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    Perché l’Everest continua a crescere?

    Caricamento playerL’erosione causata dall’acqua potrebbe essere uno dei fattori che contribuiscono alla lentissima crescita annuale dell’altezza dell’Everest, la montagna più alta della Terra. Una ricerca pubblicata lunedì su Nature Geoscience suggerisce che l’azione erosiva del fiume Arun, che scorre a nord e a est della montagna nel massiccio dell’Himalaya, al confine tra Nepal e Tibet, stia alleggerendo il pezzo di crosta terrestre su cui si trova l’Everest, permettendole di “galleggiare” un po’ più in alto sul mantello, lo strato di magma sottostante all’involucro roccioso della crosta terrestre.
    L’Everest è alto secondo le misurazioni ufficiali più recenti 8.848,86 metri e cresce di circa due millimetri ogni anno, quanto lo spessore di una monetina. Secondo i modelli geologici attuali però la variazione della sua altezza dovrebbe essere soltanto di circa un millimetro all’anno. La ricerca pubblicata lunedì ha valutato quale potrebbe essere il contributo alla sua crescita dell’alleggerimento della porzione di crosta terrestre su cui si trova la montagna. Un fenomeno simile era già stato ipotizzato in passato, ma questo è il primo studio approfondito sulla zona dell’Everest: qualche scienziato comunque ha sollevato dubbi.
    L’altezza di una montagna può variare per diversi fattori, ed è noto da tempo che fra questi ci sia anche l’erosione: solitamente però la si considera un fattore che riduce l’altezza delle montagne, dato che rimuove materiale dalla loro cima, non uno che le fa crescere, come suggerito invece dalla ricerca pubblicata lunedì. I principali fattori che influiscono sull’altezza delle montagne sono comunque i movimenti delle placche tettoniche, gli enormi blocchi che formano la crosta terrestre: l’Himalaya, la catena montuosa che include la maggior parte delle cime più alte del pianeta, fra cui l’Everest, si formò tra i 40 e i 50 milioni di anni fa dallo scontro della placca indiana con quella eurasiatica. Il loro continuo movimento continua a far crescere le cime della catena.
    La nuova ricerca però non parla dell’azione erosiva prodotta dalle intemperie sulla superficie della montagna, ma di quella causata dallo scorrimento di un fiume alla base, che avrebbe peraltro un effetto molto più veloce. Gli autori dello studio hanno simulato l’evoluzione del corso dei fiumi della zona, e hanno valutato che l’erosione del terreno attorno all’Everest sia diventata un fattore significativo per la sua crescita circa 89mila anni fa, quando il fiume Arun cambiò corso. Nella scala dei tempi dei cambiamenti geologici è dunque un evento recente.
    L’Everest, al centro, e le montagne circostanti (Paula Bronstein/Getty Images)
    Il fiume in effetti ha un corso insolito. Parte a nord della montagna, sul suo versante cinese, per il suo primo tratto scorre verso est, poi gira improvvisamente a sud ed entra in Nepal tagliando una catena di rilievi. Secondo la simulazione elaborata dai ricercatori la curva è dovuta al fatto che migliaia di anni fa il primo tratto, che scorre verso est, fu inglobato da un corso d’acqua che scorre verso sud. L’unione fra i due diede all’Arun il suo corso attuale: il fiume inoltre si è ingrandito, e la sua capacità di rimuovere il materiale dal suo percorso è aumentata.
    Secondo i ricercatori negli ultimi 89mila anni l’alleggerimento della crosta terrestre dovuto all’azione erosiva dell’Arun avrebbe prodotto un innalzamento della cima dell’Everest compreso fra i 15 e i 50 metri. L’effetto dovrebbe essere ancora più forte sul Makalu (8.485 metri), la quinta montagna più alta del mondo, dato che la sua cima si trova più vicina al corso dell’Arun rispetto all’Everest. Gli effetti dell’erosione su questa montagna però non sono analizzati approfonditamente dallo studio.

    – Leggi anche: Il confine tra Svizzera e Italia sarà spostato a causa della fusione dei ghiacciai alpini

    Un fenomeno analogo, noto come isostasia, è conosciuto e osservato da tempo in molte parti del mondo, soprattutto in zone come il Canada, la Scandinavia e le Alpi che circa 20mila anni fa, durante l’ultimo massimo glaciale (un prolungato periodo di abbassamento della temperatura media della Terra, comunemente noto come era glaciale), erano coperte da uno strato di ghiaccio alto migliaia di metri. L’alleggerimento della crosta terrestre causato dallo scioglimento della calotta glaciale che prima la schiacciava produce tuttora l’innalzamento graduale del terreno in quelle zone.
    Hugh Sinclair, professore all’Università di Edimburgo che non ha collaborato alla ricerca, ha detto a BBC News che il procedimento alla base dello studio è ragionevole, ma ha aggiunto che l’analisi dei tempi e dell’efficacia dell’erosione causata dal fiume ha grossi margini di incertezza, così come la valutazione degli effetti dell’alleggerimento della crosta su punti distanti alcune decine di chilometri dal letto del fiume. Il geologo dell’Università di Oxford Mike Searle, sentito dal Washington Post, è stato più critico, dicendo che lo studio si basa più su assunti che su osservazioni. Matthew Fox, geologo allo University College di Londra e fra i co-autori dello studio, ha specificato che nonostante i ricercatori non abbiano analizzato separatamente quale sia l’impatto di ogni singolo fattore che influenza l’altezza delle montagne, è sicuro che l’erosione sia fra questi.
    La misura dell’altezza dell’Everest può anche cambiare per motivi molto diversi, a partire dal metodo con cui viene calcolata. Per anni la sua entità fu dibattuta, dato che rilevamenti diversi effettuati con metodi diversi avevano prodotto risultati discordanti. Dopo aver considerato per anni due altezze diverse, nel 2020 Cina e Nepal (il cui confine passa dalla cima della montagna) decisero una volta per tutte di mettersi d’accordo su un numero.

    – Leggi anche: Cina e Nepal hanno deciso che l’Everest è un po’ più alto LEGGI TUTTO

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    Il confine tra Svizzera e Italia sarà spostato a causa della fusione dei ghiacciai alpini

    Caricamento playerA causa della fusione dei ghiacci nelle Alpi, il confine tra Svizzera e Italia sarà spostato di alcuni metri nell’area del Plateau Rosa, uno dei più ampi pianori perennemente ghiacciati a sud-est del Cervino. Alla fine della scorsa settimana il Consiglio federale svizzero ha approvato la firma della nuova convenzione sui confini, che entrerà in vigore non appena il governo italiano farà altrettanto. Negli ultimi anni la fusione dei ghiacciai, dovuta in primo luogo al riscaldamento globale causato anche dalle attività umane, ha modificato sensibilmente la geografia dell’arco alpino rendendo sempre più necessari aggiustamenti ai confini che riguardano l’Italia.
    Per praticità e per ridurre i contenziosi, spesso i confini sono definiti dalla linea spartiacque delle montagne, cioè da come fluisce l’acqua da una parte o dall’altra di un versante creando bacini idrografici diversi e separati. Lo spartiacque alpino determina buona parte del confine tra Italia, Francia, Svizzera e Austria, con alcune eccezioni dovute a scelte politiche ed eventi storici. Uno spartiacque può essere relativamente stabile e corrispondere a un crinale di roccia esposta, oppure può essere più dinamico se corrispondente al crinale di un ghiacciaio, di un nevaio o ancora di nevi perenni.
    In questo secondo caso, la fusione e il ritiro dei ghiacci a causa del cambiamento climatico possono determinare uno spostamento dello spartiacque, che col passare del tempo può diventare di decine o centinaia di metri. Proprio per questo negli anni passati Svizzera e Italia avevano iniziato a discutere sull’opportunità di rivedere parte dei loro confini, in modo da farli corrispondere al nuovo spartiacque o trovando soluzioni tali da tutelare gli «interessi economici delle due parti».
    Lungo il confine, e soprattutto in quella zona, ci sono numerosi impianti sciistici e rifugi, che a seconda dei casi sono entro il confine italiano, quello svizzero o sostanzialmente a metà. È per esempio il caso del rifugio Guide del Cervino: una sua parte è italiana, nel comune di Valtournenche, in provincia di Aosta, e la parte rimanente è a Zermatt, in Svizzera. Queste strutture riescono comunque a lavorare senza troppi problemi, grazie alla collaborazione tra Italia e Svizzera, ma una definizione più chiara dei confini può rendere più pratica la gestione di alcune attività e soprattutto la gestione degli imprevisti, che ad alta quota spesso corrispondono a necessità di dare soccorso a sciatori e alpinisti.
    Il confronto tra governo italiano e svizzero negli anni passati aveva portato a qualche attrito, che si era comunque risolto tra il 9 e l’11 maggio del 2023 quando il Comitato per la manutenzione del confine nazionale tra Svizzera e Italia aveva discusso la ridefinizione del confine nell’area del Plateau Rosa in corrispondenza della Gobba di Rollin, che lo delimita a sud, e della Testa Grigia che lo delimita invece a ovest. Il confronto aveva anche riguardato l’area del rifugio Jean-Antoine Carrel, che si trova nel comune di Valtournenche in Valle d’Aosta. La convenzione ha richiesto diverso tempo per essere ratificata da parte della Svizzera e si è ora in attesa che il governo italiano faccia altrettanto.

    Non ci sono ancora molti dettagli, ma in diversi punti il confine sarà spostato verso l’Italia di alcune decine di metri, portando quindi la Svizzera ad avere un po’ più di territorio. Il cambiamento non dovrebbe comunque avere particolari conseguenze per le strutture costruite negli anni, come funivie e teleferiche, in uno dei comprensori sciistici più grandi e articolati delle Alpi occidentali.
    Nel 2023 i ghiacciai svizzeri hanno perso circa il 4 per cento del loro volume rispetto all’anno precedente, la seconda perdita più grande mai registrata dall’Accademia delle scienze della Svizzera (il precedente record del 6 per cento era del 2022). In alcune zone dell’arco alpino i ricercatori svizzeri hanno interrotto le misurazioni perché non ci sono più quantità di ghiaccio significative da misurare. Si prevede che a causa dell’aumento della temperatura media globale le Alpi perdano una parte rilevante dei loro ghiacciai nei prossimi decenni, cosa che porterà a nuovi cambiamenti della geografia e probabilmente a nuovi spostamenti dei confini. Oltre che con l’Italia, la Svizzera è impegnata da tempo con la Francia per ridefinire le loro aree confinanti su parte delle Alpi. LEGGI TUTTO

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    Weekly Beasts

    Tra le foto di animali della settimana c’è l’incontro di una gazza con un drone, un rapace che guarda dritto in camera dopo aver predato un piccione, due orsi grizzly, un bovino in un campo allagato e altri al pascolo in Francia. Poi un piccolo pudu, mammifero della famiglia dei cervidi, nato da poco allo zoo di Varsavia: i pudu comuni misurano al massimo 85 cm di lunghezza e 38 cm d’altezza al garrese, per un peso di 10-15 chili, numeri che li rendono tra i più piccoli nella loro famiglia animale. Per finire con due tamandua meridionali (formichieri) e un cane che si sporge fuori dal finestrino dell’auto su cui viaggia. LEGGI TUTTO

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    La storia sorprendente di come fu scoperta la vera causa dell’ulcera allo stomaco

    Caricamento playerUna delle scoperte più importanti per la salute di tutto il Novecento avvenne grazie all’ostinazione di due ricercatori, a una dimenticanza e alla Pasqua, circa quarant’anni fa. Gli australiani John Robin Warren e Barry Marshall identificarono la vera causa della maggior parte delle ulcere gastriche e delle gastriti, sovvertendo secoli di ipotesi e trattamenti per tenerle sotto controllo con risultati deludenti. A comportare quei problemi di salute non erano lo stress o l’alimentazione, come si credeva, ma un batterio che poteva essere eliminato semplicemente con un antibiotico. Vincere lo scetticismo iniziale non fu semplice, ma Marshall e Warren – che è morto lo scorso luglio a 87 anni – non si diedero per vinti, portando a un cambiamento epocale nella cura dell’ulcera per milioni di persone in tutto il mondo che valse loro un Premio Nobel.
    Dopo essersi laureato in medicina nel 1961, Warren non era riuscito a seguire la specializzazione in psichiatria come avrebbe voluto e aveva scelto patologia clinica, cioè lo studio delle malattie per lo più in laboratorio. Negli anni seguenti avrebbe lavorato su campioni di ogni tipo, dal midollo osseo al sangue passando per feci e urine. Nel 1968 ottenne un posto al Royal Perth Hospital che aveva un’affiliazione con l’Università dell’Australia Occidentale. Lavorava con pochi contatti col resto del personale e trascorreva buona parte del proprio tempo nei sotterranei dell’ospedale, dove sezionava ed esaminava cadaveri.
    Una decina di anni dopo, all’inizio degli anni Ottanta, Marshall aveva iniziato a lavorare nello stesso ospedale, ma nel reparto di gastroenterologia. Per il suo programma di formazione avanzata, Marshall era stato incoraggiato a svolgere un lavoro di ricerca e gli era stato suggerito di parlare con Warren, che qualche tempo prima aveva identificato con sua sorpresa un batterio nelle analisi (biopsie) di alcune mucose dello stomaco. In precedenza poche ricerche avevano segnalato la presenza di batteri nello stomaco e all’epoca si riteneva, come del resto da secoli, che per un batterio fosse impossibile sopravvivere alla forte acidità dei succhi gastrici e in particolare dell’acido cloridrico.
    Tutto ciò che ingeriamo passa attraverso lo stomaco e viene scomposto dall’acido cloridrico presente al suo interno, fondamentale per far sì che le sostanze nutrienti possano essere assimilate nel passaggio successivo dall’intestino. Per non digerire anche sé stesso, lo stomaco si protegge dall’acido cloridrico grazie a una sostanza composta da muco e bicarbonato prodotta dalle cellule gastriche, che neutralizza l’effetto dell’acido quando questo entra in contatto con le sue pareti. Se la quantità di acido aumenta o i tessuti dello stomaco sono infiammati, la barriera non è sufficiente e si possono produrre delle ulcere, cioè ferite simili a piaghe che provocano una sensazione di bruciore che si presenta in vari momenti della giornata in base alla pienezza dello stomaco.
    (Wikimedia)
    A seconda dei casi, un’ulcera può causare sintomi lievi e intermittenti, anche a distanza di giorni o settimane, oppure più gravi e che richiedono un rapido intervento nel caso in cui ci sia una perforazione dello stomaco. In questa circostanza il contenuto dello stomaco si riversa nella cavità addominale e può provocare una grave infiammazione dei peritoneo, il rivestimento interno dell’addome. Se il problema non viene trattato per tempo e adeguatamente si può avere una diffusione dell’infezione che può rivelarsi mortale.
    Per moltissimo tempo le cause delle gastriti e delle ulcere furono un mistero. Si riteneva che le principali cause fossero il consumo di alcolici, il fumo, lo stress, i cibi piccanti e altre abitudini alimentari, insieme a una certa predisposizione di alcune persone. Nel periodo in cui Warren e Marshall iniziarono a lavorare insieme, le terapie erano orientate a ridurre i sintomi, con la prescrizione di farmaci per tenere sotto controllo la produzione dei succhi gastrici e l’acidità dello stomaco. Non funzionavano sempre: quando il problema sembrava essere risolto, si ripresentava dopo qualche tempo e nei casi di ulcera più gravi si rendevano necessari interventi chirurgici invasivi e rischiosi.
    Warren aveva analizzato le biopsie di alcuni pazienti con mal di stomaco e le aveva mostrate a Marshall, dicendogli che in più di venti casi aveva rilevato la presenza di un’infezione batterica. Marshall aveva allora messo in relazione le biopsie con le cartelle cliniche di quei pazienti, notando che alcuni avevano ricevuto una diagnosi di ulcera allo stomaco, ulcera al duodeno (la parte iniziale dell’intestino tenue) o gastriti di varie entità. Sembrava esserci una relazione tra la presenza di quel batterio e le diagnosi, ma i dati erano carenti e soprattutto sembravano andare contro il dogma dello stomaco inospitale alla vita dei batteri.
    Grazie alla collaborazione dei medici del reparto di gastroenterologia e di microbiologia dell’ospedale, Warren e Marshall iniziarono a raccogliere altre biopsie e ad analizzarle trovando quasi sempre l’infezione batterica, ma senza riuscire a isolare e coltivare i batteri in laboratorio per avere colonie più grandi da analizzare e capire l’eventuale ruolo nelle ulcere. Alla fine del 1981 alcuni colleghi consigliarono ai due ricercatori di passare a un approccio più sistematico, organizzando uno studio clinico vero e proprio con tutti i criteri del caso per valutare andamenti e variabili.
    John Robin Warren e Barry Marshall nel 1984 (via ResearchGate)
    In pochi mesi, Warren e Marshall organizzarono uno studio che avrebbe coinvolto cento persone. L’obiettivo era di capire se il batterio fosse presente normalmente nello stomaco, se fosse possibile coltivarlo e se la sua presenza potesse essere messa in relazione con le gastriti e le ulcere. Parallelamente, sarebbero proseguiti i tentativi di coltivare il batterio in laboratorio, forse l’obiettivo più difficile dell’intera ricerca.
    Trattandosi di un batterio presente nell’apparato digerente, il gruppo di ricerca aveva pensato che potesse ricevere il medesimo trattamento dei campioni di feci o derivati dai tamponi orali. I campioni venivano di solito messi su una piastra di Petri (il classico recipiente di vetro da laboratorio simile a un piattino) e se dopo 48 ore non erano osservabili particolari microrganismi, segno dell’avvenuta formazione di una colonia, il test era negativo e si gettava via tutto. Seguendo un approccio simile, dai campioni ottenuti con le biopsie non si era mai riusciti a ottenere una colonia del batterio nello stomaco. Almeno fino a quando fu Pasqua del 1982.
    Nei giorni prima del fine settimana lungo pasquale i tecnici di laboratorio del Royal Perth Hospital avevano dovuto dedicare buona parte del loro tempo a una quantità crescente di infezioni da stafilococco nell’ospedale, trascurando altre attività di ricerca. Una piastra di Petri preparata per tentare l’ennesima coltura di batteri da una biopsia allo stomaco era finita nel dimenticatoio nel weekend lungo di Pasqua che comprendeva il lunedì dell’Angelo, cioè il giorno di Pasquetta. Al loro ritorno il martedì, i tecnici notarono che sulla piastra dimenticata si era formato un sottile strato trasparente: era la colonia di batteri che non erano mai riusciti a ottenere prima e che avrebbe offerto a Marshall e Warren nuovi elementi per la loro ricerca.
    Poche settimane dopo fu completato lo studio e i risultati apparvero da subito molto solidi. Tra i cento volontari sottoposti a endoscopia (cioè a un esame che con un tubo fatto passare per l’esofago permette di esplorare lo stomaco e raccoglierne piccoli pezzi da analizzare) 65 avevano ricevuto una diagnosi di gastrite e c’era una forte associazione tra la loro condizione e la presenza del batterio. Questo era stato trovato in tutti i pazienti con un’ulcera al duodeno e nell’80 per cento di chi aveva un’ulcera allo stomaco; il batterio non era invece quasi mai presente nei pazienti con ulcere causate dall’assunzione di un tipo di antinfiammatori (FANS), noti per essere aggressivi con la mucosa gastrica.
    Helicobacter pylori al microscopio elettronico (via Wikimedia)
    Nel frattempo la coltura del batterio aveva permesso di identificarne le caratteristiche e di classificarlo come Helicobacter pylori. La scoperta aveva il potenziale di cambiare radicalmente il modo in cui venivano trattate le ulcere, ma furono necessari quasi due anni prima che lo studio di Warren e Marshall venisse pubblicato nel 1984 su The Lancet, una delle più importanti e prestigiose riviste mediche al mondo. Lo studio era stato infatti accolto con grande cautela e qualche scetticismo perché di fatto metteva in dubbio le pratiche mediche seguite fino all’epoca. Un editoriale di commento scritto dai responsabili della rivista ad accompagnamento dello studio mostrava quanto non ci si volesse sbilanciare: «Se l’ipotesi degli autori sulle cause e sugli effetti dovesse dimostrarsi valida, questo lavoro si rivelerebbe sicuramente importante».
    Marshall aveva intanto proseguito alcune ricerche scoprendo che i sali di bismuto, una delle sostanze utilizzate fino ad allora nei farmaci per trattare ulcere e gastriti, erano in grado di uccidere H. pylori in vitro, cioè in esperimenti di laboratorio. Ciò spiegava probabilmente perché i pazienti traessero temporaneamente beneficio dall’assunzione di quei farmaci, anche se il trattamento non consentiva di eliminare tutte le colonie di batteri e di conseguenza dopo un po’ di tempo si ripresentava l’infiammazione allo stomaco. L’aggiunta alla terapia di metronidazolo, un antibiotico, eliminava invece il rischio di una recidiva a conferma del ruolo del batterio nelle gastriti e nelle ulcere.
    Gli esiti di quei test erano emersi mentre Warren e Marshall erano ancora in attesa della pubblicazione del loro studio. Marshall pensò che una dimostrazione più chiara avrebbe vinto gli scetticismi, ma non riuscendo a riprodurre efficacemente le circostanze in un modello animale fece una proposta a Warren: bere una soluzione contenente H. pylori per verificare in prima persona i suoi effetti sullo stomaco. Warren non ritenne fosse il caso, come raccontò in seguito: «Quell’idea non mi piacque per niente. Penso di avergli detto “no” e basta».
    Marshall non si scoraggiò e bevve la soluzione, dopo essersi sottoposto a un esame per sincerarsi di non avere già un’infezione da H. pylori. Per cinque giorni non ebbe sintomi, poi iniziò a sviluppare una gastrite, accompagnata da nausea, persistente alitosi e rigurgiti di succhi gastrici. A dieci giorni dall’assunzione, una nuova biopsia indicò una gastrite acuta e una forte infezione batterica allo stomaco. Dopo due settimane i sintomi iniziarono a diminuire, ma Adrienne, la moglie di Marshall esasperata dal pessimo alito del marito, lo esortò ad assumere immediatamente gli antibiotici minacciando di: «Sbatterlo fuori di casa e farlo dormire sotto a un ponte».
    L’esperimento dimostrò ancora una volta il ruolo di H. pylori, ma non fu un particolare acceleratore nel cambiamento delle terapie. Dalla pubblicazione dello studio su Lancet nel 1984 passarono poi circa dieci anni prima che i trattamenti per l’ulcera venissero modificati, con il ricorso agli antibiotici come per qualsiasi altra infezione batterica. Uno dei rappresentanti delle autorità di controllo sanitarie negli Stati Uniti, commentò i nuovi protocolli nel 1994: «Ora c’è la possibilità di curare questa condizione, una cosa impensata prima. Abbiamo trattato le ulcere con sostanze per ridurre le secrezioni di succhi gastrici per così tanti anni da diventare difficile accettare che un germe, un batterio, potesse causare una malattia di quel tipo».
    La prescrizione degli antibiotici fu affiancata a quella di altri farmaci per ridurre temporaneamente la produzione dei succhi gastrici, in modo da consentire alle mucose dello stomaco di guarire. Per la diagnosi da infezione da H. pylori fu poi sviluppato un “breath test”, un semplice esame che consiste nel soffiare in una provetta per verificare la presenza del batterio.
    John Robin Warren e Barry Marshall durante la cerimonia di consegna dei Premi Nobel a Stoccolma, in Svezia, nel 2005 (REUTERS/Pawel Kopczynski)
    Warren e Marshall avevano realizzato una delle più grandi scoperte nella scienza medica del Novecento, sempre restando fedeli al metodo scientifico e alla condivisione dei loro studi con altri esperti. Partirono dai dati e dalle prove raccolte con i metodi della ricerca per provare le loro ipotesi, e non il contrario, come fa spesso chi sostiene di avere una nuova cura miracolosa che non viene accettata dal “sistema” o “dai poteri forti”. I loro studi furono la base per molte altre ricerche che continuano ancora oggi, soprattutto per comprendere il ruolo che hanno alcune infiammazioni croniche all’apparato digerente nello sviluppo di alcuni tipi di tumori.
    Robin Warren è morto il 23 luglio 2024 a Perth, in Australia: aveva 87 anni. In una mattina d’autunno di diciannove anni prima aveva ricevuto una telefonata da Stoccolma con la quale gli veniva annunciata l’assegnazione del Premio Nobel per la Medicina insieme a Marshall: «Per la loro scoperta del batterio Helicobacter pylori e il suo ruolo nelle gastriti e nelle ulcere gastriche». LEGGI TUTTO

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    In Europa centrale alluvioni come quelle di settembre sono diventate più probabili

    Caricamento playerLe piogge intense che tra il 12 e il 15 settembre hanno causato esondazioni dei fiumi e grossi danni tra la Polonia e la Repubblica Ceca, in Austria e in Romania sono state eccezionali perché hanno interessato una regione molto vasta dell’Europa centrale. Un’analisi preliminare delle statistiche meteorologiche continentali indica che la probabilità che si verifichino fenomeni del genere è raddoppiata a causa del cambiamento climatico in atto.
    Lo studio è stato fatto dal World Weather Attribution (WWA), un gruppo di ricerca che riunisce scienziati esperti di clima che lavorano per diversi autorevoli enti di ricerca del mondo e che collaborano – a titolo gratuito – affinché ogni volta che si verifica un evento meteorologico estremo particolarmente disastroso la comunità scientifica possa dare una risposta veloce alla domanda “c’entra il cambiamento climatico?”. Nel caso delle recenti alluvioni in Europa centrale, che hanno causato la morte di 26 persone, ci sono larghi margini di incertezza ma il gruppo di ricerca ha concluso che un ruolo del cambiamento climatico ci sia.
    Il WWA, creato nel 2015 da Friederike Otto e Geert Jan van Oldenborgh, pratica quella branca della climatologia relativamente nuova che è stata chiamata “scienza dell’attribuzione”: indaga i rapporti tra il cambiamento climatico ed eventi meteorologici specifici, una cosa più complicata di quello che si potrebbe pensare. Per poter dare risposte in tempi brevi, gli studi del WWA sono pubblicati prima di essere sottoposti al processo di revisione da parte di altri scienziati competenti (peer review) che nella comunità scientifica garantisce il valore di una ricerca, ma che richiederebbe mesi o anni di attesa. Tuttavia i metodi usati dal WWA sono stati certificati come scientificamente affidabili proprio da processi di peer review e i più di 50 studi di attribuzione che ha realizzato finora sono poi stati sottoposti alla stessa verifica e pubblicati su riviste scientifiche senza grosse modifiche.

    – Leggi anche: Come mai Vienna non è finita sott’acqua

    Le alluvioni di metà settembre in Europa centrale sono state causate dalla tempesta Boris che poi ha provocato esondazioni anche in alcune zone della Romagna e dell’Emilia orientale. Le misurazioni della quantità di acqua piovuta in un giorno nel corso del fenomeno hanno fatto registrare dei record in varie località. Per verificare se fosse possibile ricondurre il fenomeno al cambiamento climatico causato dalle attività umane gli scienziati del WWA hanno confrontato le misure delle precipitazioni dei giorni in cui complessivamente è piovuto di più, quelli tra il 12 e il 15 settembre, con le statistiche sulle precipitazioni massime annuali su archi di quattro giorni.
    Hanno anche utilizzato le simulazioni climatiche, cioè programmi simili a quelli usati per le previsioni del tempo che mostrano quali eventi meteorologici potrebbero verificarsi in diversi scenari climatici futuri.
    Le conclusioni dello studio dicono che il cambiamento climatico non ha reso più probabili tempeste con caratteristiche generali analoghe a quelle di Boris (che sono piuttosto rare e di cui questa è stata la più intensa mai registrata), ma che in generale quattro giorni consecutivi piovosi come quelli che ci sono stati sono diventati più probabili in Europa centrale rispetto all’epoca preindustriale. Hanno anche stimato che la quantità di pioggia di tali eventi sia aumentata del 10 per cento, da allora. Secondo i modelli climatici basati su un ulteriore aumento delle temperature medie globali, di 2 °C rispetto all’epoca preindustriale invece che degli attuali 1,3 °C, in futuro sia la probabilità che l’intensità di questi eventi aumenterà ancora.
    Lo studio ricorda che comunque i danni delle alluvioni recenti sono dovuti anche allo scarso adattamento delle infrastrutture fluviali a eventi meteorologici estremi rispetto alle statistiche storiche. Tuttavia è stato anche osservato che rispetto a grandi alluvioni passate la situazione di emergenza probabilmente è stata gestita meglio: nel 2002 morirono 232 persone quando vaste aree dell’Austria, della Germania, della Repubblica Ceca, della Romania, della Slovacchia e dell’Ungheria furono interessate da un’alluvione, e nel 1997 ci furono almeno 100 morti per un’alluvione più ridotta in Germania, Polonia e Repubblica Ceca. Ancora nel luglio del 2021, la grande alluvione in Germania e Belgio causò la morte di più di 200 persone.
    In generale, la climatologia ha mostrato che il riscaldamento globale ha reso e renderà più frequenti le alluvioni, ma questo non vale per tutte le parti del mondo. In altre zone si prevede invece un aumento della frequenza di altri fenomeni meteorologici estremi, come le siccità. In certe parti del mondo inoltre è prevista una più alta frequenza di alluvioni in una specifica stagione dell’anno e meno precipitazioni nelle altre: l’Italia ad esempio ha un territorio morfologicamente complesso e diverso nelle sue parti, per cui le conseguenze del riscaldamento globale potrebbero essere diverse da regione a regione.

    – Leggi anche: Gli abitanti di Borgo Durbecco devono rifare tutto, di nuovo LEGGI TUTTO

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    Che cos’è una “mini luna”

    Caricamento playerA partire dal prossimo 29 settembre e fino al 25 novembre un piccolo asteroide in orbita intorno al Sole sarà temporaneamente catturato dalla gravità terrestre, un evento astronomico piuttosto raro, ma che non costituirà nessun pericolo per la Terra paragonabile a quelli del film Armageddon. L’asteroide è stato definito una “mini luna” visto che avrà per qualche tempo un comportamento simile alla nostra Luna, ma l’indicazione non ha convinto tutti ed è dibattuta tra gli esperti e i semplici appassionati di astronomia.
    Il nome con cui è stato catalogato l’asteroide è “2024 PT5“, con un riferimento all’anno in cui è stato osservato per la prima volta. Sappiamo infatti della sua esistenza da poco, considerato che la scoperta risale al 7 agosto scorso, quando ne fu rilevata la presenza dall’Asteroid Terrestrial-impact Last Alert System, uno dei principali programmi di ricerca di asteroidi per tenere sotto controllo quelli che potrebbero un giorno avvicinarsi troppo alla Terra.
    Stando ai dati raccolti finora, 2024 PT5 ha un diametro massimo di 11 metri e dovrebbe appartenere al gruppo degli asteroidi Arjuna, un sottogruppo degli asteroidi Apollo (la classificazione è ancora un po’ confusa), la cui caratteristica principale è di orbitare intorno al Sole con modalità simili a quelle della Terra. Date le sue dimensioni, 2024 PT5 non può essere osservato né a occhio nudo né con telescopi di piccole dimensioni, ma la sua osservazione con strumentazioni più potenti permetterà di comprendere qualcosa di più su questo tipo di asteroidi e soprattutto sulle interazioni gravitazionali con il nostro pianeta e il Sole.

    In generale, qualsiasi corpo celeste che orbita stabilmente e in modo identificabile intorno a un pianeta può essere considerato una luna. Le definizioni possono variare molto, ma c’è un certo consenso su alcuni corpi celesti che sono decisamente satelliti naturali, come la nostra Luna oppure ancora Ganimede, Io ed Europa, per citare alcune delle lune di Giove, il pianeta più grande del sistema solare. Sulle “mini lune” le cose sono più complicate, per la difficoltà di identificarle con certezza e di calcolare le loro orbite.
    Tra le definizioni più condivise c’è quella per cui un corpo celeste (come un asteroide o una cometa) che viene catturato temporaneamente dalla gravità di un pianeta può essere definito una mini luna, ma ci sono poi ulteriori distinzioni che aggiungono qualche complicazione. Nel caso della Terra, una mini luna può essere definita un satellite naturale temporaneo se effettua almeno un’orbita completa intorno al pianeta prima di tornare a girare intorno al Sole. Nel caso in cui non effettui un giro completo, molti preferiscono la definizione di “oggetto temporaneo che ha effettuato un passaggio ravvicinato al pianeta”.
    2024 PT5 rientra in questa seconda categoria perché nei prossimi due mesi effettuerà una sorta di passaggio a ferro di cavallo, senza realizzare un’orbita completa propriamente detta intorno alla Terra. Per questo motivo non tutti sono convinti che la definizione di mini luna sia calzante, anche se aiuta a rendere l’idea di cosa farà l’asteroide e soprattutto dell’assenza di pericoli per il nostro pianeta e noi che lo abitiamo.
    Nella maggior parte dei casi le mini lune sono troppo piccole per poter essere rilevate con gli attuali strumenti, ma alcune hanno le giuste dimensioni per farsi notare, talvolta casualmente considerata la vastità dello Spazio e la difficoltà nell’identificare corpi celesti con orbite sconosciute. Per questo 2024 PT5 è il quinto oggetto di questo tipo a essere mai stato identificato con un buon margine di affidabilità nel corso delle osservazioni.
    1991 VG osservata dal Very Large Telescope (Osservatorio europeo australe, ESO)
    1991 VG fu la prima mini luna a essere scoperta nel nostro vicinato cosmico: venne a farci visita tra la fine del 1991 e i primi mesi del 1992. Nel 2006 fu invece osservata la presenza di 2006 RH120: inizialmente considerato un oggetto artificiale come un detrito spaziale, fu invece confermato come una mini luna di meno di 7 metri di diametro che rimase nei paraggi della Terra per circa un anno tra l’estate del 2006 e quella dell’anno successivo. Nel 2020 fu invece scoperto un altro corpo celeste che rimase in orbita intorno al nostro pianeta per più di due anni, diventando la mini luna più longeva tra quelle osservate e confermate.
    La disponibilità di nuovi sistemi di osservazione ha negli anni permesso di effettuare rilevazioni più precise, ma ci sono stati comunque alcuni errori che nel tempo hanno spinto a maggiori cautele. Nel 2002 si pensò di avere identificato una nuova mini luna, ma analisi più approfondite indicarono che ciò che era stato osservato era con ogni probabilità un detrito spaziale. Si ritiene che quell’oggetto altro non fosse che il terzo stadio di un Saturn V, il grande razzo impiegato in più versioni tra la fine degli anni Sessanta e i primi Settanta per il programma lunare statunitense Apollo.
    Un Saturn V di prova durante il trasporto verso la rampa di lancio a Cape Canaveral, Florida, nel 1966 (NASA)
    I dati raccolti negli ultimi decenni hanno inoltre permesso di produrre modelli e simulazioni per stimare quanti possano essere i corpi celesti che finiscono in orbita intorno alla Terra, seppure temporaneamente. Alcune analisi hanno segnalato che c’è probabilmente sempre almeno un corpo celeste con diametro massimo inferiore al metro intorno al pianeta. Le loro dimensioni sono tali da rendere molto difficile un’osservazione diretta e per questo passano quasi sempre inosservati.
    L’osservazione di che cosa abbiamo intorno è comunque fondamentale per identificare per tempo asteroidi di grandi dimensioni che, per via della loro traiettoria, potrebbero costituire un pericolo per la Terra. Vengono definiti Near Earth Object (NEO) e sono tenuti sotto controllo nella possibilità molto remota che un giorno si scontrino con il nostro pianeta. A oggi sono stati catalogati circa 34mila NEO, ma nessuno tra quelli noti costituisce un pericolo diretto per la Terra. Questo non significa che ce ne possano essere altri che non abbiamo ancora scoperto e che un giorno potrebbero causare problemi.
    L’asteroide Vesta è tra i più massicci della fascia principale e ha un diametro massimo di circa 500 chilometri, non è un NEO (NASA)
    Gli asteroidi sono i resti del lungo processo che rese possibile la formazione del nostro sistema solare, iniziato 4,5 miliardi di anni fa. Grazie anche alla gravità esercitata dal Sole, le polveri e le rocce che erano presenti in una grande porzione di Spazio iniziarono ad aggregarsi e a unirsi formando dei protopianeti. Alcuni di questi continuarono ad accumulare materiale diventando sempre più grandi e infine i pianeti che conosciamo oggi, mentre altri rimasero piccoli e si frammentarono scontrandosi tra loro. I pezzi che risultarono da quei processi sono gli asteroidi per come li conosciamo oggi.
    La maggior parte di loro mantiene orbite stabili e relativamente regolari nella cosiddetta “fascia principale”, una grande porzione di Spazio tra Marte e Giove. A volte al suo interno avvengono collisioni che portano alcuni asteroidi ad abbandonare la fascia e a collocarsi in orbite intorno al Sole che potrebbero incrociare quella terrestre. Identificarli e soprattutto calcolarne con precisione l’orbita non è però semplice e per questo i NEO sono sorvegliati con attenzione. LEGGI TUTTO

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    È cominciato l’autunno

    Caricamento playerAlle 14:43 di domenica 22 settembre è finita l’estate ed è iniziato l’autunno: in quel momento preciso c’è stato l’equinozio d’autunno, ovvero l’istante in cui il Sole si trova allo zenit dell’equatore della Terra, cioè esattamente sopra la testa di un ipotetico osservatore che si trovi in un punto specifico sulla linea dell’equatore. Spesso si parla dell’equinozio come di un giorno intero ma tecnicamente è scorretto, perché indica solo l’istante preciso in cui si verifica un fenomeno astronomico. E l’ora in cui avviene quell’istante cambia ogni anno.
    Visto che di anno in anno l’equinozio d’autunno può essere in giorni diversi, le stagioni non cambiano sempre lo stesso giorno. Il giorno dell’equinozio d’autunno ha comunque una caratteristica particolare: è uno dei due soli giorni all’anno in cui il dì ha la stessa durata della notte, anche se poi non è esattamente così a causa di alcune interazioni della luce con l’atmosfera terrestre. L’altro è l’equinozio di primavera.
    Come funzionano gli equinoziL’inizio delle stagioni è scandito da eventi astronomici precisi: l’estate e l’inverno cominciano con i solstizi, in cui le ore di luce del giorno sono al loro massimo (estate) o al loro minimo (inverno); la primavera e l’autunno invece cominciano il giorno degli equinozi, i momenti in cui la lunghezza del giorno è uguale a quella della notte.
    Tuttavia, oggi in Italia il giorno sarà ancora un po’ più lungo della notte per qualche minuto e la vera parità tra dì e notte sarà tra qualche giorno. Questo si deve a un fenomeno chiamato “rifrazione atmosferica”, per cui la luce del Sole è curvata dall’atmosfera: è quella cosa per cui vediamo il Sole qualche minuto prima che sorga effettivamente.

    – Leggi anche: Perché d’autunno cadono le foglie

    Gli equinozi e i solstizi (e le durate del dì e della notte) sono determinati dalla posizione della Terra nel suo moto di rivoluzione intorno al Sole, cioè il movimento che il nostro pianeta compie girando intorno alla sua stella di riferimento. L’equinozio è il momento in cui il Sole si trova all’intersezione del piano dell’equatore celeste (la proiezione dell’equatore sulla sfera celeste) e quello dell’eclittica (il percorso apparente del Sole nel cielo). Al solstizio invece il Sole a mezzogiorno è alla massima o minima altezza rispetto all’orizzonte.
    Le variazioni del momento in cui avvengono equinozi e solstizi sono causate dalla diversa durata dell’anno solare e di quello del calendario (è il motivo per cui esistono gli anni bisestili, che permettono di rimettere “in pari” i conti).
    In Italia la primavera cade tra il 20 e il 21 marzo, l’estate tra il 20 e il 21 giugno, l’autunno tra il 22 e il 23 settembre, l’inverno tra il 21 e il 22 dicembre. Oltre alle stagioni astronomiche, poi, ci sono anche quelle meteorologiche: iniziano in anticipo di una ventina di giorni rispetto a solstizi ed equinozi, e durano sempre tre mesi. Indicano con maggiore precisione i periodi in cui si verificano le variazioni climatiche annuali, specialmente alle medie latitudini con climi temperati.
    Il momento dell’equinozio non c’entra con quello del cambio dell’ora, che quest’anno andrà spostata indietro nella notte tra sabato 26 e domenica 27 ottobre.

    – Leggi anche: La scomparsa dell’autunno LEGGI TUTTO

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    C’è molta confusione su un trattamento per prevenire la bronchiolite

    Caricamento playerNegli ultimi giorni si è generata molta confusione intorno al nirsevimab, un anticorpo monoclonale contro il virus respiratorio sinciziale umano (VRS) – una delle cause delle bronchioliti nei bambini con meno di un anno – noto con il nome commerciale Beyfortus. In un primo momento il ministero della Salute aveva ribadito che la spesa per il nirsevimab è a carico dei cittadini salvo diverse decisioni delle Regioni (con limiti per quelle con i conti sanitari non in ordine), ma in un secondo momento è stata diffusa una nota che annuncia l’avvio dei confronti necessari con l’Agenzia italiana del farmaco (AIFA) per renderlo accessibile a tutti gratuitamente. Una decisione definitiva non è stata ancora presa, lasciando molti dubbi a chi vorrebbe sottoporre i propri figli al trattamento in vista della stagione fredda in cui il virus circola di più.
    Il VRS è un virus piuttosto diffuso e come quelli dell’influenza ha una maggiore presenza tra novembre e aprile. Nelle persone adulte in salute non dà sintomi particolarmente rilevanti (è più insidioso negli anziani e nei soggetti fragili), ma può essere pericoloso nei bambini con meno di un anno di età. È infatti una delle cause principali della bronchiolite, una malattia respiratoria che può comunque avere diverse altre cause virali (coronavirus, virus influenzali, rhinovirus e adenovirus, per citarne alcuni).
    L’infiammazione nelle vie respiratorie riguarda i bronchi e i bronchioli, le strutture nei polmoni che rendono possibile il trasferimento di ossigeno al sangue e la rimozione dell’anidride carbonica: fa aumentare la produzione di muco che insieme ad altri fattori può portare a difficoltà respiratorie. Nella maggior parte dei casi l’infezione passa entro una decina di giorni senza conseguenze, ma possono esserci casi in cui la malattia peggiora. Negli ultimi anni alcuni studi hanno rilevato una maggiore quantità di casi gravi associati ad alcune varianti del VRS, che hanno reso necessario il ricovero dei bambini in ospedale e in alcuni casi in terapia intensiva.
    Le infezioni da VRS si prevengono con gli accorgimenti solitamente impiegati per altre malattie virali, quindi evitando il contatto con persone che hanno un’infezione in corso, lavandosi le mani e aerando regolarmente gli ambienti in cui si vive. A queste forme di prevenzione da qualche tempo si è aggiunta la possibilità di ricorrere a un trattamento con anticorpi monoclonali, cioè anticorpi simili a quelli che produce il nostro sistema immunitario, ma realizzati con tecniche di clonazione in laboratorio. Il loro impiego consente di avere a disposizione direttamente gli anticorpi, senza che questi debbano essere prodotti dal sistema immunitario dopo aver fatto conoscenza con un virus.
    Il nirsevimab fa esattamente questo, in modo che un bambino che lo riceve abbia gli anticorpi per affrontare il VRS riducendo il rischio di ammalarsi. Il trattamento non è un vaccino, che svolge invece una funzione diversa e cioè stimolare la produzione degli anticorpi; anche per questo motivo il trattamento è piuttosto costoso (contro il VRS esiste al momento un solo vaccino, il cui uso non è però consentito nei bambini).
    Il nirsevimab è stato autorizzato nell’Unione Europea nel 2022 e viene venduto come Beyfortus dall’azienda farmaceutica Sanofi, che lo ha sviluppato insieme ad AstraZeneca, e inizia a essere sempre più impiegato per fare prevenzione in paesi come la Francia e la Spagna dove è fornito gratuitamente. La sua somministrazione permette di fornire una maggiore protezione ai bambini con meno di un anno che vivono la loro prima stagione di alta circolazione del VRS. È  pensato per tutelarli nel periodo in cui sono esposti a qualche rischio in più perché ancora molto piccoli, poi crescendo non è più necessario.
    A inizio anno la Società italiana di neonatologia (SIN) aveva segnalato che il nirsevimab: «Ha una lunga emivita [durata nell’organismo, ndr] ed è in grado con una sola somministrazione di proteggere il bambino per almeno 5 mesi riducendo del 77 per cento le infezioni respiratorie da VRS che richiedono ospedalizzazione e dell’86 per cento il rischio di ricovero in terapia intensiva». La SIN segnalava inoltre che un impiego su larga scala del nirsevimab avrebbe permesso di ridurre i costi sanitari rispetto all’impiego di altri anticorpi monoclonali e di contenere le spese dovute ai ricoveri ospedalieri, per i ricoveri dei bambini che sviluppano forme gravi della malattia. Per questo motivo invitava il ministero della Salute e le Regioni, che mantengono ampie autonomie nelle politiche sanitarie, a considerare una revisione delle regole di accesso al trattamento.
    A oggi il nirsevimab è infatti compreso nei farmaci di “fascia C”, quindi a carico di chi li acquista, e ha un prezzo base al pubblico indicato dal produttore di 1.150 euro (importo che potrebbe essere più basso a seconda delle contrattazioni con i servizi sanitari regionali). Questa classificazione fa sì che le Regioni non possano utilizzare per il suo acquisto i fondi che ricevono dallo Stato per la gestione della sanità nei loro territori: hanno però la facoltà di offrirlo gratuitamente se finanziano l’iniziativa con altri fondi previsti nei loro bilanci. È una pratica che viene seguita spesso, ma con alcune limitazioni legate alla necessità di evitare che le Regioni non sforino troppo rispetto alle loro previsioni di spesa.
    Oltre a essere in “fascia C”, il nirsevimab non è compreso nel Piano nazionale prevenzione vaccinale ed è quindi un extra rispetto ai Livelli essenziali di assistenza (LEA), le prestazioni che il Servizio sanitario nazionale deve obbligatoriamente fornire a tutti i cittadini gratuitamente o con il pagamento di un ticket.
    In vista della stagione fredda, negli ultimi mesi alcune Regioni avevano annunciato di voler fornire il nirsevimab senza oneri per i pazienti, portando il ministero della Salute a diffondere una circolare il 18 settembre per ricordare le regole di finanziamento di queste iniziative. Oltre a segnalare la necessità di fornire il trattamento attingendo a fondi diversi da quelli sanitari regionali, il ministero aveva ricordato che «le regioni in piano di rientro dal disavanzo sanitario», cioè le regioni senza i conti a posto, «non possono, ad oggi, garantire la somministrazione dell’anticorpo monoclonale».
    La limitazione riguardava quindi Lazio, Abruzzo, Molise, Campania, Calabria, Puglia e Sicilia e portava di fatto a una disparità di trattamento per gli abitanti di queste regioni rispetto alle altre. La circolare aveva fatto discutere, soprattutto tra i genitori di bambini con meno di un anno ancora in attesa di capire se poter accedere o meno gratuitamente al trattamento, a ridosso dell’inizio della stagione di maggiore circolazione del VRS.
    In seguito alle proteste e alle polemiche il 19 settembre, quindi appena un giorno dopo la pubblicazione della circolare del ministero della Salute, la responsabile del Dipartimento della prevenzione, Maria Rosaria Campitiello, ha diffuso una nota con la quale ha annunciato l’avvio di un confronto con l’AIFA per rivedere le regole di accesso al nirsevimab per renderlo non a carico: «È nostra intenzione rafforzare le strategie di prevenzione e immunizzazione universale a tutela dei bambini su tutto il territorio nazionale, garantendo a tutte le regioni la somministrazione dell’anticorpo monoclonale senza oneri per i pazienti».
    Nella nota non sono però indicati tempi o modalità del confronto, che secondo diversi osservatori arriva comunque in ritardo considerato l’avvicinarsi del periodo in cui la diffusione di VRS ha il proprio picco. Il Board del calendario per la vita, iniziativa che comprende le federazioni dei medici e dei pediatri, aveva già raccomandato a inizio 2023 l’impiego del nirsevimab il prima possibile: «Nell’imminenza della autorizzazione all’immissione in commercio, auspicano che venga prontamente riconosciuta la novità anche in termini regolatori di nirsevimab, considerando la sua classificazione non quale presidio terapeutico (come sempre avvenuto per gli anticorpi monoclonali) ma preventivo, nella prospettiva dell’inserimento nel Calendario Nazionale di Immunizzazione». Nel caso di una fornitura non a carico il prezzo del trattamento dovrà essere contrattato con Sanofi, una procedura che richiede tempi che variano molto a seconda dei casi. LEGGI TUTTO