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    I denti del giudizio spiegano molto sull’evoluzione della specie

    Caricamento playerLo sviluppo di alcune parti del corpo umano normali ma apparentemente inutili è uno spunto di conversazioni frequenti, per esempio sui capezzoli maschili o sul coccige. Una parte non necessaria e anzi spesso problematica al punto da richiedere di essere rimossa sono i denti del giudizio, ossia i terzi molari. Spuntano di solito tra i 17 e i 24 anni, a volte anche dopo, che è il motivo del loro nome. Altre volte non si sviluppano affatto: circa il 22 per cento della popolazione mondiale è privo di almeno un dente del giudizio su quattro.
    Quando si sviluppano, i denti del giudizio lo fanno comunque più tardi rispetto agli altri denti, e in molti casi in un modo che provoca dolore e altri problemi di salute. L’inclusione del dente del giudizio, una condizione in cui il dente si sviluppa ma non riesce a emergere dalle gengive con l’angolazione corretta, e che interessa circa il 24 per cento della popolazione mondiale, mostra il problema fondamentale dei denti del giudizio: mascella e mandibola negli esseri umani sono il più delle volte troppo strette per ospitarli. Il che rende sensato e abbastanza comune chiedersi sia quando sia perché si sviluppino, e se le due risposte siano correlate.
    Come ogni altro dente, anche quelli del giudizio si sviluppano all’interno della mascella e della mandibola, sebbene molto più tardi. I secondi molari cominciano a svilupparsi nelle gengive intorno ai tre anni, mentre i terzi molari generalmente non prima dei nove anni. Il periodo di sviluppo è comunque molto variabile: da 5 a 15 anni.
    La principale ragione per cui i terzi molari non spuntano durante l’infanzia come gli altri denti, secondo uno studio pubblicato nel 2021 sulla rivista Science Advances, è che nella bocca non c’è ancora abbastanza spazio. Man mano che l’individuo cresce, crescono anche la sua mascella e la sua mandibola. Un’altra ragione per cui spuntano durante la giovane età adulta è che di solito non sono necessari prima di allora. In passato, quando era più frequente perdere uno o più molari, i denti del giudizio trovavano più spazio per emergere e funzionavano come una sorta di molari di riserva, spiegò nel 2022 il chirurgo Steven Kupferman al sito Live Science.
    La presenza dei denti del giudizio dipende sia da fattori relativi all’evoluzione della specie che da altri legati allo sviluppo individuale. Una delle ipotesi condivise in passato faceva riferimento soprattutto a processi di selezione. Secondo questa ipotesi, semplificando, prima che le estrazioni diventassero una pratica comune le persone con terzi molari problematici morivano a causa delle complicazioni, e quelle prive di terzi molari trasmettevano i loro geni alle generazioni future. Permettendo di sopravvivere alle persone con denti inclusi, le estrazioni avrebbero quindi contribuito nel tempo a estendere il pool genetico.
    Ricerche successive hanno messo in discussione questa ipotesi, suggerendo che molte proprietà della specie siano influenzate oltre che da fattori genetici da interazioni nell’ecosistema. È un discorso che vale evidentemente anche per i denti dei mammiferi, le cui numerose caratteristiche riflettono ciò che ciascuna specie mangia. Diversi studiosi sostengono da tempo che i problemi dei denti del giudizio derivino indirettamente dalla consistenza dei cibi resi possibili dall’agricoltura e dall’industrializzazione.

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    L’idea alla base di questa ipotesi è che, rispetto agli alimenti consumati dai nostri antenati cacciatori-raccoglitori, i cibi successivi alla transizione agricola e poi a quella industriale siano più mollicci. La masticazione di alimenti più duri durante l’infanzia potrebbe contribuire a stimolare la crescita dell’osso mandibolare e mascellare, abbastanza da creare nella bocca lo spazio sufficiente per una serie di tre molari anziché due per ogni semiarcata. Il problema del sovraffollamento dei denti non sarebbe quindi determinato interamente dai geni ereditari, ma in una parte significativa anche dallo sviluppo e dalle abitudini alimentari durante l’infanzia.
    «La natura ha selezionato la lunghezza delle nostre mascelle e mandibole sulla base di ciò che si aspetta che facciamo durante il periodo di crescita della mascella», disse all’Atlantic nel 2017 Peter Ungar, paleoantropologo e biologo evoluzionista della University of Arkansas, autore del libro Evolution’s Bite: A Story of Teeth, Diet, and Human Origins. In altre parole, più spesso si esercita forza sulla mascella, più a lungo cresce. E i cibi morbidi, secondo questa teoria, non richiederebbero un allenamento di masticazione sufficiente a massimizzare la crescita potenziale di mascella e mandibola.
    Una serie di esperimenti sui topi condotti tra il 2019 e il 2022 da Elsa Van Ankum, una ricercatrice in antropologia evolutiva della University of Saskatchewan, mostrò che gli individui cresciuti con una dieta a base di cibi morbidi tendevano ad avere mascelle sottosviluppate e di forma diversa. La dieta era anche povera di vitamina D, una vitamina la cui carenza è stata associata ai cambiamenti degli stili di vita successivi alla Rivoluzione industriale, e le cui numerose funzioni riguardano anche la formazione e la crescita dei denti, oltre alla salute delle ossa e al funzionamento del sistema immunitario.

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    I primati degli ominini che si ritiene condividano la stessa linea evolutiva degli esseri umani avevano denti posteriori molto grandi. Gli Australopithecus afarensis, una specie vissuta tra 2 e 4 milioni di anni fa, avevano molari la cui superficie masticatoria – quella che va in contatto con i denti dell’arcata opposta – era circa il doppio rispetto a quella dei molari degli esseri umani attuali. E questo nonostante il fatto che fossero molto più bassi e con un volume del cranio inferiore a un terzo di quello degli Homo sapiens.
    Nella linea evolutiva umana le dimensioni dei denti sono in diminuzione da milioni di anni: si stima che la superficie dei molari nell’Homo erectus, circa 2 milioni di anni fa, fosse più estesa del 50 per cento. E sembra esserci una correlazione tra i cambiamenti dei denti durante l’evoluzione umana e i cambiamenti nell’alimentazione e nelle tecniche di preparazione del cibo, già molto tempo prima della diffusione dell’agricoltura e poi dell’industrializzazione. Gli utensili in pietra risalenti all’epoca dell’Homo erectus, per esempio, erano utili anche a pestare e ammorbidire i cibi, semplificando la masticazione di quelli più duri.
    L’ipotesi che la progressiva riduzione della masticazione abbia un’influenza evolutiva sullo sviluppo del corpo umano è sostenuta da alcuni studi che hanno analizzato lo sviluppo dei denti del giudizio e le dimensioni della mandibola in società diverse. Uno studio del 2011 su crani di sei gruppi di agricoltori e cinque di raccoglitori, conservati nei musei, scoprì che i primi avevano mandibole più corte, quindi meno spazio per lo sviluppo dei terzi molari. Una ricerca del 2017 dello stesso tipo, condotta con metodi statistici più affidabili, arrivò a conclusioni simili.

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    Altri studi di comparazione hanno riscontrato una correlazione tra problemi dei denti del giudizio e disponibilità di cibi lavorati in diverse popolazioni. Uno studio del 2012 raccolse i casi di inclusione del terzo molare in un campione di 900 abitanti di zone rurali e urbane nel distretto del Karnataka, nel sud dell’India. I casi erano diffusi in circa il 15 per cento della popolazione rurale e in circa il 30 per cento di quella urbana. Una ricerca precedente, condotta in Nigeria su 2.400 persone, aveva scoperto che i denti del giudizio inclusi erano sette volte più diffusi nella popolazione urbana rispetto a quella rurale.
    Sia i risultati degli studi comparativi che i risultati degli esperimenti sugli animali – oltre che sui topi, sono stati condotti sulle scimmie scoiattolo, sui babbuini e su altre specie – sono compatibili con l’ipotesi che le abitudini alimentari influenzino lo sviluppo delle mascelle, e di conseguenza dei denti del giudizio. Non spiegano tuttavia perché alcune persone ne siano prive.
    In alcuni casi l’assenza dei denti del giudizio potrebbe effettivamente essere un esempio di «micro-evoluzione anatomica» recente, come sostenuto per esempio da un gruppo di scienziati della Flinders University ad Adelaide. La loro ipotesi è che la ragione principale di questa evoluzione siano i cambiamenti nella selezione naturale. Man mano che le abitudini alimentari cambiavano, le persone prive di denti del giudizio non avevano svantaggi nella masticazione. LEGGI TUTTO

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    Perché è piovuto così tanto nel Sud della Spagna

    Caricamento playerSu molti giornali il fenomeno meteorologico che ha causato le devastanti alluvioni nel Sud della Spagna è stato definito DANA, acronimo che sta per depresión aislada en niveles altos, “depressione isolata nei livelli alti” dell’atmosfera. È un fenomeno noto, che però in questa occasione ha causato precipitazioni molto abbondanti e prolungate. È successo per ragioni analoghe a quelle che a settembre avevano reso molto intensa la tempesta Boris sull’Europa centrale: le alte temperature delle settimane precedenti, che avevano contribuito a una maggiore evaporazione e dunque a una elevata umidità dell’aria, e la presenza di robuste zone anticicloniche attorno a quella ciclonica, che l’avevano bloccata a lungo sullo stesso territorio.
    La creazione di una DANA è dovuta in origine allo spostamento di una massa di aria fredda proveniente dalle correnti a getto, i forti venti d’alta quota che si possono immaginare come grandi fiumi che attraversano l’atmosfera. Una DANA si forma se da un’ansa di uno di questi fiumi d’aria, una “saccatura”, si separa una specie di isola di aria fredda. Se alle quote più basse ci sono temperature significativamente più alte, l’aria fredda in alta quota, più pesante, inizia a scendere e si crea un moto convettivo, cioè un’instabilità atmosferica che genera i temporali. Il vapor acqueo presente nell’aria calda che sale si trasforma in precipitazioni.
    In autunno è normale che sulla penisola iberica si creino le DANA, ma il fenomeno di questi giorni ha causato precipitazioni molto intense perché prima c’era stata una forte evaporazione dal mar Mediterraneo, e perché la depressione è rimasta bloccata a lungo sulla stessa zona, cosa che ha concentrato le piogge. In meteorologia si parla di “vortice stazionario”, o cut-off: la DANA era circondata da zone di alta pressione (anticicloniche) molto stabili che hanno impedito alle correnti a getto di spostare la zona ciclonica.

    A Chiva, poco fuori Valencia, sono stati misurati 491 millimetri di altezza pluviometrica in sole otto ore: «In pratica quello che normalmente piove in un anno intero», ha spiegato l’Agenzia statale di meteorologia (AEMET) spagnola. I confronti tra misure di precipitazione diverse vanno fatti tenendo conto dello storico della regione in questione, ma solo per avere un’idea di massima: nell’alluvione che ha interessato la città di Bologna il 19 e il 20 ottobre è stato misurato un massimo di 175 millimetri in sei ore.
    Giulio Betti, meteorologo e climatologo del Consiglio nazionale delle ricerche (CNR) e del Consorzio LaMMA, ha accostato l’evento a cui sono dovute le alluvioni in Spagna alla tempesta Boris in una serie di post su X: entrambi sono stati causati «da una delle peggiori configurazioni possibili in termini di rischio» perché i vortici isolati «evolvono lentamente». Normalmente una zona ciclonica si indebolisce, cioè perde la capacità di causare precipitazioni, quando dei moti d’aria fredda provenienti dalle aree circostanti riducono i moti convettivi verticali, ma sia in questi giorni in Spagna che a settembre con Boris questo fenomeno non c’è stato per la stabilità delle zone anticicloniche.
    «Anche l’intensità di questi “blocchi anticiclonici” è “drogata” dall’eccesso di calore», ha spiegato Betti, perché le temperature particolarmente alte ad alta quota rendono tutta la colonna d’aria più stabile. Generalmente l’aria più calda che c’è vicino a terra si sposta verso l’alto, ma se l’aria negli strati superiori è già molto calda si ha un movimento discendente che blocca la zona anticiclonica.

    Il cambiamento climatico dovuto all’immissione nell’atmosfera di grandi quantità in eccesso di gas serra da parte dell’umanità non renderà le alluvioni più frequenti in tutto il pianeta: in alcune regioni sì, in altre no. Per quanto riguarda fenomeni simili a quelli degli ultimi mesi in Europa (quindi come questa DANA e come la tempesta Boris, entrambi vortici stazionari), con il riscaldamento globale in atto ci sono ragioni per temere che porteranno più spesso precipitazioni molto intense, proprio perché dipendenti da temperature più alte.
    Giovedì 31 ottobre le precipitazioni si sono spostate verso ovest e per venerdì c’è un’allerta rossa per la città di Huelva, che si trova nell’Andalusia meridionale, verso il confine col Portogallo. Ma anche nella zona di Valencia, più a est, potrebbe continuare a piovere fino a domenica per la creazione di una nuova perturbazione. LEGGI TUTTO

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    Non abbiamo ancora trovato tutte le città maya perdute

    Caricamento playerUn gruppo di archeologi ha scoperto che in una foresta della penisola dello Yucatán, in Messico, ci sono i resti di una grande città dei maya che finora non era conosciuta. Secondo le stime del gruppo di ricerca copriva complessivamente una superficie pari a quella di Edimburgo, la capitale della Scozia, ma le sue rovine sono nascoste dalla vegetazione. E infatti è stato possibile localizzarla solo a distanza, grazie a una tecnologia di telerilevamento, il LIDAR, che permette di individuare strutture solide dall’alto misurando la distanza di oggetti e superfici attraverso impulsi laser. In pratica consente di vedere se sotto le chiome degli alberi ci sono muri e pavimentazioni.
    Nell’ultimo decennio l’uso del LIDAR ha reso possibile una grossa accelerazione negli studi archeologici sui maya, e ha cambiato anche molte interpretazioni sul funzionamento della loro società. In passato si riteneva che gli insediamenti maya fossero separati gli uni dagli altri da enormi distanze, e che fossero tutto sommato isolati: questo lasciava pensare che la loro società fosse composta da città-stato autonome, mentre le scoperte più recenti indicano invece che erano molto più connesse di quanto credessimo, attraverso strade e altre infrastrutture.
    I maya sono la popolazione a cui riconduciamo una delle principali civiltà precolombiane della cosiddetta Mesoamerica, cioè quell’ampio territorio che include il Messico e i paesi dell’America centrale. Questa civiltà si sviluppò a partire dal 2.000 a.C. e cominciò a entrare in crisi un po’ prima dell’anno 1.000 d.C. Quando i colonizzatori europei arrivarono nelle Americhe esistevano ancora delle città maya, ma molte altre erano già state abbandonate. Per questo e per il fatto che per cercare nuovi siti archeologici bisognava farsi largo nella foresta tropicale «a colpi di machete», come ha detto Luke Auld-Thomas, della Northern Arizona University, primo autore dello studio sulla nuova scoperta, la conoscenza della civiltà maya ha tuttora molte lacune.
    Rovine di un’antica città Maya nel parco nazionale di Tikal, Guatemala, 25 gennaio 2022 (Edwin Remsberg/VW Pics via ZUMA/Ansa)
    Quasi tutte le grandi città maya, dopo il loro abbandono, furono ricoperte dalla fitta foresta tropicale, a volte a livelli tali che anche le note piramidi che le caratterizzano sono irriconoscibili.
    Una vista aerea dell’antica città Maya di Calakmul, situata nello stato di Campeche in Messico, in una fotografia fornita dall’Istituto Nazionale di Antropologia e Storia (INAH) (EPA/INAH/Ansa)
    Auld-Thomas e i suoi colleghi, che hanno scritto un articolo pubblicato sulla rivista scientifica Antiquity, hanno rintracciato i resti di un gran numero di insediamenti umani, alcuni rurali e quindi isolati e di ridotte dimensioni, altri chiaramente urbani: complessivamente hanno trovato le tracce di 6.764 diverse strutture. Tutti gli insediamenti individuati si trovano in un’area forestata di circa 122 chilometri quadrati nello stato messicano di Campeche. Quello più grande è stato chiamato “Valeriana” dal nome di una vicina laguna. Tra le strutture individuate ci sono delle piramidi, degli anfiteatri e una diga.
    Immagine che mostra alcune delle strutture che facevano parte dell’antica città chiamata Valeriana come sono state viste grazie al LIDAR (da “Running out of empty space: environmental lidar and the crowded ancient landscape of Campeche, Mexico” di Luke Auld-Thomas et al., Antiquity, Cambridge University Press)
    Le immagini prodotte con il LIDAR grazie a cui è stata scoperta Valeriana non erano state realizzate per compiere studi di archeologia. L’uso del LIDAR prevede di utilizzare degli aerei ed è tuttora molto costoso: la ricerca archeologica generalmente non se lo può permettere, anche perché non ci sono garanzie sul fatto che in un territorio esaminato con questo strumento si troveranno davvero dei siti di interesse. Esistono però delle mappature di vari territori eseguite con questa tecnologia, ad esempio per verificare l’effettiva estensione delle foreste tropicali per i progetti che hanno l’obiettivo di conservarle in virtù del loro contributo all’assorbimento di gas serra. È questo il caso delle immagini utilizzate da Auld-Thomas e dai suoi colleghi.
    Il ricercatore statunitense ha avuto l’idea di analizzare delle mappe già esistenti di un’area su cui si avevano pochissime informazioni e così ha trovato la città finora sconosciuta e gli altri insediamenti. Secondo le stime del suo gruppo Valeriana è la seconda città maya più grande mai individuata dopo Calakmul, che si trova sempre nello stato di Campeche.

    Secondo Auld-Thomas questa scoperta suggerisce che «ci sia ancora molto da imparare» sulla civiltà maya. Le prossime ricerche prevederanno delle indagini sul campo intorno ai nuovi siti individuati e potrebbero permetterci di ottenere nuove informazioni sulle città dei maya e sul loro funzionamento. LEGGI TUTTO

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    Weekly Beasts

    Nella raccolta animalesca di questa settimana cominciano a vedersi un po’ di zucche, proposte in vista di Halloween agli animali ospiti degli zoo: ce n’è una con aggrappato un vari bianconero, un’altra occupata da un coati e decine di vermi e infine un’ultima in cui un vari rosso ha infilato la testa. Poi un babbuino, due fenicotteri, un cormorano che si alza in volo, un ippopotamo con la bocca spalancata e un drago d’acqua australiano vicino ai piedi della regina Camilla. LEGGI TUTTO

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    Cos’è esattamente la biodiversità

    Il 21 ottobre a Cali, in Colombia, è cominciata la 16esima conferenza delle Nazioni Unite sulla biodiversità, che come le edizioni precedenti ha l’obiettivo di preservare la ricchezza di specie viventi del pianeta, anche a beneficio dell’umanità. Le conferenze sulla biodiversità sono iniziative analoghe alle conferenze sul clima, e a loro volta sono chiamate “COP”, ma si tengono ogni due anni. Quella appena iniziata è considerata particolarmente importante: alla fine della precedente, con l’accordo di Kunming-Montreal del 2022, i paesi del mondo si erano impegnati a rendere aree protette il 30 per cento delle superfici terrestri e delle superfici marine del pianeta entro il 2030, e a questo giro devono dire come pensano di farlo concretamente, con appositi piani nazionali.Al di là della conferenza delle Nazioni Unite e del contesto scientifico, il concetto di biodiversità è menzionato comunemente sui giornali, compare ogni tanto nei discorsi dei politici e nei messaggi promozionali delle aziende e due anni fa è stato introdotto anche nella Costituzione italiana. Tuttavia di frequente viene usato a sproposito, ad esempio quando si parla di agricoltura, forse anche perché sebbene si possa dire cosa si intenda con “biodiversità” con poche parole, non è così immediato spiegare perché è importante e, tra le altre cose, utile per l’umanità.
    La parola “biodiversità” cominciò a essere usata nella sua versione inglese intorno alla metà degli anni Ottanta, dopo essere stata probabilmente introdotta dallo scienziato statunitense Walter G. Rosen. Deriva dalla crasi dell’espressione “diversità biologica”, che tiene insieme tre diverse forme di variabilità che riguardano gli ambienti naturali.
    La prima è la diversità genetica tra individui di una stessa specie, cioè la ricchezza di caratteristiche diverse nel patrimonio genetico di un’unica specie.
    La seconda forma di biodiversità è la diversità di specie in un dato ecosistema, che si può misurare contandole; per avere un quadro completo bisogna comunque considerare anche l’abbondanza relativa tra le specie che condividono uno stesso ecosistema, cioè se i rapporti numerici tra le popolazioni delle diverse specie permettono di mantenere un buon equilibrio nella loro coesistenza. E bisogna tenere conto non solo di animali e piante, ma anche di funghi, batteri e archei; dunque non solo di organismi che si vedono ma anche di quelli, generalmente molto numerosi, che risultano invisibili per le loro dimensioni ridotte o perché vivono nel suolo, o all’interno di altri organismi. Tutte le specie che vivono in un certo ambiente hanno rapporti di dipendenza l’una dall’altra (perché alcune si cibano di altre, ma non solo) e quindi devono essere considerate insieme.
    Infine c’è la diversità ecosistemica, ovvero il numero di diversi ecosistemi in un’unica regione.
    Le tre forme di biodiversità rendono la vita in un ambiente naturale più resiliente in caso di grossi cambiamenti, come quelli causati dalle attività umane, per quanto riguarda il clima e non solo. Ad esempio, maggiore è la biodiversità genetica, più una specie è adattabile, cioè ha probabilità di conservarsi: rappresenta infatti il suo potenziale evolutivo. Ma anche le altre forme di biodiversità rendono gli ambienti naturali più resistenti.
    Preservare la biodiversità comunque non è importante solo per il valore intrinseco degli ambienti naturali e delle specie che li abitano, ma anche per ragioni utilitaristiche che riguardano gli esseri umani. Per esempio gli insetti impollinatori hanno un ruolo importante nella riproduzione delle piante. Un gran numero di altri organismi viventi contribuisce a mantenere il suolo fertile, a decomporre i rifiuti, a pulire i corsi d’acqua e a fornire risorse alimentari e di sussistenza (la caccia e la raccolta di frutti spontanei sono ancora importanti per le comunità di persone in molte parti del mondo): si usa l’espressione “servizi ecosistemici” per comprendere tutti questi aspetti. Nei paesi meno ricchi, la perdita di biodiversità generalmente si lega a un aumento della povertà, magari non sul breve periodo, ma nel tempo.
    La biologia di altre specie inoltre può essere utile da studiare per consentire il progresso scientifico. Vale in ambito farmaceutico, per la ricerca di nuove molecole con effetti terapeutici che possono essere contenute in piante, funghi e via dicendo, ma anche per altri campi: le soluzioni “trovate” nel processo evolutivo per la risoluzione di un problema (per esempio, la struttura delle zampe dei gechi che permette loro di stare attaccati a pareti verticali e soffitti) possono darci delle idee su come realizzare nuove tecnologie. Infine, nella società contemporanea, la ricchezza degli ambienti naturali può essere una risorsa per le attività turistiche.
    Può sembrare che solo certe specie abbiano un’utilità per l’umanità, ma in realtà dato che gli ecosistemi sono basati su relazioni di interdipendenza, anche tutte le altre sono importanti.

    – Leggi anche: Dovremmo sterminare tutte le zanzare?

    Per garantire la conservazione della biodiversità tuttavia servono addirittura delle conferenze delle Nazioni Unite perché le attività umane causano in vari modi una sua riduzione. Le tre principali cause di perdita di biodiversità sono la riduzione degli habitat naturali, che avviene quando un territorio selvaggio viene sfruttato per qualche ragione dalle persone, il cambiamento climatico, e l’introduzione di specie aliene, che possono alterare gli equilibri di coesistenza preesistenti negli ecosistemi.
    Secondo il più recente rapporto sul Living Planet Index (letteralmente “indice della vitalità del pianeta”), realizzato dalla nota organizzazione ambientalista internazionale WWF e dall’organizzazione accademica Zoological Society of London, dal 1970 al 2020 le dimensioni medie delle popolazioni globali di animali vertebrati selvatici sono diminuite del 73 per cento. Complessivamente, nonostante i successi ottenuti da molte iniziative per la conservazione della natura, la biodiversità è diminuita notevolmente secondo il rapporto. È un problema noto da tempo, ed è per questo che dal 1992 i paesi delle Nazioni Unite si riuniscono per parlare di biodiversità.
    L’Italia è spesso descritta come un paese con una grande biodiversità, nonostante il suo territorio sia stato profondamente modificato dalle attività umane per più di due millenni. Evelina Isola, naturalista dell’Istituto Oikos, un’organizzazione non profit che lavora per la conservazione della biodiversità in Italia e in vari altri paesi del mondo, spiega: «L’Italia detiene un primato, è il paese con più biodiversità in Europa, e questo è dovuto alla sua storia geologica. Nel nostro paese infatti, sebbene sia relativamente piccolo, ci sono tre zone bio-geografiche diverse, quella mediterranea, quella alpina e quella continentale».
    La biodiversità italiana non è comparabile a quella delle foreste tropicali, note per ospitare un grandissimo numero di specie vegetali e animali diverse, ma nel paese ci sono «tantissime specie endemiche, ossia presenti solo all’interno del territorio italiano» e alcune di queste sono «specie endemiche ristrette, che cioè sono presenti solo in territori limitatissimi». È così per via della forma della penisola italiana, che crea molta varietà di ecosistemi vicini tra loro. C’è poi da considerare che fa parte della biodiversità italiana anche la biodiversità marina del Mediterraneo.
    Non si possono però considerare ambienti con una grande biodiversità le pianure italiane che sono prevalentemente sfruttate per l’agricoltura intensiva. Capita spesso di sentir parlare di biodiversità in riferimento alle varietà vegetali coltivate, ma è un equivoco. Per quanto la disponibilità di varietà agricole alternative possa essere una risorsa in caso di diffusione di malattie delle piante o di siccità, si tratta comunque di organismi viventi la cui presenza nell’ambiente dipende ed è regolata dall’attività umana: non dalle interazioni con altre specie. Un po’ diverso è il caso delle aree in cui si pratica una agricoltura di piccola scala: «C’è biodiversità nei contesti in cui ci sono le cosiddette zone ecotonali», spiega Isola, «che sono quelle zone di transizione da un habitat all’altro, da bosco ad arbusteto, a prato: dove ci sono i muretti a secco, le ceppaie, dove l’agricoltore lascia una parte del campo non coltivato o dove i pascoli non vengono falciati e dunque le specie selvatiche proliferano.
    Nell’ambito dell’agricoltura intensiva un’eccezione è costituita dalle risaie, note per attrarre e ospitare molte specie di uccelli.
    Si è poi osservato che anche gli ambienti urbani, quelli più profondamente modificati dall’umanità, hanno una propria biodiversità. Alcuni animali selvatici hanno trovato nelle città dei «surrogati di quelli che sarebbero stati i loro habitat naturali»: Isola fa l’esempio dei falchi pellegrini per cui i grattacieli, come il cosiddetto Pirellone di Milano, valgono come alte pareti rocciose e si prestano allo stesso modo alla nidificazione. «Diverso è il caso delle specie che si rifugiano nelle città anche per la pressione venatoria», aggiunge Isola, facendo riferimento ai cinghiali che negli ultimi anni si vedono sempre di più in contesti urbani di varie città italiane, come Roma.

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    Il contributo in termini di servizi ecosistemici della biodiversità urbana è fortemente condizionato dal ruolo delle persone, ma comunque c’è: «Si considera tra i servizi ecosistemici anche il senso di benessere psicologico che dà la presenza di piante e animali selvatici», spiega Isola. Inoltre la presenza di aree cittadine in cui il suolo non è coperto da edifici o strade, e non è dunque impermeabilizzato, può essere utile in caso di fenomeni meteorologici estremi come le alluvioni e contribuire. E la disponibilità di aree verdi fornisce zone ombreggiate e più fresche d’estate.
    La COP16 sulla biodiversità, che riunisce i rappresentanti di 196 paesi, durerà fino al primo novembre. L’obiettivo di mettere sotto protezione ambientale il 30 per cento delle aree marine e il 30 per cento delle aree terrestri del pianeta, e dunque di ciascun paese, entro il 2030 è solo uno di 23 impegni presi con l’accordo di Kunming-Montreal. Tra le altre cose c’è l’impegno a ridurre i sussidi statali alle attività economiche che danneggiano gli ecosistemi e a introdurre un obbligo per le aziende di rendere conto del proprio impatto sull’ambiente.
    A ciascun paese firmatario della Convenzione sulla biodiversità era richiesto di presentare alla COP in corso le proprie “Strategie e Piani di attuazione nazionali per la biodiversità (NBSAPs)” per rispettare gli obiettivi fissati nel 2022. Per ora non tutti i paesi li hanno consegnati: il WWF sta tenendo traccia di quelli che sono stati presentati e condivide le proprie analisi generali di come sono fatti.
    Quello dell’Italia ad esempio è stato giudicato non del tutto soddisfacente per quanto riguarda il raggiungimento dei 23 obiettivi. Attualmente la superficie terrestre protetta in Italia è pari al 21,68 del territorio nazionale. In 5 anni lo stato dovrebbe «creare la metà delle aree protette terrestri che ha creato in oltre 100 anni da quando nacquero i primi due parchi nazionali italiani, Parco Nazionale del Gran Paradiso e Parco Nazionale d’Abruzzo», ha spiegato il WWF: «E per il mare va ancora peggio perché solo l’11,62% della superficie marina italiana è protetta».
    In generale, secondo il WWF non sembra che le premesse poste nel 2022 saranno rispettate.
    Tra i vari temi in discussione c’è il progetto di creare un sistema che regolamenti l’uso delle informazioni genetiche di piante, animali e microrganismi, che sempre più spesso vengono sfruttate nella ricerca farmaceutica e non solo per sviluppare nuovi prodotti. Il rischio è che alcuni paesi non ricevano proventi economici derivanti dallo sfruttamento commerciale del DNA degli organismi che ospitano; è un problema che riguarda i tanti paesi poveri o in via di sviluppo che hanno nel proprio territorio una grande biodiversità.
    Un’altra questione di cui si parlerà sono i contributi finanziari con cui i paesi più ricchi hanno promesso di aiutare quelli in via di sviluppo a raggiungere i propri obiettivi. Alla COP15 del 2022 si era deciso che tali contributi dovessero ammontare ad almeno 20 miliardi di dollari annui dal 2025.

    – Leggi anche: La statistica falsa sull’80% della biodiversità protetta dagli indigeni LEGGI TUTTO

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    Alle presidenziali degli Stati Uniti si vota anche dallo Spazio

    Alle elezioni statunitensi di novembre potranno votare anche gli astronauti che si trovano nello Spazio. È possibile grazie al sistema di comunicazione che permette il trasferimento di documenti dallo Spazio alla Terra e a una legge del Texas del 1997. Negli anni passati anche astronauti sovietici, russi e francesi hanno votato per le elezioni nei rispettivi paesi.Al momento nello Spazio si trovano 14 persone: 3 sono astronauti cinesi, 4 sono russi e 7 statunitensi. Questi sette per votare hanno dovuto fare richiesta anticipatamente al governo statunitense di poter votare a distanza, secondo la stessa procedura seguita dai soldati inviati nelle missioni all’estero. Hanno poi ricevuto una password da un impiegato della contea in cui risiedono, per criptare il documento di testo con il voto e garantirne la segretezza. Dall’inizio del periodo del voto anticipato (che in Texas inizia lunedì 21 ottobre) possono quindi inviare un messaggio riservato contenente il loro voto all’ufficio elettorale locale, dopo una serie di passaggi.
    Quasi tutti gli astronauti statunitensi risiedono nello stato del Texas, dove si trova il Johnson Space Center, il principale centro di addestramento per andare in orbita della NASA, l’agenzia spaziale degli Stati Uniti. Per questo è spettato al Texas approvare una legge per permettere loro di votare anche durante le permanenze sulle stazioni spaziali, i laboratori scientifici che viaggiano nell’orbita terrestre.
    Nel 1996 la NASA cercò di fare in modo che l’astronauta John Blaha potesse votare nelle presidenziali di quell’anno (in cui alla fine il Democratico Bill Clinton venne riconfermato alla presidenza). Il tentativo fu fermato dal Segretario di stato del Texas, dato che lo stato non permetteva alcun tipo di voto elettronico: Blaha non poté votare.
    L’anno seguente il parlamento del Texas approvò una legge che permetteva il voto elettronico per chi avesse i requisiti per votare «ma si trovasse nello spazio durante il periodo del voto anticipato e nel giorno delle elezioni». Il primo astronauta statunitense a votare dall’orbita terrestre fu quindi David Wolf, che nel 1997 votò per il sindaco di Houston (una città del Texas) mentre si trovava a bordo della stazione spaziale russa MIR.
    Gli astronauti attualmente sulla Stazione Spaziale Internazionale: 7 di loro (quelli vestiti di nero e quello in primo piano a destra) sono statunitensi (NASA via AP)
    Prima di votare veramente gli astronauti ricevono una scheda elettorale finta, che reinviano a terra per controllare che il processo funzioni e mantenga la segretezza del voto. Ricevono poi la scheda vera, un documento di testo che compilano e rispediscono a terra tramite una rete di satelliti e antenne che permette alla NASA di comunicare con i satelliti nell’orbita terrestre, la Near Space Network (“Rete per lo Spazio vicino”).
    Tramite questa rete le informazioni vengono trasmesse al centro di ricerca di White Sands, in New Mexico. Da lì sono poi trasferite al centro di controllo delle missioni spaziali del Johnson Space Center, in Texas, che a sua volta le invia agli uffici elettorali della contea di Harris, in cui si trova il centro: qui il documento viene stampato e conteggiato assieme a tutte le altre schede della contea.
    Dal 2004, quando Leroy Chiao divenne il primo statunitense a votare per il presidente dallo Spazio, gli astronauti della NASA hanno votato in 3 delle 4 elezioni presidenziali seguenti (nel 2008, 2016, 2020): nel 2012 gli astronauti che si trovavano in orbita poterono votare anticipatamente secondo le procedure ordinarie. In almeno un caso, nel 2019, votò anche un astronauta statunitense che non risiedeva in Texas: Andrew Morgan votò nelle elezioni locali della Pennsylvania, grazie alla collaborazione fra le autorità locali e la NASA. L’ultima astronauta a votare dalla Stazione Spaziale Internazionale è stata Kathleen Rubins, che è anche l’unica ad aver votato due volte: nel 2016 e nel 2020. LEGGI TUTTO

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    In Egitto è stata debellata la malaria

    L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha annunciato che l’Egitto ha debellato definitivamente la malaria, una delle malattie più letali al mondo: ci è riuscito dopo quasi 100 anni, ossia da quando il paese cominciò a vietare la coltivazione di riso e altre colture vicino alle case con l’obiettivo di contrastarne la diffusione. La malaria è una malattia mortale particolarmente contagiosa trasmessa dalle punture di alcune zanzare. È diffusa soprattutto in Africa, dove uccide centinaia di migliaia di persone ogni anno. In tutto finora sono 44 i paesi e i territori che hanno debellato la malattia. LEGGI TUTTO

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    Weekly Beasts

    Gli animali più fotografati della settimana sono stati due panda gemelle, nate lo scorso agosto allo zoo di Berlino che mercoledì sono state mostrate per la prima volta ai visitatori: ora pesano due chili e mezzo e sono grandi come conigli, ma potete farvi un’idea concreta delle loro dimensioni guardando bene le foto di una di loro in questa raccolta. Poi ci sono cardellini, babbuini, gabbiani e una famiglia di elefanti trasferita in Kenya, per finire con un maestoso cervo shika e un asino durante l’aurora boreale. LEGGI TUTTO