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    Weekly Beasts

    La raccolta di animali di questa settimana è una buona occasione per ripassare un po’ di nomi di uccelli: cormorani, storni, gru della Manciuria, gabbiani, chiurli, garzette, pappagalli, marabù e avvoltoi in più parti del mondo. Poi la storia di una femmina di cane di razza spaniel nata con sei zampe, il trasferimento di una giraffa in Messico, cavalli di razza Clydesdale e un panda e un ippopotamo che occupano il tempo mangiando. LEGGI TUTTO

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    C’è un forte aumento di casi di morbillo in Europa

    Negli ultimi mesi in Europa si è registrato un forte aumento dei casi di morbillo, che l’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) ha definito preoccupante. Nel 2023 l’OMS ha ricevuto segnalazioni di 42mila casi da 41 dei 53 paesi che fanno parte di quella che chiama “Regione Europea”, un’ampia area che oltre ai paesi dell’Unione Europea comprende numerosi altri stati compresi Kazakistan, Russia e Turchia. I casi sono aumentati di circa 45 volte rispetto a tutto il 2022 quando ne erano stati segnalati 942.I dati, comunicati a dicembre e integrati questa settimana, sono stati ripresi negli ultimi giorni dall’OMS con alcune iniziative di comunicazione soprattutto sui social network per sensibilizzare sull’importanza della vaccinazione, l’unica soluzione per tenere sotto controllo i casi e ridurre gli effetti della malattia. La prevenzione contro il morbillo viene effettuata con la somministrazione nei primi anni di vita del vaccino MPR, che offre protezione anche contro la parotite (gli “orecchioni”) e la rosolia.
    Il morbillo è una malattia infettiva del sistema respiratorio, è causato da un virus ed è altamente contagioso. Si trasmette per via aerea e chi la contrae diventa contagioso circa tre giorni prima dei sintomi e fino a una settimana dopo la comparsa delle pustole rosse su buona parte del corpo (esantema).
    La malattia, oltre allo sfogo cutaneo, causa tosse, raffreddore e febbre alta, che di solito raggiunge picchi intorno ai 40 °C. Il morbillo può essere la causa di molte complicazioni, dalla polmonite all’encefalite (una pericolosa infezione che interessa il cervello e il resto del sistema nervoso centrale contenuto nella scatola cranica) passando per otiti di media entità.
    Negli anni, il vaccino MPR ha consentito di immunizzare centinaia di milioni di persone in tutto il mondo, riducendo sensibilmente i casi di morti da morbillo. Si stima che ogni mille casi di morbillo muoiano fino a tre bambini a causa delle complicazioni respiratorie e neurologiche indotte dalla malattia. Per questo motivo da tempo l’OMS e le istituzioni sanitarie in molti paesi hanno consigliato o resa obbligatoria la vaccinazione.
    Secondo i dati dell’OMS, nel 2023 il morbillo non ha riguardato solamente i bambini, ma diverse altre fasce di età: due casi su cinque hanno interessato bambini tra 1 e 4 anni, mentre un caso su cinque ha riguardato persone adulte con più di 20 anni. Tra gennaio e ottobre 2023 in Europa sono state ricoverate 21mila persone e sono stati registrati almeno 5 morti a causa della malattia in due paesi.
    L’aumento dei casi di morbillo è stato in parte ricondotto a un rallentamento nelle vaccinazioni tra il 2020 e il 2022, quindi durante la fase più acuta della pandemia da coronavirus. L’OMS ha calcolato che oltre 1,8 milioni di bambini non abbiano ricevuto il vaccino in quel periodo segnato da grandi difficoltà nel fornire assistenza sanitaria, ma anche da una certa avversione a recarsi in ospedale se non per le emergenze, nel timore di poter essere contagiati.
    Nell’estate del 2022 il rischio di una forte riduzione delle vaccinazioni era stata segnalata dal Centro europeo per la prevenzione e il controllo delle malattie (ECDC). All’epoca la direttrice, Andrea Ammon, aveva previsto che ci sarebbero stati ritardi nelle vaccinazioni per almeno due gruppi di bambini: quelli che avevano tra i 12 e i 14 mesi di età all’inizio della pandemia, e quelli che avevano raggiunto la medesima età nel 2021. Il problema sembrava avere una minore portata per i bambini con età tra i 5 e i 6 anni, cioè quando si riceve una seconda dose per immunizzare quel 2-5 per cento per i quali non è sufficiente la prima somministrazione.
    Casi di morbillo nella Regione Europea tra dicembre 2022 e novembre 2023 (OMS)
    Il paese che ha segnalato il maggior numero di casi di morbillo nel 2023 è il Kazakistan, che tra dicembre 2022 e novembre 2023 ha rilevato 13.677 contagi. Seguono poi la Russia con 10.710 casi e il Kirghizistan con 5.452. La situazione è difficile anche in Turchia, Azerbaigian e Romania. Nel Regno Unito sono stati segnalati 183 casi, molti meno, ma comunque significativi per un’economia sviluppata occidentale.
    Per quanto riguarda l’Italia, l’ultimo bollettino dell’Istituto superiore di sanità (ISS) pubblicato a settembre e riferito ai primi 8 mesi dell’anno indicava undici casi di morbillo: 9 confermati in laboratorio e due segnati come “possibili”. Il maggior numero di casi era stato rilevato in Lombardia con tre segnalazioni. Oltre la metà dei pazienti aveva un’età compresa tra i 15 e i 39 anni.
    Nuovi casi mensili di morbillo da gennaio 2021 a novembre 2023
    La diffusione del morbillo tra le persone adulte è di solito strettamente legata alla percentuale di popolazione vaccinata e/o immunizzata attraverso la malattia (con tutti i rischi che ne conseguono). La malattia può essere tenuta sotto controllo se il tasso di vaccinati è almeno del 95 per cento, ma in Europa negli ultimi anni si è registrata una sensibile diminuzione. È stato calcolato che dal 96 per cento del 2019 si sia scesi al 93 per cento del 2022. Il dato è in linea con la riduzione legata al periodo della pandemia, ma in alcuni paesi ha influito anche l’esitazione vaccinale.
    Il vaccino MPR negli anni è stato spesso osteggiato dai movimenti contro i vaccini, nati soprattutto in seguito alla disinformazione e a un vecchio e fraudolento studio scientifico del 1998, da tempo smentito da tutte le più importanti organizzazioni sanitarie del mondo compresa l’OMS e ritirato dalla stessa rivista The Lancet, che lo aveva pubblicato alla fine degli anni Novanta. LEGGI TUTTO

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    L’elicottero della NASA Ingenuity ha concluso la sua missione su Marte

    Il piccolo elicottero sperimentale Ingenuity della NASA, l’agenzia spaziale statunitense, ha concluso la sua missione su Marte dopo tre anni. Ingenuity era arrivato su Marte insieme al rover Perseverance il 18 febbraio del 2021, e nell’aprile successivo era diventato il primo elicottero costruito sulla Terra a volare su un altro pianeta.La missione iniziale di Ingenuity (che vuol dire “ingegno” in inglese) era di effettuare 5 voli in 30 giorni. Aveva però superato le aspettative della NASA, e alla fine aveva compiuto 72 voli in tre anni. Aveva effettuato l’ultimo volo la settimana scorsa, ma aveva riportato danni irreparabili a una pala del rotore. Per questo motivo la NASA ha deciso di dichiarare ufficialmente conclusa la missione del piccolo elicottero. «Lo storico viaggio di Ingenuity, il primo veicolo a volare su un altro pianeta, è finito», ha detto l’amministratore della NASA Bill Nelson. «Quell’eccezionale elicottero ha volato più in alto e più lontano di quanto avessimo mai immaginato e ha aiutato la NASA a fare ciò che fa meglio: rendere l’impossibile possibile».
    Ingenuity ha una massa di circa 1,8 chilogrammi, ma su Marte risulta circa 2,5 volte più leggero che sulla Terra a causa della minore gravità. È alto poco meno di mezzo metro, e ricorda i droni telecomandati che utilizziamo qui per fare le riprese dall’alto. Per decollare e mantenersi in volo, Ingenuity utilizzava due coppie di pale con una lunghezza di 1,2 metri. Una coppia ruotava in senso orario e l’altra in senso antiorario, compiendo all’incirca 2.400 giri al minuto. LEGGI TUTTO

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    La scoperta di quattro nuove colonie di pinguini imperatori è una piccola buona notizia

    Attraverso alcune osservazioni satellitari sono state identificate quattro nuove colonie di pinguini imperatori in Antartide. È considerata una buona notizia, visto che recentemente alcune analisi avevano segnalato la scomparsa di numerosi individui di questi animali a causa della fusione dei ghiacci dovuta alle temperature anomale, sia nell’inverno sia nell’estate antartiche.La scoperta è stata resa possibile grazie all’osservazione dallo Spazio delle feci (guano) prodotte dai pinguini, che ricoprendo la superficie ghiacciata ne fanno variare il colore rendendo rilevabile in maniera indiretta la presenza delle colonie nelle immagini satellitari. La tecnica viene utilizzata da diversi anni e si è rivelata fondamentale per tenere sotto controllo le popolazioni di questi animali.
    L’identificazione delle nuove colonie è stata raccontata dal ricercatore Peter Fretwell sulla rivista scientifica Antarctic Science. Lo studio segnala che grazie alla nuova scoperta si può stimare la presenza di almeno 66 colonie di pinguini imperatori in Antartide, con le quattro da poco scoperte che riempiono alcuni spazi vuoti intorno alla costa antartica dove finora non era nota la presenza di questi animali.
    I pinguini imperatori vivono per lo più lungo le zone costiere sul ghiaccio fisso, cioè la parte di ghiaccio marino (banchisa) attaccata alla costa, che come suggerisce il nome rimane stabile nella medesima posizione senza muoversi a causa delle correnti marine o dei venti. Si riproducono sul ghiaccio fisso e depongono le uova tra maggio e giugno; i piccoli nascono un paio di mesi dopo, ma non sono autonomi fino a dicembre-gennaio. Il pinguino imperatore è la specie di pinguino più grande ma meno presente in Antartide, con una popolazione stimata di circa 600mila individui.
    Le quattro nuove colonie (rosso) identificate dallo studio, nel contesto delle colonie già note (grigio) lungo la costa antartica (British Antarctic Survey)
    Negli ultimi anni erano stati segnalati molti problemi legati ad alcune colonie di pinguini imperatori, che si erano fortemente ridotte o erano proprio scomparse. Uno studio pubblicato nel 2022 aveva per esempio segnalato che, a causa della riduzione del ghiaccio marino, in almeno quattro colonie erano morti migliaia di pinguini imperatori appena nati, con gravi conseguenze sulla loro popolazione. Nel nuovo studio, Fretwell ipotizza cha una delle quattro colonie ora identificate possa essere il frutto del trasferimento di animali da una delle colonie che si credevano perse.
    La ricerca segnala che tre delle quattro nuove colonie hanno meno di un migliaio di individui, quindi la scoperta non incide più di tanto sulle stime complessive sulla presenza dei pinguini imperatori. La novità è però importante perché dà la possibilità di avere un censimento più accurato delle colonie che costellano la costa antartica, anche in vista di futuri studi per calcolare meglio la presenza di questi animali e soprattutto la variazione nelle dimensioni delle colonie nel corso del tempo.
    Le frecce indicano le aree ricoperte dal guano dove sono state identificate le quattro nuove colonie (British Antarctic Survey)
    A causa del cambiamento climatico il ghiaccio marino in Antartide è meno presente rispetto a un tempo. Negli ultimi due anni, per esempio, si è registrata la copertura più scarsa di ghiaccio da quando si è iniziato a tenerla sotto controllo dalla fine degli anni Ottanta. Si stima che almeno un terzo delle colonie di pinguini imperatori abbia avuto qualche conseguenza, soprattutto in termini di riduzione della popolazione, da quando la perdita di ghiaccio è diventata più significativa. LEGGI TUTTO

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    Perché ci si può sentire alticci anche con le bevande analcoliche

    Da diversi anni una più diffusa e profonda consapevolezza degli effetti dell’alcol sulla salute ha fatto crescere la domanda di versioni analcoliche di note bevande alcoliche: principalmente birra e vino, ma anche distillati come rum e gin. A sostenere la domanda è il desiderio di continuare a gustare queste bevande ma senza subire gli effetti provocati dalle versioni tradizionali. Alcune persone, dopo aver bevuto bibite analcoliche, riferiscono tuttavia di sentirsi più rilassate, o persino leggermente alticce: un effetto tipicamente provocato dall’alcol, che quindi sembra inspiegabile.Sebbene sia un fenomeno ancora poco studiato in modo specifico e approfondito, si ritiene che la sensazione di rilassatezza, appagamento o persino lieve ebbrezza che le bevande analcoliche possono talvolta indurre in alcune persone abbia principalmente a che fare con condizionamenti psicologici e abitudini personali. Sul piano neurobiologico, questa reazione potrebbe derivare dagli stessi meccanismi del cervello che controllano il sistema di ricompensa (quello che ci fa sentire appagati in varie circostanze) e da cui deriva in parte anche la reazione al consumo di bevande alcoliche. Lo suggeriscono indirettamente diversi esperimenti di psicologia condotti fin dagli anni Settanta sugli effetti delle bevande placebo, e direttamente alcuni studi più recenti sull’attività del cervello in risposta al consumo di bevande alcoliche e analcoliche.
    Per uno studio pubblicato nel 2023 sulla rivista Behavioural Brain Research un gruppo di ricerca della University of Texas a Austin esaminò il cervello di 22 giovani adulti dopo che avevano bevuto una bevanda analcolica pensando di berne una alcolica. Le risonanze magnetiche funzionali (fMRI) mostrarono un aumento significativo dell’attività cerebrale in due delle aree del cervello maggiormente coinvolte nei processi cognitivi della ricompensa. L’aumento era maggiore di quello determinato dall’assunzione di una bevanda “di controllo” dichiaratamente analcolica (un integratore di sali minerali). Il gruppo di ricerca riscontrò inoltre una correlazione tra l’aumento di quella particolare attività cerebrale e la sensazione dei partecipanti di essere brilli, suggerendo che l’aspettativa di consumare una bevanda alcolica può influenzare in parte l’esperienza stessa del bere, indipendentemente dal contenuto di alcol ingerito.

    – Leggi anche: Non fa male sapere che bere alcol fa male

    Negli studi sulle bevande alcoliche il coinvolgimento del sistema di ricompensa – un fattore alla base di molte forme di dipendenza – è noto da tempo. In uno studio pubblicato nel 2013 un gruppo di ricercatori della scuola di medicina della Indiana University eseguì una serie di scansioni del cervello (in questo caso PET, tomografie a emissione di positroni) su 49 bevitori abituali di birra a cui erano stati serviti 15 ml di birra. Nonostante i partecipanti avessero ingerito una quantità troppo piccola per sentire gli effetti dell’alcol (più o meno l’equivalente di un cucchiaio da tavola), le scansioni mostrarono che quel semplice assaggio era bastato a determinare un aumento dei livelli di dopamina – il neurotrasmettitore che regola le sensazioni di piacere – nelle aree del cervello associate all’aspettativa di una ricompensa.
    Il fatto che le bevande alcoliche e quelle analcoliche attivino in parte le stesse risposte neurobiologiche è anche una delle ragioni per cui molte persone che si occupano di dipendenze sconsigliano le bevande analcoliche ad alcuni soggetti a rischio. Secondo una revisione di dieci studi pubblicata nel 2022 sulla rivista Nutrients le persone con problemi di dipendenza dall’alcol o anche solo problemi di consumo eccessivo sperimentano un aumento del desiderio di alcol quando consumano bevande analcoliche. Mostrano anche alcune risposte fisiologiche simili a quelle che si verificano quando assumono alcol, tra cui un aumento della sudorazione e della frequenza cardiaca.
    Un cocktail analcolico servito durante un evento organizzato dalla rivista Teen Vogue a New York, il 2 giugno 2018 (Cindy Ord/Getty Images)
    In base alle leggi italiane è considerata alcolica qualsiasi bevanda con una gradazione superiore a 1,2 gradi: è una birra analcolica, per esempio, qualsiasi birra con una gradazione alcolica uguale a o minore di 1,2 gradi. Alcune birre analcoliche sono infatti minimamente alcoliche, perché hanno una gradazione maggiore di 0 gradi (in questo caso sono infatti presenti sull’etichetta i simboli che indicano il divieto di assunzione per le donne in gravidanza e per chi deve guidare).
    In Australia, negli Stati Uniti e in altri paesi la soglia stabilita dalle leggi per definire analcolica una bevanda è di 0,5 gradi. È una quantità di alcol paragonabile a quella che si sviluppa durante i processi di fermentazione nelle banane mature o nel succo d’arancia: troppo esigua per considerarla la ragione dell’apparente ebbrezza sperimentata da alcune persone dopo aver bevuto bevande analcoliche.
    Alcune persone attribuiscono peraltro lo stesso effetto a bevande esplicitamente descritte sull’etichetta come bevande “0,0%”. In questo caso i produttori assicurano che la bevanda sia completamente priva di alcol, a differenza delle analcoliche, il cui eventuale contenuto di alcol può appunto variare tra 0 e 1,2 gradi (ma di solito, per renderle esportabili come analcoliche in più paesi, non supera 0,5). Dagli studiosi che se ne sono occupati le ragioni del rilassamento e delle altre particolari sensazioni associate da alcune persone al consumo di bevande analcoliche sono ricondotte perlopiù a fattori psicologici.

    – Leggi anche: Perché ridiamo tutti allo stesso modo?

    Molti dati provenienti da esperimenti condotti fin dagli anni Settanta sugli effetti delle “finte” bevande alcoliche e analcoliche indicano che le persone sono generalmente in grado di riconoscere la presenza di alcol in bevande descritte come analcoliche e in cui è stato aggiunto dell’alcol a loro insaputa. Sono invece molto meno abili nel caso opposto: quando devono riconoscere l’assenza di alcol in bevande presentate come alcoliche. Lo mostrano, tra gli altri, i risultati di un esperimento condotto su 720 persone, pubblicati nel 2012 in un ampio studio su Psychological Science.
    Ad alcuni partecipanti riuniti in gruppi di tre persone fu servito un cocktail preparato versando della vodka da una bottiglia di vodka Smirnoff e del succo di mirtillo rosso: solo che la bottiglia, a insaputa dei partecipanti, conteneva in realtà acqua tonica. Tutti i partecipanti tranne uno, pur non mostrando segni di ebrezza, affermarono di aver bevuto un cocktail alcolico. A farglielo credere, oltre all’osservazione delle fasi di preparazione e alle indicazioni degli sperimentatori, contribuirono altri fattori tra cui la temperatura bassa della bevanda. Uno studio più recente condotto su quegli stessi dati indicò inoltre che il consumo di gruppo di finte bevande alcoliche generava reazioni simili a quelle riscontrate in altri esperimenti in cui i partecipanti bevevano finte bevande alcoliche da soli: il fatto che il consumo avvenisse in gruppo era quindi ininfluente rispetto alla convinzione delle persone di aver bevuto un cocktail alcolico.
    Il professore di psicologia Denis M. McCarthy, direttore del centro di ricerca sulle dipendenze della University of Missouri, ha detto a Slate che in questo tipo di esperimenti i partecipanti non solo credono di aver assunto alcol, ma spesso mostrano anche alcuni cambiamenti nel loro comportamento in base a quella convinzione. E quei cambiamenti tendono a riflettere le passate esperienze delle persone quando bevono alcolici, caso per caso: alcune diventano meno ansiose, altre più loquaci e allegre. In generale si aspettano di sentirsi come si sentono dopo aver bevuto, anche se su un piano farmacologico non è cambiato niente nel loro corpo.

    – Leggi anche: Beviamo da un pezzo

    Esistono tuttavia dei limiti a questo tipo di reazione alle finte bevande alcoliche. In generale, indipendentemente da come si comportano, le persone non arrivano a ubriacarsi: tendono a non accorgersi dell’assenza di alcol finché bevono due o tre drink, ma dopo quattro o cinque cominciano a scoprire la manipolazione. Inoltre non mostrano nel loro comportamento le difficoltà e le alterazioni tipiche del comportamento delle persone ubriache. In alcuni casi, dopo aver bevuto bevande analcoliche credendo di assumere alcol, le persone ottengono in alcuni test cognitivi risultati persino migliori rispetto alle persone che non hanno bevuto: probabilmente perché prestano maggiore attenzione a ciò che stanno facendo, pensando di dover compensare un deficit da loro attribuito al presunto effetto dell’alcol.
    Il limite delle osservazioni basate sui risultati dei molti studi esistenti sugli effetti placebo delle finte bevande alcoliche è che nella maggior parte di quegli esperimenti le persone sono intenzionalmente tratte in inganno. I risultati forniscono informazioni utili, ma fino a un certo punto: nel caso delle sensazioni di rilassatezza comunemente attribuite da alcune persone alle bevande analcoliche, quelle persone sanno di non aver assunto alcol. E gli effetti delle bevande sul loro comportamento sono verosimilmente meno forti rispetto a quelli sperimentati dai partecipanti degli studi sugli effetti placebo. Quello che servirebbe, ha detto a Slate la neuroscienziata Dylan Kirsch, è una maggior quantità di studi sugli effetti del consumo consapevole di una bevanda senza alcol esplicitamente progettata per imitare aspetto e sapore di una corrispondente bevanda alcolica.
    Una bottiglia di birra senza alcol, servita durante una conferenza stampa di presentazione di un accordo pubblicitario tra il Comitato Olimpico Internazionale e la società Anheuser-Busch InBev, a Londra, il 12 gennaio 2024 (AP Photo/Kin Cheung)
    È possibile che una parte dei condizionamenti psicologici derivi dalle somiglianze tra bevande alcoliche e analcoliche, che spesso condividono la stessa bottiglia o la stessa lattina, sia per dimensioni che per colore. «Una delle cose che sappiamo essere fondamentali per potenziare gli effetti placebo sono i simboli che li circondano», ha detto a Slate Kathryn T. Hall, professoressa della Harvard Medical School e autrice del libro Placebos, pubblicato nel 2022. Un certo tipo di lattina o di bottiglia associata al bere una birra, alla sensazione di freddo nella mano che la regge, ai simboli presenti sull’etichetta o anche soltanto a un certo rituale, come bere una birra davanti alla TV, secondo Hall, «stimolerà tutti quei percorsi che erano stati condizionati in precedenza dalle tue abitudini nel bere».

    – Leggi anche: I pulsanti progettati per non funzionare

    Diverse ricerche nel campo delle neuroscienze suggeriscono che, a determinate condizioni, le aspettative possono avere un impatto molto significativo sulla reazione a sostanze di qualsiasi tipo, non soltanto l’alcol. Secondo uno studio pubblicato nel 2023 sulla rivista Frontiers in Behavioral Neuroscience la caffeina, per esempio, non è l’unica molecola responsabile dell’impatto del caffè sui nostri livelli di attenzione. Le ricercatrici e i ricercatori riscontrarono in un gruppo di partecipanti che avevano bevuto caffè un aumento di attività cerebrale nelle regioni associate al controllo cognitivo, alla memoria di lavoro e al comportamento orientato agli obiettivi. Non riscontrarono però gli stessi effetti neurobiologici quando i partecipanti assumevano la stessa quantità di caffeina attraverso un’altra bevanda diversa dal caffè.
    Gli studi sull’impatto dei condizionamenti psicologici e degli effetti placebo tendono a suscitare una certa sorpresa nelle persone, ma secondo Hall non dovrebbero. Ogni giorno e per tutto il giorno, ha detto a Slate, le cose che pensiamo cambiano come ci sentiamo e il modo in cui funziona il nostro corpo. Se qualcuno entrasse in ufficio gridando che c’è un incendio e che bisogno uscire di corsa, la nostra frequenza cardiaca aumenterebbe, per esempio, e si verificherebbero altre reazioni: «tutta la nostra fisiologia cambierebbe in risposta a un’informazione che può essere vera o meno». LEGGI TUTTO

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    Dopo tre mesi la NASA ha infine aperto il suo barattolo

    Dopo quasi tre mesi di lavoro, i tecnici della NASA sono infine riusciti ad aprire completamente il contenitore che conserva al proprio interno i campioni dell’asteroide Bennu, portati sulla Terra alla fine dello scorso settembre dalla missione OSIRIS-REx dopo un viaggio di miliardi di chilometri. Il contenitore era stato recuperato con grande cura e attenzione, ma dopo i primi tentativi di aprirlo erano emersi problemi a due elementi del sistema di chiusura, tali da rendere necessario lo studio di nuove procedure per aprirlo mantenendolo isolato per evitare contaminazioni dall’esterno.Nell’autunno del 2023 i tecnici della NASA erano riusciti a recuperare alcuni frammenti di Bennu, ma una parte significativa dei detriti era rimasta bloccata all’interno del contenitore: il componente più importante della missione. Il prelievo del materiale spaziale era avvenuto nel 2020 attraverso un braccio robotico, che si era poggiato per qualche istante sulla superficie dell’asteroide. Alla sua estremità c’era il TAGSAM, il contenitore cilindrico la cui apertura si era poi bloccata.
    Il sistema di prelievo era stato progettato come una sorta di aspirapolvere, con un flusso di gas per generare una piccola turbolenza alla base del TAGSAM in modo da fare sollevare i detriti, che venivano poi convogliati in una camera di raccolta lungo la circonferenza del dispositivo. Il prelievo era andato meglio del previsto, tanto da intasare parte dello strumento di raccolta. Il TAGSAM era stato poi collocato da un braccio robotico all’interno di una capsula, che dopo avere compiuto un lungo viaggio era rientrata nell’atmosfera terrestre finendo nel deserto dello Utah (Stati Uniti), dove era stata recuperata e trasportata al Johnson Space Center di Houston, in Texas, per procedere con l’apertura e l’ispezione del TAGSAM.

    L’apertura della capsula era avvenuta dentro una teca isolata dall’esterno e sottoposta a un flusso continuo di azoto, un gas inerte per impedire l’ingresso di altre sostanze. Nella teca erano anche presenti gli strumenti previsti per aprire il TAGSAM ed estrarne il contenuto, come sperimentato in varie simulazioni negli anni di preparazione e gestione della missione. A ottobre dello scorso anno i tecnici avevano iniziato a rimuovere i 35 elementi che tenevano chiuso il coperchio del serbatoio in cui erano raccolti i detriti di Bennu. Nel farlo si erano accorti che due elementi si erano incastrati e che non potevano essere rimossi, impedendo il sollevamento del coperchio per raggiungere il serbatoio con i pezzi di Bennu.
    Attività di apertura del TAGSAM (NASA)
    Disponendo solamente di una varietà limitata di strumenti, quelli testati e certificati per entrare in contatto con i detriti, i tecnici non erano riusciti a risolvere il problema e ad aprire completamente il contenitore. Nelle settimane seguenti gli ingegneri della NASA si erano quindi messi al lavoro per sviluppare nuovi strumenti fatti appositamente per sbloccare la chiusura del contenitore, utilizzando acciaio inossidabile non magnetico solitamente impiegato per la produzione degli strumenti utilizzati dai chirurghi nelle sale operatorie.

    It’s open! It’s open! And ready for its closeup. After successfully removing two final fasteners on Jan. 10, members of the @astromaterials team photographed the #OSIRISREx asteroid sample with a special technique to achieve super high-res images. https://t.co/bBrfFT3FoR pic.twitter.com/NTGMVFZCP3
    — NASA Solar System (@NASASolarSystem) January 19, 2024

    Dopo varie prove e tentativi, a metà gennaio i tecnici della NASA erano infine riusciti a sbloccare i due elementi, ottenendo circa 250 grammi di detriti di Bennu, che saranno studiati da vari gruppi di ricerca in giro per il mondo per estendere le conoscenze sui processi che portarono alla formazione del nostro Sistema solare. A ottobre dello scorso anno l’analisi dei frammenti che era stato possibile estrarre con maggiore facilità aveva portato a identificare indizi sulla presenza di carbonio e acqua, importanti per lo sviluppo della vita per come la conosciamo. Da tempo si ipotizza che nel periodo in cui si formò il Sistema solare furono questi ingredienti provenienti dall’esterno a rendere possibili le prime forme di vita terrestri. LEGGI TUTTO

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    Weekly Beasts

    Si percepisce una temperatura invernale, a guardare gli animali fotografati nei giorni scorsi: pinguini in una strada ghiacciata, cavalli e pecore tra la neve, linci che ci si rotolano sopra, ma anche i soliti macachi giapponesi che invece cercano il caldo nelle sorgenti termali. Poi i discorsi tra due aquile di mare, animali benedetti per la festa di Sant’Antonio (patrono degli animali domestici) e l’espressione di un gatto a cui viene misurata la temperatura rettale. LEGGI TUTTO

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    La missione spaziale SLIM del Giappone ha raggiunto la Luna, ma con qualche imprevisto

    Nel pomeriggio di venerdì la missione SLIM dell’Agenzia spaziale giapponese (JAXA) ha raggiunto il suolo lunare, aggiungendo il Giappone alla lista molto ristretta di paesi che hanno tentato un atterraggio controllato sulla Luna. Il veicolo spaziale (lander) invia segnali verso la Terra, ma al momento ci sono dubbi sulle condizioni dei pannelli solari, che non stanno generando energia elettrica e di conseguenza non possono caricare le batterie di SLIM. JAXA sta effettuando alcune verifiche sullo stato delle strumentazioni del lander, che ha utilizzato un sistema di navigazione autonomo ad alta precisione per compiere l’allunaggio.Il lander SLIM (Smart Lander for Investigating Moon) era stato lanciato il 6 settembre 2023 dal Giappone e aveva poi trascorso alcuni mesi per avvicinarsi alla Luna ed entrare in un’orbita intorno al nostro satellite naturale il 25 dicembre scorso. In seguito aveva compiuto alcune manovre per predisporre l’attività di discesa sulla superficie. Intorno alle 16 (ora italiana) di venerdì, SLIM ha acceso i motori per rallentare la propria velocità sganciarsi dall’orbita e iniziare a perdere quota. I suoi sistemi di navigazione automatici hanno poi localizzato il punto scelto in precedenza per l’allunaggio e hanno controllato il lander per evitare collisioni con eventuali ostacoli lungo la traiettoria.
    La separazione tra SLIM e i due lander più piccoli, poco prima dell’allunaggio, in un’elaborazione grafica (JAXA)
    Non è chiaro se SLIM abbia raggiunto il suolo con un orientamento non previsto, cosa che potrebbe avere compromesso la funzionalità dei pannelli solari o il loro corretto orientamento per ricevere la luce solare. La sperimentazione del sistema automatico di navigazione era uno degli aspetti più importanti di SLIM, in vista di altre missioni lunari che in futuro avrebbero dovuto utilizzare lo stesso sistema. Nei prossimi giorni JAXA effettuerà nuove analisi e valutazioni per capire come utilizzare SLIM e due lander più piccoli, LEV-1 e LEV-2, lanciati da SLIM verso il suolo poco prima di tentare il proprio allunaggio. LEGGI TUTTO