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    Una delle dune del Sahara ha più di 12mila anni

    Caricamento playerDue scienziati britannici hanno stimato per la prima volta l’età di una grande duna del deserto del Sahara, concludendo che abbia iniziato a formarsi più di 12mila anni fa. La duna si chiama Lala Lallia e si trova nell’est del Marocco, nella zona di Erg Chebbi, vicino al confine con l’Algeria. È alta cento metri e larga circa 700, e contiene più o meno 5,5 milioni di tonnellate di sabbia. Secondo i geologi Charles Bristow dell’Università Birkbeck e Geoff Duller dell’Università di Aberystwyth, la cui stima è stata pubblicata su Scientific Reports, capire la storia geologica di dune come questa può aiutare a comprendere meglio il clima che c’era migliaia di anni fa.
    Lala Lallia è una duna a stella, o duna piramidale: non tutte le dune hanno la stessa forma, questo tipo deve il suo nome al fatto di avere tre o più creste che partono dal punto più alto e si allungano in direzioni diverse. Si formano in luoghi in cui soffiano venti di direzioni diverse, a cui si deve appunto la loro forma peculiare, e sono il tipo di dune più alto. La più alta sulla Terra si trova nel deserto Badain Jaran, in Cina, e raggiunge 300 metri. Ce ne sono altre in molte zone desertiche in Africa, Arabia e Nord America, oltre che su altri corpi celesti del sistema solare, come Marte e Titano, una delle lune di Saturno.
    Sebbene le dune a stella siano tra le più grandi e spettacolari presenti sulla Terra, finora non ne era mai stata datata una. Facendolo è possibile ricostruire come sia avvenuta la loro formazione nel tempo. Sapere queste cose permette anche di riconoscere le tracce di antiche dune di forma simile negli strati di roccia che si studiano per capire la storia geologica del pianeta, dicono Bristow e Duller.
    Bristow e Duller hanno usato un georadar per capire la struttura interna di Lala Lallia, mentre per stimarne l’età hanno usato la datazione a luminescenza, una tecnica che permette di determinare l’ultima volta che delle rocce furono esposte alla luce solare. La datazione dipende dalla quantità di materiale radioattivo contenuto nelle rocce, che si accumula con il tempo trascorso sepolte. I geologi hanno prelevato dei campioni di sabbia da Lala Lallia durante le ore notturne e poi li hanno analizzati in un laboratorio illuminato con luce infrarossa. In queste condizioni i grani di sabbia diffondono l’energia accumulata sotto forma di luce e così gli scienziati possono calcolare da quanto tempo facessero parte della duna: maggiore è la luce, più antichi sono i grani di sabbia.
    La regione del Marocco in cui si trova la duna Lala Lailla, vicino alla città di Hassilabied (Joshua Stevens, NASA Earth Observatory)
    I campioni più antichi prelevati alla base della duna hanno un’età compresa tra 12.750 e 14mila anni. L’analisi della sabbia meno profonda ha fatto concludere agli scienziati che dopo la sua formazione iniziale la duna abbia smesso di crescere per circa ottomila anni, per poi aumentare molto di dimensioni negli ultimi millenni e in particolare negli ultimi mille anni: la maggior parte dei 100 metri di altezza attuali della duna si è accumulata negli ultimi 900 anni. Attualmente si sposta a una velocità di 50 centimetri all’anno verso ovest.
    Bristow e Duller hanno fatto varie ipotesi sulle ragioni per cui per circa ottomila anni la duna non è cresciuta: potrebbe avere a che fare con la storia dei venti nella regione in cui si trova, a sua volta legata a più ampi fenomeni climatici dipendenti dall’oceano Atlantico. LEGGI TUTTO

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    Weekly Beasts

    Il salto di una balena grigia nel golfo di California, fotografata nei giorni scorsi, è la scusa per parlare brevemente del loro canto: di recente un gruppo di ricerca internazionale dice di avere scoperto qualcosa di più sul modo in cui alcune balene lo producono, suggerendo che riescano a emettere buona parte dei suoni attraverso la particolare conformazione della laringe, come spiegato più estesamente qui. Tra gli altri animali fotografati nei giorni scorsi ci sono poi la coda di una volpe a caccia di topi (e lo sapete come noi umani abbiamo perso la coda?), la smorfia di un leone, un agnello di pochi giorni con un impermeabile e tacchini selvatici in una zona bruciata dagli incendi in Texas. LEGGI TUTTO

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    Come abbiamo perso la coda

    Da bambino Bo Xia si era chiesto qualche volta come mai non avesse la coda come altri animali, ma non avrebbe mai immaginato che da adulto avrebbe dedicato buona parte del proprio dottorato in biologia a questo argomento. Non lo pensava nemmeno mentre studiava alla New York University, ma le cose cambiarono dopo che ebbe un piccolo infortunio al coccige, la parte finale della colonna vertebrale, l’ultima testimonianza della coda che milioni di anni fa possedevano gli antenati degli umani moderni. Quell’incidente portò Xia a interessarsi nuovamente alla coda e a pubblicare, dopo una lunga e difficile ricerca, uno studio che aiuta a spiegare i meccanismi genetici che ci portarono a perderla.Tra i vertebrati la coda è un elemento estremamente comune e tutti i mammiferi ne sviluppano una durante lo sviluppo embrionale, anche se questa non necessariamente è poi presente alla nascita. Nel caso degli esseri umani, per esempio, la coda scompare all’incirca all’ottava settimana di gravidanza e ne rimangono solo alcune piccole tracce che formano il coccige (le sue dimensioni variano molto a seconda delle persone).
    La maggior parte delle scimmie ha la coda, ma fanno eccezione gli ominoidi (Hominoidea), cioè gli esseri umani e quelle che vengono spesso definite “scimmie antropomorfe” (oranghi, gibboni, gorilla, scimpanzé). Questa netta distinzione ha fatto ipotizzare da tempo che la perdita della coda fosse coincisa con la fase in cui gli ominoidi si differenziarono dall’antenato in comune con le scimmie circa 25 milioni di anni fa.
    Circa tre anni fa, quando era ancora convalescente dall’incidente al coccige, Xia iniziò ad approfondire le proprie conoscenze sui geni sospettati di essere coinvolti nello sviluppo della coda. Si interessò agli studi della scienziata ucraina Nadine Dobrovolskaya-Zavadskaya, che alla fine degli anni Venti del secolo scorso aveva analizzato alcuni topi dalla coda insolitamente corta, arrivando alla conclusione che la loro condizione fosse determinata da una particolare mutazione in un gene chiamato T. Negli anni seguenti altre ricerche avrebbero portato a identificare un gene simile anche negli esseri umani, oggi noto come gene TBXT e molto conosciuto dai genetisti e da chi si occupa di evoluzione umana.
    Xia si mise a confrontare il gene TBXT degli esseri umani con il suo equivalente in altri ominoidi e notò che avevano in comune un pezzetto di DNA (una “sequenza alu”), assente invece nelle specie di primati con la coda. Insieme ad alcuni colleghi, Xia approfondì la questione e preparò una ricerca, che fu pubblicata nel settembre del 2021 in una forma preliminare, quindi senza avere ancora ricevuto una revisione da parte di studiosi che non avevano partecipato alla ricerca (il processo che viene chiamato di “peer review”).
    Nel loro studio, Xia e colleghi spiegavano che quel pezzetto di DNA poteva far sì che il gene TBXT portasse talvolta alla produzione di una proteina lievemente diversa rispetto a quella che si produce normalmente. Secondo il gruppo di ricerca ciò avveniva nella fase di trascrizione del materiale genetico necessaria per produrre la proteina e a sostegno di questa ipotesi portava alcuni esperimenti condotti sui topi. Modificando le caratteristiche del gene, Xia era infatti riuscito a ottenere topi con code più corte del solito o completamente assenti, oppure con code lunghe e attorcigliate.
    La ricerca era promettente, ma non dimostrava che qualcosa di simile avvenisse anche con il gene TBXT vero e proprio. Il problema fu segnalato da chi era incaricato di effettuare il processo di peer review, con la richiesta a Xia e colleghi di approfondire lo studio e portare nuove dimostrazioni. Gli esperimenti di laboratorio, in parte già avviati, avrebbero alla fine richiesto più di due anni per essere realizzati e rivisti. Dopo 900 giorni, lo studio è stato infine pubblicato sulla rivista scientifica Nature questa settimana.
    Come spiegano Xia e colleghi, gli esperimenti aggiuntivi effettuati trasferendo il pezzo di DNA di TBXT nel gene equivalente dei topi non hanno portato a cambiamenti significativi nella caratteristica della proteina, di conseguenza i topi avevano code con lunghezza nella media. In un’altra serie di esperimenti, invece, il gruppo di ricerca è riuscito a simulare nei topi ciò che avviene negli esseri umani, portando alla nascita di topi con una coda corta o completamente assente.
    Lo studio di Xia e colleghi è stato accolto con grande interesse, non solo per i nuovi elementi che porta su un punto importante dell’evoluzione umana, ma anche per le difficoltà che il gruppo di ricerca ha dovuto affrontare nel realizzare una grande quantità di modelli in laboratorio. I 900 giorni di lavoro successivi alla presentazione della ricerca preliminare hanno reso più solida e affidabile la ricerca, dimostrando come alcuni elementi mobili del DNA possono influire in modi talvolta inattesi nei processi evolutivi.
    La ricerca aiuta a capire come gli ominoidi persero la coda, ma non spiega completamente perché, una questione del resto molto più complessa e che forse non avrà mai risposta. Una delle ipotesi più condivise è che perdere la coda avesse costituito a un certo punto un vantaggio evolutivo, favorendo l’andatura eretta. Studi su specie molto antiche di primati ora estinte ipotizzano che la capacità di utilizzare prevalentemente i due arti inferiori per muoversi iniziò a svilupparsi nei nostri antenati che vivevano ancora tra le fronde degli alberi, diventando poi un elemento centrale per il bipedismo al suolo.
    Non tutti sono però convinti da questa spiegazione, semplicemente perché ci sono elementi per ritenere che la coda non impedisca di sviluppare il bipedismo. Ancora oggi ci sono alcune specie di primati come il cebo barbuto (Sapajus libidinosus) che utilizzano principalmente gli arti inferiori per muoversi, ma che all’occorrenza sfruttano la coda per mantenersi meglio in equilibrio.
    Un’altra ipotesi è che, nei grandi cambiamenti di territorio e clima che si verificarono 25 milioni di anni fa nei territori che più o meno oggi corrispondono all’Africa orientale, alcune popolazioni di ominoidi rimasero a lungo isolate e nei processi casuali di trascrizione del materiale genetico di generazione in generazione (deriva genetica) si produssero le alterazioni nel gene TBXT. Seguendo questa ipotesi, fu in un certo senso l’isolamento di alcune popolazioni con un numero ridotto di individui a far sì che si avviasse il processo di perdita della coda.
    Il gene TBXT è studiato da tempo ed è probabile che il lavoro di Xia e colleghi porti altri gruppi di ricerca ad approfondire la storia della nostra coda, che non c’è più. LEGGI TUTTO

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    Il clima di un pezzo di Africa cambierà grazie alla “Grande muraglia verde”?

    Caricamento playerDal 2007 undici paesi stanno portando avanti un progetto molto ambizioso per influenzare il clima (e quindi l’abitabilità) e lo sviluppo economico di un grosso pezzo di Africa: la realizzazione di una grande striscia di vegetazione lunga più di 7mila chilometri tra Dakar, in Senegal, sulla costa occidentale del continente, e Gibuti, la capitale del paese omonimo, sulla costa orientale. Il progetto si chiama “Grande muraglia verde”, e i risultati di una simulazione da poco pubblicati sulla rivista scientifica One Earth dicono che porterà un aumento delle precipitazioni medie e una diminuzione della durata dei periodi di siccità.

    Nell’idea iniziale, che risale agli anni Ottanta e a Thomas Sankara, leader carismatico e primo presidente del Burkina Faso, la Grande muraglia verde doveva essere davvero una specie di lunga barriera di alberi. Si riteneva che avrebbe potuto arginare un processo che avrebbe reso il Sahel, l’arida regione a sud del Sahara, più simile al deserto vero e proprio. Poi il progetto venne corretto tenendo conto di analisi scientifiche aggiornate e dei vantaggi socio-economici di foreste, praterie e terre coltivate per la popolazione locale. Nella forma attuale il progetto prevede di realizzare un “mosaico” di terreni coperti da vari tipi di vegetazione che dovrebbe occupare 1 milione di chilometri quadrati, più o meno la stessa superficie di Francia e Germania messe insieme, entro il 2030. In parte saranno riforestati piantando nuovi alberi, in parte coltivati.
    I principali paesi coinvolti sono, da est a ovest, Gibuti, Eritrea, Etiopia, Sudan, Ciad, Niger, Nigeria, Mali, Burkina Faso, Mauritania e Senegal, e il progetto è stato approvato dall’Unione Africana, l’organizzazione internazionale di paesi africani che ha per modello l’Unione Europea.
    Una zona forestata nel Sahel senegalese, l’11 luglio 2021 (REUTERS/Zohra Bensemra)
    Lo studio uscito su One Earth è stato fatto da Roberto Ingrosso e Francesco Pausata, due climatologi italiani che lavorano all’Università del Québec, in Canada, ed è il primo ad aver valutato i possibili impatti sul clima del Sahel della versione più aggiornata della Grande muraglia verde. È basato su modelli di simulazione climatica con una risoluzione spaziale di circa 13 chilometri: mostrano rappresentazioni dei fenomeni atmosferici su superfici minime di 169 chilometri quadrati, cioè con un buon approfondimento tenendo conto dell’ampiezza complessiva del territorio interessato.
    Le simulazioni sono state fatte tenendo conto di diverse densità di vegetazione che si potrebbero ottenere con la Grande muraglia verde. E sono stati considerati due diversi scenari di cambiamento climatico globale: quello in cui grazie alle politiche di contrasto alle emissioni di gas serra si raggiungono gli obiettivi più ambiziosi dell’Accordo sul clima di Parigi del 2015, e quello in cui invece le emissioni continuano ad aumentare e l’atmosfera del pianeta a riscaldarsi. Per entrambi gli scenari, nel caso di un aumento significativo della densità di vegetazione, Ingrosso e Pausata hanno previsto un aumento delle precipitazioni in alcune zone del Sahel, una diminuzione dei periodi di siccità e delle temperature estive.
    Al tempo stesso però i modelli indicano che in relazione alla Grande muraglia verde ci sarà un maggior numero di giorni dell’anno con temperature estremamente alte, in particolare prima della stagione delle piogge. «Questi risultati sottolineano gli effetti contrastanti della Grande muraglia verde», spiega lo studio, «e dunque la necessità di fare valutazioni complessive nel decidere politiche future». Gli effetti saranno diversi a livello locale e se complessivamente la regione sarà meno arida – posto che effettivamente si riesca a ottenere una buona densità di vegetazione con il progetto – in alcune zone aumenteranno i giorni con temperature molto alte, cosa che può avere effetti rilevanti per la popolazione.
    Illustrazione dallo studio di Roberto Ingrosso e Francesco Pausata: in verde l’area interessata dalla Grande muraglia verde, in azzurro quella in cui è stato previsto un potenziale aumento delle precipitazioni. Le nuvole indicano le zone in cui potrebbero diminuire i periodi di siccità, i termometri quelle in cui potrebbero registrarsi temperature massime più alte
    Nel Sahel così come nel Sahara le precipitazioni sono legate all’intensità del monsone dell’Africa occidentale, quel sistema periodico di perturbazioni che interessa la regione tra giugno e ottobre e a cui si deve la sopravvivenza di milioni di persone. Dagli anni Settanta in poi però questa parte dell’Africa è diventata meno ospitale a causa di intense siccità, molto probabilmente legate all’aumento della temperatura superficiale dell’oceano Atlantico, oltre che al modo in cui il territorio è stato sfruttato. L’idea di usare la vegetazione per contrastare questi effetti nasce dal fatto che le piante contribuiscono a conservare l’acqua nel suolo e con i loro processi biologici influenzano anche la quantità di umidità nell’aria.
    È inoltre possibile che l’aumento del suolo coperto da foreste riduca la forza dei venti sulla regione, dice lo studio di Ingrosso e Pausata, e per questo contribuisca a un aumento di precipitazioni.
    Un rapporto del 2020 della Convenzione contro la desertificazione delle Nazioni Unite (UNCCD) ha cercato di stimare in quale misura l’obiettivo fissato per il 2030 sia già stato raggiunto: non è chiarissimo perché i confini dei territori coinvolti non sono stati fissati in modo inequivocabile, quindi si è parlato di una percentuale compresa tra il 4 e il 18 per cento, sulla base delle informazioni fornite dai paesi coinvolti. Nel 2021 le Nazioni Unite hanno promesso un consistente finanziamento del progetto per accelerarlo: sono stati annunciati 14,3 miliardi di dollari di finanziamento entro il 2025, di cui 2,5 sono stati consegnati tra il 2021 e il 2023.
    I lavori per la creazione di un giardino che fa parte della Grande muraglia verde a Boki Diawe, in Senegal, il 10 luglio 2021: questo genere di giardini prevede di piantare piante adatte a condizioni climatiche aride all’interno di buche circolari che permettono di sfruttare al meglio le risorse idriche (REUTERS/Zohra Bensemra)
    Al di là delle risorse economiche necessarie per portarla avanti, la Grande muraglia verde ha altri ostacoli, di natura politica e di sicurezza. Infatti nel Sahel sono attivi molti gruppi terroristici, come il nigeriano Boko Haram, e in alcune zone ritenute particolarmente pericolose sia le organizzazioni che si stanno occupando di riforestazione che gli abitanti locali sono restii a portare avanti i progetti legati alla Grande muraglia verde.

    – Leggi anche: Oscurare il Sole contro il riscaldamento globale è una buona idea? LEGGI TUTTO

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    Non siamo così d’accordo su cosa sia davvero una specie

    Caricamento playerIl gammaro dei fossi, un crostaceo appartenente all’ordine degli anfipodi, è ampiamente diffuso nei torrenti in Europa e la sua presenza è un valido indicatore della qualità dell’acqua dolce. All’apparenza è simile a un minuscolo gamberetto e per diverso tempo si pensò che tutti i suoi individui appartenessero a un’unica specie (Gammarus fossarum), ma è ormai evidente che le cose stanno diversamente. Si stima che 25 milioni di anni fa iniziarono a prodursi linee di discendenza separate che portarono a sue nuove sottospecie: a seconda di come vengono classificate le differenze genetiche di questi animali, le probabili specie di questi piccoli crostacei sono 32 o addirittura 152.
    Quello del gammaro dei fossi non è un caso isolato: i progressi nella ricerca e nella capacità di analizzare gli intricati percorsi evolutivi hanno aggiunto nuove importanti complicazioni nel modo in cui vengono classificate le specie. Nel nostro colossale e instancabile lavoro di classificare gli esseri viventi che condividono con noi il pianeta, il livello di complessità è ormai tale da fare mettere in discussione il modo stesso con cui per lungo tempo abbiamo identificato e definito le specie.
    Classificare le specie e provare a organizzarne i complessi gradi di parentela tiene impegnati i naturalisti da molti secoli e il loro lavoro, che si è modificato e arricchito nel corso del tempo, è stato accompagnato da polemiche, critiche e riflessioni filosofiche. Nel suo Saggio sull’intelletto umano pubblicato nel 1689, il filosofo britannico John Locke si interrogò a lungo sulla classificazione delle specie in un discorso più ampio su come si svilupparono la conoscenza umana e l’intelletto. Nel suo trattato scrisse: «I confini delle specie sono quali li fanno gli uomini, e non la natura, ammesso che in natura ci siano confini prefissati».
    Le riflessioni di Locke non piacquero al matematico e filosofo tedesco Gottfried Wilhelm Leibniz, che scrisse Nuovi saggi sull’intelletto umano, un trattato che smontava punto per punto la maggior parte delle assunzioni formulate dal filosofo britannico. Tra le altre cose, Leibniz criticava lo scetticismo mostrato da Locke sulla classificazione delle specie e il tentativo di provare a fare ordine nella natura.
    Il lavoro di sistematizzazione e classificazione raggiunse l’apice nel diciottesimo secolo grazie agli studi del naturalista svedese Carl Nilsson Linnaeus (quasi sempre italianizzato in Linneo), che perfezionò un sistema di nomenclatura binomiale che viene utilizzata ancora oggi con l’aggiunta di opportune integrazioni. La classificazione linneana organizza gli esseri viventi in vari livelli gerarchici: si parte dai regni (si aggiunse poi il concetto di dominio al di sopra, per includere batteri e archèi) che si dividono in phylum, si prosegue poi con le classi che si diramano a loro volta in ordini e ancora in famiglie, generi e infine specie.
    Esempio di classificazione (Zanichelli)
    Lavorando su proposte e riflessioni di alcuni importanti suoi predecessori, come lo svedese John Ray, Linneo perfezionò un sistema che prevedeva di utilizzare un binomio latino per identificare ogni specie. Utilizzò il primo nome per indicare il genere, che era per forza comune a più specie, e il secondo per caratterizzare una singola specie e distinguerla dalle altre.
    Nel caso del Gammarus fossarum, il minuscolo crostaceo europeo, Gammarus indica il genere, mentre fossarum è l’epiteto per distinguere una certa specie. Ma come abbiamo visto, questo sistema funziona solo fino a un certo punto, perché nel caso del gammaro dei fossi abbiamo via via scoperto l’esistenza di molte specie che per lungo tempo sono state chiamate tutte con lo stesso nome.
    Linneo aveva del resto pensato al suo sistema di classificazione in un periodo in cui le conoscenze scientifiche sulle specie erano ancora relativamente limitate, con una certa convinzione che esistessero da sempre più o meno in quel modo e che fossero il frutto di una creazione divina. Si confrontavano le caratteristiche, si identificavano le cose in comune e sulla base di quelle si stabiliva la classificazione.
    Fu necessario circa un secolo perché iniziasse a fare presa il concetto di evoluzione, grazie al lavoro di altri naturalisti come Charles Darwin. Le specie non erano dunque da sempre uguali, ma il frutto di un incessante processo di evoluzione, immaginabile come un gigantesco albero genealogico con migliaia di biforcazioni e rami. In quel contesto, stabilire con esattezza quando una specie fosse diventata tale si rivelò più difficile.
    Gammarus fossarum (Università di Amsterdam via Wikimedia)
    A quasi due secoli di distanza dal lavoro di Darwin, sappiamo molte cose in più sull’evoluzione e il caso del gammaro è solo uno dei tanti simili, come ha raccontato di recente il giornalista scientifico Carl Zimmer in un articolo sul New York Times. Nel 1758 Linneo aveva descritto una singola specie di giraffa classificandola come Giraffa camelopardalis e in seguito si aggiunsero nove sottospecie (cioè con differenze minime tali da essere considerate difficilmente una specie a sé). Oggi diversi studi sulle caratteristiche genetiche di questi animali hanno portato a una revisione della tassonomia, sulla quale non sono però tutti d’accordo.
    Alla tassonomia classica se ne sono aggiunte altre che identificano tre, quattro e perfino otto specie diverse. La seconda è tra le più condivise e comprende la giraffa settentrionale (G. camelopardalis), la giraffa reticolata (G. reticulata), la giraffa meridionale (G. giraffa) e la giraffa masai (G. tippelskirchi). Ne esistono nel complesso 117mila esemplari in Africa e per questo le giraffe sono considerate “vulnerabili” e non in pericolo immediato di estinzione, ma le cose cambierebbero se fossero considerate come specie distinte. In questo caso la giraffa settentrionale sarebbe tra gli animali a maggior rischio di estinzione, a causa della distruzione dei suoi habitat tra Niger ed Etiopia e del bracconaggio.
    Secondo alcune organizzazioni impegnate nella tutela delle giraffe, una classificazione più chiara potrebbe aiutare a salvare questi animali, facendo maggiori pressioni sui governi e sulle istituzioni internazionali. È un esempio di come stabilire il confine tra una specie e un’altra abbia risvolti pratici non indifferenti, rispetto a discussioni e ragionamenti più teorici che possono apparire slegati dalla realtà. La definizione più condivisa di cosa sia una specie è del resto relativamente recente e viene impiegata da circa 80 anni.
    (Getty Images)
    Negli anni Quaranta del secolo scorso, l’ornitologo tedesco Ernst Mayr fu infatti tra gli studiosi che provarono a introdurre una nuova definizione di specie, basandosi sul modo in cui gli esseri viventi si riproducono. L’idea di base è relativamente semplice: se due animali non si possono riprodurre tra loro, allora appartengono a specie diverse. Questa distinzione ebbe una grande presa tra i naturalisti, ma presentava comunque qualche problema. Una balena non può riprodursi con un cardellino, questo è abbastanza evidente, ma ci sono molti casi in cui animali di specie diverse in qualche modo imparentate riescono comunque a riprodursi tra loro (il limite successivo è l’eventuale capacità della prole di riprodursi e di non essere sterile).
    Zimmer nel suo articolo cita il caso di diverse specie di rane europee, studiate negli ultimi anni dall’erpetologo francese Christophe Dufresnes. Analizzandone il comportamento e le generazioni, Dufresnes ha notato che alcuni gruppi di rane portano di frequente alla nascita di incroci, ma solo in alcuni casi. Studiandone il materiale genetico, il ricercatore ha notato che i gruppi di rane con un antenato comune relativamente recente, e quindi maggiormente imparentate, tendono a produrre incroci con maggiore frequenza. Secondo le stime di Dufresnes sono necessari fino a sei milioni di anni prima che due gruppi di rane – che evolvono da una stessa biforcazione nell’albero evolutivo – perdano la capacità di incrociarsi, diventando di fatto due specie diverse.
    Gli studi come quelli di Dufresnes hanno contribuito ad aggiungere un quadro temporale alla definizione data da Mayr, ma non risolvono completamente il problema. Mostrano infatti che la differenziazione tra specie avviene molto lentamente, almeno per i tempi umani, e che ci può essere un periodo molto lungo in cui specie che si stanno differenziando continuano a essere in grado di incrociarsi e riprodursi. È un processo che avviene ancora oggi e che riguarda molti esseri viventi che abbiamo intorno, ma è difficile capire se stia ancora avvenendo o se si sia concluso.
    In tempi remoti un fenomeno simile a quello osservato in alcune specie di rane avvenne con gli orsi. Oggi vediamo un orso polare e un orso bruno e sappiamo che si tratta di due animali molto diversi, seppure con qualche elemento in comune. Sappiamo inoltre che la pelliccia molto chiara degli orsi polari è il frutto dell’adattamento all’ambiente circostante, che nel loro caso è quasi sempre fatto di neve e ghiaccio nei quali mimetizzarsi. L’orso bruno si è invece adattato a vivere su terreni dove una pelliccia scura si confonde meglio con l’ambiente che ha intorno. Oltre a questi aspetti più evidenti, queste due specie hanno altre caratteristiche tali da essere distinguibili anche nei resti di orsi risalenti a centinaia di migliaia di anni fa.
    Proprio studiando quei reperti e analizzandone il DNA è emerso che per un lungo periodo orsi polari e orsi bruni si incrociarono tra loro. La loro differenziazione iniziò da un antenato comune circa mezzo milione di anni fa, ma per migliaia di anni i due gruppi continuarono a incrociarsi e a rimescolare il loro materiale genetico. Si differenziarono in modo più netto solamente 120mila anni fa e da allora i casi di incroci diventarono via via più sporadici, fino a quando le due specie furono pressoché incompatibili alla riproduzione comune. Il periodo precedente e molto lungo di incroci lasciò comunque il segno, se si considera che ancora oggi il 10 per cento del DNA di un orso bruno deriva da quello degli orsi polari.
    (Dietmar Denger/laif/Contrasto)
    Quando si parla di ibridi tendiamo a pensare ad animali con cui abbiamo una certa dimestichezza, come il mulo che è un incrocio tra un asino e una cavalla, o il porcastro che deriva dall’incrocio tra una scrofa e un cinghiale. In realtà ci sono molti altri esempi come la ligre, che nasce da un incrocio tra un maschio di leone e una femmina di tigre, il cama che ha come genitori un lama e un cammello, e ancora lo zebrallo, che nasce da una zebra e un cavallo. La grande varietà di ibridi osservabili oggi ci ricorda che i confini tra specie diverse sono spesso labili e che ci sono molte eccezioni alla regola di Mayr.
    A dirla tutta, un altro animale che conosciamo molto bene è anche il frutto di una ibridazione, per lo meno parziale: l’essere umano. La nostra evoluzione è stata tutt’altro che lineare e ha compreso lunghi periodi di riproduzione tra specie diverse. Le analisi genetiche svolte soprattutto negli ultimi anni sfruttando il DNA antico, per esempio, hanno evidenziato come per diverso tempo ci furono incroci tra gruppi di Neanderthal e umani moderni, tanto che si ritrovano ancora oggi tracce genetiche dei Neanderthal in alcune popolazioni. La differenziazione e classificazione delle specie e sottospecie di umani è ancora oggi molto dibattuta, a ulteriore dimostrazione di quanto sia difficile stabilire che cosa sia davvero una specie.
    Chi si occupa di classificazione e tassonomia impara a muoversi nell’incertezza e a gestirla, come del resto fa praticamente chiunque si occupi di scienza, ma la mancanza di punti fermi può essere a volte frustrante. È probabilmente anche per questo motivo che di recente l’Unione ornitologica internazionale ha scelto di provare a mettere ordine nelle diatribe che spesso nascono intorno alla classificazione delle specie di uccelli.
    Nel 2021 l’Unione ha incaricato un gruppo di lavoro di riorganizzare le quattro liste più condivise di specie aviarie, realizzando un unico grande catalogo. Per farlo, nove esperti si confronteranno su oltre 11mila specie, votando di volta in volta sulla base di alcuni criteri per definire le singole specie. Il confronto non è sempre pacifico e richiede una certa capacità di mediazione, tra chi vorrebbe spesso mettere insieme più uccelli in un’unica specie e chi invece propone di mantenere una differenziazione più marcata.
    Le nuove opportunità offerte dai progressi in campo informatico potrebbero comunque aiutare, non solo nella catalogazione degli uccelli. Alcuni gruppi di ricerca hanno per esempio iniziato a lavorare a sistemi di riconoscimento automatico delle immagini, in modo da mettere a confronto molto più velocemente individui fotografati negli ambienti naturali con gli esemplari conservati nei musei o rappresentati nei loro cataloghi. Dal confronto possono emergere dettagli su somiglianze o altre caratteristiche da approfondire, anche sul piano genetico, in modo da fare meglio ordine.
    Al di là degli aiuti offerti dalle nuove tecnologie informatiche e di analisi genetica, il lavoro di catalogazione e costruzione delle tassonomie è comunque lungo e impegnativo, nonché enorme. A oggi la catalogazione ha interessato più o meno 2,3 milioni di specie, ma più si studiano i diversi ambienti e la loro diversità più emerge che ci sono ancora milioni se non miliardi di specie da scoprire e catalogare. Alcuni sono minuscoli e difficili da identificare e studiare a causa della loro alta variabilità, come alcuni gruppi di batteri, altri semplicemente vivono in ambienti dove un tempo non si riteneva potesse esserci la vita, come è il caso degli organismi estremofili.
    Ed è proprio studiando e catalogando gli estremofili che iniziano a esserci ipotesi e supposizioni su come potrebbero essere fatte forme di vita su altri pianeti. Forse un giorno dovremo catalogarle insieme alle altre, ma questa è un’altra storia. LEGGI TUTTO

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    Weekly Beasts

    Solitamente i cavalli vengono fotografati in piedi, come quelli che nella raccolta a seguire trovate al pascolo con la Sierra Nevada sullo sfondo. Capita più raramente di vederli sdraiati a riposare sul fieno, come in un’altra foto scattata in Germania. Insieme ai cavalli valeva la pena fotografare un maschio di lince pardina e un limulo (chiamato anche granchio a ferro di cavallo) rimessi in libertà, un orso andino, una sialia mexicana, una zebra di Grévy e una lepre che cerca di non farsi notare, dietro a un fico d’India. LEGGI TUTTO

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    Il lander Odysseus è caduto su un lato

    Il lander Odysseus, che ha raggiunto il suolo della Luna venerdì ed è il primo veicolo spaziale degli Stati Uniti a compiere un allunaggio controllato dai tempi delle missioni Apollo, è con ogni probabilità caduto su un fianco. Lo ha fatto sapere Intuitive Machines, la società privata che l’ha costruito e che collabora con la NASA alla missione.Il lander è ancora funzionante, ma anziché appoggiarsi sulla sua base composta da sei “zampe”, come previsto originariamente, durante la fase di contatto con il suolo lunare non è riuscito a stabilizzarsi completamente ed è caduto su un lato: molto probabilmente la sommità del lander è appoggiata a una roccia, e il lander è sdraiato.
    Nonostante questo dovrebbe essere in grado di proseguire parte della sua missione, che comporta analisi ed esperimenti da fare per conto della NASA. Ci sono però degli ostacoli. Ora che Odysseus è sdraiato su un fianco, le sue antenne non puntano direttamente alla Terra, cosa che potrebbe limitare il flusso di comunicazioni. Intuitive Machines ha detto di aver ricevuto comunicazioni da Odysseus, ma che il lander non ha ancora cominciato a fare fotografie del suolo lunare, come avrebbe dovuto fare.
    In conferenza stampa Stephen Altemus, l’amministratore delegato di Intuitive Machines, ha detto che ci sono buone speranze che Odysseus riesca a portare avanti i suoi esperimenti perché il grosso delle strumentazioni scientifiche si trova nella parte del lander che è rivolta verso l’alto e non al suolo, cosa che potrebbe comunque consentirne l’utilizzo. «Abbiamo ancora abbastanza capacità operative anche se siamo caduti su un fianco», ha detto Altemus.
    (NASA via AP)
    Odysseus fa parte della classe di veicoli Nova-C sviluppati sempre da Intuitive Machine, e ha l’aspetto di un grande prisma a base esagonale sorretto da sei “zampe”. Ha una massa di quasi 2 tonnellate e un diametro di 2 metri, e raggiunge un’altezza di circa 3 metri. L’attuale missione, denominata IM-1, è per lo più dimostrativa e serve per verificare le capacità di allunaggio automatico del sistema e per trasportare alcuni esperimenti e altro materiale sulla Luna.
    IM-1 fa parte del Commercial Lunar Payload Services (CLPS), il programma avviato dalla NASA per inviare sulla Luna piccoli robot automatici per esplorarne il suolo, raccogliere dati sulle sue caratteristiche e prepararsi meglio alle future esplorazioni con esseri umani del programma lunare Artemis.
    A differenza di quanto avveniva un tempo, l’iniziativa prevede un forte coinvolgimento di aziende private, che hanno la diretta responsabilità sull’organizzazione della missione e che la finanziano attraverso contratti di appalto con la NASA e accordi con altre aziende e organizzazioni, interessate a trasportare sulla Luna robot, sensori, oggetti e persino le ceneri di persone che in vita avevano espresso il desiderio di essere sepolte tra i crateri lunari. LEGGI TUTTO

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    Il cervello cambia durante il ciclo mestruale

    Caricamento playerPer una parte delle donne i giorni vicini alle mestruazioni sono associati a sbalzi d’umore e maggiore emotività e irritabilità, per cui è piuttosto noto che ci siano relazioni tra gli ormoni che regolano il ciclo mestruale e il cervello. Sappiamo anche che il cervello è pieno di recettori che reagiscono agli ormoni, compresi quelli che non c’entrano nulla con ovulazioni e mestruazioni. Tuttavia le ricerche su cosa succeda nelle diverse fasi del ciclo a livello dei neuroni sono ancora molto carenti, e tra le altre cose non si sa come mai certe donne sperimentino notevoli variazioni di umore e altre no.
    Di recente però due diversi studi hanno ampliato le conoscenze in questo ambito grazie a una serie di risonanze magnetiche cerebrali praticate su più di 50 giovani donne in buona salute durante diversi momenti dei loro cicli mestruali. Entrambi dicono che alcune regioni del cervello si modificano significativamente durante le fasi del ciclo. Per il momento non sappiamo se a questi cambiamenti fisici corrispondano variazioni nelle funzioni del cervello, negli stati emotivi o eventualmente nelle capacità cognitive, ma sapere che cervelli adulti possono cambiare «in modo super veloce», per dirla come Julia Sacher, tra le neuroscienziate autrici di uno dei due studi, è già un notevole progresso.
    Il ciclo mestruale è la sequenza di fasi periodiche che avvengono fisiologicamente nell’apparato riproduttivo femminile in età fertile, cioè più o meno tra i 12 e i 50 anni, e coinvolgono principalmente l’utero e le ovaie. Ogni mese la mucosa interna dell’utero, l’organo che può ospitare eventuali gravidanze, si modifica per accogliere un ovulo proveniente dalle ovaie (ovulazione). Spesso colloquialmente si usa l’espressione “ciclo” per indicare le mestruazioni, cioè il momento in cui la mucosa dell’utero (endometrio), se non è iniziata una gravidanza, perde la sua parte più superficiale, che viene espulsa come sangue e tessuti attraverso la vagina.
    Convenzionalmente il ciclo inizia il primo giorno di mestruazioni. Le mestruazioni durano dai 2 agli 8 giorni nella maggior parte dei casi e avvengono in contemporanea con l’inizio della prima fase del ciclo, la fase follicolare. Complessivamente dura circa 13-14 giorni: è la fase in cui all’interno delle ovaie si sviluppano vari follicoli, cioè sacche di liquido contenenti un ovulo ciascuna. Nella successiva fase ovulatoria, un solo ovulo viene rilasciato e arriva all’utero, dove nell’arco di circa 12 ore può essere fecondato. Poi arriva la fase luteinica, in cui l’endometrio si inspessisce; se non c’è stata fecondazione dopo circa 14 giorni si sfalda facendo iniziare la mestruazione. La maggior parte delle donne sperimenta quasi 450 cicli mestruali nella vita.
    A ogni fase del ciclo corrispondono diversi livelli di differenti ormoni nel corpo. Nella fase follicolare aumentano i livelli di estrogeni fino a un picco; nella fase ovulatoria c’è una notevole diminuzione dei livelli di estrogeni e aumenta progressivamente quello di progesterone; il picco di progesterone avviene nella fase luteinica, che si conclude con la diminuzione dei livelli di progesterone ed estrogeni. Questi ormoni regolano il funzionamento di ovaie e utero, ma possono influenzare anche il resto del corpo.

    – Leggi anche: Cosa sono davvero le mestruazioni

    Per quanto riguarda il cervello, il primo studio che mostrò che in quello dei mammiferi succedeva qualcosa in risposta ai cambiamenti nei livelli di ormoni sessuali femminili risale al 1990.
    Un gruppo di ricerca del laboratorio di neuroendocrinologia della Rockefeller University di New York scoprì che nelle femmine di ratto i livelli di estrogeni hanno degli effetti sull’ippocampo, una parte del cervello che ha grande importanza cognitiva ed è fondamentale per la memoria. In particolare accertò che nell’ippocampo questi ormoni regolano la densità delle ramificazioni dei dendriti, i prolungamenti dei neuroni attraverso cui le cellule del cervello comunicano. Nell’ippocampo, che aumenta di volume negli adulti quando si è impegnati ad apprendere nuove abilità e conoscenze pratiche, ci sono numerosi recettori per gli ormoni sessuali.
    Studi successivi mostrarono poi che con la menopausa, cioè con la fine della fertilità femminile, la densità dei dendriti diminuisce in alcune parti del cervello, ma fino a poco tempo fa nessuno aveva osservato con costanza eventuali cambiamenti analoghi nel corso di uno stesso ciclo mestruale nelle medesime donne.
    I due recenti studi sui cambiamenti del cervello nel corso del ciclo lo hanno fatto. Sono indipendenti tra loro e sono stati divulgati lo scorso ottobre. Il primo è stato realizzato da un gruppo di ricerca dell’Istituto Max Planck per le scienze cognitive e cerebrali umane e dell’Università di Lipsia, in Germania, di cui fa parte Sacher, ed è stato pubblicato sulla rivista scientifica Nature Mental Health. Il secondo studio è stato fatto all’Università della California di Santa Barbara, negli Stati Uniti, ed è stato diffuso su bioRxiv in versione preprint, cioè prima di essere rivisto da ricercatori terzi e indipendenti (peer-review), pochi giorni dopo la pubblicazione dell’articolo del gruppo di Lipsia.
    Allo studio tedesco hanno partecipato 27 donne di età compresa tra i 18 e i 35 anni, con cicli mestruali regolari e senza patologie neurologiche o psichiatriche, che non si erano mai sottoposte a terapie ormonali, non avevano avuto gravidanze, aborti e non avevano allattato nell’anno precedente allo studio, e non usavano contraccettivi ormonali da almeno sei mesi. Dallo studio sono state escluse donne che mostravano sintomi umorali premestruali. A ognuna delle partecipanti sono sono stati fatti prelievi di sangue per monitorare i livelli ormonali in sei diversi momenti del ciclo mestruale; nelle stesse occasioni sono state sottoposte a risonanze magnetiche per analizzare l’ippocampo e il vicino lobo temporale mediale.
    In questo modo il gruppo di ricerca di Lipsia ha osservato che all’aumento dei livelli di estrogeni la parte esterna dell’ippocampo aumenta di volume e la materia grigia, costituita dai corpi dei neuroni e dai dendriti, si espande. Quando poi crescono i livelli di progesterone si espande la parte legata alla memoria.
    Lo studio realizzato in California, basato sulle risonanze effettuate su 30 donne di età media di circa 22 anni, ha osservato qualcosa di analogo oltre a modifiche nella sostanza bianca, che invece è costituita dagli assoni, i prolungamenti più lunghi dei neuroni. Gli autori di questo secondo studio hanno ipotizzato che i cambiamenti ormonali associati all’ovulazione possano favorire il trasporto di informazioni tra diverse parti del cervello.
    Per il momento comunque non si possono trarre conclusioni su eventuali effetti sulla memoria, sulle capacità cognitive o su altre funzioni del cervello.
    «In generale, il cervello femminile è ancora molto poco considerato negli studi delle neuroscienze cognitive», ha detto Sacher: «Anche se gli ormoni sessuali steroidei sono potenti modulatori dell’apprendimento e della memoria, meno dello 0,5 per cento della letteratura scientifica basata su tecniche di neuroimaging prende in considerazione le fasi ormonali come quelle del ciclo mestruale, l’influenza dei contraccettivi ormonali, della gravidanza e della menopausa. Siamo impegnati a rimediare a questo grosso buco della ricerca». Nell’ambito della fisiologia e della salute i corpi femminili sono stati studiati molto meno di quelli maschili: nuove scoperte in questo campo potrebbero aiutare a capire meglio i rischi e la resistenza a malattie come la depressione e l’Alzheimer quando riguardano le donne.

    – Leggi anche: Si possono, per scelta, eliminare le mestruazioni? LEGGI TUTTO