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    La ricerca di una migliore rianimazione

    Caricamento player«Libera!», l’operatore applica le due piastre del defibrillatore al torso del paziente che viene sottoposto a una forte scarica elettrica, ma il cuore non ha ripreso a battere. Un altro operatore effettua per alcuni secondi il massaggio cardiaco, poi è nuovamente il turno del defibrillatore e questa volta il cuore torna a battere. Il paziente apre gli occhi, sorride e per quanto affaticato ringrazia chi gli ha salvato la vita, mentre la musica di sottofondo da ansiogena diventa calma e rilassante.
    È una scena vista in decine di film e serie televisive, che segue più o meno sempre la stessa sequenza di eventi e che in molti casi ha contribuito a trasmettere una percezione sbagliata di come funzioni la rianimazione cardiopolmonare (CPR), la procedura di emergenza per trattare una persona in arresto cardiaco. L’idea che sia sufficiente massaggiare energicamente per qualche tempo il torace, intervenendo poi con una scarica elettrica, se necessario, per rianimare una persona è tanto diffusa quanto lontana dalla realtà. Rianimare qualcuno è estremamente difficile e non sempre le pratiche previste dalla CPR sono sufficienti.
    Per questo da tempo si valutano approcci diversi o, per meglio dire, integrazioni ai protocolli solitamente impiegati per rimediare a un arresto cardiaco. La tecnica più promettente, e già impiegata in numerosi paesi compresa l’Italia, prevede di affiancare alle normali tecniche per la CPR sistemi per la “circolazione extracorporea” in modo da far assolvere temporaneamente a una macchina le funzioni solitamente svolte dal cuore e dai polmoni, facendo guadagnare tempo ai medici per intervenire sul problema che ha causato l’arresto cardiaco in primo luogo.
    Nel parlato comune spesso infarto e arresto cardiaco vengono utilizzati per definire la stessa cosa, ma in realtà sono due condizioni differenti anche per gli esiti che possono avere. Con infarto si definisce un danno improvviso che subisce una parte del cuore a causa del blocco (occlusione) di una delle coronarie, cioè delle grandi arterie che portano il sangue al tessuto muscolare del cuore stesso. L’occlusione fa sì che il tessuto non riceva sangue a sufficienza e di conseguenza l’ossigeno che questo trasporta, una condizione che in poco tempo porta alla morte delle cellule coinvolte. In molte circostanze, il cuore funziona meno bene di come dovrebbe, ma continua comunque a battere.
    Un arresto cardiaco è invece l’interruzione improvvisa e completa dell’attività cardiaca, non solo di una sua parte come nell’infarto; può avere cause diverse e una di queste può anche essere l’infarto. In caso di arresto, il cuore non è più in condizione di far circolare il sangue, di conseguenza si interrompe l’afflusso di ossigeno agli organi e in poco tempo inizia il processo di morte cellulare, perché le cellule dell’organismo non riescono a proseguire nelle loro attività. Tra i tessuti più a rischio e che degenerano più velocemente ci sono quelli cerebrali. Per questo nel caso di un arresto cardiaco è importante intervenire il prima possibile, in modo da ripristinare l’afflusso di ossigeno al cervello e la rimozione, sempre attraverso la circolazione sanguigna, dell’anidride carbonica prodotta dalle cellule con il loro metabolismo.
    Si stima che l’arresto cardiaco sia la causa del 20 per cento circa dei decessi in Europa, con possibilità di sopravvivenza estremamente basse nella maggior parte dei casi (le stime più pessimistiche calcolano il 2 per cento, ma i dati variano molto; la maggior parte delle persone interessate ha altri problemi di salute o subisce un arresto per cause traumatiche). L’incidenza annuale dei casi fuori dagli ospedali è tra i 67 e i 170 casi ogni 100mila abitanti: in circa metà delle volte la CPR viene effettuata da personale specializzato con una percentuale di sopravvivenza, dopo il ricovero in ospedale, dell’8 per cento. In ospedale l’arresto cardiaco improvviso ha invece un’incidenza di 1,5-2,8 casi ogni mille ricoveri con una percentuale di sopravvivenza stimata tra il 15 e il 34 per cento.
    In caso di arresto cardiaco la persona interessata è priva di coscienza e non reagisce, non si muove e non respira normalmente o non respira del tutto. Per provare a rianimarla, o per lo meno provare a rallentare il processo di morte dovuto all’interruzione della circolazione sanguigna, si praticano alcune manovre che favoriscono un minimo di circolazione e preservano il cervello. La classica manovra, quella che si vede spesso nei film e nelle serie tv, consiste nel comprimere il centro del torace tenendo una mano intrecciata sull’altra sulla metà inferiore dello sterno, in modo da provare a far muovere il cuore e far circolare il sangue. È una pratica che non si può improvvisare più di tanto e per questo si viene guidati da soccorritori esperti, per esempio al telefono mentre si attende l’arrivo di un’ambulanza.

    La compressione può essere tale da provocare una frattura dello sterno o delle costole, con eventuali danni al cuore o ai polmoni, ma è un rischio che in alcuni casi deve essere corso per provare ugualmente a mantenere un minimo di circolazione e ossigenazione del sangue. Alle compressioni può essere accompagnata a intervalli regolari la ventilazione, spingendo aria nella bocca del paziente, pratica che di preferenza viene svolta solo dal personale di soccorso. Possono anche essere impiegati particolari farmaci per provare a indurre una migliore reazione muscolare e favorire il ritorno del ritmo cardiaco.
    È improbabile che con la sola CPR si riesca a ripristinare l’attività elettrica nel cuore, cioè il giusto alternarsi degli impulsi che fanno avvenire le contrazioni muscolari e quindi il battito cardiaco. Per provare a ripristinare il ritmo cardiaco si effettua una defibrillazione attraverso un apposito strumento (defibrillatore) che somministra una scarica elettrica verso il cuore. Questa procedura non può però essere sempre risolutiva, perché è efficace solamente per alcuni tipi di anomalie e non per altre. La CPR in alcuni casi può indurre un ritmo cardiaco che sia poi defibrillabile, ma non è detto che ciò avvenga, soprattutto se non si può identificare e intervenire su ciò che ha causato in primo luogo l’arresto cardiaco.
    Un defibrillatore automatico esterno (DEA) guida l’operatore nella procedura per effettuare una defibrillazione, determinando se questa sia utile e necessaria (Wikimedia)
    Chi presta soccorso in casi come questi si trova quindi in una situazione di estrema emergenza, con poco tempo per fare le proprie valutazioni e decidere che cosa fare per provare a salvare il paziente. Il rischio di danni cerebrali è concreto e pressante: il cervello è tra gli organi che più richiedono energia e per produrla ha bisogno tra le altre cose di ossigeno, perché in sua assenza i neuroni deperiscono con grande rapidità.
    Per guadagnare tempo e preservare le funzioni cerebrali dei pazienti, da alcuni anni si sta sperimentando, spesso con esiti positivi, la rianimazione cardiopolmonare extracorporea (ECPR), sfruttando un sistema per il supporto vitale che esiste da tempo negli ospedali e di cui si era parlato molto nei periodi più difficili della pandemia da coronavirus: l’ECMO (ossigenazione extracorporea a membrana).
    Una ECMO consiste nell’utilizzare uno speciale macchinario che si sostituisce nell’attività solitamente svolta dai polmoni e/o dal cuore. Nel primo caso viene effettuata una ECMO veno-venosa, nella quale il sangue viene prelevato dal paziente, ossigenato e poi rimesso in circolo, senza intervenire sull’attività del cuore. Nei malati gravi di COVID-19, per esempio, questa tecnica veniva utilizzata per mantenere un corretto livello di ossigenazione del sangue anche nella fase in cui i polmoni molto infiammati non funzionavano pienamente a causa di una eccessiva reazione del sistema immunitario, impegnato a contrastare il coronavirus.
    Nel caso in cui il problema riguardi anche il cuore viene invece effettuata una ECMO veno-arteriosa (VA-ECMO), dove il sangue prelevato e poi ossigenato viene pompato con una certa pressione all’interno dell’organismo, in modo da rendere possibile la circolazione sanguigna altrimenti ferma a causa dell’arresto cardiaco. La VA-ECMO viene effettuata con un intervento di solito la zona dell’inguine, usata come punto di accesso all’arteria e alla vena femorale. Vengono inserite due sonde che attraverso questi vasi sanguigni, tra i più grandi dell’organismo, raggiungono il cuore e che saranno poi impiegate come guide per far passare i due tubi che saranno collegati al macchinario esterno.
    Al termine dell’intervento, che richiede pochi minuti per essere effettuato, il sangue viene fatto fluire all’esterno del paziente e attraverso una particolare membrana, che lascia passare le sostanze in forma gassosa, ma non i liquidi. In questo modo il sangue viene ripulito dall’anidride carbonica e viene arricchito di ossigeno, mantenendolo intanto alla giusta temperatura per essere poi immesso nell’organismo a livello del cuore (dell’aorta discendente). In questo modo il sangue può continuare a fluire nell’organismo, ossigenando i tessuti degli organi e in particolare del cervello, riducendo il rischio di danni per il paziente.
    Rappresentazione schematica di una VA-ECMO (EMC – Tecniche Chirurgiche Torace)
    La VA-ECMO viene tradizionalmente usata per affrontare alcuni problemi cardiaci come la miocardite acuta (una forte infiammazione dei tessuti cardiaci) o per alcuni tipi di infarto, ma il suo impiego è sempre più consigliato anche per i casi di emergenza legati all’arresto cardiaco refrattario, cioè ai casi in cui nessuna altra tecnica di rianimazione abbia funzionato dopo 10 minuti con più di due defibrillazioni. La rianimazione cardiopolmonare extracorporea (ECPR) in queste condizioni si è dimostrata utile nel favorire la sopravvivenza dei pazienti e nell’avere esiti neurologici migliori rispetto alla classica rianimazione.
    Effettuare una ECPR, soprattutto se non ci si trova in prossimità di un ospedale dotato di ECMO, non è però semplice e a oggi non esistono indicazioni e protocolli condivisi a livello internazionale. I macchinari per l’ECMO sono costosi e sono una risorsa limitata, di conseguenza devono essere seguiti dei criteri di selezione per decidere l’eventuale accesso al trattamento (soprattutto in medicina d’urgenza si lavora spesso con risorse scarse, dovendo bilanciare costi e benefici contemporaneamente per più pazienti).
    Idealmente, una persona da sottoporre a una ECPR dovrebbe avere subìto una totale interruzione della circolazione sanguigna per non più di cinque minuti, trovandosi in una condizione di parziale afflusso di sangue grazie a una CPR che consenta di raggiungere una struttura dove si pratica l’ECMO entro al massimo un’ora. Dovrebbe essere inoltre di un’età inferiore ai 70 anni, non avere altri problemi di salute e avere una o più cause scatenanti che possano essere trattate per superare l’arresto cardiaco.
    L’ECPR da sola non è infatti in alcun modo una cura: serve soprattutto a guadagnare tempo per provare a risolvere ciò che ha causato l’interruzione del ritmo cardiaco. Nel caso in cui ciò non sia possibile, la sua utilità può essere invece quella di preservare gli organi della persona, in modo da poterli espiantare e trapiantare su altre persone.
    Uno studio effettuato negli Stati Uniti e pubblicato nel 2020 sulla rivista medica Lancet aveva riguardato pazienti che corrispondevano ai criteri di selezione più diffusi e sottoposti casualmente a ECPR o ai normali trattamenti di rianimazione. Lo studio era stato interrotto prematuramente perché il tasso di sopravvivenza tra i pazienti sottoposti a ECPR era decisamente più alto e tale da non rendere etico proseguire. A sei mesi di distanza, il 43 per cento dei 14 pazienti sottoposti a ECPR era vivo e manteneva buone condizioni cerebrali, rispetto a zero nel gruppo di controllo.
    Il successo dello studio pubblicato su Lancet aveva portato a un rinnovato interesse verso l’ECPR, in un periodo fortemente condizionato dalla pandemia da coronavirus. Anche grazie a quella ricerca nel Maryland (Stati Uniti) era stata avviata la sperimentazione di una prima unità mobile ECMO per il trattamento sul posto delle persone con arresto cardiaco. È un grande camion che contiene al suo interno i macchinari che servono per intervenire sui pazienti, in pratica una piccola sala operatoria su ruote. Al momento, per motivi di sicurezza e burocratici, l’unità mobile può essere impiegata solamente all’esterno di un ospedale, ma i suoi ideatori confidano che in futuro possa essere usata per raggiungere e trattare i pazienti in arresto cardiaco il più velocemente possibile, specialmente in aree distanti da ospedali attrezzati per le ECMO.
    L’unità mobile per l’ECMO attrezzata nel Maryland, Stati Uniti (Helmsley Trust)
    Iniziative di questo tipo sono al momento molto costose, così come lo è in generale l’applicazione dell’ECPR, che richiede squadre appositamente formate di anestesisti, cardiologi, cardiochirurghi e infermieri. L’ECMO può inoltre comportare serie complicanze come emorragie dovute alle terapie anticoagulanti, che vengono somministrate ai pazienti per mantenere più fluido il sangue, sviluppo di infezioni e gravi problemi di circolazione agli arti superiori e inferiori. La valutazione dei costi e dei benefici sta avendo quindi un certo impatto sul dibattito intorno alla questione, anche perché per ora i riferimenti nella letteratura scientifica non sono molti e presentano a volta conclusioni in contraddizione tra loro.
    Una ricerca pubblicata nel 2023 ha per esempio preso in considerazione 160 persone, 70 delle quali erano state sottoposte a una ECPR e 64 a metodi convenzionali di rianimazione (26 partecipanti erano stati esclusi per via dei criteri di selezione). A trenta giorni dagli interventi, il 20 per cento dei pazienti nel primo gruppo era sopravvissuto con buone condizioni cerebrali, contro il 16 per cento del secondo gruppo. La differenza non era significativa e non aveva quindi portato a identificare particolari vantaggi di un approccio sull’altro.
    Una meta-analisi, cioè una statistica dei risultati ottenuti da vari studi su un certo tema, pubblicata nel 2022 ha segnalato invece come poco meno dell’8 per cento dei pazienti sopravviva con buone condizioni cerebrali nel caso in cui sia trattato con metodi convenzionali, rispetto al 14 per cento tra chi viene sottoposto a ECPR.
    Nel complesso la qualità nel processo di selezione dei pazienti è l’aspetto più importante per effettuare ECPR con maggiori probabilità di successo, e questo probabilmente incide sui dati di alcune ricerche (si trattano i pazienti che teoricamente hanno maggiori possibilità di superare l’arresto cardiaco). La formazione del personale di soccorso e dei medici negli ospedali è importante quindi anche per rispondere meglio nelle emergenze di questo tipo.
    In Italia alcuni ospedali partecipano alla Extracorporeal Life Support Organization (ELSO), un consorzio senza scopo di lucro che si occupa di promuovere lo sviluppo e le esperienze cliniche sulla ECPR, raccogliendo e mettendo in condivisione i dati tra i vari centri medici che se ne occupano. Tra gli ospedali italiani partecipanti ci sono il Policlinico e la clinica Mangiagalli di Milano, l’ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo, il Policlinico Umberto I di Roma e l’Istituto mediterraneo per i trapianti di Palermo.
    Un’altra importante iniziativa nell’ambito della fornitura in generale dei servizi ECMO è la rete ECMONet, che dal 2009 facilita il coordinamento dei 14 centri che offrono servizi di ECMO e delle terapie intensive in Italia, in modo da ridurre i tempi di accesso per i pazienti. È stata anche sviluppata una rete di gruppi ECMO con ambulanze attrezzate e di aerei, gestiti dall’Aeronautica militare, per il trasporto su maggiori distanze dei pazienti che hanno necessità urgente di assistenza. LEGGI TUTTO

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    Melinda French Gates lascerà la nota fondazione di cui è presidente insieme al suo ex marito Bill Gates

    Melinda French Gates, una delle imprenditrici e filantrope più famose al mondo, ha annunciato che dal 7 giugno lascerà la celebre fondazione di cui è presidente insieme al suo ex marito Bill Gates, la Bill & Melinda Gates Foundation.La fondazione era stata creata dai due nel 2000, quando erano ancora sposati, e oggi è considerata la più ricca e influente al mondo tra quelle private. Voci e ipotesi di un minore coinvolgimento di Melinda French Gates nella gestione della fondazione circolavano dal 2021, da quando la coppia si separò (in quell’occasione Melinda French Gates riprese a usare il cognome che aveva da nubile, cioè French).
    French Gates non ha spiegato le ragioni della sua decisione, ma ha precisato che continuerà a lavorare nel settore della beneficenza: gli accordi presi col suo ex marito Bill Gates prevedono infatti che per finanziare i suoi progetti personali French Gates abbia a disposizione 12,5 miliardi di dollari (circa 11,5 miliardi di euro) dal patrimonio condiviso che avevano accumulato durante il matrimonio. LEGGI TUTTO

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    È morto l’uomo statunitense a cui a marzo era stato trapiantato un rene da un suino geneticamente modificato

    È morto negli Stati Uniti Richard Slayman, l’uomo a cui lo scorso 16 marzo era stato trapiantato con successo un rene da un maiale geneticamente modificato. L’intervento era stato svolto al Massachusetts General Hospital di Boston con una tecnica che un giorno potrebbe consentire a centinaia di migliaia di persone con gravi malattie renali di migliorare le loro condizioni di salute: in un comunicato, lo staff dell’ospedale ha fatto sapere di essere «profondamente rattristato» dalla notizia della sua morte, precisando che «non ci sono elementi» per ritenere che sia legata al trapianto.Slayman aveva 62 anni, era afroamericano e soffriva da tempo di diabete e ipertensione, due condizioni che avevano contribuito al peggioramento dei suoi reni fino alla perdita di funzionalità. Era stata la prima persona a subire un intervento di questo tipo (uno simile era stato svolto in un ospedale di New York nel 2021, ma in quel caso il rene proveniente da un maiale geneticamente modificato era stato impiantato in un uomo cerebralmente morto). Secondo i medici che lo avevano seguito, dopo l’operazione Slayman camminava da solo e stava relativamente bene.
    I trapianti di organi provenienti da altre specie da impiantare negli esseri umani sono definiti xenotrapianti. È un approccio ritenuto promettente perché dà la possibilità di non dipendere esclusivamente dai donatori di organi umani per effettuare i trapianti. Per dare l’idea, negli Stati Uniti le persone che hanno una malattia renale cronica terminale sono circa 800mila e quelle in lista d’attesa per il trapianto di un rene 90mila.

    – Leggi anche: Il trapianto di Richard Slayman LEGGI TUTTO

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    Weekly Beasts

    Nell’ultima settimana al Pier 39, una famosa attrazione turistica di San Francisco, sono stati avvistati più di mille esemplari di leoni marini, il gruppo più numeroso degli ultimi quindici anni: si trovavano lì attratti dalla presenza nelle acque della baia di grandi banchi di acciughe, di cui si cibano. Tra gli altri animali fotografati nei giorni scorsi ci sono un’anatra e i suoi anatroccoli su un tappeto rosso, un cinghiale che corre nei prati, maiali in discarica e pesci tra i coralli. LEGGI TUTTO

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    Inseparabili nella vita, letteralmente

    Caricamento playerQuando nacquero il 18 settembre del 1961 a West Reading in Pennsylvania (Stati Uniti), il loro medico disse che non sarebbero vissuti più di un anno. Lori e George Schappell vissero invece 62 anni, diventando una delle coppie di gemelli congiunti più longeve mai registrate. Dopo avere trascorso una vita costantemente insieme i gemelli Schappell sono morti il 7 aprile scorso in un ospedale di Philadelphia. Alternando periodi di grande riservatezza ad altri di presenza sui media, contribuirono a modo loro a far sviluppare una maggiore consapevolezza su alcune forme di disabilità e a ridurre certi casi di emarginazione.
    Il fenomeno dei gemelli che durante lo sviluppo nell’utero rimangono collegati tra loro è estremamente raro e ha un’incidenza di un caso ogni 200mila nascite (le stime variano molto anche a seconda delle aree geografiche). Circa la metà dei gemelli congiunti non sopravvive alla nascita e il restante 30 per cento muore solitamente entro le prime 24 ore, a causa di diverse complicanze. Per chi sopravvive, l’aspettativa di vita è generalmente bassa a causa delle difficoltà che insorgono nella fase dello sviluppo. Sulla durata della vita incide spesso il punto in cui un gemello è collegato all’altro: torace, addome o cranio, come nel caso degli Schappell.
    I gemelli congiunti vengono spesso chiamati “gemelli siamesi” dal caso di Chang ed Eng Bunker, due fratelli originari del Siam (il territorio che oggi chiamiamo Thailandia) che nell’Ottocento girarono il mondo diventando un’attrazione e una curiosità per chi li andava a vedere. Ebbero un notevole successo ed essendo originari del Siam divennero conosciuti come i “gemelli siamesi”, modo di dire che si applicò poi in generale a tutte le persone con la loro condizione. Oggi si tende a preferire definizioni più neutre e senza una connotazione geografica, anche perché in ambito medico la classificazione dei tipi più comuni di gemelli congiunti utilizza una nomenclatura specifica.
    Lori e George Schappell appartenevano al tipo Craniopagus: i loro teschi erano fusi insieme, mentre il resto dei loro corpi era separato. Dopo che erano sopravvissuti al primo anno di vita, il loro medico cambiò previsione e disse che non sarebbero arrivati a compiere due anni, come raccontò Lori Schappell in un’intervista nel 2002: «Disse che non avremmo vissuto oltre i due anni o che non avremmo superato i tre. Ogni anno aveva torto. Se solo ci potesse vedere oggi».
    I loro genitori avevano altri sei figli e decisero di mettere i gemelli in un istituto per persone con problemi mentali, anche se in realtà le loro funzionalità cognitive erano nella norma. Man mano che crescevano, gli venivano affidati vari compiti come aiutanti del personale dell’istituto, per esempio per rifare i letti o imboccare gli ospiti che non erano autonomi.
    Gli Schappell avevano trascorso circa vent’anni in istituto quando incontrarono Ginny Thornburgh, la moglie del governatore della Pennsylvania per buona parte degli anni Ottanta. Thornburgh aveva dedicato una parte importante della propria vita ai diritti e all’emancipazione delle persone con disabilità, aiutata dal marito che da governatore aveva provveduto a far chiudere alcune strutture nelle quali venivano spesso lasciati i bambini con problemi dello sviluppo, privandoli della possibilità di vivere e integrarsi nella società.
    Thornburgh facilitò l’uscita degli Schappell dall’istituto e la loro sistemazione in altri tipi di strutture, dove potevano vivere più liberamente. Lori ottenne un lavoro in ospedale al quale partecipava naturalmente anche George, che non poteva muoversi autonomamente a causa della spina bifida, una malformazione delle vertebre che aveva condizionato il suo sviluppo. George non poteva camminare da solo ed era molto più basso di Lori: viveva assicurato a uno sgabello con le ruote, in modo da non obbligare la sorella e rimanere chinata tutto il tempo ed era lei a portarlo in giro con sé.
    In un breve documentario realizzato nel 1997, Lori aveva detto di pensarsi come una persona completamente distinta dal fratello: «Siamo esseri umani venuti al mondo collegati in una parte del corpo. È una condizione che si verifica nel processo di nascita e le persone devono capirlo». All’epoca George si faceva chiamare Reba, dal nome della cantante country Reba McEntire che aveva scelto per sostituire quello comunque femminile che aveva ricevuto alla nascita, ma in seguito aveva intrapreso un processo di transizione perché non si sentiva a proprio agio nel genere corrispondente al proprio sesso biologico.

    Nel periodo in cui si faceva chiamare Reba, George intraprese una carriera da cantante country, vincendo alcune competizioni canore e cantando una canzone per la colonna sonora del film Fratelli per la pelle del 2003, che raccontava la storia di due gemelli congiunti interpretati da Matt Damon e Greg Kinnear. Gli Schappell avevano fatto da consulenti al film e quando i produttori avevano scoperto che Reba cantava, le proposero di inserire una delle sue canzoni nel film.
    Il film non riscosse particolare successo, ma contribuì a mostrare sotto un’ottica diversa i gemelli congiunti. I tempi erano del resto cambiati rispetto ai primi anni Sessanta e soprattutto si stava superando una fase di un certo interventismo da parte di alcuni medici, molto inclini a intervenire chirurgicamente e separare i neonati con quella condizione. In particolare tra gli anni Ottanta e i primi anni Novanta, alcuni casi di gemelli congiunti negli Stati Uniti avevano attirato grandi attenzioni in seguito alle operazioni svolte per separarli. Gli interventi erano sperimentali e dalle conseguenze incerte: molti gemelli congiunti non potevano essere separati facilmente, per esempio perché avevano alcuni arti o organi in comune, oppure non erano completamente chiari rischi ed esiti di un intervento.
    Come ricorda S. I. Rosenbaum sull’Atlantic, un intervento condotto nel 1987 su una coppia di gemelli congiunti di sei mesi lasciò importanti conseguenze neurologiche ai pazienti, che non svilupparono mai la capacità della parola. Altri casi controversi riguardarono la separazione di gemelli nella quale solo uno dei due sarebbe potuto sopravvivere, con le difficoltà etiche e morali connesse a quella scelta. In almeno un caso un gemello fu sacrificato per dare più opportunità all’altro, che però morì poco tempo dopo senza avere mai lasciato l’ospedale.
    George e Lori Schappell dissero in più occasioni di non avere mai pensato a un’operazione per essere separati, o di avere sperato di essere nati separati. Erano convinti che non ci fosse una “vita normale”, ma che ognuno abbia la propria, vissuta con vantaggi, scocciature, difficoltà da superare e momenti di felicità. Per quanto possibile, cercavano di mantenere un po’ di privacy, per esempio usando una tenda per fare la doccia separatamente e non necessariamente nello stesso momento. George aveva l’hobby della musica country, mentre a Lori piaceva molto giocare a bowling e avere più contatti sociali. Talvolta il fatto di vivere così uniti portava a qualche strana interazione col prossimo.
    Lori raccontò che una volta un barman in un locale si rifiutò di servire da bere a George, sostenendo che sembrava troppo giovane per avere l’età minima per consumare alcolici. Paradossalmente, lo stesso barman non si fece invece problemi a servire da bere a Lori, convinto che fosse invece grande a sufficienza per poterlo fare.
    Quando Reba cantava sul palco, Lori si copriva con un telo in modo da ridurre le distrazioni per il pubblico. Lori ebbe alcune relazioni amorose e quindi ci furono occasioni in cui ebbe momenti di intimità con altre persone. Aveva raccontato che in quei momenti riusciva a dimenticarsi di essere attaccata alla testa di un’altra persona: «Per quanto riguarda qualsiasi cosa oltre a coccolarsi e darsi dei baci, non andrò oltre. Mi concederò solo la notte del mio matrimonio». Lori non si sposò mai.
    I gemelli Schappell nel 2002 (AP Photo/Brad C. Bower, File)
    Negli anni Novanta i gemelli Schappell parteciparono ad alcuni talk show trash molto famosi negli Stati Uniti come quelli di Howard Stern e di Jerry Springer. Divennero piuttosto conosciuti dal pubblico e raccontati da numerosi articoli di giornale, che utilizzavano spesso toni sensazionalistici o carichi di retorica e di pietà nei loro confronti. Cose che gli Schappell non cercavano necessariamente, visto che cercavano di far passare il messaggio di vivere una loro normalità. Anche per questo non si impegnarono mai direttamente nelle iniziative per far aumentare sensibilità e consapevolezza nei confronti delle persone con disabilità, ma secondo diversi osservatori la loro presenza in televisione contribuì comunque al dibattito e al confronto sull’opportunità di cambiare approcci, terapie e percorsi di cura e assistenza.
    Lori e George Schappell sono morti a inizio aprile; le cause non sono state comunicate dalla famiglia. A seconda del punto in cui sono uniti, i gemelli congiunti condividono organi o specifiche funzionalità, di conseguenza la morte di uno dei due determina anche la morte dell’altro. Rispondendo a una domanda sulla possibilità di essere separati chirurgicamente in un’intervista del 1997, Lori aveva detto: «Il nostro punto di vista è no, decisamente no. Perché mai vorresti farlo? Per tutti i soldi del mondo, perché mai? Rovineresti due vite nel farlo. E sentiremmo orribilmente la mancanza se uno dei due dovesse morire». LEGGI TUTTO

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    Lo scorso aprile è stato il più caldo mai registrato

    Secondo il Climate Change Service di Copernicus, il programma di collaborazione scientifica dell’Unione Europea che si occupa di osservazione della Terra, lo scorso mese di aprile è stato il più caldo mai registrato sulla Terra.La temperatura media globale è stata di 15,03 °C, cioè 0,14 °C più alta del precedente mese di aprile più caldo mai registrato, quello del 2016. L’aprile del 2024 è stato inoltre l’undicesimo mese consecutivo considerato il più caldo mai registrato a livello globale. Le stime di Copernicus sono realizzate usando diversi tipi di dati, tra cui le misurazioni dirette della temperatura fatte da reti di termometri presenti sulla terra e in mare e le stime dei satelliti. LEGGI TUTTO

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    Forse con la sordità di Beethoven c’entrava il vino

    Caricamento playerIl 7 maggio di 200 anni fa Ludwig van Beethoven, uno dei più grandi compositori nella storia della musica, salì sul palco del Kärntnertortheater di Vienna per condurre la sua Sinfonia n. 9 che aveva da poco terminato di comporre. Tra il pubblico c’erano grande curiosità e attesa. Beethoven non appariva su un palco da dodici anni e le sue precarie condizioni di salute erano note da tempo: era completamente sordo, beveva molto ed era sempre più debole. Sarebbe morto tre anni dopo quell’esibizione, cinquantaseienne, senza che fossero mai chiarite le cause della sua sordità emersa quando aveva meno di trent’anni. Ora alcuni sviluppi su una ricerca in corso da anni sembrano suggerire una intossicazione da piombo.
    Oltre a ricordare e celebrare le composizioni di Beethoven – come la Sinfonia n. 9, il cui “Inno alla gioia” è l’inno ufficiale dell’Unione Europea – da quasi due secoli storici, medici e semplici appassionati di musica classica si chiedono da sempre che cosa determinò la sordità del compositore, diventata un elemento centrale anche della sua esperienza creativa. Beethoven compose infatti alcune delle proprie opere più famose quando non riusciva più a percepire i suoni, potendoli immaginare solo nella propria mente.
    Negli anni sono circolate molte ipotesi su ciò che causò la sordità e gli altri problemi di salute di Beethoven. Oltre ad avere perso l’udito, Beethoven aveva spesso forti crampi addominali, accompagnati da flatulenze e diarrea che lo lasciavano molto debilitato e periodicamente privo di energie. È stato ipotizzato che avesse la sindrome del colon irritabile, oppure che avesse avuto la sifilide o una forte insufficienza renale forse accompagnata da una forma di diabete. La causa della sordità sarebbe potuta derivare da una malattia degenerativa come l’osteite deformante, che porta a una formazione eccessiva e anomala di materiale osseo, incidendo in alcuni casi anche sull’udito (l’orecchio interno è formato da piccole ossa).
    Le ipotesi derivano per lo più dalle testimonianze dell’epoca di chi aveva vissuto con Beethoven e lo aveva assistito soprattutto negli ultimi anni della malattia, ma i resoconti variano molto e talvolta possono essere fuorvianti. Per questo motivo da diverso tempo alcuni gruppi di ricerca seguono un approccio diverso: analizzare alcuni campioni prelevati dal suo corpo. Le analisi si sono concentrate in particolare su alcune ciocche di capelli, prelevate in varie epoche compreso il periodo intorno al momento della morte di Beethoven da alcuni amici e conoscenti.
    Ci sono diversi musei e collezionisti in giro per il mondo che sostengono di possedere alcune ciocche di Beethoven, ma verificarne l’autenticità non è semplice. I campioni devono essere confrontati con altri certamente appartenuti al compositore, attraverso esami del DNA e di particolari composti eventualmente presenti nei capelli. Lo scorso anno, per esempio, erano emersi dubbi intorno all’autenticità di alcune ciocche proprio in seguito agli esami condotti confrontando capelli in alcune collezioni.
    Grazie alla collaborazione dei collezionisti, un gruppo di ricerca della Mayo Clinic negli Stati Uniti ha di recente ottenuto alcune ciocche autentiche di Beethoven e le ha esaminate per cercare eventuali accumuli di metalli pesanti, che avrebbero potuto spiegare alcuni dei problemi di salute riscontrati dal compositore compresa la sua sordità. Come spiegano in una lettera pubblicata lunedì sulla rivista scientifica Clinical Chemistry, i ricercatori hanno rilevato una concentrazione di 258 microgrammi di piombo per grammo in una ciocca di capelli e 380 microgrammi per grammo in un’altra. Normalmente, la concentrazione è di meno di 4 microgrammi per grammo.
    Secondo il gruppo di ricerca, Beethoven fu esposto con ogni probabilità ad alte concentrazioni di piombo, un metallo che ha importanti effetti tossici per l’organismo. Analisi condotte in precedenza non avevano portato a rilevare livelli così alti di piombo, ma la nuova ricerca più approfondita e portata avanti con altre tecniche ha permesso di calcolare con maggior precisione la concentrazione di piombo e di altri elementi come mercurio e arsenico, rispettivamente 13 e 4 volte superiori ai valori solitamente rilevati.
    Il piombo in alte concentrazioni può avere vari effetti dannosi sul sistema nervoso e potrebbe avere causato, o peggiorato, la sordità di Beethoven. È invece più difficile stabilire se l’intossicazione da piombo fosse tale da rivelarsi mortale, come era stato ipotizzato in passato. È più probabile che Beethoven avesse rimediato l’intossicazione da una delle sue più grandi passioni dopo la musica: il vino.
    Tra la fine del Settecento e i primi dell’Ottocento non era insolito che al vino, come ad altri alimenti, venisse aggiunto del sale di piombo (dietanoato di piombo), impiegato come dolcificante per migliorare il sapore del vino di bassa qualità. Inoltre, diversi altri strumenti impiegati per la vinificazione contenevano piombo compresi i turaccioli, che venivano trattati in alcuni casi con il sale di piombo per migliorare la loro tenuta come chiusura delle bottiglie.
    Dai resoconti e dai racconti dell’epoca, sappiamo che Beethoven aveva sviluppato nel tempo una certa dipendenza dal vino e che beveva più di una bottiglia al giorno. Era convinto che lo aiutasse a stare meglio e fino agli ultimi giorni della propria vita continuò a bere, sorbendo piccole quantità con un cucchiaino quando ormai non aveva più le forze e le sue capacità digestive erano compromesse.
    L’intossicazione da piombo potrebbe non essere stata comunque l’unica causa della sua sordità. Beethoven iniziò ad accorgersi di sentire sempre meno quando non aveva ancora trent’anni e attraversò periodi psicologicamente molto difficili, con la preoccupazione di non potersi più dedicare alla composizione. Anche per questo motivo consultò decine di medici per provare a trovare un rimedio contro la sordità progressiva, ma senza ottenere benefici dalle terapie che gli venivano prescritte. Molti dei preparati realizzati all’epoca contenevano a loro volta piombo, che avrebbero potuto contribuire a un ulteriore peggioramento delle sue condizioni.
    Nonostante le difficoltà e i problemi di salute il 7 maggio del 1824 a Vienna, 200 anni fa, Beethoven volle partecipare personalmente alla conduzione della prima della sua Sinfonia n. 9. Lo fece insieme a Michael Umlauf, compositore e direttore d’orchestra austriaco che aveva la responsabilità della musica nel teatro (“maestro di cappella”) e che diede istruzioni all’orchestra e ai cantanti di ignorare il più possibile le indicazioni di Beethoven, viste le difficoltà che avrebbe incontrato nel dirigere senza poter sentire la musica.

    Beethoven teneva il tempo e dirigeva come poteva l’orchestra, anche se diverse testimonianze raccontano che fosse più il compositore a seguire l’orchestra che viceversa. Si racconta che durante lo scherzo alla fine del secondo movimento – uno dei più movimentati, creativi e iconici della sinfonia – l’orchestra fu interrotta da un lungo applauso tributato a Beethoven, che però dando le spalle al pubblico non si era accorto di nulla. Beethoven continuò quindi a dare indicazioni all’orchestra anche se ormai fuori tempo, fino a quando intervenne la contralto Caroline Unger che fece girare verso il pubblico Beethoven, che in quel momento vide la grande manifestazione di affetto e apprezzamento per il suo lavoro. LEGGI TUTTO

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    Boeing ci riprova con Starliner

    Caricamento playerAggiornamento del 7 maggio 2024A causa di un problema tecnico legato al razzo Atlas V, il lancio di Starliner è stato rinviato a non prima di venerdì 10 maggio. Il rinvio consentirà ai tecnici di effettuare alcune verifiche su una valvola di regolazione della pressione sul serbatoio di ossigeno liquido dello stadio superiore del razzo, i tempi potrebbero allungarsi nel caso in cui si renda necessaria una sostituzione della valvola.
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    Il 20 dicembre 2019 i tecnici di Boeing osservarono con un certo imbarazzo il mezzo fallimento della prima missione di test senza equipaggio di Starliner, la loro nuova capsula spaziale in ritardo di anni sulla consegna e costata alla NASA miliardi di dollari. A causa di un problema tecnico, Starliner aveva mancato la Stazione Spaziale Internazionale (ISS) e sarebbe quindi rientrata sulla Terra senza possibilità di verificare i propri sistemi di attracco. Fu necessario un anno e mezzo di lavoro per risolvere i problemi riscontrati con la prima missione e infine raggiungere la ISS con un nuovo volo sperimentale, ancora una volta senza astronauti a bordo e con altri problemi tecnici. Dopo altri due anni passati a risolverli, Starliner è infine pronta per portare i primi astronauti in orbita: è una delle missioni spaziali più importanti e attese del 2024, un anno estremamente difficile per Boeing.
    L’azienda, una delle più importanti e storiche degli Stati Uniti con numerosi contratti pubblici nel settore aerospaziale, è stata per mesi al centro dell’attenzione delle autorità di controllo e dei media in seguito al distacco in volo di una porta di emergenza da un proprio aeroplano, un Boeing 737 MAX 9, il 5 gennaio scorso. L’aereo aveva effettuato un atterraggio di emergenza e tre delle 177 persone a bordo erano state lievemente ferite. L’incidente aveva portato a nuove critiche e dubbi sugli standard di sicurezza seguiti da Boeing nella produzione dei propri aerei, dopo che tra il 2018 e il 2019 due 737 MAX erano precipitati per evidenti responsabilità dell’azienda.
    Da diversi anni Boeing è quindi in difficoltà con la propria immagine e ha rischiato di perdere importanti contratti con alcune compagnie aeree a favore di Airbus, l’unica altra grande società produttrice di aerei civili al mondo. Starliner è realizzata da una divisione completamente diversa rispetto a quella che si occupa degli aeroplani, ma il marchio è comunque Boeing e i problemi riscontrati con la capsula negli anni scorsi fanno sì che la grande attesa che precede sempre i primi lanci con equipaggio sia un po’ diversa dal solito, con qualche elemento di attenzione in più soprattutto da parte dei media statunitensi.
    Salvo rinvii, il primo lancio con equipaggio di Starliner avverrà quando in Italia saranno le 4:34 del mattino di martedì 7 maggio da Cape Canaveral, il principale centro di lancio spaziale della NASA. La capsula, a forma di tronco di cono e che ricorda altri veicoli spaziali come quelli impiegati un tempo per le missioni lunari Apollo, è stata collocata in cima a un razzo Atlas V di United Launch Alliance: i motori del razzo avranno il compito di spingere la capsula oltre l’atmosfera e sulla giusta traiettoria per incrociare la Stazione Spaziale Internazionale, in orbita a circa 400 chilometri di altitudine a una velocità di 27.500 chilometri orari.
    Starliner sulla rampa di lancio a Cape Canaveral, Florida, Stati Uniti (AP Photo/Terry Renna)
    A bordo di Starliner ci saranno due astronauti di esperienza della NASA: Barry E. Wilmore, che ha 61 anni ed è al proprio terzo lancio, e Sunita L. Williams che di anni ne ha 58 ed è alla terza esperienza nello Spazio. Raggiunta la ISS, i due astronauti rimarranno a bordo per una settimana circa, in compagnia dell’equipaggio che svolge missioni di lunga permanenza sulla Stazione, poi torneranno su Starliner per raggiungere nuovamente la Terra. Il test servirà quindi per verificare i sistemi di lancio della capsula, quelli di attracco e quelli di atterraggio, in modo da ricevere le certificazioni finali da parte della NASA per diventare ufficialmente uno dei veicoli da impiegare per trasportare persone e materiale verso e dalla Stazione Spaziale Internazionale.
    Attualmente per queste attività la NASA può fare affidamento solamente su SpaceX, la società spaziale privata di Elon Musk, e sui sistemi di lancio Soyuz dell’Agenzia spaziale russa (Roscosmos), che mette a disposizione a pagamento alcuni posti nell’ambito dei programmi di collaborazione internazionale per il mantenimento della ISS. Fino al 2011 la NASA raggiungeva la Stazione grazie agli Space Shuttle, le grandi astronavi che partivano in verticale e tornavano sulla Terra planando come un aeroplano.
    Gli Shuttle furono però ritirati nel 2011 a causa degli alti costi di mantenimento e nel 2014 la NASA decise di affidare il compito di trasportare gli equipaggi nell’orbita bassa della Terra alle aziende private. SpaceX e Boeing vinsero gli appalti per costruire due sistemi alternativi di trasporto, ottenendo rispettivamente un finanziamento da 2,6 miliardi di dollari e da 4,2 miliardi di dollari. Nel 2020 SpaceX effettuò il primo volo con astronauti della sua capsula Crew Dragon e da allora ha trasportato 11 equipaggi verso la ISS, a differenza di Boeing che ha accumulato grandi ritardi e ha dovuto investire molto più denaro per superare imprevisti e problemi tecnici.
    La prima missione di prova nel 2019 si concluse senza raggiungere la Stazione Spaziale Internazionale: a causa di un’anomalia nel sistema per calcolare il tempo trascorso dal momento del lancio, la capsula non aveva raggiunto il livello orbitale necessario per attraccare alla ISS. La capsula tornò sulla Terra normalmente e il test permise comunque alla NASA di rilevare decine di problemi e cose da sistemare in vista di un secondo tentativo, sempre senza equipaggio a bordo.
    Il lancio di Starliner il 20 dicembre 2019 da Cape Canaveral, Florida, Stati Uniti (AP Photo/Terry Renna)
    In seguito alcuni responsabili della NASA ammisero di non avere seguito Boeing con le stesse cautele con cui avevano seguito lo sviluppo di Crew Dragon da parte di SpaceX, semplicemente perché l’agenzia aveva una collaborazione di lunga data con Boeing sia in termini di personale sia di sistemi impiegati. Quella familiarità secondo alcuni osservatori sarebbe diventata anche una delle cause dei lenti e costosi progressi dello Space Launch System, il grande razzo sviluppato dalla NASA con migliaia di aziende in appalto per raggiungere l’orbita lunare nell’ambito del progetto Artemis.
    Alle difficoltà tecniche e di sviluppo, negli anni dopo l’insuccesso del 2019 si aggiunse la pandemia da coronavirus, che rallentò sensibilmente i lavori per correggere i problemi riscontrati su Starliner e per preparare una nuova capsula per una missione sperimentale. Il secondo lancio di test fu infine effettuato nel maggio del 2022 e per la prima volta la capsula spaziale riuscì ad attraccare regolarmente alla ISS, con il sollievo di molti tra i responsabili dell’azienda e della NASA.
    Non andò comunque tutto liscio nemmeno con il secondo test. Dopo il rientro al suolo della capsula, e la sua analisi, furono scoperti due problemi non secondari. I tecnici notarono che alcuni degli ancoraggi del sistema di paracadute, che si aprono una volta che la capsula è rientrata nell’atmosfera, avrebbero potuto cedere in caso di sollecitazioni maggiori rispetto a quelle normalmente attese, di conseguenza si resero necessarie alcune modifiche strutturali. Un’ispezione dei chilometri di cavi del sistema elettrico e di trasmissione dei dati fece inoltre emergere un problema legato al nastro isolante impiegato per assicurare i cavi: sopra una certa temperatura, prendeva facilmente fuoco. Fu quindi necessario sostituire circa un chilometro e mezzo di nastro isolante per sostituirlo con un’altra soluzione.
    La sistemazione di questi e altri problemi rese necessario un nuovo slittamento del primo test con equipaggio, inizialmente programmato per il mese di luglio del 2023. In mancanza del nuovo sistema di trasporto, la NASA fu costretta a rivedere parte del proprio calendario, spostando alcuni astronauti da Starliner a Crew Dragon per mantenere le normali rotazioni degli equipaggi che trascorrono circa sei mesi sulla Stazione Spaziale Internazionale.
    I rinvii e i problemi riscontrati in questi anni hanno contribuito a fare aumentare l’attesa per il primo test con astronauti di Starliner. La NASA ha ribadito in più occasioni che la sicurezza dei propri equipaggi è da sempre la priorità, che i sistemi della capsula spaziale sono stati verificati e sperimentati più volte e che avere un secondo fornitore di trasporti verso la ISS oltre a SpaceX offrirà maggiori opportunità e alternative in caso di problemi tecnici.
    Wilmore e Williams occuperanno due dei cinque-sette posti a disposizione (la quantità varia a seconda della configurazione) nella capsula a tronco di cono che ha un diametro di 4,6 metri e un’altezza di cinque metri, comprensiva di un cilindro alla base – il Modulo di servizio – che viene impiegato per il trasporto di materiale e per altre strumentazioni. Dopo circa 4 minuti dal lancio, la parte (stadio) più grande del razzo Atlas V si separerà e ricadrà sulla Terra (non è previsto il suo recupero), mentre Starliner proseguirà il proprio viaggio spinto dal secondo stadio del razzo che si separerà una decina di minuti dopo. La capsula effettuerà poi l’ingresso nell’orbita necessaria per raggiungere la ISS e attraccarvi, consentendo all’equipaggio di salire a bordo della Stazione.
    Fase di preparazione di Starliner (Boeing)
    Se tutto procederà come previsto, dopo una settimana Wilmore e Williams saliranno nuovamente su Starliner che si separerà dalla ISS. Il suo scudo termico proteggerà il resto della capsula dall’alta temperatura che si sviluppa nelle turbolente fasi di rientro nell’atmosfera e infine si apriranno i paracadute per rallentare la discesa della capsula prima del suo arrivo al suolo negli Stati Uniti sud-occidentali.
    Starliner dopo il suo arrivo nell’area di White Sands, New Mexico, nel dicembre del 2020 (Bill Ingalls/NASA via AP)
    A differenza di Crew Dragon che si tuffa nell’oceano dove viene poi recuperata, Starliner è stata progettata per atterrare sulla terraferma, come fanno le Soyuz russe. Il rientro può essere in alcuni casi un poco più traumatico di un ammaraggio, ma semplifica di molto le attività delle squadre di recupero che non devono fare i conti con le condizioni del mare.
    Il ritorno sulla Terra segnerà la conclusione del test e renderà infine totalmente operativa Starliner, che nelle intenzioni di Boeing sarà una capsula riutilizzabile per una decina di viaggi prima di dover essere sostituita (la società ne realizzerà più di una). Starliner-1, la prima missione vera e propria, sarà effettuata all’inizio del 2025 e consentirà di trasportare sulla ISS due astronauti statunitensi, un astronauta canadese e uno giapponese. Come Crew Dragon, anche Starliner sarà utilizzata dalle altre agenzie spaziali che collaborano alla ISS, compresa l’Agenzia spaziale europea. LEGGI TUTTO