa.
    Talvolta può accadere che un farmaco sperimentale si riveli inefficace nel trattare la condizione per cui era stato sviluppato, mentre mostra di essere promettente contro un’altra malattia. Scoprirlo però non è semplice e richiede spesso anni di lavoro o qualche coincidenza favorevole. I gruppi di ricerca di Genentech sono riusciti a ottenere questo risultato in nove mesi utilizzando anche le AI per confrontare milioni di ipotesi, fino a trovare conferme sulla probabile utilità del loro farmaco nel trattare le cellule del colon coinvolte nella malattia.
    Già nel 2022 erano emersi indizi sul possibile uso del farmaco contro la colite ulcerosa, ma ora saranno necessari i test clinici per confermare la sua efficacia su pazienti veri. Le sperimentazioni di questo tipo fuori dai laboratori sono richieste dalle autorità di controllo per assicurarsi non solo che un farmaco sia efficace, ma anche sicuro per chi lo utilizza.
    I tempi dei test clinici sono molto lunghi e spesso hanno una fase iniziale molto costosa, sia in termini di tempo sia di denaro, per la selezione dei volontari che dovranno far parte della sperimentazione. Per alcuni test clinici è infatti necessario avere persone con diagnosi chiare della malattia che si vuole trattare, distribuiti in particolari fasce della popolazione per genere, età, condizione economica e provenienza geografica. In molti studi più il campione selezionato è di qualità, più ci si possono attendere dati affidabili.
    Partendo da questi presupposti, alcune aziende farmaceutiche hanno iniziato a sfruttare sistemi di intelligenza artificiale per organizzare la selezione dei volontari nei test clinici. Le AI possono accedere a enormi elenchi, come quelli degli ospedali o quelli tenuti dalle istituzioni sanitarie, effettuando rapidamente una preselezione in base ai criteri richiesti dall’azienda farmaceutica. In questo modo si riducono i tempi successivi della selezione e, almeno in linea teorica, si possono ottenere gruppi di volontari più adatti alla sperimentazione da svolgere.
    La multinazionale farmaceutica Amgen ha sviluppato uno strumento di intelligenza artificiale che si chiama ATOMIC, specializzato nella ricerca e nella classificazione dei dati clinici provenienti da medici, ospedali e altre istituzioni sanitarie. Amgen dice che con il nuovo sistema è in grado di selezionare in meno di nove mesi i volontari per uno studio clinico, rispetto all’anno e mezzo di lavoro richiesto in precedenza. La società ha già usato lo strumento per l’avvio di alcuni test clinici legati alle malattie cardiovascolari e al trattamento dei tumori con buoni risultati, di conseguenza utilizzerà ATOMIC per buona parte delle nuove selezioni in programma per quest’anno.
    La selezione dei volontari è naturalmente un ambito molto diverso rispetto a quello dello sviluppo di nuovi principi attivi, ma è comunque importante perché una sua migliore gestione potrebbe consentire alle aziende farmaceutiche di risparmiare tempo e denaro. È inoltre un settore in cui secondo gli esperti ci sono maggiori margini di successo in breve tempo e minori rischi, considerata la diversa complessità dell’iniziativa.
    Soluzioni di questo tipo sono inoltre viste come una naturale evoluzione degli strumenti basati sulle AI che avevano iniziato a farsi spazio nelle aziende farmaceutiche. Per esempio l’azienda svizzera Roche ha sviluppato un sistema che ha chiamato RocheGPT con dati e informazioni legati all’azienda, alle sue attività e agli ambiti di ricerca. RocheGPT è visto come una sorta di ChatGPT, ma altamente specializzato sulle caratteristiche di Roche e in grado di fornire risposte di vario tipo e in vari ambiti, non necessariamente legati alla sola ricerca, ma anche alla gestione delle attività aziendali.
    Altre aziende farmaceutiche hanno iniziato a sperimentare le AI per accelerare altri processi che di solito richiedono molto tempo legati alla compilazione della documentazione da presentare agli organismi regolatori, come la Food and Drug Administration (FDA) negli Stati Uniti e l’Agenzia europea per i medicinali (EMA) in Europa. In alcuni casi si tratta di documenti accessori e meno importanti, in altri dell’organizzazione dei dati dei test clinici sui quali è comunque necessario un controllo umano finale. Al momento FDA ed EMA non hanno regole esplicite sull’impiego dei sistemi di intelligenza artificiale, ma iniziano a essere sollevati dubbi e preoccupazioni per la loro mancanza, come del resto sta avvenendo in diversi altri settori in cui hanno iniziato a diffondersi le AI di ultima generazione.
    A essere molto interessate al settore farmaceutico non ci sono solamente le società che sviluppano sistemi di intelligenza artificiale, ma anche le aziende che producono microprocessori. Nvidia, uno dei principali produttori al mondo di chip e molto attivo nel settore dei sistemi per le AI, ha contratti con almeno una ventina di aziende farmaceutiche per fornire i propri processori o i centri dati che vengono impiegati per la grande quantità di calcoli richiesti da alcuni modelli di intelligenza artificiale. La domanda è alta e secondo alcuni analisti in breve tempo alcune delle aziende farmaceutiche più grandi competeranno per i dati e la capacità di elaborarli.
    L’interesse intorno ai sistemi di intelligenza artificiale nell’ultimo anno è stato senza precedenti e di sicuro ha portato ad aspettative che in alcuni ambiti sono molto più alte rispetto alle effettive capacità di alcune AI. Gli investimenti, comunque, non mancano in numerosi settori e si prevede che si manterranno alti anche nel corso di quest’anno. In ambito farmaceutico si stima che nell’ultimo decennio ci siano stati investimenti per circa 18 miliardi di dollari in società di biotecnologie che hanno al centro i sistemi di intelligenza artificiale. Se agli inizi riguardavano per lo più società di dimensioni relativamente piccole o medie, ora interessano alcuni dei marchi più famosi e potenti al mondo. LEGGI TUTTO

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    Dopo 878 giorni, Oleg Kononenko ha stabilito il nuovo record di permanenza nello Spazio in più missioni

    L’Agenzia spaziale russa (Roscosmos) ha reso noto che il cinquantanovenne cosmonauta russo Oleg Kononenko ha stabilito domenica il nuovo record di permanenza di un essere umano nello Spazio nel corso di più missioni, trascorrendo in orbita più di 878 giorni; il record precedente apparteneva al cosmonauta russo Gennady Padalka.Kononenko, da settembre scorso in missione sulla Stazione Spaziale Internazionale (ISS), dovrebbe raggiungere un totale di mille giorni nello spazio il 5 giugno. Ed entro la fine di settembre potrebbe averne accumulati in totale 1.110. «Sono orgoglioso di tutti i miei successi, ma sono ancora più orgoglioso del fatto che il record per la durata totale della permanenza umana nello Spazio resti di un cosmonauta russo», ha detto Kononenko all’agenzia di stampa russa TASS.
    Anche il record mondiale di permanenza ininterrotta di un essere umano nello Spazio appartiene a un cosmonauta russo: lo stabilì nel 1995 Valeri Polyakov, che rimase nello Spazio per 437 giorni a bordo della stazione spaziale russa Mir. LEGGI TUTTO